ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Consenso sociale, populismo e diritto penale
di Sergio Seminara
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Populismo e diritto penale. – 2.1. Populismo, politica e diritto penale. – 2.2. Populismo e politica criminale: il reo come nemico. – 2.3. Populismo e politica criminale: le scelte di incriminazione. – 3. Diritto penale e consenso sociale. – 4. Consenso sociale e populismo rispetto al diritto penale. – 5. Conclusioni.
1. Introduzione.
L’idea alla base delle riflessioni qui esposte è molto semplice: consenso sociale e populismo, in passato intesi come entità contrapposte, attualmente si sono reciprocamente avvicinati senza però arrivare a coincidere, in quanto ancora rinviano a contenuti diversi ed evocano differenti scenari. Non è corretto dunque affermare che, nel nostro sistema democratico a base rappresentativa, il presupposto fondativo della legittimità e dell’efficacia del diritto penale, un tempo rinvenuto nel consenso sociale, oggi si sia convertito nel populismo.
Ovviamente, tutto sta però a intendersi sui significati racchiusi all’interno dei concetti di consenso sociale e di populismo.
2. Populismo e diritto penale.
Il termine «populismo» ha assunto vari significati nella storia. Nato a cavallo tra il XIX e il XX secolo in Russia, designò originariamente un movimento culturale e politico che, attraverso un’azione rivoluzionaria diretta e un’attività di proselitismo fra il popolo, mirava a un miglioramento delle classi più ai margini della società, nel perseguimento di una sorta di socialismo; da qui, per assimilazione, quel termine ha successivamente caratterizzato programmi politici volti a favore del popolo e genericamente ispirati da valori socialisti. Negli ultimi decenni, al concetto di populismo è stata invece associata una valenza retorica di tipo demagogico e sostanzialmente fraudolenta, tesa a vellicare e irretire il popolo piuttosto che a promuoverne effettivamente le condizioni e a tutelarne realmente gli interessi. Nell’attuale prospettiva politica (mi riferisco soprattutto all’esperienza italiana), il termine in questione è stato ripetutamente utilizzato per designare gli atteggiamenti di taluni leader ed esponenti di partito finalizzati a incrementare il numero degli elettori facendo leva su insicurezze e timori, così dando vita a ciò che è stato appunto definito come il governo della paura.
Questo populismo ha condotto direttamente al diritto penale perché, per alimentarsi e irrobustirsi, ha bisogno del diritto penale. Il diritto penale fornisce infatti l’arma migliore alle sue argomentazioni: nel sottolineare, esasperandole, ansie collettive contro i fenomeni dell’immigrazione e della criminalità, esso si offre come strumento apparentemente a costo zero e dotato della maggiore efficacia in termini di repressione e di sofferenza inflitta al «nemico».
Si tratta certamente di un frutto dei tempi che viviamo e che potremmo denominare come il populismo della democrazia e della libertà di divulgazione del pensiero. Nell’Italia fascista, ai giornali – che comunque erano letti da una porzione assai ridotta della società – veniva imposto di dedicare poco spazio a fatti di criminalità, a causa del timore delle istituzioni che tali notizie potessero alimentare un senso di insicurezza. Al contrario, il regime voleva convincere i consociati che essi vivevano nel migliore dei mondi possibili (da qui origina lo stupido detto che “ai tempi del fascismo si dormiva con le porte di casa aperte”), ove – in una sorta di rinnovato contratto sociale – la loro rinuncia a una parte di libertà era ampiamente compensata attraverso un miglioramento delle condizioni di vita.
Anche per quanto riguarda il populismo può dunque ripetersi il principio che la storia non si ripete: il populismo odierno ha poco in comune con quello del secolo passato. Del resto, forti differenze si rinvengono anche nel corpo sociale.
2.1. Populismo, politica e diritto penale.
«Se le dittature del Novecento proibivano la cronaca nera, le democrazie populiste sembrano averla riscoperta come sorgente di voti. (…) Il dolore crea interesse, l’interesse produce paura e la paura moltiplica i consensi». Così scriveva sul Corriere della Sera del 24 gennaio 2020 un noto e arguto opinionista, Massimo Gramellini, in relazione alla scelta di Matteo Salvini, leader della Lega, di chiudere una campagna elettorale portando sul palco, tra gli altri, la madre di un bambino sequestrato e ucciso nel 2006, allo scopo di protestare contro il permesso-premio concesso dal giudice a una donna condannata a ventiquattro anni di reclusione per il ruolo di carceriera svolto in quel sequestro, che era stata per la prima volta ammessa, dopo tredici anni di detenzione, a uscire temporaneamente dal carcere.
È poi una notizia dell’inizio di maggio 2020 che il Ministro della Giustizia, dopo avere strenuamente difeso l’operato del Direttore del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria contro le roventi accuse di inefficienza legate alla morte di tredici detenuti in occasione delle proteste scoppiate nelle carceri agli inizi dell’attuale pandemia da coronavirus, ha proceduto alla sua sostituzione in conseguenza dei violenti attacchi politici suscitati dalla scarcerazione, con connessi arresti domiciliari, di alcuni importanti esponenti della criminalità organizzata, bisognosi di indifferibili cure rese ancor più necessarie dal rischio di contagio. In sostanza, il “siluramento” del Direttore del D.A.P. è avvenuto come conseguenza non di una gravissima sottovalutazione del problema carcerario in rapporto al Covid-19, dalla quale è derivata la morte di persone che lo Stato aveva preso in cura e si era obbligato a proteggere pur mantenendoli come reclusi, bensì di alcuni provvedimenti di scarcerazione consentiti dalla legge e resi necessari dalle condizioni di salute dei detenuti!
Il programma del populismo, applicato al diritto penale, è molto semplice: severità ed esemplarità delle pene, ripudio delle garanzie processuali in quanto ostacoli alla celerità del procedimento penale, eliminazione dei benefici previsti dall’ordinamento penitenziario perché contrari al principio della certezza della pena. In questo senso deve ritenersi che il diritto penale populistico si attua attraverso la negazione del diritto e la centralità della pena: il diritto, nella sua accezione “liberale” che gli deriva da un’evoluzione iniziata con l’illuminismo, viene negato nel momento in cui è privato dei suoi coessenziali contenuti garantistici, considerati alla stregua di freni alla rapida ed efficiente amministrazione della giustizia; la pena subisce invece una trasformazione mediante l’assunzione di significati esclusivamente afflittivi ed eliminativi (quante volte, dopo efferati fatti di cronaca, i politici di alcuni specifici partiti auspicano che l’autore del reato sia portato in una cella e di questa venga per sempre buttata la chiave della porta!).
Si crea così un vortice repressivo destinato ad autoalimentarsi: nella percezione popolare, alimentata da martellanti slogan politici, le sanzioni appaiono troppo blande, la loro esecuzione risulta eccessivamente mite, il processo è afflitto da un esagerato apparato di garanzie, la discrezionalità giudiziale risulta sempre strumentalizzata in favore degli imputati. Il populismo beve nel calice del diritto penale fino all’ultima goccia: il metodo consiste nell’alimentare le paure – anche creandone di nuove, in realtà inesistenti – e poi mostrare un assoluto rigore nel volerle combattere, attraverso l’ampliamento delle fattispecie incriminatrici e un incessante inasprimento delle pene (con compulsive evocazioni della pena di morte e, per i delinquenti sessuali, della castrazione chimica). Ne deriva un abuso del diritto penale, che si realizza mediante continui appelli alla volontà popolare, presentata come la sola cosa che conti: ignorando qualsiasi valutazione tecnica, anzi ostentando disprezzo per la discussione scientifica, i partiti politici populisti manipolano i sentimenti del popolo e rafforzano il proprio potere.
La recente esperienza della riforma della legittima difesa di cui all’art. 52 cod. pen. dimostra che tutto quanto appartiene alla sicurezza del cittadino contro il crimine è ormai ridotto alla stregua di uno slogan, declinato con varie modalità ma sempre caratterizzato dalla contrapposizione tra una società presuntivamente civile e afflitta da ansie identitarie e un singolo individuo o gruppi di individui per definizione ostili e, conseguentemente, privi di diritti inviolabili. Dalla martellante comunicazione mediatica volta a sottolineare l’intento di rafforzare la protezione dei cittadini, all’interno dei propri domicili, rispetto a una criminalità sempre più aggressiva, non è mai emerso né il dubbio che le finalità di tutela potessero essere perseguite attraverso una più efficace prevenzione, né il timore che un ampliamento del diritto di uccidere, seppure a scopi difensivi, può solo innescare ulteriore violenza e maggiori pericoli per le stesse vittime. Ciò perché il populismo ama i discorsi semplici che, purtroppo, sono quelli destinati a fare più presa sugli ascoltatori.
2.2. Populismo e politica criminale: il reo come nemico.
Il populismo ha necessità di rappresentare il nemico: più la società avverte paura, più essa tende a chiudersi verso l’esterno, più occorre individuare i nemici verso cui canalizzare le ansie collettive.
I destinatari di questo processo sono i nemici della collettività: terroristi, immigrati extracomunitari, autori di reati contro l’integrità sessuale e il patrimonio, spacciatori di sostanze stupefacenti, in una parola coloro che vengono presentati come pericolosi. A causa di una serie di slittamenti del “pensiero”, poi, gli avversari non necessariamente risultano tali in quanto abbiano commesso un reato, essendo sufficiente anche solo il colore della pelle o l’appartenenza a una minoranza etnica a indiziare l’inclinazione a delinquere, sicché il reato commesso risulta per presunzione aggravato.
Questa ottusa ansia punitiva non ha una precisa caratterizzazione ideologica e neppure un preciso colore politico: se la storia induce a pensare che un siffatto movimento anticulturale sia appannaggio di un’estrema destra fondata sui valori dell’ordine e della legalità, l’esperienza italiana dimostra come l’elettorato della Lega sia costituito da piccoli e medi imprenditori come pure da persone che un tempo sarebbero state ascritte al proletariato e alla piccola e medio-piccola borghesia, semplicemente intimidite da una criminalità diffusa e disilluse da una politica litigiosa e inconcludente e per questo favorevoli – nonostante il recente passato – al mito dell’“uomo forte”.
D’altra parte, un’analoga ansia punitiva, estesa ai titolari di supposti privilegi e al fenomeno corruttivo – inteso come simbolo del degrado del potere e della politica –, caratterizza movimenti libertari fondati su valori anti-sistema, vagamente tendenti verso l’abbattimento delle garanzie individuali all’interno di una conclamata sfiducia nelle istituzioni. La triste storia della riforma della prescrizione in Italia – triste nell’esito, ma soprattutto nell’estrema povertà del dibattito parlamentare che l’ha accompagnata – fornisce un’eloquente dimostrazione della formazione di una società del conflitto che è anche società del rancore, da parte di chi considera fermo l’ascensore sociale e (ovviamente al di là dei propri meriti e delle legittime aspirazioni) soffre la chiusura delle porte della carriera. Con una singolare peculiarità, tuttavia, sulla disomogenea distribuzione di questo rancore, che trascura categorie di rei come gli evasori fiscali e la più ampia parte degli autori di illeciti economici, ai quali offre un generoso riparo – salvo i casi di frodi e bancarotte di rilevanti dimensioni e con un elevato numero di vittime – il loro ruolo sociale.
La verità emersa negli ultimi anni è dunque che, indipendentemente dall’ideologia storica di partenza – tendenze indipendentistiche di alcune regioni dell’Italia settentrionale o generalizzato rifiuto di una classe politica divenuta autoreferenziale –, dalla collettività sono emersi confusi atteggiamenti di rifiuto della politica tradizionale e di insicurezza e timore del futuro, presto intercettati da alcuni partiti che hanno così ampliato la propria base elettorale attraverso la promessa di una palingenesi sociale principalmente incentrata sulla sanzione penale e la promozione del benessere individuale mediante la promessa di una liberazione dalle angosce esistenziali.
La logica, dunque, è quella del conflitto e, come hanno dimostrato i fatti, il conflitto ha prodotto consenso. Il timore che un progressivo imbarbarimento collettivo possa corrodere i fondamenti sociali è irrilevante, trattandosi di un effetto a lungo termine, che come tale risulta estraneo all’orizzonte del politicante odierno.
2.3. Populismo e politica criminale: le scelte di incriminazione.
In un recente passato i partiti politici modellavano il loro programma di azione alla luce di specifiche visioni della società, preventivamente dichiarando i criteri di gestione della res publica e su queste basi si orientava il voto degli elettori: la politica costituiva il luogo di un dibattito aperto ma tendenzialmente vincolato dalle ideologie di ciascun partito. I concetti di destra, centro e sinistra, con i loro rispettivi estremismi, appartenevano a questo mondo.
Oggi il rapporto appare ribaltato: quasi per ogni problema sociale gli atteggiamenti e le soluzioni adottate dai partiti vengono di volta in volta stabilite in funzione delle verosimili successive reazioni del corpo elettorale. Ne deriva una sorta di permanente consultazione che è agli antipodi di un serio programma politico di lungo termine.
In questa prospettiva si giustifica la situazione di stallo del nostro Parlamento rispetto ai problemi più delicati per il loro carico ideologico o per le loro conseguenze operative. Due esempi a questo proposito sono eloquenti.
Il primo è offerto dal delitto di false comunicazioni sociali, che una riforma introdotta con il d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61, modificò in modo da renderlo pressoché inapplicabile, al fine – ovviamente non dichiarato – di chiudere con la formula «il fatto non è più preveduto dalla legge come reato» le pendenze processuali di importanti esponenti del partito allora al Governo: ebbene, nonostante l’assoluta irrazionalità di quella disciplina e la successione di sette governi di diverso colore politico, solo la legge 27 maggio 2015, n. 69, ha provveduto a rimediare attraverso una nuova riforma. L’esperienza parrebbe significare che, anche per i governi che un tempo si sarebbero detti di sinistra o di centrosinistra, il privilegio accordato nel 2002 alla classe imprenditoriale non appariva una nota ideologicamente stonata e neppure produttiva di negative conseguenze politiche.
Il secondo esempio concerne la vicenda del delitto di aiuto al suicidio di cui all’art. 580 cod. pen., la cui ritenuta parziale incostituzionalità ha indotto la Corte costituzionale a pronunciare l’ordinanza 24 ottobre 2018, n. 207, con cui rinviava la prosecuzione del procedimento al 24 settembre 2019, così da consentire al legislatore ordinario, «in uno spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale», di riformulare l’incriminazione in conformità alle direttive indicate dalla Corte stessa. Ebbene: dinanzi all’alternativa se farsi alfieri delle soluzioni prospettate dalla Corte o invece mantenere la norma vigente a tutela delle rigide posizioni assunte negli ambienti cattolici, nessuno tra i maggiori partiti si è seriamente impegnato per la riforma dell’art. 580 cod. pen., ovviamente temendo che una battaglia “divisiva”, in nome della laicità e della libertà di scelte coscienziali assunte in casi estremi, si sarebbe potuta tradurre in una penalizzazione da parte del corpo elettorale. Il risultato, non certo onorevole per il Parlamento, è stato dunque che la Corte costituzionale il 25 settembre 2019 ha emesso una sentenza dichiarativa dell’illegittimità, in particolari situazioni, del reato di aiuto al suicidio. Più in generale, questa vicenda dimostra come il delicato e complesso settore del biodiritto in materia penale non sia più né di destra né di sinistra e che tutti i partiti indistintamente blandiscono la Chiesa cattolica a causa dell’influenza da essa ancora esercitata sul popolo italiano (il discorso meriterebbe ben altri approfondimenti: in tempi in cui le ideologie costituivano ancora valori tendenzialmente vincolanti, prima la Corte costituzionale e poi il Parlamento hanno soppresso il delitto di vilipendio della religione dello Stato ed equiparato la tutela della religione cattolica e di ogni altra confessione religiosa, mentre ora il segretario della Lega compare in pubblico impugnando e ostentando rosari e crocefissi come simboli, più che religiosi, identitari).
3. Diritto penale e consenso sociale.
Occorre però considerare l’altra faccia della medaglia, concernente la necessità di legittimazione del diritto penale.
Vi fu un tempo in cui il diritto penale si autolegittimava come mera manifestazione del potere da parte del suo detentore. Il diritto penale promanava dal monarca così come la moneta e ogni altro segno esteriore riconducibile all’autorità, ivi compresa la giurisdizione: il giudice corrotto o disonesto, prima ancora di danneggiare il suddito, recava offesa a colui che, immettendolo nella funzione, gli aveva attribuito funzioni originariamente sue, allo stesso modo in cui il falso nummario recava offesa, prima ancora che al privato che avesse ricevuto la moneta falsa, a colui nel cui nome quella moneta era stata coniata. In un siffatto contesto, il diritto penale non aveva necessità di ricercare una legittimazione esterna.
Trascurando i tempi in cui la legittimazione della legge venne legata alla divinità – che comunque, avendo conferito il potere al monarca, lo aveva così riconosciuto e consacrato –, solo con l’illuminismo si affaccia l’idea della ricerca di un referente “terreno”, di volta in volta individuato nel contrattualismo e nell’utilitarismo, nelle leggi della natura e in quelle della ragione. Oggi il fondamento del diritto penale trae vita dall’ordinamento democratico nel complesso delle regole dettate dalla Costituzione e risiede in questo indissolubile collegamento tra le scelte di incriminazione e i valori costituzionalmente riconosciuti. Solo così, d’altra parte, si comprende il significato dell’art. 101 Cost., il cui comma 1 evoca il popolo come termine di riferimento dell’esercizio della giurisdizione («La giustizia è amministrata in nome del popolo»), mentre il comma 2 sancisce che i giudici sono soggetti non a un’ondivaga e indecifrabile volontà del popolo, bensì «soltanto alla legge». Questo è appunto il nucleo della legalità democratica, dal quale si desume che la giustizia è regolata attraverso leggi che esprimono la volontà del popolo, la quale assume rilievo solo in quanto si traduca in leggi.
La Costituzione italiana offre però per il diritto penale indicazioni ancora più penetranti. L’art. 27 commi 1 e 3 prescrive infatti la personalità della responsabilità penale e la funzione rieducativa delle pene: su entrambi i precetti, il primo inteso a sancire la rimproverabilità del fatto al suo autore e il secondo a finalizzare la sanzione penale nel segno della risocializzazione, campeggia il consenso sociale come segno di una coesione della collettività nel processo di stigmatizzazione, punizione e recupero dell’individuo.
Qui la riflessione si addentra su terreni assai complessi che è possibile solo accennare. Il consenso sociale appena menzionato dovrebbe essere inteso come un equivalente dell’ordine democratico consacrato dalla Costituzione: la quale fissa un quadro di regole destinate a filtrare le scelte del Parlamento in materia penale, sia nei valori di riferimento assunti che nei contenuti. Al tempo stesso va però sottolineata la natura illusoria – ma sarebbe probabilmente meglio dire utopistica – di questo consenso: nella società ottocentesca e della prima metà del novecento il consenso che fondava il diritto penale era limitato alle classi più elevate e solo in questa limitata prospettiva si poteva parlare di una società culturalmente omogenea, che esprimeva scelte di criminalizzazione funzionali ai propri interessi, spacciati come interessi collettivi. Nella consapevolezza, dunque, che il c.d. minimo etico era il comune denominatore solo di una porzione della società.
La democrazia e la crescente complessità sociale hanno portato alla luce la disomogeneità culturale ed economica che caratterizza la popolazione e il processo di lenta disgregazione di numerosi valori può essere osservato proprio attraverso gli interventi del Parlamento e della Corte costituzionale sul testo del codice penale. In questa mutata prospettiva, il diritto penale è divenuto luogo di rielaborazione dei conflitti, ovviamente mantenendo il suo intrinseco e ineliminabile carattere autoritario.
La visione del diritto penale come luogo di rielaborazione dei conflitti – con il suo carico di razionalità e, potrebbe aggiungersi, di tolleranza e rispetto delle minoranze – appartiene ormai al bagaglio delle utopie? In realtà, il populismo mira alla creazione di consenso e il consenso produce ulteriore consenso, sempre più abbassando l’asticella dei limiti costituzionali e attizzando il fuoco della conflittualità. Ecco così che il populismo si avvicina alla teoria del consenso e pericolosamente si veste dei panni della democrazia.
4. Consenso sociale e populismo rispetto al diritto penale.
A questo punto della riflessione insorge la tentazione di schematizzare brevemente, sotto il profilo penale, le differenze fra la teoria del consenso sociale e il populismo.
Anzitutto, può ritenersi che il consenso sociale appartiene al mondo ideale di una giustizia penale amministrata nel segno della coesione fra i consociati e della solidarietà, mentre il populismo caratterizza invece il mondo reale nella sua complessità. Entrambe le rappresentazioni sono viziate da parzialità: il consenso sociale di una democrazia rappresentativa rinvia sempre a una volontà della maggioranza, quale che essa sia e comunque essa si sia costituita; il populismo, alla stregua di quanto rilevato in precedenza, è alimentato da una continua manipolazione della collettività o di una sua parte.
Sul piano del metodo, inoltre, la teoria del consenso mira alla mediazione e all’inclusione, mentre il populismo evoca il conflitto e rafforza l’emarginazione. Questa distinzione coglie indubbiamente nel vero soprattutto rispetto al populismo, che anzi rinviene la sua ragion d’essere proprio nella logica del conflitto.
Infine, la teoria del consenso sociale si riflette maggiormente sulla fase della criminalizzazione primaria, rimanendo tendenzialmente estranea alla fase della criminalizzazione secondaria, cioè della persecuzione giudiziale, e a quella dell’esecuzione, che trovano la propria disciplina in regole oggettive – fissate dalla legge nel rispetto dei vincoli costituzionali – che affidano al giudice il compito di accertare la responsabilità di un imputato considerato come persona, e non come rappresentante di una devianza combattuta dalla legge, e obbligano lo Stato a garantire un’esecuzione della pena conforme a logiche risocializzatrici e riconciliative. Questa ripartizione non è invece possibile nell’ottica populistica, che al contrario impregna di sé tutte e tre le fasi, a ciascuna di esse imprimendo il suo contenuto.
Cosa resta al fondo di questa schematizzazione? La sensazione è che la teoria del consenso sociale appartiene al mondo della razionalità e della democrazia, mentre il populismo, nelle sue radici più profonde, ha molto a che spartire con la psicanalisi dell’inconscio e la psicologia sociale.
5. Conclusioni.
Potremmo sintetizzare le brevi considerazioni svolte affermando che il populismo è per sua natura antiscientifico, in quanto alimentato esclusivamente dagli umori e dagli istinti della massa; è conflittuale, perché vive di contrapposizioni tra una comunità e i suoi nemici interni ed esterni; è ondivago, giacché l’assenza di contenuti vincolanti e di valori di riferimento consente continui mutamenti di opinioni e convinzioni; è semplificativo all’estremo, poiché si fonda su postulati elementari e indimostrati, che devono restare tali perché altrimenti si esporrebbero all’accusa di intellettualismo.
Accingendoci a concludere questo scritto, ci rendiamo improvvisamente conto che tutto quanto è stato finora descritto risulta esasperato dalla pandemia in corso, che ha segnato il tramonto di ogni verità condivisa, ha cagionato la moltiplicazione dei più vari sospetti (sulle origini del virus, sulla volontarietà della sua diffusione, sulle manovre speculative compiute su mascherine e guanti e così via), ha rivelato la confusione dei governi sulle terapie praticabili e, a seguire, ha provocato le accuse contro le istituzioni e contro i c.d. esperti. Il “fai da te” ha invaso anche i settori più tecnici e ciascuno è divenuto portatore di una propria teoria.
Non è colpa del popolo, sia chiaro: allargando la visuale al piano internazionale, dai politici che nelle fasi iniziali hanno ostinatamente negato l’esistenza del problema, fino ai mass media che hanno dato voce e credito anche alle più incredibili sciocchezze, le maggiori responsabilità ricadono su coloro che, avendo avuto un ruolo pubblico, non lo hanno gestito nell’interesse pubblico. Concludendo con queste parole, però, mi accorgo della difficoltà di definire cosa sia oggi il pubblico interesse.
Codice penale e riserva di codice*
di Sergio Seminara
Sommario: 1. La riserva di codice: il fondamento storico; – 1.1. I precedenti progettuali della riserva di codice; – 1.2. L’art. 3-bis c.p. come norma di indirizzo o di sistema – 2. Limiti e finalità della riserva di codice – 3. Codice penale e accessibilità della legge – 4. Quale futuro per la riserva di codice nella prospettiva della riforma del codice penale? – 5. Linee conclusive dell’indagine.
1. La riserva di codice: il fondamento storico.
Chi non ricorda l’incontro tra Renzo Tramaglino e il dottor Azzecca-garbugli nel capitolo III de I promessi sposi? Non appena il primo pose all’altro il quesito «se, a minacciare un curato, perché non faccia un matrimonio, c’è penale», il legale «cacciò le mani in quel caos di carte, rimescolandole dal sotto in su, come se mettesse grano in uno staio. “Dov’è ora? Vien fuori, vien fuori. Bisogna aver tante cose alle mani! Ma la dev’esser qui sicuro, perché è una grida d’importanza”. Ah! ecco, ecco”. La prese, la spiegò, guardò alla data, e, fatto un viso ancor più serio, esclamò: “il 15 d’ottobre 1627! Sicuro; è dell’anno passato: grida fresca; son quelle che fanno più paura”».
Rispetto alla vicenda narrata da Manzoni passa quasi un secolo e mezzo ma, ancora nel 1766, Beccaria descrive una giustizia amministrata attraverso «avanzi di leggi di un antico popolo conquistatore fatte compilare da un principe che dodici secoli fa regnava in Costantinopoli, frammischiate poscia co’ riti longobardi, ed involte in farraginosi volumi di privati ed oscuri interpreti, (che) formano quella tradizione di opinioni che da una gran parte dell’Europa ha tuttavia il nome di leggi»[1]. Come ai tempi del dottor Azzecca-garbugli, quindi, l’accumulo nel tempo di leggi destinate a sovrapporsi in assenza di formali abrogazioni e la caotica pluralità delle fonti del diritto faceva sì che la vittoria in giudizio dipendesse soprattutto dall’abilità dell’avvocato nello scovare il testo a lui più conveniente, in totale spregio delle ragioni sostanziali e nella più assoluta indifferenza verso valori oggi indiscussi e riconducibili ai principi di legalità e di certezza del diritto. Come ultimo esempio, nella storia dell’Europa continentale, di una siffatta situazione può indicarsi il Regno di Spagna, ove – in ideale continuità con una Nueva Recopilación avviata nel 1567 da Filippo II allo scopo di fare ordine nella congerie di leggi, pragmatiche e regolamenti stratificatisi nei secoli – nel 1805 si procede a una Novissima Recopilación, fortemente criticata dai contemporanei: «in luogo di un codice uniforme, breve e semplice fin dove possibile, destinato a sostituire i precedenti testi di legge per evitare il caos in cui si trova la nostra giurisprudenza, null’altro si fece che aggiungere varie disposizioni alla sua ultima edizione (= del 1777) e, in verità, con non migliore accordo. Esaminandola con attenzione la vedremo piena di inesattezze e di anacronismi, fino a comprendere antiche leggi totalmente prive di attualità, essendo venuti meno i loro presupposti; di leggi ridondanti e superflue, mescolate tra loro le leggi deroganti e le derogate, contraddittorie in molte delle loro disposizioni; leggi non conformi ai testi originali, leggi immeritevoli di tale nome, talune essendo meri decreti e addirittura semplici previsioni di polizia urbana; mentre sono assenti altre leggi assai importanti che, sebbene si trovino nella Nueva Recopilación, si omisero nella Novissima»[2].
Ecco dunque una tra le principali ragioni alla base del processo codificatorio che pervade l’Europa tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo: la certezza del diritto, intesa sia come accessibilità delle leggi che come garanzia della loro corretta applicazione. E in tale prospettiva si comprende il valore rivoluzionario dei codici, che d’un solo colpo privavano di ogni valore – come afferma ad esempio l’art. 5 del preambolo del Codice per lo regno delle Due Sicilie del 26 marzo 1819 – «le leggi romane, le costituzioni, i capitoli del regno, le prammatiche, le sicule sanzioni, i reali dispacci, le lettere circolari, le consuetudini generali e locali e tutte le altre disposizioni legislative»[3]. Grazie al passaggio da un sistema connotato dalla molteplicità delle fonti di produzione del diritto a un unico testo caratterizzato da tendenziale completezza e modificabile solo con atto di legge[4], iniziava la costruzione di un nuovo rapporto tra lo Stato e il cittadino.
Questo rapporto, nato sotto il segno della legalità, si è però andato offuscando negli ultimi decenni, caratterizzati da un’alluvionale produzione legislativa che ha reso le leggi sempre più difficilmente accessibili e ha indotto una riflessione addirittura sulla perdurante validità del modello codicistico.
Si comprende dunque che, oggi, ogni progetto di riforma della parte speciale del codice penale suppone una preliminare riflessione sulla funzione del codice stesso. In questa prospettiva, un’importante indicazione è stata recentemente offerta dall’introduzione, nell’art. 3-bis c.p., del principio della riserva di codice.
1.1. I precedenti progettuali della riserva di codice.
Sul tema della riserva di codice si sono in vario modo espressi tutti i progetti di riforma elaborati nell’ultimo trentennio.
Cominciando dallo schema di legge delega redatto dalla Commissione Pagliaro, esso non prevedeva in modo espresso la riserva di codice, ma la relazione, risalente al 25 ottobre 1991, enunciava tra i c.d. principi di codificazione «l’obiettivo di fare del codice il centro del sistema penale e di ridurre correlativamente il peso della legislazione speciale, che ha ormai assunto dimensioni abnormi».
L’opzione per una tipizzazione normativa, a livello costituzionale, trovava invece accoglimento, a distanza di pochi anni, nell’art. 129 comma 4 del Progetto di revisione della parte seconda della Costituzione, licenziato il 4 novembre 1997 dalla Commissione bicamerale, che così disponeva: «Nuove norme penali sono ammesse solo se modificano il codice penale ovvero se contenute in leggi disciplinanti organicamente l’intera materia cui si riferiscono». Nella relazione si spiegava che il principio mira a «porre rimedio all’effetto perverso determinato dall’inflazione legislativa in materia penale, a causa della quale, di fatto, l’obbligo di conoscenza di tali disposizioni posto in capo a tutti i cittadini dall’articolo 5 del codice penale (…) è obbligo del quale non si può ragionevolmente pretendere l’adempimento. La razionalizzazione della tecnica legislativa, in forza dell’imposizione di un vincolo costituzionale al legislatore, facilitando la conoscibilità delle disposizioni penali, costituirà quindi una garanzia per il cittadino e, al contempo e conseguentemente, meglio assicurerà l’applicazione della stessa legge penale, senza che ne possa essere invocata in alcun caso l’ignoranza».
Questa formulazione della riserva di codice veniva ripresa alla lettera dall’art. 3 comma 2 del progetto di codice penale approvato il 22 luglio 2000 dalla Commissione Grosso, che però assegnava al principio in esame un significato nuovo rispetto sia alla centralità del codice affermata dal progetto Pagliaro, sia al legame con la conoscibilità della legge penale operato dalla Commissione bilaterale. La relazione al progetto auspicava infatti che «il codice penale torni ad essere al centro del sistema di previsione dei reati e delle pene, quale testo in cui siano stabiliti e ordinati a sistema i principi e gli istituti fondamentali»; al tempo stesso veniva però definita «irrealistica l’idea di codificazione del progetto Pagliaro», affermando la convinzione «che vi siano materie che non sia opportuno, o addirittura possibile, inserire nel codice penale a cagione di molteplici fattori: la specificità del loro contenuto, il contenuto non ancora sufficientemente condiviso, la dipendenza della disciplina di riferimento, ecc.»[5].
La relazione al progetto di codice penale licenziato nel 2004 dalla Commissione Nordio faceva invece ritorno alla visione del progetto Pagliaro: la riserva di codice era considerata come strumento di contrasto ai pericoli implicati dalla decodificazione e tuttavia si riteneva di non proporla nell’articolato, poiché «piuttosto dovrebbe trovare collocazione adeguata in una fonte sovraordinata, come quella costituzionale».
L’ultimo atto progettuale è rappresentato dall’art. 2 della proposta di articolato consegnata al Ministro nel settembre 2007 dalla Commissione Pisapia: «Prevedere che le nuove disposizioni penali siano inserite nel Codice Penale ovvero in leggi che disciplinano organicamente l’intera materia cui si riferiscono, coordinandole con le disposizioni del codice e nel rispetto dei principi in esso contenuti». La norma perseguiva l’intento di conciliare tutte le prospettive in precedenza delineatesi, dalla centralità del codice alla conoscibilità delle leggi penali e all’esigenza che esclusivamente nel codice siano custoditi i principi e gli istituti fondamentali: solo così si giustifica l’accostamento – operato nella relazione – tra «la necessità di fare del codice il testo centrale dell’intero sistema penale, onde porre un freno al continuo inserimento di fattispecie penali in leggi speciali con effetti negativi sia in relazione alla chiarezza che alla effettiva possibilità di conoscenza, da parte dei cittadini, delle condotte penalmente rilevanti» e il riconoscimento della legittimità delle leggi organiche[6].
La nostra ricostruzione si conclude con l’art. 1 comma 85, lett. q), legge 23 giugno 2017, n. 103, che ha delegato il Governo ad adottare decreti legislativi recanti modifiche all’ordinamento penitenziario, nel rispetto, tra l’altro, dell’«attuazione, sia pure tendenziale, del principio della riserva di codice nella materia penale, al fine di una migliore conoscenza dei precetti e delle sanzioni e quindi dell’effettività della funzione rieducativa della pena, presupposto indispensabile perché l’intero ordinamento penitenziario sia pienamente conforme ai principi costituzionali, attraverso l’inserimento nel codice penale di tutte le fattispecie criminose previste da disposizioni di legge in vigore che abbiano a diretto oggetto di tutela beni di rilevanza costituzionale, in particolare i valori della persona umana, e tra questi il principio di uguaglianza, di non discriminazione e di divieto assoluto di ogni forma di sfruttamento a fini di profitto della persona medesima, e i beni della salute, individuale e collettiva, della sicurezza pubblica e dell’ordine pubblico, della salubrità e integrità ambientale, dell’integrità del territorio, della correttezza e trasparenza del sistema economico di mercato». Evitando di soffermarci sulla semplificazione talora eccessiva che caratterizza i collegamenti tra le varie finalità attribuite alla riserva di codice[7] e sull’ampiezza del catalogo delle fattispecie penali destinate a confluire nel codice[8], va notato come, sciogliendo ogni ambiguità, la riserva di codice sia ora proiettata esclusivamente sulle fattispecie incriminatrici. Tale restrizione aveva trovato riconoscimento, ben prima che nell’art. 3-bis c.p., in un decreto ministeriale 3 maggio 2016 istitutivo di una commissione, presieduta dal dott. Marasca, incaricata proprio del «riordino della parte speciale del codice penale», le cui indicazioni – contenute nella relazione approvata il 9 marzo 2017 – saranno in parte recepite dal d.lgs. 1° marzo 2018, n. 21.
Di ciò, tuttavia, si dirà più avanti: per il momento, limitiamoci a constatare la dissonanza tra la generale enunciazione dell’art. 3-bis c.p. e la delega governativa per l’«attuazione, sia pure tendenziale, del principio della riserva di codice nella materia penale», giacché nel contrasto fra un principio formulato in senso assoluto e la sua applicazione solo parziale si annida l’essenza del problema.
1.2. L’art. 3-bis c.p. come norma di indirizzo o di sistema.
La relazione allo Schema di decreto legislativo sull’attuazione dell’art. 1 comma 85, lett. q), per quanto rileva ai nostri fini, afferma che la delega «riserva al codice un ruolo propulsivo di un processo virtuoso che ponga freno alla proliferazione della legislazione penale, rimettendo al centro del sistema il codice penale (…)». Subito dopo, però, la stessa relazione riconosce che l’inserimento del principio «nel codice penale e non nella Costituzione costituisce un argine alquanto labile all’espansione poco meditata del diritto penale, trattandosi di norma ordinaria e non di rango costituzionale; ma è pur vero che, inserita nella parte generale del codice penale, si eleva a principio generale di cui il futuro legislatore dovrà necessariamente tenere conto, spiegando le ragioni del suo eventuale mancato rispetto. Si costruisce in tal modo una norma di indirizzo, di sicuro rilievo, in grado di incidere sulla produzione legislativa futura in materia penale».
Rispetto a questa idea di una norma non vincolante a causa del rango e nondimeno “quasi” vincolante in virtù del contenuto, la dottrina dominante ha criticamente privilegiato il primo profilo, rilevando che, alla luce della gerarchia delle fonti di produzione del diritto, l’art. 3-bis non è in grado di determinare l’illegittimità di nuove disposizioni penali introdotte, con atto avente valore di legge, in violazione del suo contenuto. In senso contrario si è invece attribuito all’art. 3-bis il valore di «principio costituente per la materia penale, che legifica norme di rango costituzionale»; in base a questo assunto, «la violazione della riserva di codice (…) è controllabile giuridicamente ai sensi degli artt. 25 cpv. Cost. (principio giuridico-costituzionale cui è ancorata la determinatezza) e 3 Cost. (principio giuridico-costituzionale che consente alcune forma di controllo dell’ultima ratio)»[9].
L’idea di un’integrazione dal basso dei precetti costituzionali ora menzionati è interessante, ma suscita perplessità. In linea generale, viene subito da dire che l’art. 3-bis si presenta certamente come una norma anomala: in confronto alle disposizioni che lo precedono o gli fanno séguito nel titolo I del libro I, esso ha come unico destinatario il futuro legislatore che introdurrà le «nuove disposizioni che prevedono reati». Ora, pur volendo a ogni costo evitare l’antica polemica se le norme penali siano rivolte al giudice chiamato ad applicarle o all’individuo obbligato a rispettarle, un precetto destinato esclusivamente al legislatore ordinario ha senso solo in quanto provenga da una fonte sovraordinata: senza necessità di affrontare qui il problema dei c.d. autovincoli legislativi, ampiamente dibattuto nella dottrina costituzionalistica[10], ammettere che il Parlamento possa autovincolare la propria futura attività significherebbe ammettere un esercizio del potere in grado di condizionare il successivo esercizio di esso, così addirittura ponendo a rischio le basi della democrazia rappresentativa.
Si noti: qui non stiamo discutendo delle buone ragioni che stanno alla base di ogni progetto inteso ad “aggravare” la procedura di formazione delle leggi penali, così da richiedere una maggiore riflessione[11], poiché il problema verte sulla possibilità che il Parlamento introduca una norma di sistema, finalizzata ad atteggiarsi come parametro di legittimità di ogni nuova incriminazione penale, anche quando sia mutata la composizione delle Camere.
A nostro avviso, l’ipotizzabilità di una legge ordinaria, chiamata a conferire un contenuto giuridico di tipo operativo a un principio sovraordinato, si espone a un’alternativa concernente questo principio: che, se è talmente univoco da escludere contrastanti interpretazioni, costituisce la diretta fonte del vincolo anche per il legislatore futuro; se invece il contenuto attribuitogli mediante legge ordinaria convive con altre sue possibili divergenti interpretazioni, l’atto creativo sotteso dalla sua traduzione non può imporsi neppure indirettamente sulla legge futura. Come si vede, alla base di questa soluzione si riaffaccia sempre la gerarchia delle fonti, che all’interno del nostro sistema rappresenta un valore da difendere e anche – rispetto al problema in esame – un insormontabile ostacolo, che è bene rimanga tale.
In ogni caso, a noi sembra che l’art. 3-bis c.p. si sottragga alla qualifica di norma “di sistema” a causa di una sua congenita indeterminatezza.
In particolare, la formula «nuove disposizioni che prevedono reati possono essere introdotte nell’ordinamento solo se modificano il codice penale ovvero sono inserite in leggi che disciplinano in modo organico la materia» andrebbe intesa nel senso che, se per il passato tutto può restare fermo salvo appositi interventi del legislatore, il futuro approdo delle norme penali è rigorosamente costituito dal codice o da leggi organiche. Senza soffermarci per il momento sulla previsione di questo sbocco, la cui natura paritaria è negata dalla rubrica dell’art. 3-bis, dedicata esclusivamente alla riserva di codice, la sua conseguenza parrebbe consistere nell’impossibilità di sancire una nuova incriminazione che, allo stesso tempo, abbia ad oggetto una materia estranea a quelle contenute nel codice penale e neppure possa trovare collocazione in un’inesistente legge organica di riferimento.
Ma il vero problema non è neppure questo, bensì quello concernente il concetto di legge organica che, a differenza di altri Stati ove esso è definito a livello costituzionale nell’oggetto, nel rango e nelle modalità di formazione (come esempio possono citarsi gli artt. 46 ss. e 81, rispettivamente della Costituzione francese e spagnola), in Italia può indifferentemente riguardare il funzionamento di un organo o una disciplina tematica, in questo caso caratterizzandosi alla luce di una sfumata idea di completezza o sistematicità. In tale sua proiezione sull’oggetto, però, il termine risulta suscettibile delle più svariate declinazioni solo che lo si leghi a uno specifico argomento, a un determinato settore o a un’intera materia[12]. La conclusione finale è che una prescrizione normativa fondata su un concetto così sfuggente offre nulla più che una vaga indicazione, priva di ogni carattere vincolante.
2. Limiti e finalità della riserva di codice.
L’oggetto del dibattito è noto. In favore di una rivalutazione del ruolo del codice intervengono argomenti fondati, oltre che sull’esigenza di agevolare la conoscibilità dei precetti – così da rafforzarne la capacità di orientamento culturale e quindi l’efficacia generalpreventiva –, sull’opportunità di ostacolare derive ermeneutiche legate a una supposta specialità e autonomia dei reati extracodicistici[13]. In senso opposto si sottolinea invece l’elevato tecnicismo di disposizioni che non possono essere sradicate dal contesto normativo di riferimento, alla luce dei loro legami con le regole e i concetti ivi stabiliti ovvero con le altre disposizioni processuali o penitenziarie o amministrative poste a complemento e integrazione delle stesse fattispecie penali[14].
Sul dilemma appena riferito interviene appunto l’art. 3-bis c.p. che, prevedendo l’inserimento di nuove norme solo nel codice penale salvo il limite costituito da leggi organiche di settore, esprime comunque una netta preferenza per la collocazione codicistica. Nondimeno, ai nostri fini è significativo che tale disposizione provenga da una proposta della commissione Marasca (retro, § 1.1.) condivisa solo dalla minoranza e che la relazione infine approvata dalla commissione si esprimesse nettamente in favore della coesistenza del codice penale e di testi organici.
Non solo. Alcuni componenti della prima sottocommissione, competente per la tutela della persona, avevano espresso perplessità sulla «capacità razionalizzante della riserva di codice, strumento che reputano inadeguato ad interpretare nell’attuale momento storico le istanze di criminalizzazione, soprattutto – ma non soltanto – alla luce della forte interdipendenza tra diritto penale e normativa di contesto (è evidente che l’obiettivo della maggior conoscibilità non sempre sarà realizzabile quando le fattispecie da traslare nel codice abbiano una natura affatto o prevalentemente sanzionatoria e il corpo in cui sono attualmente collocate disciplini per il resto la materia in modo più o meno coerente)»[15]. Analogamente, la seconda sottocommissione – cui era attribuita la tutela della salubrità e integrità ambientale, dell’integrità del territorio e della salute pubblica – si era espressa in favore di «corpi normativi unitari e tendenzialmente esaustivi (…), in linea con la tradizione legislativa italiana e con un modello ormai assimilato dagli operatori del diritto e dai destinatari della normativa»[16]. Così pure la terza sottocommissione, alla quale erano state attribuite la correttezza e trasparenza del sistema economico di mercato, la sicurezza pubblica e l’ordine pubblico, aveva osservato in favore delle leggi organiche «che vi sono materie che richiedono interventi multidisciplinari, che spaziano dal livello penale a quello amministrativo e prima ancora definitorio delle categorie e dei poteri, coordinato con settori diversi etc.: sicché sarebbe un lavoro vano, nell’ottica della effettiva conoscenza di tutti i portati della legge anche solo penale, quello consistente nella estrapolazione da tali contesti dei soli precetti che applicano sanzioni penali»[17].
Come si vede, la stessa commissione ministeriale espressamente incaricata di attuare la riserva di codice ha concluso per la pratica irrealizzabilità di tale obiettivo. Ma a tale conclusione era invero già pervenuto il legislatore, che a quella commissione aveva conferito il mandato di un’«attuazione, sia pure tendenziale, del principio», così dimostrando un contraddittorio atteggiamento, oscillante tra l’affermazione della centralità del codice e l’accoglimento di un doppio binario tra codice e leggi organiche[18].
3. Codice penale e accessibilità della legge.
Una precisazione preliminare è opportuna: le successive considerazioni sono dedicate al problema della collocazione delle norme penali e ad esse restano estranei i rapporti tra i principi generali del diritto penale e la legislazione penale complementare. Ai due profili sono rispettivamente dedicati, in assenza di qualsiasi coordinamento, gli artt. 3-bis e 16 c.p.: l’uno situato subito dopo la norma sull’obbligatorietà della legge penale, come a introdurre una specificazione di quell’obbligo, l’altro relegato al fondo del titolo I del libro I. È evidente però la sfasatura tra le scelte legislative: lungi dal rivestire un ruolo di rincalzo, l’art. 16 enuncia la «fondamentale unità dogmatica dell’intero diritto penale», ovunque contenuto, e tale «essenziale funzione di raccordo e di unione» tra diritto penale codicistico e legislazione penale complementare[19] mira a precludere – salvo espressa deroga, da introdursi con atto avente forza di legge – la formazione di aree e settori sottratti alle garanzie faticosamente raggiunte nel corso degli ultimi due secoli; sicché la norma contribuisce ancor più dell’art. 3-bis a chiarire il senso e i limiti dell’obbligatorietà della legge penale, dettando un precetto valido sia per il legislatore che per il giudice[20].
Così delimitato l’ambito delle riflessioni che seguono, possiamo dare per scontato che l’art. 3-bis c.p. mira a restituire attualità alle esigenze, rivendicate dai nostri antenati, di accessibilità delle norme incriminatrici sparse e disperse nell’intero ordinamento giuridico. Con la precisazione che l’idea originaria di accessibilità si legava soprattutto alla collocazione topografica delle norme all’interno del codice, anche perché – al di là dell’alternativa tra formulazioni assertive o didascaliche che caratterizzò le prime esperienze codificatorie – era evidente l’obbligo della massima chiarezza; mentre ora quell’idea si estende fino a comprendere la riconoscibilità delle norme come possibilità di una loro comprensione[21].
Questo nuovo atteggiamento non può sorprendere. Il requisito dell’accessibilità – inteso non più solo nel suo originario fondamento garantistico, ma anche come proiezione del principio di colpevolezza – trova infatti applicazione rispetto a qualsiasi disposizione penale, ovunque collocata. Già nella fondamentale sentenza 24 marzo 1988, n. 364, la Corte costituzionale aveva legato l’operatività dell’art. 5 c.p. al principio di conoscibilità della norma penale[22]; dopo pochi anni, la stessa Corte aveva precisato che «vi sono requisiti minimi di riconoscibilità e di intellegibilità del precetto penale – che rappresentano anche, peraltro, requisiti minimi di razionalità dell’azione legislativa – in difetto dei quali la libertà e la sicurezza giuridica dei cittadini sarebbero pregiudicate»[23]. Analogamente, la giurisprudenza consolidata della Corte EDU vincola la natura penale del fatto a parametri sostanziali tra i quali rileva la qualità della norma che stabilisce precetto e sanzione, sotto il profilo della sua accessibilità per il destinatario e della idoneità a consentirgli di prevedere le conseguenze giuridiche della propria condotta[24].
Nella prospettiva delineata, le spinte verso un recupero della centralità del codice suppongono che esso sia strumento privilegiato per la realizzazione delle esigenze di accessibilità. La ricchezza semantica del concetto di accessibilità, riferibile sia alla sede topografica che al contesto normativo, quest’ultimo inteso anche come condizione della comprensibilità del precetto[25], dimostra tuttavia la vanità della supposizione: come purtroppo ha dimostrato un recente intervento della Corte costituzionale.
Il caso davvero non potrebbe essere più emblematico, al punto da far pensare a una beffa del destino, giacché riguarda una norma introdotta nel codice penale dal d.lgs. n. 21 del 2018, che nell’art. 570-bis (Violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o di scioglimento del matrimonio) ha voluto portare l’incriminazione precedentemente prevista dall’art. 12-sexies legge 1° dicembre 1970, n. 898 (in tema di scioglimento del matrimonio), esteso dalla legge 8 febbraio 2006, n. 54, alle ipotesi di separazione dei genitori ex art. 3 e «ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati» mediante l’art. 4 comma 2. Fino all’entrata in vigore del d.lgs. n. 21 del 2018 – che ha abrogato l’art. 12-sexies delle legge n. 898 e l’art. 3 della legge n. 54 – non si dubitava dunque in giurisprudenza che l’art. 4 comma 2 legge n. 54 avesse equiparato la tutela penale dei figli di genitori coniugati ovvero nati fuori dal matrimonio.
È possibile che il legislatore delegato abbia ritenuto allo stesso modo, argomentando dalla perdurante vigenza dell’art. 4 comma 2 legge n. 54 del 2006 e dal rinvio mobile sancito dall’art. 8 d.lgs. n. 21 del 2018. Certo è comunque che l’idea di una norma penale avente come soggetto attivo esclusivamente il coniuge, e nondimeno applicabile – fin dal momento della sua introduzione nell’ordinamento! – anche al genitore non coniugato, calpesta nel modo più evidente la comprensibilità della legge e si fa scherno della sua accessibilità.
Il principio di legalità qui come mai esigeva il suo tributo: ma la Corte costituzionale ha invece dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate da numerosi giudici di merito, alla luce del «combinato disposto di due norme (l’art. 4, comma 2, della legge n. 54 del 2006 e l’art. 8 del d.lgs. n. 21 del 2018) che a loro volta si integrano con la disposizione incriminatrice di cui all’art. 570-bis c.p., determinando l’estensione del relativo ambito applicativo».
Ha senso parlare ancora di esigenze di riconoscibilità del precetto penale? La Corte costituzionale, proprio richiamando gli scopi del d.lgs. n. 21 del 2018, riconosce come la ricostruzione della norma penale attraverso due disposizioni extrapenali «risulti in definitiva distonica rispetto allo scopo, dichiarato dal legislatore delegante, di garantire ai consociati “una migliore conoscenza dei precetti e delle sanzioni” attraverso la sia pur parziale attuazione del principio della “riserva di codice”. Tale considerazione dovrebbe auspicabilmente indurre il legislatore a intervenire direttamente sul testo dell’art. 570-bis (…) in omaggio all’obiettivo – rilevante ex art. 25, secondo comma, Cost. – di una più immediata riconoscibilità del precetto penale da parte dei suoi destinatari»[26]. Nondimeno, fino a quando l’intervento correttivo sul testo della fattispecie non sarà stato effettuato, viene da chiedersi se sarà possibile non ravvisare un errore inevitabile sul precetto da parte di colui – illetterato ovvero laureato e financo giurista non specializzato in diritto di famiglia – che avrà fatto affidamento sulla vigente formulazione dell’art. 570-bis. Prima ancora, però, ci si dovrà chiedere se davvero si possa parlare di errore rispetto a un precetto di univoca interpretazione e di recentissima introduzione all’interno del codice penale o se invece si tratti di un errore del legislatore, che in uno Stato di diritto mai può essere fonte di un errore colpevole del cittadino.
Riepilogando la non edificante vicenda, abbiamo un reato che è stato recentemente introdotto nel codice penale per ragioni di chiarezza e riconoscibilità sancite dal principio della riserva di codice; sulla base di un’interpretazione la cui correttezza è stata avallata dalla Corte costituzionale, tale reato, pur avendo come destinatario esclusivo il coniuge, incrimina anche il genitore privo della qualità di coniuge. Lo splendore dei principi di accessibilità, riconoscibilità e comprensibilità è dunque durato lo spazio di un mattino perché, proseguirebbe il poeta, appartengono a quel mondo «où les plus belles choses ont le pire destin».
4. Quale futuro per la riserva di codice nella prospettiva della riforma del codice penale?
La vastità dell’attuale realtà normativa e il tecnicismo di taluni settori rendono velleitario qualsiasi obiettivo di concentrazione delle norme penali all’interno del codice[27]. Ma non è solo un problema quantitativo: abbandonando ideali illuministici oggi colorati di romanticismo, occorre riconoscere che parte speciale del codice penale e leggi organiche sono governate da regole eterogenee, in quanto la prima tende ad attrarre le incriminazioni alla luce del bene tutelato, cioè del suo rango o della sua rilevanza costituzionale, mentre il contenuto delle altre è determinato dalla natura complessa o multidisciplinare della materia. Sotto questo profilo, dunque, codificazione e decodificazione non stanno su un medesimo piano come scelte contrapposte, giacché obbediscono a diverse logiche sistematiche pur potendo ispirarsi agli stessi principi.
In particolare, assumendo che il principio del diritto penale come extrema ratio riguarda allo stesso modo il codice come pure la legislazione complementare e che parimenti vale per i valori dell’accessibilità e della comprensibilità delle norme penali, si fa strada una visione pragmatica che, pur riconoscendo la tendenziale centralità del codice come tavola dei valori fondamentali, sia in grado di cogliere e valorizzare le connessioni tra le varie incriminazioni e di esse con eventuali discipline extrapenali di riferimento. In questa prospettiva, il rango del bene costituisce solo un indizio in favore dell’allocazione della norma all’interno del codice, dovendosi stabilire se, alla luce del contesto in cui è inserita o delle tecnicalità che ne condizionano l’applicazione o della procedimentalizzazione di un bilanciamento di interessi del quale la norma penale costituisce l’esito, non appaia invece preferibile la sua collocazione in una legge organica.
È corretto dire che la parte speciale del codice abbia cessato di costituire un valore autoreferenziale? Verosimilmente sì: se si vuole davvero riempire il contenuto della colpevolezza anche alla luce dei criteri dell’accessibilità e dell’intellegibilità delle incriminazioni, le leggi organiche – intese come microsistemi ordinari per materie e accostabili nei contenuti ai vigenti testi unici – possono costituire una valida alternativa al codice penale, purché l’insieme complessivo che ne deriva sia in grado di assicurare «un ordine, una coerenza, un raccordo assiologico, semantico e politico-criminale»[28].
5. Linee conclusive dell’indagine.
Riconosciuta l’irrealizzabilità di un codice penale destinato a contenere tutte le norme penali, ovunque disperse nell’ordinamento giuridico, oggi si delinea un’alternativa tra due modelli generali: il primo, desumibile dalla rubrica dell’art. 3-bis c.p., aspira a una centralità del codice in conseguenza della quale esso dovrebbe comprendere tutte le fattispecie incriminatrici più significative, anche quando presentino elementi costitutivi intimamente connessi con una normativa privatistica o amministrativistica di settore; il secondo modello auspica invece, accanto al codice penale come tavola dei principi generali e delle incriminazioni fondamentali, che per specifiche materie, di particolare complessità o di alto tecnicismo, le norme penali possano trovare posto in leggi organiche intese alla stregua di testi unici.
Il riconoscimento della funzione culturale del codice, ma anche delle esigenze di accessibilità e comprensibilità delle norme penali, induce a evitare opzioni rigide e a preferire soluzioni da ricercarsi sulla base di criteri di ragionevolezza[29]. Così, in aggiunta a quanto osservato in precedenza, ulteriori esempi di una corretta collocazione di norme penali fuori dal codice penale possono ravvisarsi in ambito economico: i reati societari è bene che rimangano nel codice civile, i reati fallimentari nella c.d. legge fallimentare (r.d. 16 marzo 1942, n. 267), i reati finanziari nel c.d. testo unico finanziario (d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58), i reati tributari nel d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 e così via[30]. Allo stesso tempo, tuttavia, per motivi di orientamento culturale può esprimersi un giudizio positivo sulla scelta di portare all’interno del codice penale i reati più rappresentativi della tutela dell’ambiente, così da rimarcare l’importanza di un bene per troppo tempo rimasto ai margini dell’elaborazione penalistica[31].
Tutto sta dunque a intendersi nell’individuazione delle materie che, per il loro tecnicismo o per l’esistenza di una più ampia disciplina civilistica o amministrativa, richiedono di essere elevate a sistema autonomo e di quelle che invece tollerano una collocazione delle relative incriminazioni all’interno del codice penale.
Fermo restando che qualsiasi scelta in proposito risulta indipendente dal piano assiologico nel quale si muovono le valutazioni in tema di disvalore etico o giuridico, il dibattito è aperto e ciascuna soluzione può risultare dotata di valide giustificazioni. Per tale ragione, piuttosto che di riserva di codice appare preferibile pensare a una paritaria alternativa tra codice e leggi organiche.
* Il testo fa parte di un più ampio studio destinato alla pubblicazione sulla Rivista italiana di diritto e procedura penale, con il titolo “Codice penale, riserva di codice e riforma dei delitti contro la persona”.
[1] La citazione è tratta del notissimo esordio («A chi legge») che, a partire dalla “quinta” edizione, del 1766, compare nel Dei delitti e delle pene. Beccaria a più riprese si scaglia contro i «criminalisti» e i frutti della loro «più crudele imbecillità», resi da «giureconsulti autorizzati dalla sorte a decidere di tutto e a divenire, di scrittori interessati e venali, arbitri e legislatori delle fortune degli uomini» (così nella nota del § XIII).
[2] Gomez de la Serna-Montalban, Elementos del derecho civil y penal de España, Madrid, 18453, I, p. 117 s.
[3] Sul valore e sul ruolo delle opinioni nella giustizia del XVIII secolo è d’obbligo la citazione di Muratori, Dei difetti della giurisprudenza (1742), in particolare il cap. VI. Sugli ideali, tipicamente illuministici, della chiarezza, semplicità e coerenza delle leggi penali e del loro numero limitato è sufficiente il rinvio a Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Roma-Bari, 201110, p. 99; sulla moderna codificazione come processo culturale e storico, per tutti si rinvia alle differenti ricostruzioni di Cavanna, La storia del diritto moderno (secoli XVI-XVIII), Milano, 1983, p. 115 ss.; Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, Bologna, 1976, p. 18 ss.
[4] Valga per tutte la citazione dell’art. 5 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (26 agosto 1789): «La Legge ha il diritto di vietare solo le azioni nocive alla società. Tutto ciò che non è vietato dalla Legge non può essere impedito e nessuno può essere costretto a fare ciò che essa non ordina».
[5] Sulle soluzioni accolte nei progetti della commissione Pagliaro, della Bicamerale e della commissione Grosso, per tutti, Maiello, ‘Riserva di codice’ e decreto-legge in materia penale: un (apparente) passo avanti ed uno indietro sulla via del recupero della centralità del codice, in La riforma della parte generale del codice penale, a cura di Stile, Napoli, 2003, p. 159 ss.
[6] Da notare però come un forte sbilanciamento in favore della soluzione accolta nel progetto Pagliaro fosse rinvenibile nel successivo passo in cui si afferma: «Il codice penale dovrebbe diventare un testo esaustivo e, per quanto possibile, esclusivo dell’intera materia penale, della cui coerenza e sistematicità il legislatore dovrebbe ogni volta farsi carico. Ne verrebbe accresciuta la sua capacità regolatrice, tanto nei confronti dei cittadini quanto dei giudici, con conseguente incremento della certezza e della credibilità del diritto penale e con una riduzione della sua area di intervento, conformemente al suo ruolo di strumento estremo di difesa di diritti e beni fondamentali».
[7] Per una critica al collegamento tra riserva di codice e rieducazione del reo Papa, Dal codice penale “scheumorfico” alla playlist. Considerazioni inattuali sul principio della riserva di codice, in Dir. pen. cont., Riv. trim., 2018, n. 5, p. 136 ss.; conf. Riccardi, Riserva di codice, in Dir. pen. cont., 20-12-2018, p. 3. Diff. Donini, La riserva di codice (art. 3-bis c.p.) tra democrazia normante e principi costituzionali. Apertura di un dibattito, in Leg. pen., 20-11-2018, p. 8 s.; Rotolo, Riserva di codice e legislazione complementare, in Jus Online, 2019, n. 3, p. 166 s.
[8] Per tutti, Pelissero, La politica penale delle interpolazioni, in Dir. pen. cont., Riv. trim., 2016, n. 1, p. 71. D’altra parte, come dimostra la ricerca della quale riferisce Donini, Oltre il tecnicismo e l’ideologia: verso una costruzione più scientifica delle leggi penali, in Modelli ed esperienze di riforma del diritto penale complementare, a cura di Donini, Milano, 2003, p. VII ss., la maggior parte degli illeciti che costituiscono la legislazione penale complementare è posta a tutela di beni giuridici fondamentali riconducibili all’incolumità e alla salute pubblica (da ult. Ambrosetti, Codice e leggi speciali. Progettare una riforma dopo la riserva di codice, in disCrimen, 5-11-2018, p. 2 s.).
[9] Donini, L’art. 3 bis c.p. in cerca del disegno che la riforma Orlando ha forse immaginato, in Dir. pen. proc., 2018, p. 438; Id., La riserva di codice, cit., p. 8. Nel senso di negare alla norma in esame il valore di un vincolo per il futuro legislatore, tra gli altri, Gallo, La cosiddetta riserva di codice nell’art. 3-bis: buona l’idea, non così l’attuazione, in Dir. pen. cont., 20-11-2018, p. 2; Leopizzi, La grande migrazione, in Giust. pen., 2018, I, c. 84; Palazzo, La Riforma penale alza il tiro?, in Dir. pen. cont., Riv. trim., 2016, n. 1, p. 60; Riccardi, Riserva di codice, cit., p. 4 s.; Rotolo, Riserva di codice, cit., p. 161 s.; vd. pure Papa, Dal codice penale “scheumorfico”, cit., p. 143 s.; nonché Maiello, ‘Riserva di codice’, cit., p. 164.
[10] Un approfondimento è in Ruga Riva, Riserva di codice o di legge organica: significato, questioni di legittimità costituzionale e impatto sul sistema penale, in Dir. pen. cont., Riv. trim., 2019, n. 1, p. 215 ss.
[11] Ampiamente, da ult., Fornasari, Argomenti per una riserva di legge rafforzata in ambito penale, in Dir. pen. cont., Riv. trim., 2018, n. 2, p. 162 ss.
[12] Conf. Ruga Riva, Riserva di codice o di legge organica, cit., p. 210, che a p. 214 afferma l’illegittimità dell’art. 3-bis per difetto della legge delega.
[13] Per tali argomentazioni, tra gli altri, Fornasari, Il concetto di economia pubblica nel diritto penale, Milano, 1994, p. 217; Moccia, Il diritto penale tra essere e valore, Napoli, 1992, p. 266 ss.; Romano, Razionalità, codice e sanzioni penali, in Amicitiae pignus. Studi in ricordo di Adriano Cavanna, Milano, 2003, III, p. 1895; Id., Diritto penale in materia economica, riforma del codice, abuso di finanziamenti pubblici, in Comportamenti economici e legislazione penale, Milano, 1977, p. 190 ss.; in riferimento ai reati contro la persona conf. De Francesco, Una sfida da raccogliere: la codificazione delle fattispecie a tutela della persona, in Tutela penale della persona e nuove tecnologie, a cura di Picotti, Padova, 2013, p. 25 ss.; vd. anche Ferrajoli, Il paradigma garantista, Napoli, 20162, p. 215 ss.; Id., Crisi della legalità penale e giurisdizione. Una proposta: la riserva di codice, in Legalità e giurisdizione. Le garanzie penali tra incertezze del presente ed ipotesi del futuro, Padova, 2001, p. 27 ss. Un quadro equilibrato delle ragioni in favore della decodificazione e della ricodificazione è in Palazzo-Papa, Lezioni di diritto penale comparato, Torino, 20133, p. 41 ss.
[14] Con varietà di accenti, ma nel senso di considerare le proposte pancodicistiche come un’anacronistica riproposizione di pensieri risalenti all’illuminismo settecentesco Fiandaca, In tema di rapporti tra codice e legislazione penale complementare, in Dir. pen. proc., 2001, p. 137 ss.; Id., Relazione introduttiva, in Modelli ed esperienze di riforma del diritto penale complementare, a cura di Donini, Milano, 2003, p. 2: Id., La riforma codicistica tra mito accademico e realtà politico-culturale, in Gli ottant’anni del codice Rocco, a cura di Stortoni-Insolera, Bologna, 2012, p. 209 s.; Palazzo, Requiem per il codice penale? (Scienza penale e politica dinanzi alla ricodificazione), ivi, p. 39 ss.; Paliero, Riforma penale in Italia e dinamica delle fonti: una paradigmatica, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, p. 1014 ss. In favore della elaborazione, accanto al codice penale, di leggi organiche di settore, da intendersi come «microsistemi integrati», Donini, Alla ricerca di un disegno, Padova, 2003, pp. 106 ss., 166 ss., 219 ss.; Id., L’art. 3 bis c.p., cit., p. 434 s.; vd. anche Losappio, Il sottosistema nel diritto penale. Definizione e ridefinizione, in Ind. pen., 2005, p. 7 ss.; Padovani-Stortoni, Diritto penale e fattispecie criminose, Bologna, 2006, p. 31 ss.; Papa, Dal codice penale “scheumorfico”, cit., pp. 141 ss. e 151 ss. Sul piano comparato, utili indicazioni sono offerte dalle relazioni di Quintero Olivares e Pradel, in La riforma della parte speciale del diritto penale, a cura di Papa, Torino, 2005, pp. 49 e 55 s.; vd. pure Cadoppi, Il crepuscolo del codice. Gli ottant’anni del codice Rocco alla luce dell’esperienza comparatistica, in Gli ottant’anni del codice Rocco, cit., p. 83 ss.
[15] Commissione di studio per l’elaborazione dello schema di decreto legislativo per un riordino della parte speciale del codice penale, parte II, § 0, p. 16 s. Vd. anche ivi, p. 19: «l’accorpamento in testi organici di specifiche per quanto ampie materie – soprattutto se ad alto contenuto tecnico – consentirebbe ai destinatari del precetto (primario e secondario) un più agevole reperimento della disciplina di base anche extra penale e al legislatore un meno problematico aggiornamento dei presupposti tecnici del divieto penale».
[16] Commissione di studio, cit., parte III, § 1, p. 63, che allega così «esigenze di razionalità e migliore “leggibilità” dei reati».
[17] Commissione di studio, cit., parte IV, § 0, p. 107 s., che così prosegue: «Ma la ragione più importante sta nel fatto che il codice dovrebbe essere portato verso la direzione della “essenzialità” del diritto penale. Con la conseguenza che il problema maggiore o comunque contestuale a quello sottopostoci non è tanto quello del trasformare precetti extra-codice in altrettanti precetti di parte speciale, e quindi infarcire ulteriormente il codice, quanto quello di fare contemporaneamente uscire un certo numero di precetti (…) di importanza diminuita o addirittura non più percepita se non addirittura venuta meno».
[18] Cfr., tra gli altri, Donini, La riserva di codice, cit., p. 4 ss.; Pelissero, La politica penale, cit., p. 71 s.; Rotolo, Riserva di codice, cit., p. 168; Ruga Riva, Riserva di codice o di legge organica, cit., p. 210 ss.
[19] Le citazioni sono tratte da Romano, Commentario sistematico del codice penale, Milano, 20053, p. 190; vd. pure Fiorella, Le strutture del diritto penale, Torino, 2018, p. 58 s.
[20] Cfr. Ruga Riva, Riserva di codice o di legge organica, cit., p. 208 e nota 6, secondo cui l’art. 3-bis avrebbe potuto essere meglio allocato subito dopo l’art. 5 ovvero nel titolo IV del libro I.
[21] Per tutti e da ult. Rotolo, ‘Riconoscibilità’ del precetto penale e modelli innovativi di tutela, Torino, 2018, p. 55: «Il ‘principio di riconoscibilità’ concerne le relazioni che legano lo Stato e il cittadino: esso impone l’equilibrio tra la garanzia offerta al destinatario del precetto di poterne comprendere il significato e l’esigenza di pretenderne l’obbedienza».
[22] «Il principio di “riconoscibilità” dei contenuti delle norme penali, implicato dagli artt. 73, comma 3 e 25, comma 2, Cost., rinvia, ad es., alla necessità che il diritto penale costituisca davvero la extrema ratio di tutela della società, sia costituito da norme non numerose, eccessive rispetto ai fini di tutela, chiaramente formulate, dirette alla tutela di valori almeno di “rilievo costituzionale” e tali da esser percepite anche in funzione di norme “extrapenali”, di civiltà, effettivamente vigenti nell’ambiente sociale nel quale le norme penali sono destinate ad operare”» (punto 17 in diritto). In argomento De Francesco, Diritto penale, Torino, 2018, p. 507 ss.; Fiorella, Le strutture, cit., p. 88 s.; Manna, Corso di diritto penale, pt. gen., Milanofiori Assago, 20153, p. 427 ss.; Marinucci-Dolcini-Gatta, Manuale di diritto penale, pt. gen., Milano, 20198, p. 429 ss.; Palazzo, Corso di diritto penale, pt. gen., Torino, 20187, pp. 92 s., 441 s.; de Vero, Corso di diritto penale, pt. gen., Torino, 2020, p. 759 ss.; Viganò, Il principio di prevedibilità della decisione giudiziale in materia penale, in Dir. pen. cont., 19-12-2016, p. 2 ss.; da ult. Lanzi, Error iuris e sistema penale, Torino, 2018, pp. 70 ss., 139 ss.; Papa, Fantastic voyage, Torino, 20192, p. 75 ss.
[23] Corte cost., 13 aprile 1992, n. 185.
[24] Nella sterminata bibliografia, utili spunti sono offerti da Bernardi, La sovranità penale tra Stato e Consiglio d’Europa, Napoli, 2019, p. 49 ss.; Donini, Europeismo giudiziario e scienza penale, Milano, 2011, p. 82 ss.; Fiandaca-Musco, Diritto penale, pt. gen., Bologna, 20187, p. 62 ss.; Manes, Il giudice nel labirinto, Roma, 2012, p. 140 ss.; Sotis, Le “regole dell’incoerenza”. Pluralismo normativo e crisi postmoderna del diritto penale, Roma, 2012, p. 21 ss.; Viganò, Il nullum crimen conteso: legalità ‘costituzionale’ vs. legalità ‘convenzionale’?, in Dir. pen. cont., 5-4-2017, p. 2.
[25] Nel senso di differenziare conoscibilità e comprensibilità de Flammineis, L’età della (apparente) codificazione: brevi riflessioni sul d.lgs. 1° marzo 2018, n. 21, in Dir. pen. cont., Riv. trim., 2018, n. 6, p. 30.
[26] Corte cost., 5 giugno 2019, n. 189.
[27] Sul punto non sussistono dubbi: Donini, La riserva di codice, cit., p. 7, paventa la trasformazione del codice in un «libro-ripostiglio»; Palazzo, La Riforma penale, cit., p. 60, prospetta il pericolo di un codice destinato ad assumere «proporzioni mostruose»; Papa, Dal codice penale “scheumorfico”, cit., p. 142, parla di un codice inteso come «“centro di accoglienza” (…). Un insieme di norme informe ed eterogeneo: privo di struttura, disarmonico nello stile, architettonicamente inguardabile».
[28] Donini, La riserva di codice, cit., p. 9.
[29] In questo senso non sembra condivisibile la scelta del progetto Pagliaro, fondata solo sulla mutevolezza della normativa, così escludendo dal codice penale le incriminazioni in tema di mafia, armi e stupefacenti «perché le tecniche della lotta contro gli illeciti in questione (e, talvolta, i fenomeni stessi) sono troppo legate alla contingenza dei tempi, per potere essere stabilmente formalizzate in un codice».
[30] Il Progetto Pagliaro optava decisamente per la soluzione codicistica nel titolo VII, dedicato ai reati contro l’economia, mentre la relazione della Commissione di studio, cit., parte IV, § 3.1 s., p. 137 s., si esprime in favore dell’attuale collocazione dei reati societari, bancari, finanziari e fallimentari.
[31] Per tutti D’Alessandro, Nota introduttiva agli artt. 452 bis-452 terdecies, in Commentario breve al codice penale, a cura di Forti-Seminara-Zuccalà, Milanofiori Assago, 20176, p. 1525 ss.
Non possiamo non dirci antifascisti
L’antifascismo non è un’opinione politica, cominciamo col dire questo.
“Il fascismo è stato un’eresia morale, sociale e politica e deve essere espulso da ogni angolo del nostro paese e dal mondo intero” (Don Luigi Sturzo, 1944).
Quando il Presidente della Repubblica commemora le vittime del nazifascismo in uno dei tanti sacrari disseminati nell’Italia centrale e settentrionale, non presenzia al congresso di un partito, ma celebra la lotta antifascista; quando i cittadini scendono in piazza con i vestiti della festa il 25 aprile non partecipano ad una manifestazione politica, ma rendono omaggio al “silenzio dei torturati, più duro d’ogni macigno”, come scrisse Calamandrei nella celebre “Lapide ad ignominia”; quando i magistrati italiani applicano ogni giorno principi della Costituzione maturati nel buio della dittatura fascista come la libertà di espressione (art. 21), quella di associazione (art. 18), l’inviolabilità della libertà personale ed il rifiuto di ogni forma di violenza fisica o morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà (art. 13), quotidianamente celebrano la Repubblica: perché la nostra è una Repubblica che si fonda sull’antifascismo, inteso come sistema di governo totalitario incline a comprimere diritti collettivi e individuali.
Questi sono i fondamenti della nostra democrazia conquistata tanto con la lotta partigiana tanto con il voto popolare dal quale fu legittimata l’Assemblea Costituente.
Stupisce pertanto il fatto che qualcuno pubblicamente stigmatizzi – facendo leva sul sospetto di parzialità o, peggio, faziosità del suo operato – le simpatie per l’Associazione Nazionale Partigiani Italiani di un pubblico ministero, che si trova ad indagare su notizie di reato riguardanti esponenti di un partito che si dichiara di estrema destra, il pubblico ministero indaga sulle notizie di reato e non si interessa delle opinioni politiche. Si tratta di un messaggio mistificatorio: l’antifascismo non è un’opinione politica. Sarebbe anzi allarmante che un magistrato italiano non si dichiarasse antifascista, o perlomeno non esercitasse la propria funzione senza avere a mente il valore dell’antifascismo. Egli non giura forse fedeltà alla Costituzione, non si impegna ad applicare quelle leggi che dalla Costituzione derivano? E cos’è la Costituzione, se non l’enunciazione di una serie di principi antifascisti? E cos’è la magistratura, se non la custode dell’antifascismo, così come espresso nelle leggi che da quei principi discendono? In questa prospettiva finalistica, un magistrato che non sia antifascista è colui che non ha quale stella polare del suo operato la Costituzione; e tutti confidiamo che non ve ne siano in giro.
Siamo tutti, noi magistrati, antifascisti!
“Se volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità andate lì o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra Costituzione” (Piero Calamandrei).
“La Memoria, custodita e tramandata, è un antidoto indispensabile contro fantasmi del passato. La Repubblica Italiana, nata dalla Resistenza, si è definita e sviluppata in totale contrapposizione al fascismo. La nostra Costituzione ne rappresenta, per i valori che proclama e per gli ordinamenti che disegna, l’antitesi più netta. L’indicazione delle discriminazioni da rifiutare e respingere, al suo articolo 3, rappresenta un monito. Il presente ci indica che di questo monito vi era e vi è tuttora bisogno.
Egualmente, credo che tutti gli italiani abbiano il dovere, oggi, di riconoscere che un crimine turpe e inaccettabile è stato commesso, con l’approvazione delle leggi razziali, nei confronti dei nostri concittadini ebrei.
La Repubblica italiana, proprio perché forte e radicata nella democrazia, non ha timore di fare i conti con la storia d’Italia, non dimenticando né nascondendo quanto di terribile e di inumano è stato commesso nel nostro Paese, con la complicità di organismi dello Stato, di intellettuali, giuristi, magistrati, cittadini, asserviti a una ideologia nemica dell’uomo.
La Repubblica e la sua Costituzione sono il baluardo perché tutto questo non possa mai più avvenire” (Sergio Mattarella, 26 Gennaio 2018, celebrazione del Giorno della memoria al Quirinale).
Professiamoci, tutti, magistrati antifascisti.
E adesso la si butti pure in politica, si tiri fuori la storia dell’imparzialità: si faccia finta che non si sappia che l’antifascismo non è opinione politica, ma quel senso profondo e non sradicabile di libertà e giustizia sociale che ha guidato la mano dei Padri Costituenti, molti dei quali scesi dalle montagne quando ancora riposavano, sotto una neve inviolata, coloro a cui dobbiamo la conquista dei nostri diritti. Davvero non possiamo non dirci antifascisti.
Vittime di tortura durante il conflitto nella ex Jugoslavia: una storica decisione del Comitato ONU contro la tortura sulla responsabilità dello Stato.
di Calogero Ferrara
Il Comitato dell’ONU contro la Tortura, con la decisione del 2 agosto 2019 (CAT/C/67/D/854/2017), si pronuncia sul contenuto degli obblighi gravanti sugli Stati sottoscrittori, in forza del combinato disposto degli artt. 1 e 14 della Convenzione contro la Tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti adottata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1984, in un caso avvenuto in Bosnia Erzegovina nel 1993 nel corso del conflitto balcanico divenuto tristemente famoso, tra l’altro, per la orrenda pratica dei c.d. stupri finalizzati alla pulizia etnica (ethnic cleansing).
In un contesto internazionale sempre più orientato alla responsabilità dell’individuo, la decisione costituisce uno storico passo verso l’affermazione della responsabilità sussidiaria dello Stato nel corrispondere alla vittima di atti di tortura (violenza sessuale, nel caso di specie) una riparazione (redress) che includa la più completa riabilitazione possibile, oltre che un risarcimento (compensation) equo ed adeguato, il più ampio possibile e senza limiti di tempo.[1]
Sommario:1. La Convenzione contro la Tortura e i poteri del Comitato ONU. 2. I fatti oggetto del giudizio. 3.L’ammissibilità del ricorso: a) Competenza ratione temporis. B) L’esaurimento dei rimedi nazionali. 4. La violenza sessuale come atto di tortura. 5. Il diritto alla riparazione: evoluzione nei settori del diritto internazionale del right to redress e la decisione del Comitato nel merito: a) La perentorietà del divieto di tortura; b) Il diritto alla riparazione della vittima di crimini internazionali nei Tribunali Internazionali;c) Il diritto alla riparazione nei sistemi di soft law;d) La ratio del right to redress previsto dall’art. 14 della Convenzione contro la Tortura e le conclusioni del Comitato. 6. Conclusioni.
1.La Convenzione contro la Tortura e i poteri del Comitato ONU.
Il sistema di protezione dei diritti umani all’interno del quale si inserisce la Convenzione dell’ONU contro la Tortura ed il ruolo di monitoraggio svolto nel suo ambito dal Comitato prendono le mosse dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, adottata subito dopo le atrocità della Seconda Guerra Mondiale, che aveva aperto gli occhi sulla necessità di tutelare, anche a livello internazionale, in modo più ampio possibile l’individuo.
Con la successiva adozione da parte dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1966 del Patto internazionale sui diritti economici sociali e culturali e del Patto internazionale sui diritti civili e politici - che insieme alla citata Dichiarazione Universale costituiscono il Codice Internazionale dei diritti umani (International Bill of Human Rights) – l’ONU ha avviato un processo di positivizzazione dei diritti umani, contribuendo a costruire un quadro giuridico internazionale in grado dotare di vincolatività i diritti enunciati in via generale nella Dichiarazione medesima.
In tale contesto, il diritto a non essere sottoposti a tortura costituisce uno dei diritti più importanti che la comunità internazionale intende tutelare, basti pensare che quasi nessuno strumento internazionale sui diritti umani dimentica di annoverare tale divieto[2], poiché la mancata criminalizzazione della tortura negli ordinamenti nazionali e l’assenza di strumenti di tutela della vittima costituirebbero un tipico vulnus alla sfera dei diritti fondamentali dell’uomo.
Parallelamente all'enunciazione dei diritti fondamentali, le Nazioni Unite hanno provveduto a creare un sistema di meccanismi di controllo fondato sull’istituzione di appositi Comitati (cc.dd. treaty bodies)[3]. Tali organismi internazionali sono composti da un numero variabile di esperti indipendenti e vengono istituiti dalle varie convenzioni sui diritti umani adottate nel contesto delle Nazioni Unite con il precipuo compito di verificare l'adempimento degli obblighi convenzionali da parte degli Stati contraenti.
Tra le convenzioni istitutive di un comitato ad hoc rientra, pertanto, la Convenzione contro Tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti adottata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1984.
La Convenzione contro la tortura può essere considerata una delle fonti di maggior importanza mai in materia di tortura. La sua vocazione universale, l’obbligatorietà delle sue disposizioni per gli Stati che l’hanno ratificata e la previsione di un incisivo sistema di controllo la rendono uno dei principali pilastri del diritto internazionale nella lotta contro detta condotta criminosa.
Oltre a prevedere il divieto di atti di tortura (art. 1), la Convenzione dedica una particolare attenzione alla tutela della vittima, sancendone il diritto ad ottenere una riparazione ed ad essere equamente risarcita e, come sopra accennato, istituendo il Comitato contro la Tortura, quale organismo di controllo del rispetto degli obblighi da parte degli Stati sanciti dalla Convenzione.
In particolare, la Convenzione assegna al Comitato il compito di esaminare i rapporti periodici degli Stati contraenti sulle misure da loro adottate al fine di dare esecuzione ai loro impegni (art. 19) e di avviare inchieste riservate, qualora il Comitato riceva informazioni circa la sistematica pratica di atti di tortura in uno degli Stati contraenti.
Tra le funzioni più rilevanti attribuite al Comitato vi è quello di esaminare denunce (rectius comunicazioni) che possono provenire tanto dagli stessi Stati (art. 21, cc.cd. ricorsi interstatuali), quanto dagli individui che lamentano di essere vittime di torture o altre pene o trattamenti vietati (art. 22, cc.dd. ricorsi individuali). In tali il casi il CAT oltre ad accertare la violazione convenzionale da parte dello Stato contraente, potrà suggerire – come vedremo è avvenuto nel caso di specie – quali sono gli accorgimenti che lo Stato dovrà adottare per porre fine alla violazione in atto.
La competenza del Comitato a conoscere dei ricorsi (rectius comunicazioni) individuali non è però automatica essendo subordinata, da un lato, ad un’esplicita accettazione da parte degli Stati che hanno ratificato la Convenzione (art. 22) e, dall’altro lato, all’avere il soggetto esaurito ogni rimedio nazionale per la tutela dei propri diritti convenzionalmente riconosciuti.
Congiuntamente al ruolo di monitoraggio della corretta applicazione da parte degli Stati contraenti dei principi convenzionali, il Comitato svolge una funzione di guida nell’interpretazione della portata delle norme convenzionali che si esplica tramite la formulazione di c.d. concluding observations dallo stesso adottate all’esito dell’analisi dei rapporti periodici presentati dagli Stati contraenti, oltre che tramite l’adozione dei cc.dd. General Comments. Questi ultimi, per quanto non convenzionalmente previsti, svolgono il ruolo di vere e proprie linee-guida per gli Stati contraenti e di fonte di interpretazione autentica degli obblighi convenzionali.
2.I fatti oggetto del giudizio
Ciò premesso, con la decisione del 2 agosto 2019 (CAT/C/67/D/854/2017), il Comitato contro la Tortura (da ora in poi CAT), in accoglimento delle doglianze della comunicazione n.854/2017 ha accertato la violazione dell’art.14 della Convenzione da parte della Bosnia Erzegovina per non avere assicurato il godimento del risarcimento, quale forma di riparazione per la violazione dei diritti umani, che era stato in precedenza riconosciuto ad una cittadina bosniaca (Mrs. A)[4], vittima di ripetute violenze sessuali qualificate come crimini di guerra.
In particolare, il 29 giugno 2015, la Corte di Bosnia ed Erzegovina Sezione I per i crimini di guerra aveva condannato Mr. Slavko Savic (membro dell’Esercito Serbo-Bosniaco della Vojska Republike Srpske) a otto anni di reclusione, oltre che al pagamento di 30.000 marchi bosniaci (corrispondenti a circa € 15.340) a titolo di danno non patrimoniale, per le ripetute violenze sessuali, qualificate come crimine di guerra contro civili, perpetrate ai danni di Mrs. A., tra maggio e giugno 1993 nella cittadina di Semizovac[5]. Nella comunicazione indirizzata al Comitato, la donna aveva evidenziato che il suo violentatore l’aveva costretta ad abortire e che a seguito delle violenze subite, nel 2008, le erano stati diagnosticati sintomi da permanente disturbo della personalità e da cronico stress post traumatico, con la conseguenza che la stessa aveva trovato il coraggio di denunciare alle autorità competenti quanto le era accaduto solo nel Novembre 2014.
Dopo essere stata riconosciuta vittima di crimini di guerra con sentenza passata in giudicato e non avendo il condannato ottemperato al pagamento della somma entro il termine prescritto di 90 giorni, Mrs. A. era stata costretta ad intentare apposita azione esecutiva, nelle more della quale, veniva informata dalla Corte di Bosnia ed Erzegovina che il condannato non era titolare di alcun asset, e di conseguenza la donna si era vista costretta a ritirare l’azione originariamente avviata.
Mrs. A. rilevava, inoltre, che quale vittima di crimine di guerra le veniva riconosciuta solo una pensione (social allowance) pari a poco più di 300 euro mensili (circa 600 marchi bosniaci)[6], del tutto insufficienti per fare fronte alle spese mediche che era costretta ad affrontare a seguito dei traumi subiti.
La comunicazione sottolineava, altresì, come l’ordinamento giuridico nazionale bosniaco post-bellico presentava un duplice ordine di ostacoli per l’effettiva corresponsione del right to redress.
In prima istanza, l’esercizio dell’azione per il risarcimento del danno non patrimoniale avverso persone giuridiche soffriva, anche alla luce dell’interpretazione offerta dalla Corte Costituzionale bosniaca, del termine di prescrizione quinquennale decorrente dal momento in cui la parte lesa ha conoscenza del danno e dell’identità dell’autore[7]. In secondo luogo, non era configurabile una responsabilità sussidiaria in capo allo Stato a corrispondere la somma riconosciuta alla vittima, seppure con sentenza passata in giudicato, mancando ogni previsione normativa in tal senso.
Ne derivava pertanto, che il risarcimento che era stato accordato alla vittima era una mera scatola vuota.
3.L’ammissibilità del ricorso.
a) Competenza ratione temporis
Il caso sottoposto al vaglio del Comitato contro la Tortura ha richiesto il preliminare accertamento della sussistenza delle condizioni di ammissibilità della comunicazione e, in particolare, la valutazione della sussistenza della competenza ratione temporis e, in secondo luogo, il rispetto del principio del previo esaurimento di tutti i ricorsi interni.
Per quanto concerne il primo requisito di ammissibilità della comunicazione, il Comitato – aderendo alle argomentazioni della comunicazione ed in assenza di osservazioni contrarie dello Stato Parte – ha affermato la sua competenza ratione temporis ad esaminare la comunicazione, non dando alcun rilievo alla circostanza che la Bosnia ed Erzegovina avesse aderito alla Convenzione solo il 1 ottobre 1993, e dunque in data successiva alle avvenute violenze.
A tal riguardo, il Comitato ha valutato che gli effetti che atti di siffatte violazioni dei diritti umani, come la tortura, producono sulla vittima, non solo sono destinati a durare nel tempo ma anche ad accentuarsi. Nel caso di specie, infatti, la donna, a quasi trent’anni dalla violenza subita, continuava ad essere affetta da diverse patologie, che richiedevano continue cure mediche e psicologiche e sebbene fosse stata dichiarata vittima di un crimine di guerra il sistema giuridico bosniaco non le consentiva di ottenere la corresponsione del risarcimento che le era stato riconosciuto.
In sintesi il CAT ha sottolineato che, venendo in rilievo la violazione dell’obbligo di provvedere alla riparazione della vittima, la sussistenza della competenza ratione temporis doveva accertarsi avendo riguardo al momento in cui l’Ufficio del Procuratore aveva avviato il procedimento penale a carico del torturatore ed a quello in cui la Corte Penale bosniaca aveva emesso la sentenza di condanna con cui aveva riconosciuto la donna vittima di crimini di guerra e non già al momento della commissione del fatto. Trattandosi, infatti, di momenti successivi a quello in cui lo Stato aveva riconosciuto la competenza del Comitato[8] ad esaminare le comunicazioni presentate dai privati ai sensi dell’art. 22, par. 1 della Convenzione, non vi era alcuna applicazione retroattiva degli obblighi convenzionali.
Tale conclusione appare in linea con un precedente caso sottoposto al vaglio del Comitato (Case Gerasimov v. Kazakhstan, Communication No. 433/2010), in cui il CAT era stato chiamato a pronunciarsi sulla violazione da parte del Kazakhstan dell’art. 12 della Convenzione. In quel caso l’autore della comunicazione era stato detenuto ingiustamente e sottoposto ad atti di tortura da parte di alcuni agenti di polizia penitenziaria e pur avendo denunciato ripetute volte i fatti, le autorità competenti avevano rigettato la richiesta di procedere alle dovute indagini. Tali fatti – sia la tortura che la decisione della Procura di archiviare il caso - anche se verificatisi prima dell’adesione dello Stato alla Convenzione, tuttavia continuavano a produrre effetti nel tempo, in considerazione del fatto che lo Stato continuava a non procedere ad una inchiesta imparziale[9].
Siffatta interpretazione, con tutta evidenza, amplia considerevolmente l’ambito applicativo della disciplina proprio in considerazione della primaria rilevanza dei beni oggetto di tutela e della specificità delle condotte suscettibili di censura.
b) Esaurimento dei rimedi nazionali
In relazione al secondo requisito di ammissibilità della comunicazione, che impone a chi agisce davanti al Comitato di avere esaurito tutti i rimedi nazionali disponibili (art. 22, par. 5, lett. b della Convenzione) – peraltro secondo uno schema consolidato nell’ambito della disciplina a tutela dei diritti umani nascente da norme convenzionali, tale principio, frutto del rapporto sussidiario che si instaura tra i meccanismi di tutela internazionali e quelli nazionali, è stato sempre oggetto di una interpretazione molto elastica da parte della giurisprudenza internazionale.
La formulazione dell’art. 22 della Convenzione si contraddistingue nel prevedere una specifica e chiara deroga al principio dell’esaurimento del ricorso interno poiché, come si legge testualmente, detta norma non troverà applicazione nel caso di rimedi eccessivamente prolungati nel tempo ovvero di fatto poco efficaci (“where the application of the remedies is unreasonably prolonged or is unlikely to bring effective relief to the person who is the victim of the violation of this Convention”[10]).
Come anticipato, il dettato della Convenzione recepisce quella prassi giurisprudenziale tracciata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e sviluppatasi intorno all’art. 35 CEDU, che ha sempre interpretato detto requisito di ammissibilità in modo flessibile, valorizzando i caratteri di accessibilità ed effettività che devono contraddistinguere i rimedi interni per dirsi esauriti.
In tale ottica, la Corte è stata costante nell’affermare che l’accertamento deve svolgersi avendo riguardo non solo alla legge ma anche alla posizione assunta ed all’interpretazione adottata dai tribunali interni, che – per potere essere considerata preclusiva - deve essere sufficientemente consolidata[11].
A tal riguardo, la Bosnia Erzegovina aveva eccepito che Mrs. A. avrebbe potuto in ogni caso agire tanto in sede cautelare quanto in sede civile per la tutela dei propri interessi creditori.
Il Comitato tuttavia ha osservato che tali rimedi mancavano dei requisiti di effettività ed accessibilità, dando rilievo a due ordini di fattori: da un lato, la circostanza che il condannato era un soggetto nullatenente influiva sulla fruttifera percorribilità di ogni azione, giudiziaria e non, nei suoi confronti; d’altro canto, l’interpretazione offerta dalla Corte Costituzionale bosniaca, che estendeva l’applicazione del termine quinquennale anche alle azioni di risarcimento per i danni non patrimoniali avverso persone giuridiche, di fatto precludeva ogni pretesa risarcitoria e/o riparativa da parte di tutte quelle donne che non avevano denunciato le violenze subite, negli anni immediatamente successivi al conflitto bellico nei Balcani. Di fatto, per quanto non venisse preclusa a priori la percorribilità dell’azione risarcitoria, tuttavia la stessa risultava ridotta al minimo, e veniva esclusa del tutto ogni possibilità di successo. Il tutto risultava aggravato dalla circostanza che anche ove le vittime di violenze sessuale compiute durante il conflitto, avessero ugualmente deciso di intentare l’azione in questione, il rigetto della domanda esecutiva avrebbe comportato il pagamento di una penale.
Il Comitato pertanto applicando alla lettera il dettato convenzionale ha ritenuto che la vittima aveva di fatto esaurito i rimedi interni esperibili, in quanto non sarebbe ragionevole pretendere l’esaurimento di tutti i ricorsi interni quando risulta comprovato che in ogni caso tali rimedi non offrirebbero le medesime chance di successo, anche e soprattutto alla luce del diritto nazionale.
4.La violenza sessuale come atto di tortura
Altro profilo di estremo interesse nella decisione del Comitato è quello inerente la qualificazione della violenza sessuale come atto di tortura.
Invero, il CAT ha evidenziato che i fatti occorsi durante il conflitto nei Balcani e denunciati nella comunicazione, hanno rappresentato una forma di discriminazione etnica oltre che di genere perpetrata da parte di un pubblico ufficiale con intenti punitivi ed intimidatori, che hanno inflitto alla vittima acute sofferenze fisiche e mentali ed i cui effetti ancora continuano ancora oggi a prodursi; sicché tali fatti non possono che essere ricondotti all’interno della nozione di tortura prevista dall’art. 1 della Convenzione[12].
La decisione del CAT, pur riservando sul punto una breve motivazione sul rilievo che la ricostruzione dei fatti appariva già pienamente corroborata dalla sentenza di condanna della Corte bosniaca, sezione crimini di guerra, che riconosceva a Mrs. A. lo status di vittima di crimini di guerra, si inserisce nel solco di quella consolidata giurisprudenza (in particolare dei cc.dd. “Tribunali ad hoc”) per cui la sussunzione di taluni fatti nel novero della nozione di atti di tortura richiede lo svolgimento di un’operazione di contestualizzazione del comportamento dell’autore del crimine, che non deve essere valutato alla stregua del nomen juris del reato, quanto piuttosto del grado delle sofferenze inflitte, della natura e dello scopo dell’atto e della particolare vulnerabilità della vittima.
Invero, il rapporto intercorrente tra atti di violenza sessuale e altri crimini internazionali, quali la tortura e il genocidio, è stato oggetto di numerosi interventi da parte delle Corti internazionali e dei Tribunali penali speciali per l’ex Jugoslavia e per il Ruanda.
Il leading case in materia è costituito dal caso Aydin c. Turchia (1997)[13] in cui la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha qualificato come tortura lo stupro e le altre violenze fisiche e mentali subite da una detenuta ad opera di alcuni funzionari statali che non erano stati identificati. La Corte ha accolto una definizione ampia di tortura secondo cui lo stupro, atto di per sé particolarmente crudele, che colpisce l'integrità fisica e morale della vittima, risulta in determinante circostanze aggravato in quanto commesso da persona dotata di autorità a danno di un soggetto particolarmente vulnerabile, soprattutto se in stato di detenzione.
Analoghe indicazioni provengono dalla decisione nel caso Prosecutor v. Zejnil Delalij e altri[14], celebrato davanti al Tribunale per i crimini di guerra commessi nella ex Jugoslavia, che nel ritenere l’imputato colpevole di tortura e di crimini di guerra per gli stupri commessi nei confronti di due donne musulmane serbo-bosniache, ha richiamato da un lato i principi della citata sentenza Aydin c. Turchia[15] e, dall’altro, ha accolto la definizione ampia e progressiva di stupro formulata dal Tribunale per il Ruanda nello storico caso Akayesu[16], specificando che, nel reputare la violenza sessuale come un atto di tortura, deve tenersi conto della pervasività delle sofferenze fisiche e psicologiche provocate alla vittima (par. 495) oltre che degli intenti discriminatori, punitivi, coercitivi o intimidatori che soggiacciono a tale specifica forma di violenza, soprattutto se commessa da un pubblico ufficiale o con l’acquiescenza di questi.
5.Il diritto alla riparazione: evoluzione nei settori del diritto internazionale del right to redress e la decisione del Comitato nel merito:a) La perentorietà del divieto di tortura e l’imprescrittibilità dell’azioni di riparazione dei danni derivanti da atti di tortura.
Dopo avere sancito principi che già di per se ampliano la tutela riconosciuta alle vittime di tortura – sia sotto l’aspetto del riconoscimento della giurisdizione sia in relazione all’inquadramento della fattispecie -, il valore storico che la decisione assume riguarda il riconoscimento e la definizione del contenuto degli obblighi di riparazione delle vittime di tortura gravanti sugli Stati Parte previsti dall’art. 14 della Convenzione, a norma della quale “each State Party shall ensure in its legal system that the victim of an act of torture obtains redress and has an enforceable right to fair and adequate compensation, including the means for as full rehabilitation as possible”.
Ad una prima disamina della fattispecie concretamente giudicata dal CAT, gli elementi della accertata nullatenenza del condannato e la previsione del termine di prescrizione quinquennale per l’esercizio dell’azione di risarcimento dei danni non patrimoniali, unite alla mancanza di una responsabilità sussidiaria dello Stato nella corresponsione del risarcimento dei danni subiti alla vittima, apparivano de facto degli ostacoli insormontabili del sistema nazionale bosniaco per una fruttifera e completa attivazione del right to redress della vittima. Sul punto, la comunicazione aveva evidenziato che un sistema così congegnato non può essere considerato compatibile con la natura di jus cogens che i divieti di violenza sessuale, soprattutto in contesti bellici, e di tortura hanno acquisito all’interno del sistema delle fonti di diritto internazionale.
Come in più occasioni affermato dalla giurisprudenza internazionale[17], il divieto di tortura infatti non è disposto solo da norme di diritto pattizio, tra cui in particolare la Convenzione dell’ONU contro la Tortura, ma anche da norme di diritto consuetudinario imperativo.
Dalla perentorietà di tale divieto deriva che l’accertamento dei fatti che ne costituiscono la violazione non può essere ostacolato dalla previsione di alcun termine prescrizionale, con la conseguenza che dovranno considerarsi parimenti imprescrittibili le azioni – civili e penali – che la vittima può intentare per ottenere la riparazione dei danni sofferti in conseguenza di atti contrari alle norme di diritto consuetudinario.
Tale considerazione appare condivisibile soprattutto alla luce di quella dottrina che, guardando all’evoluzione del diritto internazionale contemporaneo, afferma l’esistenza di una norma di diritto internazionale consuetudinario che riconosce l’obbligo dello Stato autore della violazione di assicurare all’individuo il diritto ad un’adeguata riparazione e ad un rimedio interno effettivo[18].
b)Il diritto alla riparazione della vittima di crimini internazionali nei Tribunali Internazionali
Per lungo tempo la problematica del diritto alla riparazione della vittima di illeciti internazionali, è stata confinata entro la prospettiva dei rapporti interstatali.
Detta prospettiva è radicalmente mutata nell’ultimo quarto di secolo, soprattutto con la introduzione dei c.d. Tribunali Internazionali, prima di quelli ad hoc per specifici crimini e/o commessi in particolari contesti territoriali e storico-sociali e poi con la previsione di una Corte Penale Internazionale, avente una competenza più ampia, pur con i limiti nascenti dagli Stati che non hanno sottoscritto il Trattato di Roma che istituisce detto organo giurisdizionale.
Sul versante del riconoscimento dei diritti della vittima, soprattutto per crimini internazionali o comunque gravi violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani, un ruolo determinante lo ha avuto proprio il case-law sviluppatosi in ambito internazionale, pur nella consapevolezza del ruolo maggiormente repressivo svolto da detti Tribunali rispetto a quello di monitoraggio proprio dei treaty bodies dell’ONU[19].
In realtà, inizialmente gli Statuti dei Tribunali speciali per la ex Jugoslavia[20] e per il Ruanda (1993 e 1994) facevano riferimento alle vittime unicamente come testimoni e strumenti imprescindibili per la ricostruzione dei fatti oggetto del giudizio. A partire dallo Statuto della Corte Penale Internazionale (cd. Statuto di Roma) e della Corte Speciale della Sierra Leone la vittima viene in considerazione quale vero e proprio centro di diritti azionabili in giudizio[21]: l’art. 75 dello Statuto di Roma[22] nel disciplinare il diritto alla riparazione della vittima dei crimini di competenza della Corte Penale Internazionale, riconosce a quest’ultima la possibilità di stabilire i principi che devono caratterizzare la riparazione della vittima, oltre che determinare la portata e l'entità di eventuali danni, perdite e lesioni subiti.
In tale prospettiva, merita di essere sottolineato che il coinvolgimento di altri soggetti (tra cui lo Stato) a garanzia del godimento effettivo e tempestivo del diritto alla riparazione da parte della vittima di crimini internazionali, era già presente nel sistema della Corte Penale Internazionale: in tal senso si richiama il Trust Fund for Victims, il cui regolamento elenca tra le sue fonti di finanziamento proprio i contributi volontari degli Stati[23].
La costruzione di una responsabilità statale per la corresponsione della riparazione non sembra essere una novità neanche per il diritto comunitario. Deve richiamarsi in proposito la Direttiva 2004/80/CE che ha posto a carico dello Stato e di altri enti pubblici la riparazione del danno subito dalla vittima di reati penali violenti e dolosi, qualora il danneggiante risulti insolvente o sconosciuto. Viene in tal modo costruita un’obbligazione compensativa a favore della vittima che, per quanto finalizzata alla tutela della libertà di circolazione, affonda le sue fondamenta nella presa di coscienza che la riparazione della vittima, costituisce un tassello fondamentale per la piena tutela dell’integrità della persona, presupposto imprescindibile per la fruizione della suddetta libertà.
Appare, dunque, evidente la convergenza dei diversi settori del diritto internazionale nell’ingenerare uno spostamento di prospettiva che guarda all’individuo come destinatario di diritti riconosciuti da norme internazionali, e come tale centro di diritti che, se violati, devono potere essere azionati senza che agli stessi possa essere opposto alcun termine prescrizionale.
Dalle suddette considerazioni derivano due corollari.
Se da un lato devono essere considerate imprescrittibili le azioni spettanti alla vittima per ottenere il right to redress per i crimini internazionali subiti, inclusi crimini di guerra e contro l’umanità; dall’altro lato, ove l’autore dei crimini risulti essere insolvente o non sia stato identificato, gli ordinamenti nazionali dovrebbero prevedere delle forme di responsabilità sussidiaria, sì da consentire un pronto ed effettivo ristoro e risarcimento dei danni subiti.
c) Il diritto alla riparazione nei sistemi di soft law
Tale prospettiva trova un riconoscimento nella decisione del CAT ove si sottolinea come, anche nell’ambito del sistema internazionale di c.d. soft law, il diritto alla riparazione della vittima di crimini come la tortura sia stato oggetto di una ricca proliferazione normativa: in tal senso si richiama la risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU n. 60/147 che, il 16 dicembre 2005, ha adottato i Basic Principles and Guidelines on the Right to a Remedy and Reparation for Victims of Gross Violations of International Human Rights Law and Serious Violations of International Humanitarian Law; sebbene tale documento sia privo di efficacia vincolante esso costituisce una fondamentale manifestazione di prassi internazionale che gli Stati dovrebbero adottare rispetto al tema della riparazione.
A conferma di quanto detto si ricorda che nel caso Prosecutor v. Thomas Lubanga Dyilo[24], la stessa Corte Penale Internazionale, chiamata a pronunciarsi, inter alia, ai sensi dell’art. 75 dello Statuto di Roma, ha riconosciuto che i Basic Principles, per quanto non vincolanti e concernenti illeciti di tipo differente rispetto a quelli di competenza della Corte, possono costituire un’adeguata “traccia interpretativa” (“appropriate guidance”) per elaborare i principi di riparazione nel contesto dello Statuto della CPI.
Non appare privo di rilievo, dunque, il richiamo nella decisione del CAT ai Basic Principles - e più precisamente ai Principi XV e XVII - che già, in casi analoghi, invitavano gli Stati ad attivarsi per primi nella corresponsione della riparazione alla vittima di gravi violazioni del diritto internazionale umanitario e del diritto internazionale dei diritti umani, salvo poi la possibilità per lo Stato di rivalersi sull’autore materiale dei crimini[25].
Le linee guida tracciate nei Basic Principles hanno ispirato l’adozione di uno dei pochi General Comments[26] alla Convenzione sulla Tortura e, in particolare, del General Comment No. 3 (2012)42 on the implementation of article 14 by State parties.
Il richiamo al contenuto del suddetto documento ha svolto un ruolo determinante nell’iter motivazionale della decisione del CAT. Sul punto deve rilevarsi che per quanto in dottrina siano sorti alcuni dubbi circa la loro valenza e circa la competenza del Comitato ad adottarli, non può tuttavia porsi in dubbio che i General Comments abbiano acquisito un significativo ruolo di strumento di interpretazione autentica degli obblighi convenzionali e, pur privi di effetti vincolanti, sono destinati ad espletare la loro valenza sul piano degli equilibri di politica internazionale[27].
In particolare, come evidenziato nella decisione in commento, il General Comment No. 3(2012) ha definito la struttura del diritto alla riparazione, ravvisandone una duplice natura, tanto sostanziale quanto procedurale.
Da un punto di vista sostanziale, infatti, il right to redress non può essere limitato al solo risarcimento pecuniario, dovendo includere ben cinque forme di riparazione: la restituzione, l’indennizzo, la riabilitazione, il diritto alla verità e le garanzie di non ripetizione. Per quanto attiene gli obblighi procedurali, si evidenzia che gli Stati Parte sono stati invitati ad intervenire con strumenti idonei a riempire di contenuto il diritto di cui all’art. 14 della Convenzione, in particolare tramite la creazione di strumenti di reclamo, compresi organi giudiziari indipendenti, in grado di riconoscere e determinare il diritto alla riparazione spettante alla vittima di tortura o altri crimini di guerra.
Proprio il General Comment, in virtù della duplice natura del diritto alla riparazione ed in considerazione dei caratteri di effettività e di accessibilità che devono contrassegnare la legislazione nazionale sul tema, aveva già ravvisato come la previsione di ogni termine prescrizionale risulterebbe incompatibile con gli obblighi di cui all’art. 14 della Convenzione, costituendo un inaccettabile ostacolo per il pieno godimento del right to redress[28].
In considerazione della rilevanza e della gravità di atti di violazione dei diritti umani ed avendo riguardo alla pervasività degli effetti che atti come la tortura producono sulla vittima, lo Stato non potrà (rectius potrebbe) invocare il minor stato di sviluppo del paese, a discolpa del mancato godimento di tutte le componenti del right to redress.
d) La ratio del right to redress previsto dall’art. 14 della Convenzione contro la Tortura e le conclusioni del Comitato.
Il Comitato, dunque, adottando una lettura teleologicamente orientata dei documenti sopra richiamati, ha evidenziato che la ratio del right to redress deve individuarsi nella necessità di garantire il totale ripristino della dignità della vittima, tramite la partecipazione ad un processo di riparazione che tenga conto delle caratteristiche del caso concreto e di cui lo Stato deve farsi carico.
L’inderogabilità di tale principio è corroborata dalla circostanza che il sopra richiamato General Comment No. 3, nel delineare i contenuti procedurali dell’obbligo di riparazione ha precisato che gli obblighi convenzionali discendenti dall’art. 14 della Convenzione, non possono essere elusi dagli Stati parte invocando un basso livello di sviluppo del paese[29]. Ne deriva che uno Stato parte non potrà considerarsi esente da doveri di tutela della vittima, così come declinati dall’art. 14 della Convenzione, sulla base della semplice circostanza che l’autore del crimine dalla stessa subito sia insolvente o non conosciuto. Diversamente argomentando, infatti, si giungerebbe alla conclusione di condizionare la componente risarcitoria del diritto alla riparazione della vittima alla capacità patrimoniale dell’autore del crimine.
Alla luce di tali indicazioni, le lacune normative dell’ordinamento giuridico bosniaco erano state già oggetto di precise attenzioni da parte tanto del Comitato contro la Tortura quanto del Comitato per i Diritti Umani.
In particolar modo nelle Concluding Observations on the sixth periodic report on Bosnia and Herzegovina[30], entrambi i citati treaty bodies dell’ONU - rispettivamente il 22 dicembre ed il 17 aprile 2017 - avevano richiamato lo Stato Parte per non avere ancora adottato il progetto di legge sulla protezione delle vittime della tortura e delle vittime civili di guerra ed il programma per i sopravvissuti alla violenza sessuale connessa ai conflitti (al vaglio del parlamento bosniaco già dal 2012). Inoltre, veniva espressamente criticata la pratica giurisprudenziale avviata dalla Corte Costituzionale bosniaca, in quanto considerata contraria agli obblighi convenzionali sul presupposto che il termine di prescrizione limitava “the ability of victims to effectively claim compensation”.
In conclusione il Comitato, oltre a riscontrare le carenze del sistema normativo bosniaco, ha concluso ribadendo l’obbligo per lo Stato parte di adempiere alle indicazioni fornite dalle richiamate Concluding Observation e di adottare una legge quadro che definisca con chiarezza i criteri per ottenere lo status di vittima di crimini di guerra, compresa la violenza sessuale, e che preveda i diritti specifici garantiti alle vittime, in tutto lo Stato.
6.Conclusioni.
Il Comitato contro la Tortura con questa innovativa decisione manifesta la presa di coscienza che una maggiore tutela delle vittime, finalizzata a ripristinare lo status quo ante bellum, è un passo necessario da compiere per adempiere alla missione di controllo del rispetto degli obblighi convenzionali e contribuire alla riconciliazione e ricostruzione delle aree interessate, sulla scia degli esempi offerti dalla giustizia penale internazionale, sempre più orientata verso un’ottica riconciliativa oltre che repressiva[31].
In chiave comparatistica, si può notare che l’attenzione riservata dalle fonti internazionali al tema della tutela della vittima da reato non è la stessa che si riscontra nella normativa processuale italiana, poco incline a riconoscere un ruolo effettivo alla vittima nell’ambito del processo penale. A ben guardare, la vittima come tale non viene neanche definita dall’ordinamento processuale penale italiano mancandone una espressa previsione e disciplina normativa tra i “soggetti” del processo, subordinandone la sua partecipazione solo ad una iniziativa di parte, tramite dichiarazione di costituzione di parte civile. Potrebbe allora scorgersi, anche alla luce dei passaggi argomentativi della decisione in esame, la necessità che il sistema italiano appronti un coinvolgimento maggiore della vittima nelle dinamiche processuali, non solo in una ottica squisitamente probatoria, così come appare necessaria una garanzia che accerti l’equa riparazione dei danni psicologici, morali e materiali subiti come conseguenza diretta del reato.
Ciò detto, deve osservarsi che il rilievo della decisione in esame si apprezza maggiormente se si considerano i numerosi e sistematici atti di violenza sessuale che sono stati compiuti durante il conflitto balcanico e, in particolare ma non esclusivamente, nell’area territoriale della Bosnia Erzegovina, divenuta tristemente famosa per i c.d. “campi di stupro finalizzati alla pulizia etnica”[32]: secondo una stima probabilmente al ribasso, infatti, sarebbero circa 20,000 le donne bosniache che sono state vittime di violenze sessuale e che ancora oggi sono rimaste senza giustizia.
Non può non concludersi tuttavia che, data la non vincolatività delle decisioni del Comitato, l’effettiva implementazione delle misure indicate nella decisione che dovrebbero costituire delle imprescindibili guidelines, viene a dipendere pressoché esclusivamente dalla volontà dello Stato, che, per quanto nel caso di specie abbia quasi interamente accolto le argomentazioni della comunicazione presentata da Mrs. A., si è mostrato particolarmente inefficiente nell’accordare la tutela dovuta alla vittima, nonostante i richiami che allo stesso erano stati rivolti, dallo stesso CAT, già nel 2017.
[1]L’articolo è stato redatto con la collaborazione della Dott.ssa Marta Durante, tirocinante ex art. 73 D.L. 69/2013 presso la Procura della Repubblica di Palermo.
[2]Cfr. Art. 3 CEDU; art. 4 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea; art. 5 della Carta africana sui diritti dell’uomo e dei popoli dell’Organizzazione dell’Unità Africana.
[3]Insieme al Comitato contro la Tortura vi sono altri sette treaty bodies: Comitato sui diritti economici, sociali e culturali (1976); Comitato per i diritti umani, diritti civili e politici (1976); il Comitato contro la discriminazione razziale (1969); il Comitato per l’eliminazione delle discriminazioni nei confronti delle donne (1979); il Comitato sui diritti dell’infanzia (2002); il Comitato sui diritti dei lavoratori migranti (2003); il Comitato sui diritti delle persone con disabilità (2008); il Comitato sulle sparizioni forzata (2010).
[4] Alla donna e alla figlia è stato concesso l’anonimato a tutela delle vittime del reato di tortura, assegnando loro rispettivamente gli pseudonimi di Mrs. A. e Mrs. E.
[5] Villaggio che si trova all’interno del Comune di Vogosca – vicino Sarajevo - un’area che all’epoca dei fatti era sotto il controllo delle forze della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina (Republika Srpska).
[6] Secondo le osservazioni dello Stato, l’ammontare della pensione ammonterebbe a 59494 marchi bosniaci
[7] Art. 376, Law on Civil Obligations.
[8] Il 4 giugno 2003 la Bosnia Ed Erzegovina ha presentato la dichiarazione prevista ai sensi dell’art. 22 CAT riconoscendo la competenza del Comitato a ricevere comunicazioni da soggetti privati.
[9] Cfr. in proposito Comitato contro la Tortura, Case Gerasimov v. Kazakhstan, Communication No. 433/2010, ON Doc. CAT/C/48/D/433/2010, par. 11.2: «The Committee notes that the State party contests the Committee’s competence ratione temporis on grounds that the torture complained of (27 March 2007) and the last procedural decision of 1 February 2008 refusing to open a criminal case occurred before Kazakhstan made the declaration under article 22 of the Convention. The Committee recalls that a State party’s obligations under the Convention apply from the date of its entry into force for that State party. It can examine alleged violations of the Convention which occurred before a State party’s recognition of the Committee's competence under article 22 if the effects of these violations continued after the declaration, and if the effects constitute in themselves a violation of the Convention.»
[10] Si pensi all’art. 35 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo: “La Corte non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne, come inteso secondo i principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti ed entro un periodo di sei mesi a partire dalla data della decisione interna definitiva”.
[11] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Caso Ferreira Alves c. Portogallo (n. 6), ric. n.46436/06, par. 28-29.
[12] Ai sensi dell’art.1, par. 1 della Convenzione: «il termine “tortura” designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o si intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad essere inerenti o da esse provocate».
[13] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Caso Aydin c. Turchia, 25 settembre 1997, ric. n. 23178/1994, aveva osservato che «[w]hile being held in detention the applicant was raped by a person whose identity has still to be determined. Rape of a detainee by an official of the State must be considered to be an especially grave and abhorrent form of ill-treatment given the ease with which the offender can exploit the vulnerability and weakened resistance of his victim. Furthermore, rape leaves deep psychological scars on the victim which do not respond to the passage of time as quickly as other forms of physical and mental violence. The applicant also experienced the acute physical pain of forced penetration, which must have left her feeling debased and violated both physically and emotionally. […]Against this background the Court is satisfied that the accumulation of acts of physical and mental violence inflicted on the applicant and the especially cruel act of rape to which she was subjected amounted to torture in breach of article 3 of the Convention», par. 83-86.
[14]Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia, Prosecutor v. Zejnil Delalij e altri, 16 Novembre 1998, IT-96-21-T.
[15] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Caso Aydin c. Turchia, 25 settembre 1997, ric. n. 23178/1994, aveva osservato che «[w]hile being held in detention the applicant was raped by a person whose identity has still to be determined. Rape of a detainee by an official of the State must be considered to be an especially grave and abhorrent form of ill-treatment given the ease with which the offender can exploit the vulnerability and weakened resistance of his victim. Furthermore, rape leaves deep psychological scars on the victim which do not respond to the passage of time as quickly as other forms of physical and mental violence. The applicant also experienced the acute physical pain of forced penetration, which must have left her feeling debased and violated both physically and emotionally. […]Against this background the Court is satisfied that the accumulation of acts of physical and mental violence inflicted on the applicant and the especially cruel act of rape to which she was subjected amounted to torture in breach of article 3 of the Convention».
[16] La decisione del Tribunale per il Ruanda in Prosecutor v. Akayesu, emessa il 2 settembre 1998, è storicamente riconosciuta la prima sentenza ad avere accertato che atti di violenza sessuale possono essere perseguiti come elementi costitutivi di una campagna di genocidio.
[17] Corte Penale Internazionale, Belgio v. Senegal, Questions relating to the Obligation to Prosecute or Extradite, Decisione, I.C.J. Reports 2012, par. 99 «the prohibition of torture is part of a customary international law and it has become a peremptory norm (jus cogens)». Si vedano altresì, inter alia, Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia, Prosecutor v. Anto Furundzija, 10 dicembre 1998, IT-95-17/1-T, par. 144; Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Al-Adsani c. the United Kingdom, App. No. 35763/97, sent. 21 novembre 2001, par. 60.
[18] E. Ruozzi, Il risarcimento come forma di riparazione per la violazione di diritti umani tra responsabilità internazionale degli Stati e soggettività internazionale dell’individuo, in federalismi.it, Focus Human Rights n.2/2017, 27 luglio 2017.
[19] Lo stesso Comitato contro la Tortura nel General Comment No. 1: implementation of article 3 of the Convention in the context of article 22 (Refoulement and Communications), 22 novembre 1997, in A/53/44, allegato IX affermava di non essere «an appellate, a quasi-judicial or an administrative body, but rather a monitoring body created by the states parties themselves with declaratory powers only».
[20] L’unica menzione della vittima nello Statuto del Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia è contenuta all’articolo 22, che si occupa di disciplinare la protezione accordata alle vittime e ai testimoni prima, durante e dopo il dibattimento.
[21] F. Trappella, Dal genocidio al ginocidio. Spunti per una riflessione sulla tutela della vittima secondo I tribunali penali internazionali, in Cassazione Penale, fasc. 11, 1 novembre 2017, pag. 4211B.
[22] Ai sensi dell’art. 75 dello Statuto di Roma la Corte ha il potere di«establish principles relating to reparations to, or in respect of, victims, including restitution, compensation and rehabilitation. On this basis, in its decision the Court may, either upon request or on its own motion in exceptional circumstances, determine the scope and extent of any damage, loss and injury to, or in respect of, victims and will state the principles on which it is acting»
[23] E. Ruozzi, Il risarcimento come forma di riparazione, cit.
[24] Corte Penale Internazionale, Decisione ICC-01/04-01/06-1119, Decision on Victims' Participation, Prosecutor v. Thomas Lubanga Dyilo, TC I, 18 gennaio 2008 (par. 35 e 92) e Decisione ICC-01/04-01/06-2904, Decision establishing the principles and procedures to be applied to reparations, TC I, 7 agosto 2012 (par. 185).
[25]Il Principio XV dei Basic Principle stabilise che «Adequate, effective and prompt reparation is intended to promote justice by redressing gross violations of international human rights law or serious violations of international humanitarian law. Reparation should be proportional to the gravity of the violations and the harm suffered. In accordance with its domestic laws and international legal obligations, a State shall provide reparation to victims for acts or omissions which can be attributed to the State and constitute gross violations of international human rights law or serious violations of international humanitarian law. In cases where a person, a legal person, or other entity is found liable for reparation to a victim, such party should provide reparation to the victim or compensate the State if the State has already provided reparation to the victim.»; ai sensi del Principio XVII: «States shall, with respect to claims by victims, enforce domestic judgements for reparation against individuals or entities liable for the harm suffered and endeavour to enforce valid foreign legal judgements for reparation in accordance with domestic law and international legal obligations. To that end, States should provide under their domestic laws effective mechanisms for the enforcement of reparation judgements.»
[26] Gli altri due General Comments, risalenti al 2008 e al 2017, hanno riguardato l’art. 2 della Convenzione relativo all’obbligo degli Stati Parte di adottare i provvedimenti necessari ad impedire il compimento di atti di tortura nel territorio sottoposto alla loro giurisdizione (General Comment No. 2, Implementation of article 2 by States parties, UN Doc. CATC/GC/2) e l’art. 3 sul principio di non-refoulement in relazione alla presentazione di comunicazioni individuali davanti al Comitato ai sensi dell’art. 22 della Convenzione (General Comment No.4(2017) on the implementation of article 3 of the Convention in the context of article 22, UN Doc. CAT/C/GC/4).
[27] F. Zorzi Giustiniani, Divieto di non-refoulement e tortura. Osservazioni in margine al General Comment n. 4 alla Convenzione ONU contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 1984, in federalismi.it , Focus on Human Rights, 29 ottobre 2018.
[28] Il citato General Comment No. 3(2012) aveva annoverato la prescrizione all’interno di una elencazione esemplificativa (“include but not limited to”) di istituti (come anche l’amnistia e l’indulto) che costituiscono ostacoli inaccettabili per il pieno godimento del right to redress (par. 38).
[29]General Comment No. 3(2012), cit., par. 37 – 40.
[30]Comitato contro la Tortura, Concluding Observations on the sixth periodic report on Bosnia and Herzegovina, CAT/C/BIH/CO/6, 22 dicembre 2017, par. 18 -19; Comitato per Diritti Umani, Concluding Observations on the sixth periodic report on Bosnia and Herzegovina, CCPR/C/BIH/CO/3, 13 aprile 2017, par. 17 – 18.
[31] Sul punto si veda G. Fiandaca, (2009), I crimini internazionali tra punizione, riconciliazione e ricostruzione, in G. Fiandaca -C. Visconti, Punire, mediare, riconciliare. Dalla giustizia penale internazionale all’elaborazione dei conflitti individuali, Giappichelli, Torino 2009, pp. 13-22.
[32] Cfr. Tribunale Internazionale Penale per la ex Jugoslava, Caso Procurator v. Kunarac e altri, 22 febbraio 2001, IT-96-23-T& IT-96-23/1-T . I tre imputati, miliziani serbo-bosniaci, sono stati condannati per sistematici atti di stupro, verificatisi tra il 1992 e il 1993, ai danni di due giovani donne musulmane, residenti nel centro di Foca. Il piano era finalizzato ad eliminare la maggioranza islamica residente nella zona.
Diritto dell’Unione europea e doppia pregiudizialità nel dialogo tra le corti (seconda parte)
di Franco De Stefano*
Sommario: 1. La questione della c.d. doppia pregiudizialità sui diritti fondamentali fino al 2017. - 2. Le nuove prospettive aperte dalla Corte costituzionale alla fine del 2017. - 3. Gli scenari aperti agli inizi del 2018: la Corte di cassazione dinanzi agli immediati richiami di Lussemburgo. - 4. Gli sviluppi del 2019 della giurisprudenza della Corte costituzionale. - 5. Tra le due teorie contrapposte.
1. La c.d. doppia pregiudizialità: la questione sui diritti fondamentali fino al 2017
La questione dell’obbligo del giudice nazionale di disapplicazione in caso di impossibilità di interpretazione conforme in tema di diritti fondamentali è divenuta di particolare importanza, visto che questi, come codificati nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea in conformità alle «tradizioni costituzionali comuni», in larga parte finiscono con il coincidere con quelli garantiti anche – ma, forse più correttamente, «già» – da molte delle Costituzioni nazionali, tra cui la nostra: ciò che è reso evidente nella vicenda appena esaminata (Taricco e Taricco-bis)[1], ma che può agevolmente prospettarsi per il futuro, soprattutto per l’ampiezza della nozione di quei diritti, anche in campo procedurale, riconosciuta in base all’elaborazione nazionale e sovranazionale (e, quanto a quest’ultima, soprattutto della Carta europea dei diritti dell’Uomo).
Ora, fino almeno alla fine del 2017, la simultanea presenza di una questione di pregiudizialità costituzionale e di una pregiudizialità eurounitaria, per i sospetti di contrasto della norma nazionale con la Costituzione italiana e con il diritto dell’Unione, avrebbe comportato la necessità della previa verifica di compatibilità della norma nazionale con quest’ultimo – se del caso, dopo il rinvio pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo per aver conferma dell’esatto ambito di applicazione – e[2]:
- in caso di esito negativo della verifica, alla non applicazione della norma nazionale stessa;
- in caso positivo della verifica, della sottoposizione della sola residua questione di legittimità costituzionale alla Consulta.
2. Le nuove prospettive aperte dalla Corte costituzionale alla fine del 2017.
La recente e significativa innovazione di Corte cost. n. 269 del 2017 sta in ciò che, sia pure in una sentenza di inammissibilità e di rigetto delle questioni di costituzionalità ad essa sottoposte, «laddove una legge sia oggetto di dubbi di illegittimità tanto in riferimento ai diritti protetti dalla Costituzione italiana, quanto in relazione a quelli garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea in ambito di rilevanza comunitaria, [deve] essere sollevata la questione di legittimità costituzionale, fatto salvo il ricorso al rinvio pregiudiziale per le questioni di interpretazione o di invalidità del diritto dell’Unione, ai sensi dell’art. 267 del TFUE».
Il delicato rapporto tra questione di costituzionalità e questione di compatibilità eurounitaria è quindi sensibilmente modificato[3].
La prima premessa è che già la Corte di giustizia aveva ancora di recente escluso[4] che il diritto dell’Unione, in particolare l’art. 267 TFUE, ostasse ad una normativa nazionale che imponesse ai giudici ordinari di sollevare incidente di costituzionalità, qualora ritenessero una legge nazionale contraria a disposizioni della CDFUE, purché detti giudici restassero liberi:
- di sottoporre alla Corte di giustizia, «in qualunque fase del procedimento ritengano appropriata e finanche al termine del procedimento incidentale di controllo generale delle leggi, qualsiasi questione pregiudiziale a loro giudizio necessaria»;
- di «adottare qualsiasi misura necessaria per garantire la tutela giurisdizionale provvisoria dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione»;
- di disapplicare quindi, al termine del giudizio incidentale di legittimità costituzionale, la disposizione legislativa nazionale in questione che avesse superato il vaglio di costituzionalità, ove, per altri profili, ritenuta contraria al diritto dell’Unione.
L’affermazione è stata, con singolare tempism, ribadita sottolineandosi che l’art. 267, paragrafo 3, TFUE deve essere interpretato nel senso che il giudice nazionale le cui decisioni non sono impugnabili con un ricorso giurisdizionale è tenuto, in linea di principio, a procedere al rinvio pregiudiziale di una questione di interpretazione del diritto dell’Unione anche nel caso in cui, nell’ambito del medesimo procedimento nazionale, la Corte costituzionale dello Stato membro di cui trattasi abbia valutato la costituzionalità delle norme nazionali alla luce delle norme di riferimento aventi un contenuto analogo a quello delle norme del diritto dell’Unione[5].
La seconda premessa è la maggiore valenza, anche nel sistema multilivello[6] di tutela dei diritti (fondamentali?) della persona, di una dichiarazione di illegittimità costituzionale, siccome erga omnes e comunque il carattere fondamentale del sindacato accentrato di costituzionalità delle leggi nell’architettura costituzionale.
Ne consegue che, investita – evidentemente in via prioritaria e quindi per prima – della questione che presenti aspetti di doppia pregiudizialità, la Consulta «giudicherà alla luce dei parametri interni ed eventualmente di quelli europei (ex artt. 11 e 117 Cost.), secondo l’ordine di volta in volta appropriato, anche al fine di assicurare che i diritti garantiti dalla citata Carta dei diritti siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali, pure richiamate dall’art. 6 del Trattato sull’Unione europea e dall’art. 52, comma 4, della CDFUE come fonti rilevanti in tale ambito». E richiama l’analoga conclusione di altre Corti costituzionali nazionali di antica tradizione, come quella austriaca, con sentenza 14 marzo 2012 (U 466/11-18; U 1836/11-13).
3. Gli scenari aperti agli inizi del 2018. La Corte di Cassazione dinanzi agli immediati richiami di Lussemburgo
Anche questa pronuncia della Corte costituzionale ha suscitato vivissimi dibattiti e la Corte di cassazione italiana ha, almeno in alcune delle prime pronunce applicative, aderito al nuovo principio[7], proponendo in via prioritaria la questione di legittimità costituzionale di una norma sospettata di contrasto anche con il diritto dell’Unione e rimettendo alla Consulta la valutazione dell’opportunità di investire la Corte di giustizia del relativo rinvio pregiudiziale e sollecitandola a chiarire alcuni aspetti non del tutto chiari della precedente sentenza n. 269 del 2017 in ordine agli sviluppi del giudizio, soprattutto per la sopravvivenza anche ad una valutazione di costituzionalità (nazionale) della norma del potere del giudice nazionale di disporre il rinvio pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo[8].
Con una singolare concomitanza, questa ha del resto negli stessi giorni[9] ribadito che «l’efficacia del diritto dell’Unione rischierebbe di essere compromessa e l’effetto utile dell’articolo 267 TFUE risulterebbe sminuito se, a motivo dell’esistenza di un procedimento di controllo di costituzionalità, al giudice nazionale fosse impedito di sottoporre questioni pregiudiziali alla Corte e di dare immediatamente [enfasi aggiunta] al diritto dell’Unione un’applicazione conforme alla decisione o alla giurisprudenza della Corte» (§ 23); sicché «l’articolo 267, paragrafo 3, TFUE deve essere interpretato nel senso che il giudice nazionale le cui decisioni non sono impugnabili con un ricorso giurisdizionale è tenuto, in linea di principio, a procedere al rinvio pregiudiziale di una questione di interpretazione del diritto dell’Unione anche nel caso in cui, nell’ambito del medesimo procedimento nazionale, la Corte costituzionale dello Stato membro di cui trattasi abbia valutato la costituzionalità delle norme nazionali alla luce delle norme di riferimento aventi un contenuto analogo a quello delle norme del diritto dell’Unione».
Fino ad ora la Corte di cassazione ha tenuto un atteggiamento non univoco, muovendosi tra il formale ossequio al carattere prioritario delineato da Corte cost. n. 269/17 e la disapplicazione dei principi da questa desunti, con riaffermazione della diretta immediata applicabilità del diritto eurounitario, oppure della diretta immediata formulabilità del rinvio pregiudiziale a Lussemburgo.
Con una prima impostazione[10] si è dato pienamente seguito alle indicazioni fornite nella sentenza n. 269/2017: dinanzi ad un duplice caso di doppia pregiudizialità (concernente due distinte ed autonome disposizioni del decreto legislativo n. 58/1998, il c.d. T.U.F., entrambe sospettate di ledere diverse disposizioni della CDFUE e della Costituzione italiana), è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale[11].
Pochi mesi dopo la stessa Cassazione, con due pronunce pubblicate a pochi giorni di distanza l’una dall’altra[12], ha tracciato una strada alternativa a quella percorsa dalla Seconda Sezione della Suprema Corte, perché ha ritenuto immediatamente disapplicabile, senza necessità di sollevare l’incidente di costituzionalità, una normativa interna contrastante con il divieto di discriminazione tra uomo e donna; e tanto eludendo il tema posto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 269/17, sostanzialmente affermando che la relativa pronuncia - oltre che di per sé stessa non vincolante, in quanto espressa con obiter dictum - non era comunque rilevante nella fattispecie sottoposta al suo esame.
In altra occasione, anzi, è stato manifestato un aperto dissenso con Corte cost. n. 269/17: dubitandosi della compatibilità di una norma interna con il divieto di discriminazione per età contenuto nella direttiva 2000/78 e nell’articolo 21 CDFUE, è stato direttamente proposto il rinvio pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia dell’Unione europea, dando espressamente atto di non ritenere necessario seguire le indicazioni rivolte dalla Corte costituzionale al giudice ordinario nella sentenza n. 269/2017.
Non sono mancate diverse linee interpretative, ora tali da ricondurre la pregiudiziale eurounitaria ad una questione di legittimità costituzionale[13], ora invece, benché in ragione della peculiarità della fattispecie, tali da elidere in radice la stessa configurabilità della doppia pregiudizialità[14].
4. Gli sviluppi del 2019 della giurisprudenza della Corte costituzionale.
Anche all’esito delle sollecitazioni della Corte di cassazione, la Consulta è tornata sull’argomento a più riprese nel corso del 2019[15].
Già era stato notato[16] come la 269/17 avesse diversificato l’ambito del giudizio di legittimità a seconda che il parametro interposto nella denuncia di violazione dell’art. 117, comma 1, fosse rappresentato da una norma della CDFUE o da altra norma dell’ordinamento eurounitario: nel primo caso poteva porsi un problema di bilanciamento, «cui provvede il giudice costituzionale»; nel secondo, andava apprezzata l’esistenza di un contrasto tra norma interna e norma dell’Unione e verificata la possibilità di diretta applicazione da parte del giudice comune ovvero il suo interpello interpretativo alla Corte di giustizia, previo se del caso esito negativo del controllo di costituzionalità interno.
Già con la successiva sentenza n. 20/2019[17], la Consulta ha precisato che il giudice comune può sollevare il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia anche per gli stessi profili su cui si sia già pronunciata la Corte costituzionale e non solo su altri profili, come sembrava presupporre la 269/17.
Restava ancora, tuttavia, una seria perplessità su cosa potesse succedere dopo il rinvio pregiudiziale e l’eventuale dichiarazione di collisione tra norma nazionale e parametro della Carta UE: ci si era domandati se ciò fosse sufficiente per disapplicare la norma interna o avesse imposto di rivolgersi comunque alla Corte costituzionale, così ridimensionando il ruolo della Corte di giustizia; senza tacere il sospetto[18] che fosse stato in ogni caso riaffermato il riaccentramento del sindacato di costituzionalità, perché la Corte costituzionale si era comunque pronunciata nel merito, pur in presenza di violazione di norme eurounitarie di carattere autoapplicativo.
Con la sentenza n. 63 del 2019 la Consulta si è mossa nel senso di una revisione-integrazione della problematica dei rapporti[19]; e, con l’occasione, ha affermato che non le è precluso «l’esame nel merito delle questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento sia a parametri interni, anche mediati dalla normativa interposta convenzionale, sia – per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. – alle norme corrispondenti della Carta che tutelano, nella sostanza, i medesimi diritti; e ciò fermo restando il potere del giudice comune di procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, e - ricorrendone i presupposti - di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta»[20].
Si è osservato che in tal modo[21] risultano in parte neutralizzate le conseguenze più temute della sentenza n. 269, perché la facoltà di rivolgersi direttamente alla Corte di giustizia potrebbe portare, in caso di risposta volta alla disapplicazione della norma interna, a escludere un ruolo del giudice costituzionale, salvo che si prospetti una lesione dei cd. «controlimiti».
Ma si è pure prospettato[22] il rischio che il giudice comune, comunque rivolgendosi alla Corte costituzionale, entri in un cortocircuito che lo porti a dover applicare la norma eurounitaria e, contemporaneamente, a sollevare la questione di costituzionalità: argomento al quale si è contrapposta la fiducia nella saggezza del giudice costituzionale, che, in un caso del genere, dovrebbe considerare doverosa l’applicazione della pronuncia della CGUE che avesse come fondamento una violazione della CDFUE che esprime medesimi valori.
Infine, con l’ordinanza n. 117/2019 la Corte costituzionale[23] ha scelto di rivolgersi prioritariamente alla CGUE per chiederle un chiarimento sull’esatta interpretazione della norma e sulla sua validità alla luce degli artt. 47 e 48 CDFUE, nonché dell’art. 30 del regolamento (UE) n. 596/14; e lo ha chiesto anche in relazione ai richiami agli ordinamenti nazionali contenuti nella direttiva in materia. La Corte si è chiesta, per l’ipotesi in cui lo Stato possa non sanzionare chi si rifiuti di rispondere, se una eventuale propria declaratoria di incostituzionalità sia in contrasto con il diritto dell’Unione; per l’ipotesi contraria – e cioè di legittimità del mantenimento della sanzione – si interroga sulla compatibilità della sanzione del diritto di non rispondere con gli artt. 47 e 48 della CDFUE, come interpretato alla luce della giurisprudenza della Corte EDU e delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri.
In apparenza parrebbe adottata una soluzione di segno opposto a quella presa nella sentenza n. 269/2017 e che lascia, cioè, al giudice europeo l’ultima parola e risolve il quesito formativo che è stato posto sulla Carta di Nizza: a chi spetti la prima parola e l’ultima.
5. Tra le due teorie contrapposte
Il dialogo tra le Corti continua quindi intenso e gli sviluppi del 2019 della giurisprudenza della Consulta non sono ancora del tutto chiari; è seguita un’eccezionale fioritura di commenti e di interventi, divisi tra i sostenitori della primazia del controllo interno e quelli della primazia del controllo eurounitario, in un vero e proprio scontro che pare riecheggiare quello tra euroscettici ed euroentusiasti: scontro la cui eccezionale ricchezza non può adeguatamente, in questa sede, neppure essere presa in considerazione, risultando piuttosto indispensabile rinviare alle cospicue elaborazioni delle due parti, talvolta in aperta contrapposizione.
Basti solo ricordare che utili argomenti a favore dell’una e dell’altra delle conclusioni estreme possono trarsi sia dalla teoria generale del diritto che, più in particolare, dal diritto costituzionale e da quello eurounitario; ciascuna delle due è ispirata alla rivendicazione, comprensibilmente gelosa, delle rispettive prerogative ed alla difesa della propria identità ed autonomia.
Eppure, già nell’immediatezza della 269 del 2017 si era annotato[24] che la sovrapposizione delle tutele non avrebbe dovuto, per evitare un’impropria e nefasta eterogenesi dei fini, comportarne la limitazione o la compressione; pertanto, neppure un diverso ordine – logico e procedimentale – dei rimedi avrebbe dovuto consentire l’una e l’altra: in sostanza, tutte le Corti, per quanto condivisibilmente a difesa delle rispettive prerogative, dovrebbero concorrere all’effettività della tutela dei diritti fondamentali ed evitare che, per impropri conflitti tra esse, questa ne risulti sminuita o limitata.
Ove non fosse stato possibile fare ricorso a categorie generali dell’interpretazione, come la mera apparenza del conflitto tra norme o perfino il principio di specialità (visto che i diritti fondamentali hanno, in ultima analisi, un significato equivalente nella loro accezione costituzionale e in quella eurounitaria, attesa l’elaborazione dei relativi concetti e la reciproca interazione riconosciuta ad ogni livello), non era parso possibile, effettivamente e se non a prezzo di un conflitto lacerante e potenzialmente letale con l’ordinamento eurounitario, privare il giudice nazionale della potestà di sottoporre sempre e comunque la questione di conformità della norma interna alla Corte di giustizia, quindi anche prima del vaglio di costituzionalità o nonostante perfino il suo previo positivo superamento.
In termini ancora più generali, la compresenza e così la contemporanea vigenza ed operatività dei due ordinamenti e dei relativi livelli di tutela non si era ritenuta idonea ad escludere o perfino precludere la simultanea proposizione dei procedimenti finalizzati a fare valere la contrarietà dell’unica norma ai due paradigmi di riferimento, essendo davvero arduo ipotizzare una subordinazione, anche solamente cronologica, dell’uno all’altro.
E si era pure ipotizzato che, qualora fosse intervenuta la pronuncia della Corte costituzionalità nel senso della sua illegittimità costituzionale, la questione sarebbe venuta meno appunto erga omnes e neppure avrebbe avuto più senso insistervi dinanzi alla Corte di giustizia[25]; ove la Consulta non avesse espunto la norma dal nostro ordinamento, sarebbe rimasta invece pienamente operativa la giurisdizione di Lussemburgo e gli effetti del suo pronunciamento, che eventualmente avessero avuto esiti divergenti rispetto a quelli della Consulta, avrebbero vincolato di certo il giudice a quo, ma pure - con l’efficacia propria dell’interpretazione del diritto eurounitario da parte della Corte di giustizia - gli altri giudici nazionali.
Se, viceversa, fosse intervenuta prima della Consulta la decisione della Corte di giustizia, la prima avrebbe conservato ovviamente i suoi poteri di verifica della conformità alla Costituzione e, in ultima analisi ed a seconda del livello del conflitto che potenzialmente ancora ne residuasse, ai principi fondanti o alle tradizioni costituzionali proprie del nostro ordinamento, onde inferirne conseguenze analoghe a quelle tracciate ad epilogo della vicenda Taricco-bis.
Si tratta, in ultima analisi, della teoria della simultanea proposizione delle due pregiudizialità[26] e quindi dei rimedi: teoria che, a ben vedere, potrebbe costituire la via di uscita dal circolo vizioso, ancor più di quella, suggestiva ma pur sempre ancorata alla possibilità di un’interpretazione conforme favorevole, dell’integrazione delle tutele apprestate dalle fonti a loro volta tra loro integrate, dalla tensione dei diversi orizzonti ordinamentali a convergere affiancandosi senza confliggere né sovrapporsi[27].
In buona sostanza, non si discuterebbe di ordine logico o di priorità dei due ordinamenti, visto che entrambi operano su piani concorrenti, ma niente affatto mutuamente esclusivi, in quanto anzi reciprocamente integrantisi. Proprio la diversità e la contemporanea operatività dei due livelli esclude che la simultanea attivazione dei due controlli, del resto, elida in radice la funzione e neppure l’utilità di quello che fosse, per mere questioni di contingenza, risolto per secondo.
Una volta sperimentata, in applicazione dei criteri ermeneutici propri della tradizione nazionale e di quella comune agli Stati membri, l’impossibilità di un’interpretazione della norma conforme alla disciplina eurounitaria e a quella costituzionale interna di analogo ambito o contenuto, il giudice nazionale comune è infatti contemporaneamente soggetto a due obblighi, entrambi derivanti direttamente dal complessivo assetto ordinamentale in cui è inserito: quello di rivolgersi alla Corte di Lussemburgo per l’esatta definizione del contenuto della norma eurounitaria e quello di rimettere alla Corte costituzionale italiana la risoluzione della questione, non manifestamente infondata (oltre che rilevante), del contrasto della norma con la Costituzione nazionale.
L’ambito e gli effetti dei due controlli sono differenti: se è vero che l’efficacia di quello della Corte di Giustizia è solo indirettamente equiparabile a quella erga omnes, è altrettanto innegabile che l’estensione paneuropea del relativo arresto non potrebbe che giovare all’elaborazione del diritto eurounitario nel suo complesso e quindi a dare indirettamente maggior contenuto anche alla norma interna e perfino a quella costituzionale; simmetricamente, se è vero che il controllo della Corte costituzionale sarebbe ovviamente limitato ai confini nazionali, la sua elaborazione potrebbe ben concorrere a quella delle nozioni sottese agli istituti da applicarsi dalla Corte di Lussemburgo e quindi da estendersi a tutto il territorio dell’Unione.
Il dato formale non sarebbe di ostacolo, per quanto già notato nell’immediatezza di Corte cost. 269/17: a parte la possibilità di una feconda attività di interlocuzione anche reciproca, come ha dimostrato proprio la nostra Corte costituzionale e proprio con l’ordinanza n. 117/19 oppure con la celebre vicenda Taricco-bis, si potrebbe auspicare il ripensamento delle posizioni di self-restraint in caso di cessazione della rilevanza della questione (ad esempio, proprio in dipendenza della risoluzione del dubbio da parte dell’altra delle due Corti, che giunga per prima ad escludere la legittimità dell’interpretazione o della stessa norma) e l’adozione di autentici obiter dicta a valere quali autentici prospective overruling e comunque in grado di apportare significativi apporti agli sviluppi futuri del dibattito in corso.
Neppure l’ipotesi, per la verità di scuola, di un conflitto autentico tra le due interpretazioni, nel senso cioè di una contrarietà ad uno solo dei due ordinamenti non riconosciuta anche dall’altro, impedirebbe una feconda interazione tra le due Corti: ad esempio, esponendo in prevenzione le conseguenze negative nel tentativo di indurre il coprotagonista del dialogo ad un ripensamento e, in ultima analisi e quale extrema ratio o ultima Thule, non dimenticando comunque che, per l’assetto costituzionale attuale, comunque avrebbero applicazione i controlimiti (per il caso in cui il diritto eurounitario imponesse soluzioni inaccettabili per i principi irrinunciabili dell’ordinamento nazionale), attraverso beninteso la valutazione istituzionalmente riservata alla Corte costituzionale.
* Seconda parte della relazione tenuta sul tema “Rapporti tra diritto dell’Unione europea e principi fondamentali dell’ordinamento italiano nel dialogo tra le Corti” nell'ambito dell'incontro di studi organizzato dalla Struttura per la Formazione decentrata della Scuola Superiore della Magistratura in Firenze il 29/01/2020 avente ad oggetto “Il ruolo del giudice nazionale nell’attuazione del diritto dell’Unione europea”.
L’autore è consigliere della Corte suprema di cassazione, assegnato dal 2010 alla terza sezione civile e dal 2016 alle sezioni unite civili – componente, dalla sua istituzione a gennaio 2016, del gruppo dei referenti per i protocolli di intesa tra la Corte suprema di cassazione e la Corte europea dei diritti dell’Uomo e, poi, la Corte di Giustizia dell’Unione europea.
[1] F. De Stefano, Diritto dell’Unione europea e tradizioni costituzionali nel dialogo tra le Corti, in questa Rivista, in corso di pubblicazione.
[2] Corte di Cassazione, ordinanza del 16 febbraio 2018, n. 3831, che al riguardo cita, al suo punto 11.3.6.7, Corte costituzionale, ordinanza del 18 luglio 2013, n. 207, nonché Corte costituzionale, ordinanza del 2 marzo 2017, n. 48, come pure Corte costituzionale, sentenza 12 maggio 2017, n. 111.
[3] L’esordio è significativo: «Una precisazione si impone alla luce delle trasformazioni che hanno riguardato il diritto dell’Unione europea e il sistema dei rapporti con gli ordinamenti nazionali dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea e alcuni atti connessi, fatto a Lisbona il 13 dicembre 2007, ratificato ed eseguito dalla legge 2 agosto 2008, n. 130 (Ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea e alcuni atti connessi, con atto finale, protocolli e dichiarazioni, fatto a Lisbona il 13 dicembre 2007), che, tra l’altro, ha attribuito effetti giuridici vincolanti alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 (da ora: CDFUE), equiparandola ai Trattati (art. 6, paragrafo 1, del Trattato sull’Unione europea)».
[4] Corte di giustizia, sentenza del dì 11 settembre 2014, A c. B e altri, causa C-112/13; Corte di giustizia, Grande Camera, sentenza del 22 giugno 2010, Melki e Abdeli in cause C-188/10 e C-189/10.
[5] Corte di giustizia, sentenza del 20 dicembre 2017, Global Starnet, causa C-322/16).
[6] Esplicito il richiamo: «il tutto, peraltro, in un quadro di costruttiva e leale cooperazione fra i diversi sistemi di garanzia, nel quale le Corti costituzionali sono chiamate a valorizzare il dialogo con la Corte di giustizia (da ultimo, ordinanza n. 24 del 2017), affinché sia assicurata la massima salvaguardia dei diritti a livello sistemico (art. 53 della CDFUE)». Ed esplicito anche l’ossequio, almeno formale, al primato del diritto eurounitario: «Fermi restando i principi del primato e dell’effetto diretto del diritto dell’Unione europea come sin qui consolidatisi nella giurisprudenza europea e costituzionale, occorre prendere atto che la citata Carta dei diritti costituisce parte del diritto dell’Unione dotata di caratteri peculiari in ragione del suo contenuto di impronta tipicamente costituzionale. I principi e i diritti enunciati nella Carta intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana (e dalle altre Costituzioni nazionali degli Stati membri)».
[7] Corte di Cassazione, ordinanza del 16 febbraio 2018, n. 3831, cit..
[8] Questi i passaggi salienti, sul punto, dell’ordinanza interlocutoria.
«Residua, peraltro, una questione, destinata ad acquisire concreta rilevanza nel presente giudizio soltanto nel caso in cui la disposizione sospettata di illegittimità costituzionale superi il vaglio della Corte costituzionale.
Ci si riferisce alla questione se, alla stregua del principio di effettività della tutela garantita dal diritto dell’Unione europea, il potere del giudice comune di non applicare una norma interna che abbia superato il vaglio di legittimità costituzionale (anche, eventualmente, sotto il profilo della conformità alla CDFUE quale norma interposta rispetto agli articoli 11 e 117 Cost.) sia limitato a profili diversi da quelli esaminati dalla Corte costituzionale o, al contrario, si estenda anche al caso in cui - secondo il giudice comune o secondo la Corte di giustizia dell’Unione europea dal medesimo adita con il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE - la norma interna contrasti con la CDFUE in relazione ai medesimi profili che la Corte costituzionale abbia già esaminato (senza attivare essa stessa il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE).
Dall’inciso «per altri profili», contenuto nell’affermazione con cui nella sentenza n. 269/2017 si riconosce il potere del giudice comune «di disapplicare, al termine del giudizio incidentale di legittimità costituzionale, la disposizione legislativa nazionale in questione che abbia superato il vaglio di costituzionalità, ove, per altri profili, la ritengano contraria al diritto dell’Unione» (§ 5.2, penultimo capoverso), parrebbe doversi desumere che, nel sistema delineato dalla sentenza n. 269/2017, dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale il potere del giudice comune di disapplicare la disposizione legislativa nazionale che abbia superato il vaglio di costituzionalità sia limitato alla ipotesi che tale giudice ravvisi - eventualmente all’esito di un rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE - un contrasto con il diritto dell’Unione per profili diversi da quelli esaminati dalla Corte costituzionale».
[9] Corte di giustizia, sentenza del 20 dicembre 2017, Global Starnet Ltd,, causa C-322/16. Può ravvisarsi una linea di continuità con le pronunzie più recenti, successive alla richiamata A. c. B. e altri del 2014, che hanno enfatizzato l’obbligo del giudice nazionale di garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione europea, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione nazionale contraria, senza doverne attendere la previa soppressione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale (Corte di giustizia, sentenza del 4 giugno 2015, Kernkraftwerke Lippe-Ems, causa C-5/14, punti 32 e 39; Corte di giustizia, sentenza del 5 aprile 2016, PFE, causa C-689/13, punti 40 e 41).
[10] Corte di cassazione, ordinanza del 16 febbraio 2018, n. 3831, per la quale si rinvia alla lettura datane dall’estensore in: A. Cosentino, La Carta di Nizza nella giurisprudenza delle Corti italiane, relazione al corso di formazione presso la Scuola superiore della magistratura in Scandicci il 22 novembre 2018; A. Cosentino, Doppia pregiudizialità, ordine delle questioni e disordine delle idee, in Questione giustizia on line, dal 6 febbraio 2020. Tra i numerosi commenti, L.S. Rossi, Il «triangolo giurisdizionale» e la difficile applicazione della sentenza 269/17 della Corte costituzionale italiana, in www.federalismi.it, definisce l’ordinanza in esame «atto di sfida, mascherato da atto di obbedienza».
[11] In particolare, la richiamata ordinanza:
- ha evidenziato che, alla stregua della giurisprudenza costituzionale anteriore alla sentenza n. 269/2017, nelle cause rientranti nell’ambito applicativo del diritto dell’Unione europea, la disposizione interna della quale si accertasse (eventualmente previo rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia) il contrasto con una norma auto applicativa di diritto UE, anche di contenuto materialmente costituzionale, avrebbe dovuto essere disapplicata (con conseguente irrilevanza della questione di legittimità costituzionale di tale norma con riferimento a parametri interni);
- ha poi ritenuto che, alla luce della sentenza n. 269 del 2017, la segnalata doppia pregiudizialità andasse risolta privilegiando, in prima battuta, l’incidente di costituzionalità;
- ha comunque prospettato, nel sollevare la questione di costituzionalità, per il caso che le disposizioni sospettate di illegittimità costituzionale avessero superato il vaglio della Corte costituzionale, l’eventualità di attivare essa il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE (ove già non attivato dalla Corte costituzionale nel giudizio incidentale), sottolineando il proprio dovere di «dare al diritto dell’UE un’applicazione conforme alla decisione conseguentemente adottata dalla Corte di Giustizia»;- ha pure, per una tale evenienza, chiesto alla Corte costituzionale di precisare se il potere del giudice comune di disapplicare una norma interna che abbia superato il vaglio di legittimità costituzionale (anche sotto il profilo della conformità alla CDFUE) sia limitato a profili diversi da quelli esaminati dalla Corte costituzionale o, al contrario, si estenda anche al caso in cui (secondo il giudice comune o la Corte di Giustizia UE, dal medesimo adita) la norma interna contrasti con la CDFUE in relazione ai medesimi profili che la Corte costituzionale abbia già esaminato (senza attivare essa stessa il rinvio pregiudiziale).
[12] Corte di Cassazione, sentenza n. 12108 del 17 maggio 2018 e ordinanza n. 13678 del 30 maggio 2018. Ancora, nel gennaio 2019 la stessa sezione lavoro della Corte suprema ha (con l’ordinanza n. 451) parimenti ritenuto di rivolgersi direttamente alla Corte di giustizia in tema di diritto alle ferie, per chiedere se l’art. 7, par. 2, della direttiva 2003/88/CE e l’art. 31 della CDFUE debbano essere interpretati nel senso che ostino a disposizioni o prassi nazionali, in base alle quali vada perso il diritto al pagamento di indennità pecuniaria compensativa delle ferie non godute a causa della cessazione del rapporto di lavoro e dell’impossibilità del lavoratore di goderne prima, determinata da licenziamento illegittimo del datore di lavoro; ed anche in tal caso la Corte si è riferita alla natura di obiter dictum del passaggio critico di Corte cost. n. 269/17 ed ha riaffermato il proprio dovere, evidentemente poziore, di rivolgersi alla Corte europea, ove si sia in tema di interpretazione o di invalidità del diritto dell’Unione.
[13] Corte di Cassazione (sezione lavoro), ordinanza del 17 giugno 2019, n. 16163, che ha sollevato incidente di costituzionalità dell’art. 74 dlgs n 151/2001 in relazione agli 3 Cost., 31 Cost. e 117, primo comma, Cost. quest’ultimo in relazione agli artt. 20, 21, 24, 31 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, nella parte in cui richiede ai soli cittadini extracomunitari ai fini dell’erogazione dell’indennità di maternità anche la titolarità del permesso unico di soggiorno, anziché la titolarità del permesso di soggiorno e di lavoro per almeno un anno in applicazione dell’art. 41 d.lgs. n. 286 del 1998.
[14] È quest’ultimo il caso deciso con sentenza n. 4223 del 21 febbraio 2018, che, in seguito alla pronuncia della Corte di Giustizia, ha escluso ulteriori spazi per questioni di costituzionalità. Per la detta pronuncia, l’interpretazione del diritto dell’Unione è di competenza esclusiva della Corte di giustizia ex art. 267 T.F.U.E.; tale competenza si estende alla valutazione di legittimità delle eventuali deroghe che alla normativa nazionale è consentito apporre alle regole sovranazionali, in relazione a specifici obiettivi di politica sociale riconducibili ai Trattati.
In particolare, la Corte di cassazione, alla luce dell’art. 267 TFUE e dell’obbligo di collaborazione sancito dall’art. 4 comma terzo TUE in base al quale gli Stati membri adottano ogni misura atta a garantire l’esecuzione degli obblighi derivanti dai Trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione, nonché dello stesso art. 19 TUE, non può che attenersi a quanto accertato dalla Corte di giustizia, non avendo il potere di darne una interpretazione diversa, in quanto il giudizio di rinvio non si configura come una sede nella quale sia possibile contestare od impugnare quanto deciso dalla Corte di giustizia.
È poi esclusa la possibilità di ricorrere nuovamente in via pregiudiziale alla Corte di giustizia, per avere quest’ultima esaminato tutti gli aspetti rilevanti in sede sovranazionale della vicenda e ritenuto la disposizione oggetto di censura «appropriata e necessaria»; ed è altresì disattesa pure la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, alla luce dell’art. 3 Cost., per difetto di ragionevolezza della previsione di estinzione del rapporto: non vi sono ragioni per ritenere che la Carta costituzionale offra una tutela antidiscriminatoria più incisiva di quella derivante dalle fonti sovranazionali, soprattutto alla luce delle più recenti evenienze legislative, volte a rafforzare le politiche e gli strumenti di contrasto alla discriminazione sul lavoro, facendone un momento prioritario di regolazione da parte dell’Unione, oltre che oggetto di supervisione mediante l’Agenzia per i diritti fondamentali e i periodici Report della Commissione e del Parlamento sul rispetto della Carta dei diritti. E si prospetta che, proprio nel settore del contrasto alla discriminazione deve ritenersi verificata una «fusione di orizzonti tra il livello interno, sovranazionale ed anche quello convenzionale (attestato dalle moltissime decisioni della Corte costituzionale che hanno applicato negli ultimi anni l’art. 14 della Cedu), reso più spontaneo ed efficace dal carattere particolarmente intenso delle tutele previste dall’Unione … Pertanto non vi è alcuna evidenza e nemmeno plausibilità a favore della tesi per cui il nostro ordinamento possa offrire una diversa soluzione della questione del carattere discriminatorio (anche sotto il profilo dell’irrazionalità) della disposizione qui in discussione, non solo perché nel settore le politiche dell’Unione sono particolarmente avanzate, ma anche in quanto gli obiettivi sociali menzionati dalla Corte di giustizia sono comuni al nostro ordinamento costituzionale».
In due successive occasioni la Corte di cassazione, con sentenze del 6 dicembre 2018, nn. 31632 e 31633, è stata ritenuta possibile l’immediata e diretta applicazione della norma eurounitaria, senza necessità di sollevare questioni di legittimità costituzionale: le due pronunce sottolineano che le caratteristiche della fattispecie consentono di dare diretta attuazione al disposto dell’articolo 50 CDFUE, come interpretato dalla Corte di giustizia in esito al rinvio pregiudiziale, senza alcuna frizione col principio del controllo accentrato di costituzionalità di cui all’articolo 134 Cost., sul quale si fondano le indicazioni contenute nella sentenza C. cost. n. 269/17.
[15] P. D’Ascola, L’età dei diritti e la tutela giurisdizionale effettiva nel dialogo tra le Corti, in Questione Giustizia, Speciale ottobre 2019, L’eredità di un giudice. Scritti per Carlo Maria Verardi, reperibile (ultimo accesso 03/01/2020) all’URL http://questionegiustizia.it/speciale/pdf/QG-Speciale_2019-2_13.pdf.
[16] E. Scoditti, Giudice costituzionale e giudice comune di fronte alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea dopo la sentenza costituzionale n. 269 del 2017, in Foro it., 2018, fasc. 2, p. 406.
[17] Resa in tema di contrasto tra diritto di accesso ai dati patrimoniali dei dirigenti della pubblica amministrazione e diritto di questi ultimi alla riservatezza.
[18] A. Ruggeri, Rapporti interordinamentali, riconoscimento e tutela dei diritti fondamentali, crisi della gerarchia delle fonti, in Rivista di diritti comparati, n. 2/2019 (www.diritticomparati.it/wp-content/uploads/2019/04/Ruggeri-RDC-2-2019.pdf.).
[19] Il caso riguardava la sanzione amministrativa pecuniaria addebitata da CONSOB per abuso di informazioni privilegiate e l’esclusione di un trattamento più mite previsto dal d.lgs. 2015 rispetto all’art. 187 TUF: di qui il sospetto di incostituzionalità per mancata previsione della retroattività delle nuove disposizioni sanzionatorie.
[20] In particolare, la sentenza n. 63/19, dopo aver affermato il potere della Corte costituzionale di sindacare le questioni di c.d. doppia pregiudizialità sia con riferimento ai parametri interni sia in relazione alle norme della CDFUE che tutelano i medesimi diritti (evocate dal giudice rimettente come norme interposte nella questione riferita all’art. 117 Cost.), aggiunge come rimanga fermo, in ogni caso, «il potere del giudice comune di procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, e – ricorrendone i presupposti – di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta».
Tali affermazioni possono segnare un superamento dei principi enucleabili dalla sentenza n. 269 del 2017, giacché:
- per un verso, affermano (in continuità con C. cost. n. 20 del 2019) che il giudice comune può sollevare il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia anche per gli stessi profili su cui si sia già pronunciata la Corte Costituzionale (e non solo per «altri profili», come pareva suggerire la sentenza n. 269/17);
- per altro verso, riconoscono espressamente al giudice comune, pur dopo che la Corte costituzionale si sia pronunciata (evidentemente giudicando la questione di costituzionalità infondata, giacché, diversamente, la disposizione interna contrastante con la CDFUE sarebbe stata espunta dall’ordinamento), il potere non soltanto di sollevare il rinvio pregiudiziale, ma anche (all’esito, sembra doversi ritenere, di tale rinvio) di disapplicare la disposizione interna dichiarata costituzionalmente legittima dalla Corte costituzionale, ove giudicata dalla Corte di Giustizia in contrasto con la CDFUE, senza necessità di un secondo incidente di costituzionalità;
- per altro verso ancora, dando espressamente atto del potere del giudice comune di procedere al rinvio alla Corte di Giustizia «anche dopo» l’incidente di costituzionalità, sembrano ammettere che il rinvio possa essere sollevato «anche prima» (e, quindi, indipendentemente) da tale incidente; se questa lettura della portata dell’inciso «anche dopo» fosse corretta, risulterebbe del tutto sovvertito il principio espresso nella sentenza n. 269/17 alla cui stregua, nei casi di doppia pregiudizialità, il giudice comune deve investire per prima la Corte costituzionale, onde garantire l’esercizio del controllo accentrato di costituzionalità di cui all’articolo 134 Cost.
[21] V. Sciarabba, intervista a cura di R.G. Conti, La Carta UE in condominio fra Corte costituzionale e giudici comuni. Conflitto armato, coabitazione forzosa o armonico ménage?, in questa Rivista, dal dì 08/05/2019.
[22] A. Ruggeri, intervista a cura di R.G. Conti, Giudice o giudici nell’Italia postmoderna?, in questa Rivista, dal 10/04/2019.
[23] Investita, in modo diretto, dalla Cassazione con l’ordinanza n. 3831/2018, su cui più ampiamente tra breve, la Consulta doveva pronunciarsi sulla legittimità di una norma che sanziona, per opera di Consob, il soggetto che non cooperi nel corso di un’indagine per abuso di informazioni privilegiate relativa alla società quotata di cui era amministratore. Il confronto tra diritto al silenzio (nemo tenetur se detegere) e gli obblighi funzionali ai procedimenti amministrativi volti a irrogare sanzioni punitive era stato inquadrato dalla Corte costituzionale nell’ambito della normativa eurounitaria, che parrebbe prevedere il dovere degli Stati membri di sanzionare il silenzio serbato in sede di audizione dall’autore delle operazioni sospette
[24] Sia consentito un richiamo a F. De Stefano, Il rapporto tra le «Carte» dei diritti fondamentali e le tradizioni costituzionali degli Stati membri nel dialogo tra le «Corti»: il quadro attuale e le prospettive, relazione al corso organizzato dalla Struttura di Formazione decentrata della Scuola superiore della Magistratura per la Corte di cassazione in data 7-9 marzo 2018.
[25] Salvo, come oggi si prospetta, a ipotizzare una fattispecie simile a quella della pronuncia nell’interesse della legge, di cui all’art. 363 cod. proc. civ., sub specie di obiter dictum o di esplicito superamento della dottrina della necessaria pregiudizialità della pronuncia di Lussemburgo in relazione ad una controversia tuttora pendente: ma v. oltre nel testo.
[26] Tale teoria è ricondotta da A. Ruggeri, Caro Roberto, provo a risponderti sulla «doppia pregiudizialità» (così mi distraggo un po’ anch’io …), in Consulta on-line fasc. III-2019, p. 683, nota 15, a: F. Sorrentino, È veramente inammissibile il «doppio rinvio»?, in Giur. cost., 2/2002, 781 ss.; C. Amalfitano, Il dialogo tra giudice comune, Corte di giustizia e Corte costituzionale dopo l’obiter dictum della sentenza n. 269/2017, in Osservatorio sulle fonti, 2/2019, 18; R.G. Conti, Giudice comune e diritti protetti dalla Carta UE: questo matrimonio s’ha da fare o no?, in questa Rivista, 4 marzo 2019, spec. § 4; M. Massa, Dopo la «precisazione». Sviluppi di Corte cost. n. 269/2017, in Osservatorio sulle fonti, 2/2019, 20 ss.; G. Martinico, L’idea di «concorrenza» fra Corti nel diritto costituzionale europeo, paper in versione provvisoria illustrato all’incontro di studi su Sofferenze e insofferenze della giustizia costituzionale, Torino 17-18 ottobre 2019, spec. § 3.
[27] V. Piccone, Diritto sovranazionale e diritto interno: rimedi interpretativi, in Questione Giustizia on line dal 27/12/2019, § 9. In particolare, dopo un’ampia disamina della situazione indotta dalla qui richiamata Poplawsky, ci si riferisce ad un «rapporto osmotico fra interpretazione e disapplicazione quale extrema ratio», come è stato ravvisato nella sentenza della Corte di Cassazione in sede di rinvio nella nota vicenda Abercrombie e Fitch (Corte di Cassazione, sentenza del 21 febbraio 2018, n. 4223).
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