ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La colpa del medico ai tempi del COVID-19: la soluzione nei principi generali?
di Giovanni Bovi
sommario: 1. Normativizzazione e personalizzazione della colpa medica- 2. Il sistema delle linee guida e l’art. 590 sexies c.p.- 3. Medici alla cieca: istruzioni contradditorie e inadeguatezza dell’art. 590 sexies c.p.- 4. In realtà, inadeguatezza dell’agente modello: soluzioni intermedie e rivalutazione della colpa soggettiva- 5. Osservazioni conclusive: lo stato d’eccezione come salvezza dell’Ordinamento.
Si perdonerà l’inopportunità della presente speculazione giuridica in un momento come quello attuale, eppure è innegabile che la drammatica epidemia da Covid-19 stimola numerose riflessioni, ad esempio relativamente alla tutela penale richiesta dagli operatori sanitari, impegnati in prima linea nella lotta contro il virus.
1. Normativizzazione e personalizzazione della colpa medica
Le recenti riforme della responsabilità medica[1] confermano due particolari tendenze: da un lato la progressiva “normativizzazione” del concetto di colpa che si colora sempre più di tinte oggettive e sempre meno di tinte psicologiche, in linea con l’indirizzo giurisprudenziale da tempo dominante[2]; dall’altro quella di voler configurare la colpa secondo uno schema a “compartimenti stagni” in considerazione dei settori e dei relativi livelli di rischio in cui si inserisce la specifica attività. In ambito medico, ciò è avvenuto per l’adattamento via via maggiore della colpa ai quei parametri di matrice strettamente scientifica (i.e. linee guida, buone pratiche assistenziali, protocolli et similia); ciò ha consentito sicuramente una rivitalizzazione degli importanti principi inaugurati dalla celeberrima sentenza Franzese, in cui si disse che “non possono non valere per essa gli identici criteri di accertamento e di rigore dimostrativo che il giudizio penale riserva a tutti gli elementi costitutivi del fatto di reato e, trattandosi di imputazione colposa, tale giudizio deve essere svolto rigorosamente ex ante ed in concreto” e che, al contrario, “l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza probatoria, quindi il plausibile e ragionevole dubbio, fondato su specifici elementi che in base all'evidenza disponibile lo avvalorino nel caso concreto (…) non può non comportare la neutralizzazione dell'ipotesi prospettata dall'accusa e l’esito assolutorio stabilito dall'art. 530, co. 2, c.p.p., secondo il canone di garanzia <<in dubio pro reo
Dunque, i recenti sviluppi sembrerebbero porre maggiore attenzione al concetto di rischio sotteso ad ogni attività medica e con esso alla fallibilità della stessa, onde escludere la configurazione del fatto tipico colposo se al momento della condotta la regola cautelare non fosse predeterminata e/o conoscibile dal sanitario. Parimenti, con riguardo, invece, alla colpevolezza, è innegabile che la giurisprudenza valorizzi sempre più il contesto in cui il medico e la sua condotta si inseriscono, e come assuma maggiore importanza l’errore di sistema, di talché si richiede che la risposta penale consideri tutti gli “anelli della catena terapeutica” e non solo l’ultimo, vale a dire il medico che materialmente tratta il paziente.
2. Il sistema delle linee guida e l’art. 590sexies c.p.
Tra i parametri certamente più diffusi per l’imputazione colposa in ambito sanitario, ruolo predominante è da sempre quello giocato dalle c.d. “linee guida”. Si tratta, secondo una diffusa definizione, di “raccomandazioni di comportamento clinico, elaborate mediante un processo di revisione sistematica della letteratura e delle opinioni scientifiche, al fine di aiutare medici e pazienti a decidere le modalità assistenziali più appropriate in specifiche situazioni cliniche[5]”, frutto tipico della c.d. “Evidence Based Medicine”[6]. Dal punto di vista giuridico, la diffusione delle linee guida ha consentito una vera e propria codificazione delle leges artis in ambito medico, alla quale tuttavia sono conseguiti una serie di corollari negativi. Si fa riferimento, innanzitutto, alla “burocratizzazione” dell’attività del sanitario e alla contestuale limitazione dell’autonomia professionale del medico ma, soprattutto, la maggiore importanza data alle linee guida ha aumentato il rischio della c.d. medicina difensiva[7], vale a dire un’acritica e pedissequa accondiscendenza alle raccomandazioni al mero scopo preventivo di una eventuale causa giudiziaria relativa alla condotta assunta.
La difficoltà di “trattare” la materia delle linee guida è alla base dell’incerta risposta che la giurisprudenza ha talvolta dato nel determinarne la reale portata in punto di responsabilità colposa. Basti considerare che prima delle recenti riforme normative si potevano registrare ben quattro orientamenti diversi.
Una prima tesi[8] valorizzava il momento concreto, per cui l’adozione pedissequa del particolare protocollo del caso specifico, senza considerare alcuna alternativa percorribile, non solo non avrebbe mandato esente da colpa il sanitario, ma lo avrebbe in realtà esposto a profili di vera e propria negligenza. Un secondo[9] indirizzo riteneva che la valutazione sul limite del “rischio consentito”, in mancanza di un’esplicita predeterminazione normativa o amministrativa (di fatto escludendo dal novero delle fonti del diritto le linee guida), doveva essere necessariamente affidata alla discrezionalità del giudice, posto che la prevedibilità andava determinata in concreto, avendo presente tutte le circostanze del caso ed in base al parametro relativistico dell'homo eiusdem condicionis et professionis. Un terzo[10] gruppo di sentenze, invece, proponeva la condanna per i medici, in tutti i casi di immotivato discostamento dalle linee guida. Infine, un quarto gruppo[11] riguardava casi di medici assolti perché il loro operato si era uniformato alle linee guida.
In conclusione, la difficoltà di conferire alle linee guida una giusta collocazione ai fini della decisività o meno in punto di responsabilità, spiega il ricorso a lungo fatto della colpa “solo” generica (con tutto ciò che ne consegue relativamente ai problemi di genericità e di eccessiva dipendenza del giudice dalle valutazioni del proprio perito) di talché la decisione finale sulla colpa ne risultava, spesso, eccessivamente appiattita sul nesso eziologico.
Come anticipato supra, tali incertezze hanno incentivato il ricorso, da parte degli operatori sanitari, alla c.d. medicina difensiva, ed in questi termini si spiegano i due ravvicinati e (almeno nelle intenzioni) prorompenti interventi legislativi, l’ultimo dei quali ha riscritto completamente il canone della responsabilità colposa medica, introducendo direttamente nel corpo del codice l’art. 590sexies.
Nonostante gli sforzi profusi dal legislatore, i problemi interpretativi della nuova disposizione sono emersi sin dalle prime applicazioni tanto da richiedere l’intervento delle Sezioni Unite (ad un anno dalla sua introduzione) le quali hanno chiarito che il medico dovrebbe rispondere per colpa in tutti i casi in cui l’evento dannoso si sia verificato: “a) per colpa (anche “lieve”) da negligenza o imprudenza; b) per colpa (anche “lieve”) da imperizia: 1) nell’ipotesi di errore rimproverabile nell’esecuzione dell’atto medico quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o, in mancanza, dalle buone pratiche clinico-assistenziali; 2) nell’ipotesi di errore rimproverabile nella individuazione e nella scelta di linee-guida o di buone pratiche che non risultino adeguate alla specificità del caso concreto, fermo restando l’obbligo del medico di disapplicarle quando la specificità del caso renda necessario lo scostamento da esse; c) se l’evento si è verificato per colpa (soltanto “grave”) da imperizia nell’ipotesi di errore rimproverabile nell’esecuzione, quando il medico, in detta fase, abbia comunque scelto e rispettato le linee-guida o, in mancanza, le buone pratiche che risultano adeguate o adattate al caso concreto, tenuto conto altresì del grado di rischio da gestire e delle specifiche difficoltà tecniche dell’atto medico”[12].
In breve, ciò che si desume è che l’errore non punibile non riguarda tanto il momento della selezione delle linee guida, “dipendendo il “rispetto” di esse dalla scelta di quelle <<adeguate>>”, bensì, il momento dell’attuazione della linea guida adeguata alle caratteristiche del paziente concreto e correttamente individuata.
L’altro importante decisum è che ogni valutazione circa l’addebitabilità o meno della violazione della regola cautelare debba essere fatta rigorosamente ex ante, considerato che l’indagine ex post riguarda esclusivamente l’accertamento del nesso di causalità.
In conclusione, quindi, attualmente l’esonero dalla colpa sembrerebbe limitato ai soli casi richiamati dall’art. 590sexies c.p. (omicidio e lesioni entrambi colposi); alle sole ipotesi di imperizia non grave ma solo se riconducibili all’atto esecutivo; al rispetto di linee-guida accreditate o buone pratiche clinico-assistenziali, ed in ogni caso si tratterebbe di un esonero sottoposto al un controllo in termini di adeguatezza delle raccomandazioni contenute in siffatte linee-guida alle specificità del caso concreto.
3. Medici alla cieca: istruzioni contradditorie e inadeguatezza dell’art. 590sexies
Conclusa quest’astratta premessa, è ora possibile calarsi nel (doloroso) concreto.
Sin dai primi giorni dell’epidemia, si è lanciato l’allarme che, passata l’emergenza, l’ordine medico possa essere investito da un’ondata di denunce a vario titolo.
Ebbene, una delle cause principali della diffusione del virus è stata senz’altro la carenza e l’inadeguatezza di indicazioni ufficiali, non tanto di quelle di natura prettamente scientifica, le quali, nonostante i non pochi e più o meno giustificati “chiari di luna” da parte della comunità scientifica ai più alti livelli, sono state sin da subito fruibili dagli addetti ai lavori[13], quanto di quelle di natura strutturale-organizzativa. Sul punto va, infatti, detto che l’art. 590sexies, si riferisce, non solo alle linee guida propriamente intese ma, in via residuale, anche alle c.d. buone pratiche clinico assistenziali; in queste ultime, il ventaglio di soluzioni da cui attingere si amplia considerevolmente, potendovi ricomprendere anche, ad esempio, prassi, protocolli, circolari ministeriali[14]; infatti “come è stato acutamente osservato in dottrina, il legislatore ha utilizzato nella disposizione ora citata (ndr art. 590sexies c.p.) una formula evocativa della sussidiarietà delle buone pratiche, che consente di annoverarvi le linee guida non accreditate nonché i protocolli e le check list”[15] .
Ecco, allora, che eventuali responsabilità degli operatori sanitari andranno analizzate anche sulla base delle indicazioni loro fornite dagli organi ministeriali.
È opportuno, quindi, accennare brevemente alla drammatica cronistoria di quanto successo nelle prime settimane precedenti l’esplosione della pandemia[16].
Un primo provvedimento rilevante e recante indicazioni per l’individuazione dei casi sospetti di Covid-19, è stata la Circolare n. 1997 del 21 gennaio 2020, per la quale soggetti sospetti erano coloro che avessero avuto collegamenti diretti/indiretti con la Cina nonché coloro che avessero manifestato “un decorso clinico insolito o inaspettato, soprattutto un deterioramento improvviso nonostante un trattamento adeguato, senza tener conto del luogo di residenza o storia di viaggio, anche se è stata identificata un’altra eziologia che spiega pienamente la situazione clinica”. Tuttavia, nella successiva Circolare n. 2302 del 27 gennaio 2020, il predetto elenco spariva e, invece, i due requisiti figuravano in rapporto reciproco; prova ne è che sono stati letteralmente posti in congiunzione con la lettera “E” in maiuscolo.
Un aspetto assai doloroso e, nella sua drammaticità, singolare è che catalizzatori della diffusione siano stati, anche, gli ospedali; considerata l’assoluta contraddittorietà ed incertezza delle indicazioni ricevute, che di fatto hanno obbligato il medico a dover prendere decisioni cliniche ed organizzative di un certo rilievo (con tutto ciò che ne conseguiva) sulla base del mero colloquio col paziente e sui di lui presunti contatti con soggetti provenienti dalla Cina, si spiega più facilmente il perché si sia stati così incapaci, almeno nelle prime e cruciali fasi, di contenere il contagio tenendo distinti rigorosamente i pazienti positivi da tutti gli altri.
Allo stato, quindi, un ipotetico giudizio circa responsabilità colpose dei sanitari non potrebbe non prescindere da questo aspetto. Alla luce di quanto sopra e dell’improvvisa impennata di pazienti, della conseguente saturazione delle strutture e delle risorse ospedaliere e dunque dell’incredibile stress cui ogni sanitario ha dovuto far fronte, non richiede eccessivi sforzi constatare l’inadeguatezza dell’art. 590sexies c.p. e dello “scudo penale” in esso contenuto che, come ridisegnato dalle S. U. penali, rischierebbe di essere strumento poco utile, laddove non dannoso[17].
In questo senso si spiegano le numerose iniziative riguardanti l’introduzione di una disciplina colposa medica ad hoc in relazione al contesto clinico, terapeutico e organizzativo pandemico. In particolare, se ne evidenziano due: un primo indirizzo prevede una causa di non punibilità secca per le fattispecie di lesioni o omicidio colposo strettamente ancorata al contesto lavorativo e al momento in cui l’evento si è verificato[18]; un secondo limiterebbe ogni profilo di responsabilità relativa agli eventi occorsi durante o a causa dell’emergenza pandemica al solo dolo e colpa grave[19].
Ciò che si desume da questi propositi, è che la l’emergenza attuale può essere un serio aggregante della tendenza a voler prefigurare forme di colpa sempre più personalizzate e specifiche per determinati ruoli e situazioni, tuttavia, non in termini di estensione della responsabilità, bensì, all’opposto, in funzione limitante della stessa. Per usare una raffinata metafora, l’emergenza rende ancora più evidente la caratteristica “anisotropica” della colpa, intesa come capacità di assumere diverse forme e incisività a seconda del contesto in cui se ne richiede il vaglio[20].
In realtà, più che sforzarsi a voler individuare fattispecie sempre più specifiche e/o limitatrici, sarebbe forse il caso di operare una rivalutazione sistemica e d’insieme, nel tentativo di poter trovare una soluzione ricorrendo direttamente ai principi generali.
4. In realtà, inadeguatezza dell’agente modello: soluzioni intermedie e rivalutazione della colpa soggettiva
Nella situazione attuale, a giocare la parte del leone è senz’altro il rapporto tra comportamento assunto, virtualmente colposo, e lo stato emergenziale che, soprattutto in determinate zone del paese, ha impedito che la macchina sanitaria statale rispondesse adeguatamente. Ci si sofferma sul concetto di “scelta tragica”, che da sempre trova cittadinanza nell’ambito medico (si pensi alle probabili e frequenti situazioni in cui si sia dovuto decidere se curare X e non Y, oppure a quando si sia dovuto rifiutare l’ospedalizzazione di un soggetto non acuto per mancanza di posti, soggetto che poi, proprio in ragione di ciò, si sia successivamente acutizzato); ci si domanda, allora, come porsi in presenza di una sistematizzazione e standardizzazione della situazione straordinaria, dove, quindi, la scelta tragica perde il suo carattere di eccezionalità divenendo regola e, come tale, meritevole di una puntuale tipizzazione.
Una prima soluzione si potrebbe avere ricorrendo alle cause di giustificazione dello stato di necessità ex art. 54 c.p. oppure dell’adempimento del dovere ex art. 51 c.p[21].
La dottrina penalistica non sarebbe nuova a tali – estreme – soluzioni[22], tuttavia, la si potrebbe criticare in punto di inadeguatezza e incompatibilità col mondo medico, in considerazione della attività in esso prestata e dei rischi (e quindi delle conseguenze) che sono dall’ordinamento previste ed accettate[23]. È stato, infatti, osservato che nell’adempimento del dovere di un medico ben può rientrare la situazione di conflitto; allo stesso modo, inoltre, non può non riconoscersi eventualmente una responsabilità ab imis statuale per non aver garantito il corretto funzionamento della macchina organizzativa sanitaria[24]. In una tale prospettiva de iure condendo, l’unica soluzione potrebbe allora essere quella di prevedere una scriminante ad hoc dell’attività medico-chirurgica[25]. In secondo luogo, la scriminante dell’adempimento del dovere, ed in particolare di quello del medico, potrebbe lasciare privi di adeguata tutela il ricevente l’attività doverosa. Più opportuno sarebbe, allora, combinare lo stato di necessità proprio del diritto penale, col suo omonimo civilistico (art. 2045 c.c.) consentendo, da un lato di escludere l’illiceità penale dell’atto medico ma, dall’altro, predisponendo uno strumento comunque riparatorio delle conseguenze dannose a carico dell’interessato[26].
Eppure, si potrebbe scendere ancora più a valle e scandagliare approfonditamente il terreno dei principi. Ebbene, coniugando tali riflessioni con il drammatico contesto attuale, emergono, infatti, molte delle ambiguità dell’impianto dottrinario e normativo su cui si sono fondate sino ad oggi, la colpa, la teoria dell’agente modello ed infine l’effettiva efficacia della predeterminazione di regole cautelari (alla cui violazione corrisponde la colpa stessa).
Si è detto supra della tendenziale normativizzazione della colpa e, quindi, dell’approccio quanto mai oggettivo in punto di accertamento di violazione di regole cautelari (per l’appunto, più o meno codificate). Nell’ambito medico, poi, si è ormai concordi nel ritenere che la colpa si parametri in ragione della condotta tenuta dall’agente concreto confrontata con quella che ci si aspetti da un ideale agente modello, meccanismo tipico della colpa oggettiva.
Trattasi, tuttavia, di un canone da sempre dotato di particolare duttilità a seconda delle maggiori o specifiche conoscenze del soggetto concreto; ciò significa che, sebbene prima facie emani oggettività, lo stesso canone ritorni a colorarsi di soggettività tutte le volte in cui sia necessario “costruire lo standard” attorno allo specifico profilo dell’agente[27]. In questo senso si evidenzia, oltretutto, anche il rapporto tra colpa e prevedibilità, o meglio ancora – come precisato da autorevole dottrina – “rappresentabilità” posto che “prevedibile” è un qualcosa di futuro rispetto alla condotta umana, “rappresentabile è tanto ciò che potrà accadere quanto ciò che è precedente o contestuale all’agire umano[28]”.
Dal che una deroga al criterio oggettivo: un innalzamento “eccezionale” dello standard oggettivo per l’agente dotato di conoscenze “eccezionali”[29].
D’altra parte, non mancano coloro i quali sottolineano come, in realtà, la migliore dottrina tedesca in materia non ha mai disdegnato soffermarsi sulle componenti soggettive dell’agente concreto[30], anche in ragione del fatto che, si ripete, sebbene la teoria base sia sempre quella oggettiva, non v’è chi non veda che essa venga incisivamente soggettivata in tutti i casi di innalzamento dello standard di diligenza in ipotesi eccezionali. Da questo angolo di visuale, allora, emergono molti dei lati critici del concetto stesso di agente modello, così come sollevati in passato da coloro i quali ritenevano che tale criterio fosse, in realtà, inidoneo ad individuare correttamente la punibilità, poiché: “l’agente modello nella colpa, infatti, sembra influenzato dalle pressioni securitarie emergenti, per cui giunge ad impersonare uno standard di diligenza scandito da regole cautelative o ultraprudenziali ispirate ad una logica di mera precauzione[31]”; in questo senso si potrebbe addirittura ritenerlo un mero “espediente retorico in grado di legittimare giudizi di prevedibilità ed evitabilità così distanti da un parametro oggettivo di esigibilità, da consentire un’espansione incontrollata della responsabilità colposa anche in settori ove l’incertezza scientifica impedisce qualsiasi valutazione ex ante delle possibili conseguenze dell’agire umano[32]”
Ebbene, se in punto di modifica dello standard si è generalmente soliti ragionare in termini di innalzamento, considerando soggetti asseriti più competenti della media, la situazione attuale, richiede, invece, di ragionare in senso opposto, vale a dire assumendo l’eccezionalità della conoscenza in termini negativi, di talché sia consentito abbassare “eccezionalmente” lo standard oggettivo, ammettendo un’operazione sottrattiva e così spostando indietro il livello di rimproverabilità ed escludendo la colpevolezza[33].
Un ragionamento siffatto identifica la colpa in termini di esigibilità (poteva l’agente concreto comportarsi in maniera diversa?) e non di tipicità (l’agente concreto si è comportato come si sarebbe comportato l’agente modello?), collocandosi, quindi, nell’ambito soggettivo. La personalizzazione del giudizio di responsabilità avrebbe effetti meno preoccupanti di quanto si immagini, poiché consentirebbe di fare a meno di apportare modifiche alla regola cautelare che, si badi, rimane uguale per chiunque; cosa che, invece, non avverrebbe se si ammettesse una manipolazione del livello di diligenza richiesta a seconda delle conoscenze possedute dall’agente concreto al momento della condotta. Ciò che si deve evitare è l’utilizzo dell’elemento soggettivo come correttivo di quello oggettivo[34]. In breve, innestare sul piano oggettivo la conoscenza dell’agente concreto dovrebbe prescindere dal modo con cui lo stesso elemento si presenta nei diversi casi. Tuttavia, onde evitare problemi di equità, l’elemento relativo alle conoscenze dell’agente concreto andrebbe del tutto espunto dalla dimensione oggettiva e valorizzato esclusivamente su quella soggettiva. Solo in questo modo si riuscirebbe, coerentemente, a tenere conto delle specificità soggettive, qualunque esse siano, rispetto a quelle dell’agente modello. Nel particolare caso di qualità inferiori, ferma una dimensione oggettiva immutata, potrà, a seconda dei casi, mancare una rimproverabilità soggettiva se all’agente concreto era impossibile uniformarsi al modello.
In conclusione, invece di usare le conoscenze specifiche per poter costruire una norma cautelare ad hoc, parrebbe più opportuno, utilizzare sì le medesime conoscenze ma per una valutazione in termini di rimproverabilità soggettiva, ammettendola sicuramente nel caso di conoscenze superiori ma escludendola nel caso di conoscenze inferiori[35].
Tali temi, in realtà, sono stati già affrontati in tempi decisamente non sospetti, anni or sono. Si fa riferimento ai lavori per la riforma del codice penale, incaricati sul finir del secolo scorso[36]. Tra le varie proposte, una in particolare recava l’introduzione della seguente disposizione “la colpa è esclusa, nonostante l’oggettiva inosservanza della regola cautelare, quando l’agente si è trovato costretto ad agire, senza sua colpa, in una situazione eccezionale di panico o di fortissimo stress emotivo, tale da rendere inesigibile l’osservanza della regola”. Posto che la novella non vide mai la luce, è chiaro che già all’epoca si era tentato di istituzionalizzare la colpa soggettiva, rendendola definitivamente diritto positivo.
La definizione di “inesigibilità” intesa come “situazione eccezionale di panico o di fortissimo stress emotivo” (giusto per citare un esempio dell’ambito medico: stress causato da un’improvvisa e prolungata decuplicazione degli accessi in un pronto soccorso, tra l’altro per un male poco conosciuto, in carenza dei mezzi necessari alla cura dei pazienti nonché alla tutela degli operatori sanitari stessi) fa pensare, inoltre, anche ad un altro istituto che potrebbe essere utile ai fini della presente indagine: la forza maggiore.
In entrambi casi, effettivamente, la non punibilità deriva dall’eccezionale compromissione della voluntas agendi del soggetto. Tuttavia, la differenza tra i due istituti è notevole, posto che, nel caso dell’inesigibilità il fatto è, e continua ad essere, un fatto antigiuridico, ciò che manca è invece la colpevolezza, da ciò derivandone, per l’appunto, l’inesigibilità di un comportamento diverso da parte del soggetto. Diversamente, la forza maggiore costituisce quel quid contro cui resistere non potest, che “elide ogni potere di signoria sulla condotta” facendo mancare il requisito della “coscienza e volontà” e compromettendo gli elementi costitutivi del reato stesso[37].
Di similarità si può, semmai, parlare nella misura in cui, in entrambi i casi, i soggetti sono portati ad adottare una condotta che in un contesto “normale” non avrebbero senz’altro adottato, anche se nella forza maggiore ciò si spiega per il fatto che non si sia materialmente potuto fare altrimenti, mentre nell’inesigibilità è mancata a priori la capacità psicologica di comportarsi come ci si sarebbe aspettato. In breve, l’una ha a che fare con la tipicità; l’altra con la colpevolezza. Tuttavia, per quanto non siano mancati taluni che hanno ritenuto che la forza maggiore potesse essere intesa quale “espressione riassuntiva o residuale del principio di inesigibilità, come limite insormontabile della colpevolezza. In questa prospettiva, la forza maggiore assolve[rebbe] al ruolo di causa di esclusione della rilevanza della colpa nel caso concreto”[38], la differenza strutturale tra i due istituti impedisce di poterli ricondurre sul medesimo piano[39].
Effettivamente, nel caso di emergenza da diffusione del Covid-19, la regola cautelare cui debba attenersi una generalità, più o meno specifica, di consociati, può essere tale solo ad emergenza trascorsa, nel senso che la cautela potrà dirsi efficace solo successivamente alla realizzazione della situazione di pericolo[40]. Ebbene, in presenza di regole cautelari che, laddove esistenti, si siano rivelate inadeguate, contraddittorie, inefficaci e comunque in-fruibili dalla maggior parte dei medici[41], in una situazione in cui parrebbe che nemmeno i più esperti virologi siano stati in grado di scongiurare la rapidissima diffusione del virus, si chiede ora di addossare, coerentemente, eventuali responsabilità colpose in capo a tutti gli altri operatori sanitari, che, è opportuno sottolinearlo, si sono ritrovati improvvisamente internisti, pneumologi, infettivologi etc. indipendentemente dalla loro specializzazione iniziale, a maggior ragione a tutti coloro che hanno risposto alle varie “chiamate alle armi” (come definito dalle stesse Istituzioni prendendo in prestito il gergo bellico).
In quest’ottica si potrebbe, allora, ammettere uno sbilanciamento del rapporto agente concreto/agente modello in favore, invece, dell’agente di pari condizioni[42], che diventa il nuovo “modello” su cui parametrare le nuove – e però, giocoforza, inefficaci – regole cautelari, ovviamente inferiori rispetto a quelle elaborate con la miglior scienza ed esperienza. A questo punto, se si volesse trovare un senso a che l’ordinamento ammetta l’esistenza di regole del tutto prive di efficacia cautelativa, il rischio sarebbe quello di ingaggiare un pericoloso “gioco del Jenga”.
In mancanza di una specifica disciplina, ecco che, allora (come detto supra), l’interprete, per evitare di punire un soggetto che, senza sua colpa, non raggiunge gli standard richiesti (perché disponibili ad un numero assai limitato di soggetti), potrebbe valorizzare il profilo soggettivo e rimodulare l’esigibilità concreta. Trattasi di una fictio iuris, escamotage assolutamente conosciuto dall’ordinamento ma che in questo caso sembrerebbe ingiustificato; innanzitutto perché si tratterebbe di immaginare una regola cautelare che o non esiste ovvero, se esiste, è probabilmente poco utile; in secondo luogo date le circostanze, per “salvare” l’agente concreto si potrebbe direttamente far leva sulla colpevolezza tralasciando ogni aspetto riguardante la tipicità, anche perché, diversamente, si andrebbe a duplicare la regola cautelare (la prima per l’esperto virologo, la seconda per chiunque altro), il che condurrebbe, a ben vedere, a due conseguenze; si comprometterebbe fatalmente il principio della certezza del diritto, e soprattutto, ai fini della presente indagine, il medico chiamato in giudizio vedrebbe aumentare a dismisura i fisiologici rischi dell’agone processuale; conseguenze entrambe poco accettabili[43].
5. Osservazioni conclusive: lo stato d’eccezione come salvezza dell’Ordinamento
In conclusione, può dirsi che tutte le sopra esposte considerazioni potrebbero giustificare una riforma della colpa medica, ora, però, letta in chiave soggettiva. L’attuale emergenza pandemica richiede, forse, una norma atta ad ampliare l'area di esonero da responsabilità, che tenga conto delle criticità scientifiche, organizzative, cliniche, assistenziali, del rispetto di linee guida o di istruzioni contradditorie o comunque non univoche e soprattutto delle particolari condizioni personali del medico e dell’altissimo stress emotivo conseguito.
Lo sforzo di voler mettere in discussione taluni principi cardine del diritto, lungi dall’avere intenti sovversivi, parrebbe, invece, coerente con la situazione attuale. Non bisogna, infatti, confondere lo stato di emergenza, che è vicenda tutto sommato ordinaria nella vita di qualsiasi ente (fisico o giuridico che sia), da quello, invece, di “eccezione”. Eccezione non in senso proprio (che vorrebbe dire né più né meno, autonegazione del diritto stesso), bensì in senso “debole”, da intendersi come assoluta straordinarietà e che vede compromettersi la vita dell’ordinamento per la morte (purtroppo fisica e poi sociale, comunque non figurativa) dei consociati stessi. Ragionare in via ordinaria, applicare gli strumenti ordinari, sarebbe operazione, prima ancora che inefficace, assolutamente priva di senso. Da qui la necessità di una normativa d’eccezione che consenta “eccezionalmente” l’adozione di strumenti giuridici non ordinari (non solo tendenzialmente sfavorevoli, ma anche favorevoli, come ad esempio lo scudo penale sanitario di cui sopra), ma comunque in senso debole, poiché non sottratta all’ordinario controllo amministrativo, giudiziario e, da ultimo, costituzionale[44].
D’altra parte, si tratta di considerazioni già svolte precedentemente, seppur in un contesto diverso, in una fondamentale pronuncia della Consulta in materia di legislazione emergenziale per disastro ambientale[45]; in quella sede si ammise, infatti, la possibilità di configurare una “tutela rafforzata” per taluni consociati in ragione dell’assoluta eccezionalità delle conseguenze che l’emergenza ambientale aveva recato; così facendo, di fatto lo stato d’eccezione giustificava e motivava una sorta di “differenziazione penale” e la deroga alla normalità del diritto esistente[46].
D’altra parte, e paradossalmente, ne va della tenuta stessa dell’Ordinamento; non ammettere, infatti, l’abisso che separa l’attuale situazione da qualsiasi altra emergenza (soprattutto in l’Italia, paese ciclicamente funestato da emergenze naturali, sociali o economiche che siano), vuol dire lastricare la strada a future situazioni di più o meno (e diluita) eccezione/emergenza, con tutto ciò che ne consegue in punto di Stato di diritto.
Conclusivamente, il diritto penale, “diritto della e sulla persona” per eccellenza, è ora chiamato ad un nuovo bilanciamento delle prerogative costituzionali su cui esso stesso si fonda, in primis quelle di cui all’art. 27 Cost., dovendo, quindi, non limitarsi a sanzionare responsabilità individuali qualora l’evento lesivo derivi, in realtà, da fattori biologici imponderabili o da carenze strutturali ed organizzative insormontabili; in questo senso si ritiene opportuno che la riforma – eccezionale – della responsabilità penale medica passi attraverso un rivalutazione del principi generali.
[1] Il D.L.13 settembre 2012, n. 158 (c.d. Decreto Balduzzi) e la L. 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. Legge Gelli – Bianco).
[2] Cass. pen., sez. IV, sent. n. 4675/2007, Pt. IV, sez. III, Cap. III, Punto c, intitolato «La natura della colpa», p. 272 ss. che di responsabilità può parlarsi solo in termini di contrarietà della condotta a norme di comportamento di cui sono espressione le regole cautelari dirette a prevenire determinati eventi e nell’inosservanza del livello di diligenza oggettivamente dovuta ed esigibile. Non è, cioè, che non si è ritenuto più sostenibile limitare la colpa al solo ambito della colpevolezza, dovendosi, invece, guardare direttamente, specialmente nelle fattispecie di reato c.d. “causalmente orientate” (in particolare omicidio e lesioni colpose) “caratterizzate dal fatto che il legislatore prende in considerazione esclusivamente l’evento senza che venga descritta la condotta – nelle quali la tipicità è descritta sostanzialmente dalle regole cautelari violate.
[3] Cass. pen. Sez. Unite, n. 30328/2002.
[4] ROIATI, La colpa medica dopo la legge “Gelli-Bianco”: contraddizioni irrisolte, nuove prospettive ed eterni ritorni, 2018.
[5] M.J. FIELD – K.N. LOHR, Guidelines for clinical practice: from development to use, Washington, Institute of Medicine, National Academy Press, 1992.
[6] BARNI, Evidence Based Medicine e medicina legale, in Riv. it. med. leg., 1998.
[7] CAMINITI, La rilevanza delle linee guida e il loro utilizzo nell’ottica della c.d. medicina difensiva, in AA.VV., La medicina difensiva. Questioni giuridiche, assicurative, medico-legali, Santarcangelo di Romagna, 2011.
[8] Cass., sez. IV, 1febbraio 2012, n. 4391; Cass., sez. VI, 20 luglio 2011, n. 34402.
[9] Cass., sez. V, 28 giugno 2011, n. 33136; Cass., sez. IV, 25gennaio 2002, n. 2865.
[10] Cass., sez. IV, 12 luglio 2011, n. 34729; Cass., sez. IV, 9 giugno 2011, n. 28783.
[11] Cass., sez. IV, 12 giugno 2012, n. 23146; Cass., sez. IV, 2 marzo 2011, n. 12468.
[12] Cass., SS.UU., sent. 22 febbraio 2018, n. 8770.
[13] Esse sono altresì consultabili presso il sito web dell’ISS https://snlg.iss.it/?p=2706.
[14] Caputo, Colpa penale del medico e sicurezza delle cure, Torino, 2017, pp. 276 ss.
[15] Trib. Parma sent. 1584/2018.
[16] Capozzi, La responsabilità sanitaria nella diffusione della Covid-19 in aboutpharma.com.
[17] Cupelli, Emergenza covid-19: dalla punizione degli “irresponsabili” alla tutela degli operatori sanitari, in Sistema Penale.
[18] Emendamento n. 13.2 a firma senn. Mallegni – Sicari.
[19] Emendamento 1.0.4., primo firmatario sen. Marcucci.
[20]Losappio, Responsabilità penale del medico, epidemia da “Covid19” e “scelte tragiche” (nel prisma degli emendamenti alla legge di conversione del d.l. c.d. “Cura Italia”), in Giurisprudenza Penale.
[21] Cupelli, Emergenza covid-19 cit.
[22] Zampaolo, Scudo penale e responsabilità medica durante l’emergenza Covid-19 in Filodiritto.it.: si pensi ai casi di “A, che per salvare l’alpinista B, potrebbe far precipitare C, che si trova fuori pericolo su una cengia vicina. Il medico A potrebbe staccare il respiratore del ferito gravissimo B, per potervi attaccare il ferito C, che ha qualche chance disalvezza in più (ampia esemplificazione è in Comm. Romano, I, 574). O, per ricordare il caso relativo al naufragio della fregata da guerra britannica Mignonette, i marinai A e B potrebbero uccidere C, per berne il sangue e salvare se stessi, quando altre possibilità di salvezza non si profilino all’orizzonte (due vite contro una) (il caso è stato ripresentato da Balestrieri, Monticelli, Caso in tema di stato di necessità e cannibalismo, in IP, 1998, 519; recentemente su esso Simpson, Cannibalism and the Common Law, London, 1994) (Codice Penale Commentato online, articolo 54 c.p., di Pluris, Wolter Kluvers.
[23] Bellagramba, Ai confini dello stato di necessità, in Cass. pen., 2000, p. 1860.
[24] Losappio, Responsabilità penale del medico cit.pag. 13.
[25] Losappio, Responsabilità penale del medico cit.pag. 13 che cita MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, X ed., Wolters Kluwer, p. 266.
[26] LOSAPPIO, Responsabilità penale del medico cit. che cita MEZZETTI, voce Stato di necessità, in Dig. disc. pen., 1997.
[27] MARINUCCI, La colpa per inosservanza di leggi, Milano, Giuffrè, pag.195 che richiama JESCHECK-T. WEIGEND, Lehrbuch des Strafrechts, § 55, 1, 2, b e G. FREUND, Strafrecht, § 5, 29 e ROXIN, Strafrecht, § 24, 50 per i quali il modello di agente deve essere costruito a partire da un punto di vista di carattere oggettivo, tuttavia si ammette da sempre che le particolari abilità e conoscenze dell'autore del reato possano venire valorizzate per innalzare lo standard di diligenza cui il soggetto è tenuto.
[28] M. GALLO, Appunti di diritto penale, Giappichielli, Torino, pag. 152.
[29] Grotto, PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA, RIMPROVERABILITÀ SOGGETTIVA E COLPA SPECIFICA, Giappichelli, Torino, 2012 pag. 65 e ss.
[30] LOSAPPIO, Responsabilità penale del medico cit che cita CANEPA, L’imputazione soggettiva della colpa nella dottrina e giurisprudenza di lingua tedesca, pag. 662 e ss., il quale vede quelle soggettive non come interposte tra Unrecht (illecito) e Schuld (colpevolezza), bensì completamente nell’Unrecht.
[31]ATTILI, L’agente - modello “nell’era della complessità”: tramonto, eclissi o trasfigurazione? in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, 1240.
[32] MANNA, Corso di diritto penale. Parte generale, Milano, 3ª ed., 2015, pag. 263 ss
[33] Grotto, PRINCIPIO cit. Pag. 194 e ss.
[34] DI GIOVINE, Ombretta, Il contributo della vittima nel delitto colposo, Torino, Giappichelli, 2003, pag. 434 e ss.
[35] Grotto, PRINCIPIO cit. pag. 199.
[36] Commissione per la riforma del codice penale presieduta dal prof. Carlo Federico Grosso - D.M. del 1° ottobre 1998.
[37] FIANDACA, Caso fortuito e forza maggiore nel diritto penale, in Digesto delle discipline penalistiche, Torino, Utet, 1988, pag. 111 e ss.
[38] ANGIONI, Norme definitorie e progetto di legge delega per un nuovo Codice penale, in CANESTRARI, Stefano (a cura di), Il diritto penale alla svolta di fine millennio. Atti del convegno in ricordo di Franco Bricola (Bologna, 18-20 maggio 1995), Torino, Giappichelli, 1998. Pag. 195 e ss.
[39] Grotto, PRINCIPIO, cit. pag. 354 e ss.
[40] Grotto, PRINCIPIO, cit. che a pag. 160 cita PALAZZO, Corso di diritto penale. Parte generale, Torino, Giappichelli, 2006 pag. 472 e ss.
[41] Non si dimentichi: l’accettazione della proliferazione di iper-specializzazioni è avvenuta di pari passo con l’accettazione della proliferazione di regole cautelari altrettanto iper-specialistiche, del tutto incompatibili con settori diversi rispetto a quelli per i quali se ne è richiesta la formulazione. Quindi, come poter chiedere ad un medico di famiglia, ad un neo specializzando in fisiatria, ad un medico di pronto soccorso di conoscere istantaneamente tutto il compendio cautelare proprio del miglior medico virologo?
[42] Grotto, PRINCIPIO cit. che a pag. 160 cita PALAZZO cit. Pag. 472 che ritiene tale modello ““espediente” escogitato dall’ordinamento, poiché in realtà l’agente modello non ha un’afferrabilità concettuale netta e precisa. Con la conseguenza che questo “modello” viene alla fine dei conti individuato dal giudice, anche se indubbiamente sulla base dell’osservazione criticamente consapevole della realtà sociale”.
[43] Grotto, PRINCIPIO cit. pag. 161.
[44] Epidendio, Diritto nello “stato di eccezione” ai tempi dell’epidemia da Coronavirus in Giustiziainsieme.it
[45] Corte Cost. sent. n. 83/2010.
[46] Forzati, Irrilevanza penale del disastro ambientale, Regime derogatorio dei diritti e legislazione emergenziale: I casi Eternit, Ilva ed emergenza rifiuti in Campania. Lo stato d’eccezione oltre lo stato di diritto, pag. 25 che cita DONINI, Il diritto penale di fronte al nemico, in Cass. Pen., 2006 p.910 e ss.
Il Consiglio di Stato nega l’efficacia di accertamento e l’ultrattività del principio di diritto affermato dalle sezioni unite in caso di sopravvenuta estinzione del processo.
Irrogata da un Consiglio dell’Ordine degli Avvocati ad un proprio iscritto la sanzione disciplinare della radiazione e confermata la sanzione dal Consiglio Nazionale Forense, la decisione di quest’ultimo viene impugnata innanzi alle Sezioni Unite che accolgono il ricorso ritenendo che la sanzione della radiazione sia fondata su una ricostruzione parziale e incompleta dei fatti e annullano la decisione con rinvio al CNF.
Il giudizio innanzi al CNF non viene però riassunto né dal ricorrente, né dal COA in quanto, a seguito della sentenza della Cassazione, l’avvocato viene reiscritto all’Albo in accoglimento d’istanza dal medesimo presentata.
L’iscritto promuove a questo punto azione risarcitoria innanzi al GA per il danno patito a causa della illegittima radiazione, che viene respinta nel presupposto che l’accertamento operato dalle Sezioni Unite sull’illegittimità della radiazione non sia sufficiente per esercitare l’azione risarcitoria perché “nel caso di specie non v’è stata una sentenza di annullamento passata in giudicato”.
Secondo la sentenza della Sezione Terza del Consiglio di Stato, l’accertamento alla base della pronuncia rescindente della Cassazione, che ritiene la sanzione fondata su un accertamento incompleto dei fatti, non sarebbe utilmente invocabile a fini risarcitori, anche perché avrebbe perso efficacia a causa della mancata riassunzione del giudizio innanzi al CNF. La mancata riassunzione avrebbe infatti comportato l’estinzione del solo giudizio svolto in forma processuale e la contestuale reviviscenza dell’originario provvedimento puramente amministrativo.
La sentenza esclude l’applicabilità dell’art. 393 c.p.c. a norma del quale il principio di diritto affermato dalla Corte di Cassazione sopravviverebbe all'eventuale estinzione del giudizio e ripropone la tesi della pregiudizialità dell’annullamento rispetto all’azione risarcitoria, della quale viene quindi nuovamente negata l’autonomia. Sembra pertanto che, sotto il profilo della pregiudizialità, i termini della questione vengano riproposti così come lo erano anteriormente all’entrata in vigore del codice del processo amministrativo e alla pronuncia resa da Cass. S.U. 23 12 2008 n. 30254 che, enunciando il principio di diritto nell’interesse della legge, era esplicitamente finalizzata a confermare l’orientamento già espresso nelle ordinanze n. 13659, n. 13660 e n. 13911 del 2006 (le ordinanze con le quali le Sezioni Unite avevano affermato che “ Tutela risarcitoria autonoma significa tutela che spetta alla parte per il fatto che la situazione soggettiva è stata sacrificata da un potere esercitato in modo illegittimo e la domanda con cui questa tutela è chiesta richiede al giudice di accertare l'illegittimità di tale agire. Questo accertamento non può perciò risultare precluso dalla inoppugnabilità del provvedimento né il diritto al risarcimento può essere per sé disconosciuto da ciò che invece concorre a determinare il danno, ovvero la regolazione che il rapporto ha avuto sulla base del provvedimento e che la pubblica amministrazione ha mantenuto nonostante la sua illegittimità. Dunque il rifiuto della tutela risarcitoria autonoma, motivato sotto gli aspetti indicati, si rivelerà sindacabile attraverso il ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione”).
La didattica di Franco Cordero
di Arturo Capone
La didattica di Cordero era caratterizzata dalla fascinazione verso un percorso di apprendimento impegnativo e irto di ostacoli, che apriva le porte a un livello superiore di conoscenza.
Franco Cordero incuteva soggezione. Erano tempi diversi da oggi, nei quali il professore si sforza di venire incontro agli studenti e, se ci riesce, persino di risultare simpatico. Decisamente non aveva questa preoccupazione. In aula entrava senza dire buongiorno o fare un sorriso di circostanza e incominciava direttamente a spiegare, con uno stile non troppo diverso da quello che si trovava sul manuale, deliberatamente preordinato più a disorientare che a semplificare. Lui stesso però non attribuiva grande importanza alle lezioni: la cosa importante – diceva – è studiare il manuale.
Il manuale – la Procedura penale – aveva un impatto enorme sugli studenti. Anche chi poi si è dedicato ad altro nella vita spesso lo ricorda ancora, a distanza di decenni, come un testo perturbante, che bisognava studiare mettendo in campo risorse nuove, non richieste in nessuna delle altre materie fino a quel momento incontrate nel corso di laurea in giurisprudenza.
Si trattava in effetti di un testo affascinante e difficile. Le sue peculiarità si sono via via intensificate nelle edizioni che si sono susseguite dal 1966 al 2012. Nelle ultime, non solo l’intero processo, nelle prime sfavillanti cento pagine, ma ogni singolo tema era preceduto da un’introduzione, che per semplicità si potrebbe chiamare “storica”, ma che in effetti era composta da una sorta di montaggio di riferimenti letterari, precedenti normativi, atti di processi antichi, discussioni dottrinali, ritratti di personaggi, fonti romanistiche, etc. Queste parti, di primo acchito, suscitavano nello studente l’impressione di un’oscura divagazione; distrarsi però era esiziale, perché il nucleo interpretativo della disciplina, quello che l’introduzione serviva a mettere piano piano a fuoco, era poi esposto, talvolta all’improvviso, in poche fulminanti parole.
A dispetto della molteplicità dei materiali che entravano a far parte del manuale, infatti, la sintesi era un tratto costitutivo del suo stile. Questa sintesi senza dubbio era una risorsa: consentiva di fornire una quantità smisurata di informazioni. La Procedura in realtà era un trattato ridotto a mille pagine. «C’è tutto!» - ci dicevamo ammirati ma anche un po' impressionati, quando ancora anni dopo, studiando qualche piccola questioncina su cui speravamo di poter scrivere qualcosa di nuovo, riguardando il manuale ne trovavamo menzione. Tre parole, ma c’era.
E queste brevi, icastiche espressioni, con cui Cordero sintetizzava problemi, sfondi, dibattito e soluzioni, avevano perciò una carica semantica enorme. Ogni volta che le rileggevamo, magari via via che si affinava la conoscenza della materia, riconoscevamo sempre nuove implicazioni, prima non colte.
La sintesi però era indubbiamente anche un divertissement letterario. Raggiungeva la sua acme in quel vero e proprio virtuosismo costituito dai brevi abstract che nel manuale erano anteposti ad ogni paragrafo: un terzo di pagina o poco più, in carattere più piccolo, che secondo Cordero avrebbero dovuto facilitare la memorizzazione del testo. Ma anche dopo lo studio approfondito del paragrafo, quell’abstract era talmente condensato da restare obiettivamente criptico.
L’apprendimento del manuale in genere aveva un decorso anomalo. Di solito, per quanto riguarda le discipline di base del corso di laurea in giurisprudenza, l’esposizione della materia, curata appunto in modo da risultare chiara, non comporta soverchie difficoltà di comprensione; bisogna però rileggere il testo più volte, magari anche ripeterlo a voce alta, per arrivare a una sua memorizzazione, sufficiente per affrontare l’esame. Con la Procedura penale le cose andavano diversamente. Bisognava leggere e rileggere più volte per comprendere il testo, o, meglio, il senso dei suoi riferimenti, la sua logica, le sue implicazioni, le sue soluzioni. Ma poi, una volta raggiunta tale comprensione, non era più necessaria alcuna rilettura o ripetizione; concetti e immagini si incistavano irreversibilmente nella memoria.
Aver studiato con Cordero, perciò, si rivelava a volte nella forma angosciante di una sorta di colonizzazione linguistica e del pensiero. Tutti coloro che hanno poi continuato a occuparsi di procedura penale hanno dovuto affrontare a lungo questa specie di condanna, per cui, al momento di scrivere, tornavano in mente, anche a tradimento, le frasi con cui Cordero scolpiva i concetti – come non si potesse nemmeno pensare la procedura con parole diverse. Quindi dopo, rileggendo, bisognava disincrostare il testo di tutto ciò che in effetti non ci apparteneva, e purtroppo, spesso, il meglio andava via.
Continuare a studiare all’ombra di Cordero non era facile. Anche per ragioni strettamente accademiche: non amava avere allievi, cerchie, clientes; solo rapporti, eventualmente, di stima, e ciascuno doveva badare a sé stesso. Ma, soprattutto, maturare il proprio punto di vista era particolarmente impegnativo. Bisognava confrontarsi con un interlocutore radicatissimo nelle sue opinioni e poco disposto a tollerare dissensi. Si trattava senza dubbio di una rigidità, non condivisibile, fondata però sulla obiettiva consapevolezza che il suo punto di vista era maturato all’esito di studi di ampiezza e spessore difficilmente eguagliabili. Ricordo la prima volta che gli chiesi di leggere un testo, che ambiva ad essere la mia prima nota a sentenza. La tesi centrale dello scritto stava nell’idea, allora negata dalle Sezioni unite, della possibilità di considerare alcuni vizi della motivazione alla stregua di errores in procedendo. Cordero non condivideva questa idea – lo sapevo già – ma speravo di convincerlo con le mie argomentazioni. Mi disse che, sì, nel complesso il lavoro non era male, tranne il fatto che sostenevo quella tesi, che a suo giudizio andava espunta dal novero delle opinioni giuridicamente predicabili. Poi aggiunse: «D’altra parte, guardi un po’ chi cita!», e, pronunciando il nome dell’autore che avevo usato per argomentarla, scoppiò in una risata che a me parve demoniaca. E che avesse qualcosa di oltremondano, ma ambivalente, a tratti mi capitava di pensarlo, quando scherzavo ad accostare il suo cognome – ‘agnello’, il simbolo sacrificale – al suo incedere leggermente claudicante. Naturalmente non bisognava arrendersi, ma studiare ancora a lungo, riverificare la sostenibilità delle proprie idee, argomentarle molto meglio. E così il suo essere straordinariamente esigente con gli altri, imponeva agli altri di essere straordinariamente esigenti con sé stessi.
Nel merito, ciò che caratterizza la didattica di Cordero potrebbe essere descritto, sia pure un po’ approssimativamente, come un invito a studiare il processo penale come parte della storia della cultura.
Come si accennava all’inizio, si tratta di una scelta non originaria; i due piani del discorso si sono a poco a poco intrecciati, come se, in termini di produzione scientifica, i materiali di Riti e sapienza del diritto, la monumentale opera del 1981, siano infine confluiti nella Procedura penale. Ecco perché studiarla risultava difficile e affascinante. Perché, per spiegare ogni frammento normativo, venivano chiamati a raccolta l’antropologia, la storia, la teoria del linguaggio, la sociologia, il pensiero giuridico, la politica, etc.; naturalmente, per via della necessaria sintesi, non esposti in una sequenza ordinata, ma messi in scena in una sorta di teatro dell’immaginario.
Ancora oggi che nell’insegnare uso un metodo agli antipodi, cercando cioè, per quanto riesco, di essere semplice e accessibile, vengo a tratti colto da alcuni dubbi radicali. Mi domando cioè se questo metodo non favorisca piuttosto – come direbbe Cordero – la pigrizia mentale; forse, invece di adattare la materia al livello di comprensione dello studente, bisognerebbe piuttosto saperlo attrarre, magari affascinandolo con una scrittura luccicante, verso un livello superiore. Personalmente sedo i miei dubbi con la consapevolezza che tanto non ci riuscirei.
I testi giuridici – si sa – invecchiano presto. Il pensiero che la Procedura possa smettere di essere un riferimento per le nuove generazioni di studiosi mi inquieta. Credo però che essa, anche una volta sorpassato il testo normativo di cui parla, possa conservare non solo un valore retrospettivo, ma una sua perdurante efficacia didattica. Cordero, in un certo senso, grazie alle sue molteplici peregrinazioni intellettuali ha portato tutto il mondo dentro la procedura. Spesso noi studiosi, quando vogliamo sapere qualcosa del mondo che sta oltre la procedura, in effetti ci accontentiamo di leggere Cordero. Il manuale ci invita piuttosto a intraprendere il percorso all’inverso; a usarlo come una porta, che dalla procedura consente di avventurarsi in quel mondo.
Franco Cordero Il lascito formativo di un grande Maestro
di Giuseppe Santalucia
Sommario. 1. Il senso di questo ricordo. – 2. La centralità scientifica del Manuale. – 4. Il contributo alla Procedura come settore scientifico autonomo. – 5. Il volto politico del processo. – 6. L’intellettuale impegnato. – 7. Una lezione di vita sul Potere.
1. Il senso di questo ricordo.
L’8 maggio è scomparso Franco Cordero, uno dei grandi Maestri della Procedura penale.
Non posso condividere con i lettori della Rivista ricordi personali dello studioso, per il semplice fatto che non ho avuto la fortuna di frequentarlo o anche soltanto di farne la personale conoscenza.
Ho solo memoria di un incontro a margine di un convegno veneziano di circa dieci anni fa sull’abuso del processo, in cui mi sorpresi a pensare come la gracilità del fisico minuto potesse sostenere – e accompagnarsi a – una tale possanza del pensiero.
Non ho neanche la pretesa di tratteggiarne la figura di intellettuale, troppo elevata e poliedrica – storico, filosofo, romanziere, opinionista politico, oltre che giurista – perché io possa misurarmi con un impegno all’evidenza al di fuori della mia portata.
Coltivo piuttosto, con queste poche righe, un proposito modesto: testimoniare che un’ampia platea di studenti e poi operatori del diritto – categoria vasta se si considerano i molti anni di influenza dell’insegnamento di Franco Cordero nell’Università italiana e in cui posso annoverarmi, uno fra i tanti – ha trovato nei suoi scritti, soprattutto nel poderoso Manuale, le chiavi per una lettura critica e consapevole di una materia che, per mezzo del suo insegnamento, ha saputo affascinare.
Allievi di Franco Cordero, in un senso ampio, sono stati molti di più di quelli che hanno avuto la fortuna di giovarsi del suo insegnamento diretto o, ancor più, di essere guidati e sostenuti nel percorso di studi post-universitari. In ciò risiede la grandezza dello studioso e del maestro, che attraverso i libri e gli scritti ha saputo contribuire alla formazione giuridica di un numero vastissimo di studenti e giuristi.
2. La centralità scientifica del Manuale.
Ne parlo come di un fenomeno raro, perché tale è.
In un periodo di copiosa, quasi alluvionale, produzione di volumi giuridici, anche nel settore del diritto processuale penale, sono poche, pochissime, le opere che si stagliano nella moltitudine dei testi e si pongono come punti fermi, guide sicure a cui attingere con mai inutili riletture che fanno scoprire e riscoprire aspetti prima non colti, non consapevolmente acquisiti in tutto il loro significato.
Molti hanno detto, e giustamente, che è riduttivo definire manuale un’opera che, in una pluralità di edizioni, ha accompagnato il passaggio dal vecchio al nuovo codice nelle sue molteplici e progressive novelle.
Un testo complesso, di impegnativa lettura per profondità concettuale e ricchezza di riferimenti storici, che si avvale di una scrittura asciutta, essenziale e densa, che non consente distrazioni, allentamenti di attenzione.
Con una molteplicità di livelli di approccio sa essere fruibile dallo studente e dallo studioso maturo, sa parlare a chi muove i primi passi nell’apprendimento della materia – seppure a condizione di una particolare ma adeguatamente contraccambiata determinazione ad apprendere – e a chi ne è invece cultore esperto, dando al primo il senso compiuto della struttura processuale col disvelamento del significato politico in uno alla spiegazione dei meccanismi di funzionamento, e offrendo al secondo spunti interpretativi prima rimasti in ombra, connessioni feconde di nuove sistemazioni e ricostruzioni.
3. Le ragioni del successo del Manuale.
Il Manuale sa mantenere vivo negli anni il dialogo con il lettore, evita che si esaurisca perché dischiude sempre nuovi orizzonti, fa sperimentare nuovi percorsi e stimola nuove riflessioni.
Da dove, ci si chiede allora, tanta ricchezza?
Anzitutto, penso di poter dire, dalla straordinaria capacità di storicizzazione degli istituti, dalla sapiente collocazione nella storia del pensiero e degli assetti culturali della società, che rendono viva la Procedura e danno immediata comprensione anche al meno attrezzato tra i lettori di come essa sia, come lo stesso Cordero ha ricordato, il prodotto e lo specchio del grado di civiltà di una comunità. Dalla dimensione storica, dalla individuazione delle radici di alcuni tra i più importanti istituti si è agevolati nel cogliere le ragioni del presente, a penetrare con maggior consapevolezza nel cuore del meccanismo processuale.
Il Manuale tratteggia la dimensione autenticamente politica del processo, luogo di esercizio di un potere terribile quale è quello dell’uomo che può disporre della libertà dell’altro. Il processo penale ha da sempre rappresentato una delle principali forme della relazione tra il Potere e la vita e i modi in cui questa relazione si è nel tempo declinata sono il precipitato della cultura politica che ne è stato e ne è contesto.
Questo postulato della dottrina processualistica è l’architrave democratica su cui prende corpo l’intero insegnamento del Manuale, condotto con eccezionale nitore logico nella spiegazione degli istituti e caratterizzato dalla semplicità delle soluzioni critiche
Qui si coglie, ritengo, l’altro grande carattere dell’opera che ne fa impareggiabile strumento di studio.
Si tratta dall’uso sapiente di un metodo improntato a rigore scientifico, che fa apparire, appunto, semplice quel che altrimenti, senza quella guida ricostruttiva, sarebbe risultato oltremodo ostico e complesso.
4. Il contributo alla Procedura come settore scientifico autonomo.
È lo stesso robusto pensiero critico che si ritrova in quell’altra importante opera, un classico della letteratura processuale, costituita dai Tre studi sulle prove penali, con cui Cordero definì, nei lontani anni sessanta del secolo passato, una sistemazione dommatica del procedimento probatorio e delle patologie della prova ancora attuale, e che ha favorito con largo anticipo la riforma della disciplina codicistica del 1988.
Sono scritti che, come più volte e da più parti è stato sottolineato, hanno contribuito alla strutturazione della procedura penale in settore scientifico autonomo dal Diritto penale, facendo cessare quel periodo di ancillare marginalità che, almeno fino agli anni trenta del secolo scorso, aveva segnato il rapporto tra la pratica processuale, roba da cerusici-flebotomi-barbieri del diritto, e il Diritto penale. Anche se, avverte Cordero, non era stato sempre così, perché nei secoli ancora precedenti la Procedura aveva avuto ben altre fortune, quando nel primo basso Medioevo italiano la letteratura penalistica originava come procedura.
In questa direzione, che lo individua come uno dei Padri del diritto processuale penale appunto perché tra gli artefici dell’autonomizzazione dommatica e quindi fautore della dignità scientifica della disciplina, va richiamato un lavoro monografico precedente, Le situazioni soggettive nel processo penale, del 1956.
Un’opera che innovò rispetto alle tradizionali teorizzazioni del processo incentrate sulla nozione di rapporto giuridico e dei presupposti processuali di impronta manziniana, e pose attenzione al fenomeno processuale in termini di combinazione e di convergenza dei comportamenti degli attori, parti e giudice, riguardati nella loro relazione con una norma attributiva di una situazione definibile in termini di potere, facoltà, onere e dovere; e quindi esaminati nella loro rilevanza secondo le previsioni di fattispecie normativamente qualificate.
Come osserva Cordero, l’adesione alla categoria del rapporto giuridico per spiegare il fenomeno processuale aveva prodotto non pochi guasti nella giurisprudenza che, utilizzando quella metafora, era giunta a negare la qualità di imputato al non comparso davanti al giudice istruttore che aveva emesso un mandato. Anche se – è lo stesso Cordero a evidenziarlo –, proprio lavorando intorno alla nozione di rapporto giuridico, la Corte di cassazione, notoriamente aliena da mosse libertarie, era riuscita a contenere i dannosi effetti della riforma autoritaria degli anni trenta del secolo scorso con cui erano state relativizzate tutte le nullità; per i casi – ad esempio – di nullità, precocemente sanate, del decreto di citazione e quindi di dibattimenti svolti in assenza dell’imputato non citato oppure in assenza del difensore, del pari non avvisato, la giurisprudenza aveva risposto dando vita, in ragione del mai costituito rapporto processuale e quindi dell’assenza dell’imputato e/o del difensore, ad una forma patologica atipica, l’inesistenza, rendendo così rilevabile anche d’ufficio e senza alcun termine il vizio dell’atto compiuto in assoluto spregio delle garanzie difensive.
5. Il volto politico del processo.
Riguardato dal punto di vista delle situazioni giuridiche soggettive il fenomeno processuale è colto nella configurazione dinamica, nella sua struttura progressiva, e assai meglio si adatta al modello accusatorio per atteggiarsi a spettacolo dialettico, tensione agonistica, partita aperta, duello, secondo regole e forme che plasmano il conflitto, e in cui più che l’esito contano, appunto, le regole del gioco: perché la caccia val più della preda e cioè il modo in cui si agisce val più del risultato.
Da qui la necessaria attenzione alle forme, perché il processo è prassi ragionata, e l’implicito monito a non farsi suggestionare da progetti di de-formalizzazione del rito in nome di risultati più facilmente o più speditamente raggiungibili; indiscusso che le forme non devono imbrlgliare l’azione, ma regolarla e che quindi la considerazione di esse non può risolversi in vuoto formalismo.
Ma l’in-sé del processo sta nel rispetto della dignità dell’uomo, nella tutela dei suoi diritti fondamentali, condizione essenziale per rendere tollerabili gli errori che sono a volte inevitabili nell’accertamento della verità.
Non può dunque ipotizzarsi un processo senza contraddittorio, metodo epistemologicamente imposto per la formazione delle prove e regola moralmente necessaria.
Il processo è prassi ragionata, non ammette idee precostituite che non siano soggette alle verifiche di un ragionamento rigoroso, condotto secondo lo stretto principio di conseguenzialità logica, anche inesorabile, che tiene fuori dal suo raggio di azione considerazioni di risultato e accomodamenti di convenienza.
6. L’intellettuale impegnato.
La fedeltà al pensiero critico, conformato a una rigorosa geometria – come è stato di recente detto da R. Bonsignori, La geometria nel pensiero di Franco Cordero, in giurisprudenzapenale.com, 16 maggio 2020 – oltre che metodo scientifico, è principio etico.
Lo si ritrova negli anni della serrata polemica con l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, presso cui era titolare della cattedra di diritto processuale penale, quando il suo volume Gli osservanti. Fenomenologia della norma, pubblicato nel 1969, fu ritenuto un testo eterodosso, la cui lettura avrebbe potuto far perdere immediatamente la fede ai malcapitati; e determinò le autorità ecclesiastiche a revocare il nulla osta necessario a entrare a far parte del corpo docente (e a permanervi) dell’Università.
Non vi fu ostinazione o rigidità ideologica, non vi fu carenza di flessibilità – così, invece, F. D’Agostino, in Avvenire.it, 10 maggio 2020 – nella scelta di non chiedere il trasferimento ad altra sede; e, invece, di insistere in un contenzioso che infine approdò dinnanzi alla Corte costituzionale per la valutazione della legittimità della disposizione concordataria secondo cui la nomina dei professori di quella Università doveva essere preceduta dal nulla osta della Santa sede.
In quel comportamento si individua piuttosto il rifiuto etico del dogma, quale che ne sia la natura o la provenienza, ostacolo allo sviluppo del pensiero critico, che risponde e deve rispondere soltanto alle sue regole e non può recedere in vista di accomodamenti, magari utili anche in una prospettiva di utilità personale.
Lo stesso atteggiamento di intransigenza si apprezza nel più recente periodo in cui Cordero si è dedicato all’osservazione della vita e del costume politico. In quegli anni ha prodotto numerosi articoli di opinione per La Repubblica, e ha pubblicato vari volumi – Le strane regole del signor B., Nere lune d’Italia, Morbo italico –, con cui ha condotto una serrata analisi della decadenza della vita pubblica, cogliendo con lucida visione le forme, a volte sguaiate e spesso grottesche, del Potere.
7. Una lezione di vita sul Potere.
La distanza dal Potere, nelle sue manifestazioni deteriori, a tratti percorse da prevaricazione, può essere eletta a carattere distintivo delle plurime espressioni del pensiero di Cordero.
Un intellettuale che ha vissuto l’impegno universitario tenendosi lontano dalla gestione del potere accademico, che si esprime anche nell’assegnazione delle cattedre e dei posti. Non ha dato vita ad una Scuola – ed è questo il rammarico che oggi può avvertirsi –, non ha cresciuto allievi da sistemare in quella o in quell’altra Università.
È rimasto estraneo agli affari faticosi di chi assume la responsabilità del futuro professionale di altri in un mondo che ha ipocritamente dismesso i meccanismi di una lecita, trasparente e responsabilizzante cooptazione, per affidarsi a un sistema di concorsi che, oltre a mortificare a volte (spesso?) i meriti scientifici dei concorrenti, si è rivelato inadeguato ad assicurare la legittimità, o quanto meno l’immagine di essa, nelle procedure di promozione.
E su questo terreno la figura di Franco Cordero è di monito non solo all’Accademia; lo è, in misura non minore, alla Magistratura che, al pari dell’Università, si avvale degli strumenti dell’autogoverno nella gestione del potere, delle promozioni e degli avanzamenti per così dire di carriera.
Occorrerebbe accostarsi a quegli affari, a cui è pur necessario attendere, con il rigore e l’intransigenza dell’intellettuale che non devia verso i compromessi.
È un dover essere molto impegnativo, con cui le grandi figure riescono a misurarsi assai più agevolmente di quanto capita ai molti altri.
Traguardo che sembra irraggiungibile, che tollera umane défaillance e passi falsi ma che deve orientare – per quel che ora interessa – i giuristi, accademici e non.
È questo un lascito non meno rilevante dell’insegnamento di Franco Cordero. Il rigore dello scienziato che diviene fondamento etico dell’impegno pubblico.
Il parere preventivo della Corte edu e il diritto vivente italiano in materia di maternità surrogata: un conflitto inesistente o un conflitto mal risolto dalla Corte di Cassazione?
di Gabriella Luccioli
SOMMARIO: 1. La Corte di Cassazione al bivio tra diritto vivente e parere preventivo della CEDU. 2. La lesione del principio di dignità e l’ordine pubblico internazionale.
1.La Corte di Cassazione al bivio tra diritto vivente e parere preventivo della CEDU.
Avevo auspicato che la sentenza delle Sezioni Unite n. 12193/2019 in tema di maternità surrogata avrebbe costituito un punto fermo per la giurisprudenza successiva, di legittimità e di merito, ed in tal senso avevo titolato una mia nota adesiva a detta decisione[1]. Come è noto, quella sentenza aveva negato il riconoscimento di efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero con cui sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’ estero mediante ricorso alla pratica di surrogazione ed il genitore di intenzione italiano, stante il divieto posto dall’ art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004, qualificabile come principio di ordine pubblico, ed aveva affermato che la tutela di valori fondamentali, quali la dignità umana della gestante e l’ istituto dell’ adozione, non irragionevolmente ritenuti dal legislatore prevalenti sull’ interesse del minore, non escludeva la possibilità di conferire rilievo al rapporto genitoriale mediante altri strumenti giuridici, quali l’ adozione in casi particolari.
Il mio auspicio si è purtroppo dissolto alla lettura dell’ ordinanza n. 8325 del 2020 della prima sezione della Corte di Cassazione, che dopo meno di un anno ha preso le distanze dalla suindicata decisione ed ha proposto la questione di costituzionalità dell’ art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004, degli artt. 18 del d.p.r. n. 396 del 2000 e 64, comma 1, lett. g), della legge n. 218 del 1995, nella parte in cui non consentono, secondo il diritto vivente, che possa essere riconosciuto e dichiarato esecutivo, per contrasto con l’ ordine pubblico, il provvedimento giudiziario straniero relativo all’ inserimento nell’atto di stato civile di un minore procreato con le modalità della gestazione per altri del c.d. genitore d’ intenzione non biologico, per contrasto con gli artt. 2, 3, 30, 31, 117, comma 1, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 della CEDU, 2, 3, 7, 8, 9 e 18 della Convenzione ONU sui diritti dei minori, e art. 24 della Carta dei Diritti dell’ UE.
Il passaggio argomentativo attraverso il quale la sezione semplice si è sottratta al vincolo del precedente delle Sezioni Unite è costituito dal richiamo al parere espresso in materia dalla Grande Camera della Corte Europea ai sensi del Protocollo n. 16, che nell’ assunto si porrebbe in contrasto insanabile con il diritto vivente cristallizzato nella suindicata pronuncia delle Sezioni Unite.
Tale impostazione suscita serie perplessità. In primo luogo va rilevato che l’ordinanza in commento muove da un presupposto errato lì dove afferma che successivamente alla sentenza delle Sezioni Unite è intervenuto il parere della Grande Camera: ed invero il parere in discorso è stato emesso il 10 aprile 2019, mentre la pubblicazione della sentenza delle Sezioni Unite è dell’8 maggio 2019, così da doversi escludere l’esistenza di un contrasto sopravvenuto con la giurisprudenza della CEDU.
In secondo luogo, se pure non può negarsi che anche in mancanza di ratifica del Protocollo Addizionale da parte dell’ Italia il parere può rivestire un indiretto rilievo interpretativo nel nostro ordinamento, sembra ardito assumere il parere stesso, per sua natura non vincolante neppure per il giudice francese richiedente, quale parametro di riferimento imprescindibile ai fini della affermazione del diritto del minore nato da maternità surrogata ad essere riconosciuto figlio anche del genitore di intenzione.
Ed invero lo strumento di dialogo con le Corti nazionali introdotto dal Protocollo n. 16 è per sua natura rivolto a fornire in via preliminare una mera opinione della Corte di Strasburgo su una questione di principio relativa all’ interpretazione o all’ applicazione dei diritti e delle libertà definiti dalla CEDU, fornendo al giudice nazionale richiedente un ausilio al fine di prevenirne la violazione nella soluzione del caso concreto.
Ed ancora, il denunciato contrasto con il diritto vivente italiano non è affatto scontato, atteso che in sede consultiva la Corte di Strasburgo, dando risposta ai due quesiti formulati, concernenti i limiti e la discrezionalità degli Stati in materia di trascrizione dell’ atto di nascita formato all’ estero, da un lato ha affermato che il diritto del minore al rispetto della vita privata ai sensi dell’ art. 8 della Convenzione richiede che il diritto interno offra una possibilità di riconoscimento del legame di filiazione con la madre intenzionale, indicata nell’atto di nascita come madre legale, ma dall’ altro lato ha precisato che il rispetto della vita privata del bambino non esige che tale riconoscimento avvenga mediante la trascrizione nei registri dello stato civile di detto atto di nascita, potendo il riconoscimento avvenire in altro modo, ad esempio con l’ adozione da parte della madre intenzionale, sempre che la procedura stabilita dall’ ordinamento nazionale garantisca una sua tempestiva ed efficace attuazione, nel rispetto del superiore interesse del minore. A tale riguardo la Corte Europea ha fatto riferimento ad ulteriori fondamentali componenti del diritto alla vita privata che devono essere tutelati, come quelli concernenti il rischio di abusi che il ricorso alla gestazione per altri può comportare e l’ impossibilità per il figlio di conoscere le proprie origini.
Ciò vale a dire che, escluso che il superiore interesse del bambino si realizzi solo con la sua iscrizione anagrafica come figlio della coppia committente, resta rimessa alla discrezionalità del legislatore statale la scelta del mezzo utilizzabile per il soddisfacimento del diritto alla bigenitorialità. La sussistenza di un vincolo genetico con il minore viene così a segnare il limite oltre il quale appartiene alla discrezionalità del legislatore statale l’individuazione degli strumenti più adeguati per conferire rilievo giuridico al rapporto genitoriale, fermo l’obbligo di assicurare una tutela comparabile a quella ordinariamente collegata allo status filiationis.
Va peraltro ricordata al riguardo la sentenza emessa dalla stessa Grande Camera il 24 gennaio 2017, nel caso Paradiso e Campanelli c. Italia, che riformando la pronuncia della seconda Camera del 27 gennaio 2015 ha escluso la violazione dell’art. 8 della CEDU da parte dell’Italia nel caso di un minore nato da maternità surrogata e sottratto ai genitori a causa dell’inesistenza di un legame biologico con i coniugi. In tale decisione la Corte di Strasburgo, premesso il riconoscimento della discrezionalità degli Stati nella disciplina del fenomeno, ha affermato la legittimità dell’ allontanamento del minore da parte dello Stato italiano in ragione dell’ interesse pubblico superiore di ripristinare la legalità violata e dell’ urgenza di adottare misure a tutela del bambino, così rifiutando la logica del fatto compiuto e della esaltazione della genitorialità di intenzione, ed ha anche negato che il superiore interesse del minore, in termini di continuità affettiva, costituisca criterio prevalente rispetto a detto interesse pubblico.
Tale decisione, espressione anch’ essa della più alta articolazione della Corte di Strasburgo, è stata del tutto ignorata dall’ ordinanza in esame, che pure avrebbe dovuto illustrare le ragioni della prevalenza ai fini interpretativi del parere espresso ai sensi del Protocollo n.16.
D’ altro canto l’idoneità dell’adozione in casi particolari a porsi come clausola di chiusura del sistema e come adeguato strumento di tutela del diritto del minore di veder riconosciuti i legami sviluppatisi sul piano affettivo ed educativo con altri soggetti, all’ unica condizione della constatata impossibilità, anche di diritto, di procedere all’ affidamento preadottivo era stata espressamente riconosciuta dalle stesse Sezioni Unite e costituiva quindi diritto vivente, in chiara sintonia con il parere della CEDU, pur non menzionato in motivazione.
È allora evidente il cortocircuito che inficia il ragionamento della Corte, la quale da un lato ritiene non esserle consentito fornire un ‘ interpretazione che si contrapponga a quella adottata dalle Sezioni Unite, in ragione della sua attitudine a radicare il diritto vivente al fine di garantire la certezza e l’ uniformità dell’ applicazione del diritto, quale bene fondamentale dell’ ordinamento giuridico, dall’ altro lato si avvale proprio dell’ autorità di quel precedente per sollevare una questione di costituzionalità volta a rimuovere la disposizione sottostante al principio enunciato dalle Sezioni Unite.
Non può ancora non sottolinearsi la linea di convergenza tra le Corti sulle modalità di tutela del nato da gestazione per altri, atteso che anche la Corte Costituzionale ha fatto riferimento all’istituto dell’ adozione nella sentenza n. 272 del 2017, lì dove ha affermato che non possono non assumere oggi particolare rilevanza da un lato le modalità del concepimento e della gestazione e, dall’ altro, la presenza di strumenti legali che consentano la costituzione di un legame giuridico col genitore contestato, che, pur diverso da quello derivante dal riconoscimento, quale è l’ adozione in casi particolari, garantisca al minore una adeguata tutela.
2.La lesione del principio di dignità e l’ordine pubblico internazionale.
La posizione della sezione semplice di netto dissenso rispetto alla sentenza n. 12193 del 2019 è ancor più evidente nella seconda parte della motivazione dell’ ordinanza, che reca come titolo Conflitto con i principi d’ inviolabilità dei diritti fondamentali del minore, d’ uguaglianza, non discriminazione, ragionevolezza e proporzionalità: qui si censurano in modo diretto, senza più lo schermo del parere della CEDU, i vari passaggi della decisione delle Sezioni Unite, ravvisando in essi un contrasto con gli artt. 2, 3, 30 e 31 della Costituzione, e specificamente contestando l’ accezione in essa assunta del concetto di ordine pubblico internazionale e del suo rapporto con il principio del superiore interesse del minore.
Mi limito in questa sede a qualche breve osservazione sull’ ordine pubblico internazionale, un concetto che inevitabilmente chiama in gioco il principio di dignità, quale elemento costitutivo dell’ordine pubblico e valore fondante dell’intero ordinamento.
La Cassazione evita di confrontarsi con la problematica che la lesione del principio di dignità solleva, affermando che il riconoscimento della sentenza straniera non implica alcun riconoscimento del contratto di maternità surrogata, e quindi non incide sulla dignità della donna ferita dalla pratica di surrogazione, ma produce soltanto l’ effetto di riconoscere lo status e l’ identità del figlio, come acquisiti all’ estero: è agevole replicare che il riconoscimento di detto status involge comunque l’ accertamento di un rapporto genitoriale radicato nel fatto di surrogazione, che non può essere bypassato seguendo una prospettiva fondata esclusivamente sull’ esigenza di tutela dell’ interesse del minore.
In realtà il veloce riferimento contenuto in alcuni passaggi della motivazione alla dignità della gestante, ritenuta in ogni caso non idonea ad affievolire i diritti inviolabili del minore, denota una insufficiente consapevolezza della rilevanza primaria di quel valore che Stefano Rodotà definiva il diritto dei diritti, il supervalore da cui discendono tutti gli altri diritti, il principio che l’art. 3 della Costituzione antepone al principio di eguaglianza.
Come è noto, nell’ ampio dibattito sviluppatosi in dottrina negli ultimi anni sul significato del principio di dignità, giustificato dall’ evidente polisemia del termine, è emersa una contrapposizione tra gli studiosi, divisi tra coloro che tendono ad esaltare il profilo soggettivo del concetto, e quindi il principio di autodeterminazione, l’ autonomia morale, i convincimenti più profondi di ciascuno, e coloro che propendono per una concezione oggettiva della nozione, in essa ravvisando un nucleo assoluto, una dimensione comune a tutta l’ umanità che ha riguardo all’ esistenza stessa di ogni persona[2].
Ritengo sia possibile sottrarsi al dilemma di tale alternativa attribuendo al principio di dignità un contenuto ampio, comprensivo sia del valore originario e non comprimibile che la Costituzione e le Carte dei diritti assegnano alla persona sia del riconoscimento delle esperienze e delle sensibilità che caratterizzano il patrimonio spirituale di ognuno. Tale capacità inclusiva rende possibile declinare il principio secondo direttrici diverse, in relazione alle situazioni concrete oggetto di esame: se il diritto di morire con dignità non può non essere ancorato alla visione soggettiva del malato ed alla sua personalissima percezione della dignità nel momento estremo del distacco dalla vita, altre situazioni, come quella del celebre lancio dei nani sparati da un cannone per il diletto degli spettatori esaminato dalla giurisprudenza francese, richiamano il valore assoluto della dignità innata, che appartiene al patrimonio irrinunciabile della persona umana e che per questo non lascia spazio a scelte di volontaria rinuncia.
È indubbiamente vero che l’assunzione in termini oggettivi del concetto di dignità carica il giudice di una forte responsabilità, in quanto lo chiama a dare significato e sostanza a quel principio, evitando di ancorarlo a valori del tutto personali, ma è altrettanto certo che in tale percorso la stella polare non può che essere il rispetto della persona.
Come appare evidente, assumere il concetto di dignità quale valore assoluto, oggettivo ed irrinunciabile a fronte di comportamenti lesivi vuol dire identificare il bene tutelato non solo o non tanto nella dignità del soggetto coinvolto, ma in quella di ogni essere umano.
L’ operazione che tende a cancellare il rapporto tra la donna e il bambino che porta in grembo, ignorando i legami biologici e psicologici che si stabiliscono tra madre e figlio nel lungo periodo della gestazione, così smarrendo il senso umano della gravidanza e del parto, trascurando i pesanti limiti cui devono sottostare le donne durante la gestazione rispetto all’ alimentazione, allo stile di vita, ai controlli medici, riducendo la donna a mero strumento riproduttivo e la nascita del figlio ad evento conclusivo di tale prestazione servente, assumendo la filiazione come mezzo di autorealizzazione del soggetto committente, e non più come rapporto nascente dal fatto generativo[3], costituisce un attacco demolitore della relazione materna ed una ferita alla dignità non solo di quella donna, ma di tutte le donne. La rinuncia preventiva ai diritti materni si risolve in un atto contrario alla libertà non solo di quella donna, ma di tutte le donne.
Ed è appunto questa valenza oggettiva, nel caso di gestazione per altri, del concetto di dignità che rende improponibile la posizione di quanti invocano quel principio di autodeterminazione che esige di essere rispettato in tutte le sue espressioni, in nome di un neoliberismo culturale che postula la totale disponibilità da parte delle donne del proprio corpo.
Al contrario, la natura penale della sanzione prevista dall’ art. 12, comma 6, della legge n. 40 esprime con chiarezza la funzione della norma di tutela di interessi di rilevanza costituzionale, ed in particolare del valore supremo della dignità umana.[4]
Se non si dà senso a parole che lo hanno smarrito si finisce con il pensare che far nascere un bambino con la surrogata sia un gesto di libertà e di progresso, mentre il rifiutare una pratica che riduce le donne a meri supporti materiali per la realizzazione di un progetto altrimenti irrealizzabile ed i bambini a oggetto di scambio, secondo una logica meramente proprietaria, sia segno di bigottismo reazionario. Peraltro, contrariamente a quanto osserva l’ordinanza in esame, nulla cambia per il bambino, ma per molti aspetti anche per la madre, se ciò avviene a titolo oneroso o gratuito.
Susanna Tamaro ha definito la gestazione per altri la più sofisticata e atroce forma di schiavismo inventata dalla modernità, …. uno schiavismo che furbescamente si ammanta della parola “amore”. [5]
La Corte Costituzionale ha in più occasioni affermato, nello scrutinare varie norme contenute nella legge n. 40 del 2004, che restava ferma in ogni caso l’illegittimità della gestazione per altri ed ha rimarcato nella richiamata sentenza n. 272 del 2017 che la maternità surrogata offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane.
Ma è anche la dignità del figlio, il soggetto più debole del rapporto, che resta ferita nel momento in cui se ne fa oggetto di scambio, alterando alla nascita i suoi dati anagrafici. Il minore diventa lo strumento per soddisfare il desiderio di genitorialità dell’adulto - che non è un diritto, ma una mera e legittima aspirazione - attraverso l’interruzione in modo netto e definitivo, immediatamente dopo il parto, di quel legame simbiotico con colei che lo ha generato, con una lacerante destrutturazione della relazione materna, associata alla soppressione del diritto fondamentale di conoscere da adulto la propria identità biologica. Per tale via il bambino non è più soggetto, ma oggetto di diritto fin dal momento del suo concepimento.
Non si può ancora non tener presente, allargando lo sguardo oltre i nostri confini, che è in atto a livello mondiale una seria ridefinizione dei margini di operatività della gestazione per altri, atteso che vari Stati, in passato molto aperti in favore di detta pratica, hanno avviato un processo di revisione in senso limitativo delle proprie posizioni: la Thailandia ed il Nepal hanno vietato nel 2015 la maternità surrogata commerciale; l’ India nel dicembre 2018 ha approvato una legge che ne riduce l’ applicazione alle coppie sposate da almeno cinque anni, o almeno a quelle in cui uno dei committenti abbia passaporto indiano, disponendo altresì che la gravidanza sia gestita da una parente stretta della coppia e ponendo il divieto assoluto di maternità surrogata commerciale.
Quanto ai Paesi Europei, ricordo che la gran parte di essi, a diverse latitudini, come, tra gli altri, l’Austria, la Spagna, la Francia, la Germania, l’ Ungheria, la Norvegia, la Finlandia, la Romania, la Svizzera, vietano ogni forma di maternità surrogata (il parere della CEDU ne indica 24, oltre la Francia, tra quelli che sono parti della Convenzione); che il Parlamento Europeo con la Risoluzione del 17 dicembre 2015 ha condannato la pratica in discorso in quanto compromette la dignità umana della donna, dal momento che il suo corpo e le sue funzioni riproduttive sono usati come una merce; che il Consiglio d’ Europa l’ 11 ottobre 2016 ha bocciato la proposta di raccomandazione della parlamentare belga De Sutter diretta, tra l’ altro, a dettare le linee guida per la disciplina dello status dei bambini venuti al mondo a seguito di maternità surrogata, ritenendo che detto intervento potesse favorire la legalizzazione diffusa di detta pratica.
Mi sembra ancora utile segnalare che il 2 febbraio 2016, a conclusione di un convegno svoltosi a Parigi nella sede del Parlamento francese, è stata votata e approvata da organizzazioni impegnate nella difesa dei diritti umani, da rappresentanti del mondo politico e della comunità scientifica la Carta di Parigi, un documento volto a proporre a tutti gli Stati europei l’abolizione della maternità surrogata, ritenuta disumanizzante e contraria alla dignità e ai diritti delle donne e dei bambini.
A fronte delle tante resistenze che la gestazione per altri incontra a livello mondiale e dei tanti problemi sul piano etico e giuridico che essa solleva nei Paesi in cui è consentita ( ad esempio, quale sorte per il concepito in esubero o non corrispondente a quello ordinato?), la questione posta nell’ordinanza della Corte di Cassazione si profila come una disinvolta e pericolosa apertura verso una pratica lesiva dei diritti umani delle donne e dei bambini. E tale apertura appare ancor più discutibile in presenza dei limiti rigorosi che l’ultimo comma del novellato art. 374 c.p.c. impone alle sezioni semplici nei confronti dei principi di diritto enunciati dalle sezioni unite.
Una dimostrazione di autoreferenzialismo giuridico, che ignora i problemi etici e manifesta una radicale scissione dalla realtà, e anzi tende a superare la realtà con un uso non corretto dello strumento del diritto.[6]
[1] V. LUCCIOLI, Dalle Sezioni Unite un punto fermo in materia di maternità surrogata, in Foro It. 2019, I, c. 4027.
[2] Per un interessante scambio di opinioni sul tema della dignità v. l’intervista di CONTI ai costituzionalisti D’Aloia, D’ Amico e Repetto in Giustiziainsieme, 22 maggio 2019.
[3] In tal senso, tra gli altri, NICOLUSSI, La natura dell’umana generazione: una prospettiva giuridica, Milano, 2017, p. 143.
[4] V. sul punto, nella sterminata letteratura sul tema, RENDA, La surrogazione di maternità ed il diritto di famiglia al bivio, in Eur.dir. priv .2015, II, p.421.
[5] Intervento svolto il 23 marzo 2017 alla Camera dei Deputati, nel corso dell’incontro internazionale su Maternità al bivio, dalla libera scelta alla surrogata, una sfida mondiale.
[6] V.sul punto DI BENEDETTO, La maternità surrogata: le principali questioni bioetiche, in diritto.it, 18 dicembre 2019.
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