ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
di Christine Von Borries
Sono felice. Sto aspettando il mio amore che deve ritornare dal lavoro. Sono fortunata, come mi fa sempre notare. Lavoro come commessa in un supermercato vicino a casa mia e ho orari fissi. Otto-tredici. Quindici-diciannove. La paga non è alta. Millecinquecento euro al mese. Ma almeno è certa. Non come Pietro che, nonostante abbia finito il liceo, combatte da anni contro capi che non lo apprezzano abbastanza, lo sfruttano e ogni tanto lo licenziano perché invidiosi delle sue capacità e per paura che lui faccia loro ombra. Quando l’ho conosciuto, un anno fa, aveva appena cominciato un nuovo lavoro come rappresentante di una famosa casa farmaceutica. È il responsabile per Toscana, Umbria e Marche e deve viaggiare molto. Era stato appena lasciato da una fidanzata della quale non mi ha mai voluto parlare, ma che doveva averlo trattato molto male. Era dovuto tornare a casa della madre che vive vicino a dove lavoro. Così ha cominciato ogni tanto a fare lì la spesa. Non l’ho notato solo io. Quando vedevamo le porte scorrevoli aprirsi e lui che entrava, con le mie amiche ci facevamo un cenno e ognuna pregava che scegliesse la propria cassa. Alto, muscoloso, un ciuffo sbarazzino sugli occhi grandi. Vestito sportivo e alla moda. Jeans strappati e magliette attillate nel fine settimana. Camicia e cravatta quando lavorava. Non so perché abbia scelto me. Ancora adesso ringrazio il cielo. Ho venticinque anni, sono timida, non arrivo al metro e sessantacinque. Ho un bel sorriso, mi diceva mia madre prima che morisse per un tumore cinque anni fa. Mio padre era morto qualche anno prima ma non avevamo sentito la sua mancanza. Si erano lasciati quando mia madre non ce l’aveva più fatta, forse anche a causa mia.
Ho spolverato tutti i mobili e sto finendo di dare l’aspirapolvere in salotto. Pietro ama l’ordine e la pulizia. Non sopporta la polvere, lo sporco, la sciatteria e io purtroppo non facevo troppo caso a queste cose. Fino a che ci siamo fidanzati.
Dopo un mese che sceglieva sempre la mia cassa mi ha invitato a bere qualcosa al bar all’angolo. Dopo pochi giorni stavamo insieme e nel giro di alcune settimane si è trasferito a casa mia. È lì che mi ha fatto la prima scenata. A ragione. Un giorno ha passato un dito per terra in salotto e lo ha rialzato con un filo di polvere sopra. Non mi ha parlato per due giorni e mi sono sentita morire. Da allora pulisco la casa tutti i giorni, ma purtroppo mi capita ancora di sbagliare e lui giustamente ogni volta si arrabbia di più. Un conto è dire le cose una volta, un’altra è doverle ripetere a una persona che si rifiuta di capire. Ad esempio, continuo a non pulire e ordinare in modo adeguato e lui è bravissimo a scoprire quello che trascuro. Ogni volta che penso che lui sarà orgoglioso di me, trova qualche pecca: il lampadario coperto di polvere, il pavimento sporco sotto al mobile della cucina, il cassetto della mia biancheria sottosopra.
Sospiro e apparecchio il tavolo di cucina coperto da una tovaglia come piace a lui, stando attenta a sistemare i piatti, le posate e i bicchieri in modo geometrico. Sposto più volte le cose finché mi ritengo soddisfatta. Ho preparato coniglio in umido e il purè di patate che gli piace tanto. Guardo l’orologio appeso sopra al tavolo. Le otto meno venti. Normalmente arriva verso le otto, ma a volte può ritardare anche fino alle dieci. Accendo il gas a fuoco basso sotto alle padelle. L’importante è non bruciare niente, ma è difficile quando ritarda tanto. Spesso mi ha fatto notare come io sia distratta ed egoista. Una sera, dato che stavo svenendo dalla fame, non l’ho aspettato e ho mangiato senza di lui. Si era trasferito da me da una settimana e ha minacciato di andarsene, alzando per la prima volta la voce. Mi ha insultato e sono rimasta sconvolta. Non per le offese, ma perché non l’avevo mai visto arrabbiato e avevo il terrore che mi lasciasse. Lui per me è diventato tutto. La mia famiglia, il mio amante, l’uomo che amo e che dà un senso alla mia vita. Non sopporto l’idea di rimanere di nuovo sola, la casa vuota, nessuno a cui pensare, nessuno che mi voglia bene.
Fortuna che Pietro ha pazienza e che non si stanca di farmi notare tutti i miei difetti in modo che possa migliorare. Non so cucinare come sua madre, sono sciatta ed egoista, non penso abbastanza a lui e ai suoi bisogni.
Ho cominciato a imparare. Ora non mangerei mai prima del suo arrivo e preparo i piatti che lui preferisce e che sua madre gli cucina così bene. Nulla in confronto a quello che faccio io. Ma lui è paziente e si accontenta.
Il telefono squilla. Strano. Guardo il display. È una mia amica d’infanzia. L’unica che mi chiama ancora. Guardo preoccupata l’orologio. Mancano cinque minuti alle otto. L’altra cosa che Pietro non sopporta sono gli amici che avevo prima, anche se non ne avevo tanti. Se ricevevo una telefonata Pietro si rabbuiava e pensava che fossero uomini che mi corteggiavano e che mi frequentavano al solo scopo di venire a letto con me. Le mie rassicurazioni erano state inutili. Siamo usciti qualche volta con il mio gruppo di amiche e amici, ma è stato un disastro. È rimasto in silenzio imbronciato e la sera abbiamo litigato. Ha tirato fuori lati negativi in ognuno e mi ha detto che cominciava ad avere dubbi anche su di me visto che frequentavo persone così. Mi è dispiaciuto, ma ho rinunciato a tutti pur di non perderlo. Ogni tanto mi sento sola, ma quando torna Pietro e mi prende tra le sue braccia dimentico tutto il resto del mondo.
Mi sforzo ogni giorno di migliorare i miei difetti, anche se diventa sempre più difficile. Mio padre aveva ragione. Anche lui urlava spesso con mia madre e, quando sono cresciuta ho capito che, quando si chiudevano in camera, non erano solo parole quelle che volavano e il perché dei lividi che mia madre tentava di nascondere con il fondo tinta. Anche io venivo rimproverata per ogni piccola cosa. Facevo disordine, confusione, non obbedivo prontamente ai suoi ordini, ero stupida, non capivo, non sarei mai riuscita a combinare qualcosa di buono. Sono diventata sempre più insicura e sbagliavo cose che prima mi riuscivano. Se lui mi guardava cadevo dalla bicicletta, facevo cadere le cose che tenevo in mano, rompevo oggetti a cui lui teneva. Mia mamma lo ha lasciato la prima volta che mi ha picchiato. Avevo sbattuto contro la libreria del salotto facendo cadere un vaso che era stato di mia nonna e lui mi ha colpito con un pugno che mi ha fatto sbattere la testa contro uno scaffale. Sono svenuta e mi hanno portato in ospedale. Mia madre, che non aveva mai reagito quando lo faceva con lei, ha trovato la forza di andarsene di casa con me e di rifugiarsi dai suoi genitori. Forse però mio padre non aveva tutti i torti a vedere tutti quei difetti in me che anche Pietro nota.
Mi decido e rispondo alla telefonata della mia amica. È contenta di sentirmi e mi rimprovera bonariamente perché non mi faccio mai viva. Sono mesi che non ci vediamo. Dovrei mentire a Pietro e lui lo scopre sempre quando gli nascondo qualcosa. Le dico che sono felice, ma sento che è scettica. Mi chiede perché mi sono allontanata dagli amici e le spiego che Pietro non è socievole e preferisce stare solo con me. In fondo anche se mi piacerebbe vedere altre persone insieme a lui, devo avere la maturità di venire incontro alle esigenze dell’uomo che amo. Non mi piace la piega che ha preso la nostra conversazione e, più lei si mostra dubbiosa dell’uomo che amo, più io lo difendo, nascondendo aspetti che anche a me a volte fanno riflettere. Sono a metà di una frase quando sento la porta di casa aprirsi. Attacco senza salutare e infilo in fretta il telefono nella tasca dei pantaloni. Mi volto verso la porta della cucina mentre entra e gli vado incontro. Mi alzo sulla punta dei piedi e gli do un bacio sulla bocca. Lui rimane immobile e mi guarda serio.
«Con chi eri al telefono?»
«Con nessuno.»
«Non mi mentire, lo sai che non lo sopporto.»
«Ti giuro non stavo parlando con nessuno, stavo controllando l’ora per vedere se stavi per arrivare», insisto.
Non riesco a smettere eppure so che sto peggiorando la mia situazione. Bastava dirgli che era la mia unica amica, ma so che si sarebbe arrabbiato ugualmente e ho cercato di evitarlo.
«Dammelo.»
«Cosa?»
«Lo sai.»
A malincuore gli tendo il cellulare e capisco che devo confessare.
«Hai ragione, mi ha chiamato Maria e io…»
Lo schiaffo mi colpisce in piena faccia prima che me ne renda conto. Mentre la testa viene spinta di lato mi arriva un manrovescio così violento che sbatto con il corpo sul frigorifero. È molto più forte di me e i colpi si susseguono senza tregua. Fitte dolorose mi trafiggono mentre continua a bersagliarmi con schiaffi e pugni. Cado a terra e continua a darmi calci nello stomaco, nei reni, nella schiena, finché un buio pietoso cala su di me e non sento più niente.
Apro un occhio piano, dato che l’altro è così gonfio che rimane chiuso. Cerco di capire cos’è successo e perché sento così male in tutto il corpo. Mi muovo e gemo. Sento una mano che mi accarezza il braccio delicatamente. Mi giro. Sono nel nostro letto e lui è seduto su una sedia. Si china su di me e mi mormora parole di scuse e di amore. Era preoccupato. Sono svenuta e lui mi ha infilato la camicia da notte e messa a letto. È mattina e ha già chiamato il direttore del supermercato e gli ha detto che sono malata e che mancherò per un paio di giorni. Non riesco bene a parlare, ho un labbro spaccato. Chiedo dell’acqua e lui sollecito mi avvicina il bicchiere e mi aiuta a mettermi seduta. È distrutto dal dispiacere e dalla vergogna. Mi chiede perdono, dice che non lo farà mai più e che non capisce come ha fatto a perdere il controllo. D’altra parte gli ho mentito e ho parlato alle sue spalle con la mia amica. Ho violato una promessa. Effettivamente ha ragione. Sono stata una stupida, ma lui ha esagerato. Mi dà ragione, si mette a piangere e mi chiede di non lasciarlo. Mi fa pena e gli accarezzo la testa posata sul grembo. Tanto ieri sera mi faceva paura e mi pareva un mostro, quanto ora sembra un bambino piccolo bisognoso di protezione. Gli credo e lo perdono. Ci abbracciamo con attenzione perché non c’è parte del corpo che non mi faccia male e io piango lacrime di sollievo che si mischiano alle sue di pentimento. È ancora lui il mio amore, il mio unico amore.
* In libro di 30 racconti sulla violenza alle donne “La sica Nera” edizioni Tea curatore Marco vichi del 2019
Realtà storica e Costituzione: una problematica dualità?
di Stefano Tocci
sommario: 1.La Sentenza n. 97/2020: problema di contestualizzazione- 2. Illegittimità del divieto tra principio astratto e applicazione concreta - 3. Ragionevolezza della legge e storicità del diritto.
1.La Sentenza n. 97/2020: problema di contestualizzazione.
Con la pronuncia in esame la Corte delle Leggi ha sancito l’illegittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui prevede l’adozione delle necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata «la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti» anziché «la assoluta impossibilità di comunicare e scambiare oggetti tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità».
Senza particolari approfondimenti la sentenza (n. 97/2020) ha risolto la questione sollevata dalla Corte di Cassazione ritenendo che “il divieto di scambiare oggetti, nella parte in cui si applica anche ai detenuti inseriti nel medesimo gruppo di socialità, non risulta né funzionale né congruo rispetto alla finalità tipica ed essenziale del provvedimento di sottoposizione del singolo detenuto al regime differenziato, consistente nell’impedire le sue comunicazioni con l’esterno. In queste condizioni, non è giustificata la deroga – da tale divieto disposta – alla regola ordinariamente valida per i detenuti, che possono scambiare tra loro «oggetti di modico valore» (art. 15, comma 2, del d.P.R. n. 230 del 2000), e la proibizione in parola finisce per assumere un significato meramente afflittivo, in violazione anche dell’art. 27, terzo comma, Cost.”
Il problema giuridico sembra quasi banale e l’argomento appare estremamente specifico e settoriale nel suo contenuto sostanziale, ma in realtà costituisce un ulteriore tassello, in questo caso forse minuscolo, che s’inserisce nel quadro di una questione ermeneutica e normativa che si sta sviluppando in termini sempre più rilevanti nella giurisprudenza della Consulta, e nei suoi precipitati applicativi, sul tema più preoccupante per la vita democratica del Paese: la lotta alla mafia ed alla criminalità terroristica ed eversiva.
“Lotta alla mafia” e “lotta al terrorismo”, sembrano meri slogan, ma costituiscono forse il punto centrale della grande sfida che lo Stato di diritto è oggi chiamato ad affrontare per consentire lo svolgimento regolare di ogni aspetto della vita sociale, politica ed economica della nostra nazione, e forse non solo.
Il termine “mafia” come dato giuridico ha trovato la sua prima menzione nella L.n. 575/1965, contenente disposizioni da applicarsi a soggetti “indiziati” di appartenere ad associazioni mafiose. Come è noto trattasi di un primo tentativo del legislatore di intervenire sul fenomeno sociale, non più occultabile tra le pieghe della irrisolta “questione meridionale”, con l’estensione del sistema delle misure di prevenzione a soggetti individuati come appartenenti a sodalizi mafiosi; lodevole tentativo inficiato da una vistosa lacuna: il corpus normativo non contiene una definizione giuridica di “mafia”.
Toccherà alla legge “Rognoni – La Torre”, nel 1982, introdurre una definizione normativa di ciò che per il diritto penale debba intendersi per “associazione mafiosa”, e la formulazione strutturale di tale ente giuridico ha risentito dell’inevitabile risonanza sociologica del fenomeno: la delineazione del reato si sviluppa infatti intorno a tre poli descrittivi: forza di intimidazione del vincolo associativo – assoggettamento – omertà: elementi costitutivi del reato la cui enucleazione ermeneutica non trova certo fonte o scaturigine nei principi generali del diritto.
La “mafia” infatti non costituisce un mero “fatto”, un evento territorialmente e temporalmente circoscrivibile, ma un fenomeno sociale e subculturale, contraddistinto da proprie regole, “istituti” e simbolismi che, approfittando delle libere dinamiche istituzionali di un Paese democratico, ne inquina e corrompe i gangli vitali, condizionando il vivere civile, e non solo nei territori in cui il fenomeno è storicamente radicato. Si pensi quanto il farraginoso sistema burocratico e la materia degli appalti pubblici siano pesantemente complicati proprio dalla necessità di fronteggiare il pericolo dell’infiltrazione mafiosa.
Nondimeno il terrorismo ha sempre radici ideologiche o religiose che impediscono la rigida definizione di precise strutture normative che ne contengano tutti gli aspetti fondativi.
Ma se il momento della risposta penale al fenomeno mafioso o terroristico può essere agevolato dal confluire dell’azione del sodalizio criminale in un fatto noto all’ordinamento giuridico penale (l’omicidio, il sequestro di persona, l’estorsione ecc.), estremamente più complicato appare il confronto con tali fenomeni in sede di prevenzione dei reati e di esecuzione delle pene.
Con tali realtà storiche, e la relativa esigenza di tutela sociale, deve confrontarsi la nostra Costituzione.
Mi rendo conto di aver palesemente invertito i termini del problema costituzionalistico: è il Legislatore che deve fare i conti con la Carta costituzionale, pena l’illegittimità della norma e la sua espunzione dall’ordinamento giuridico ex tunc. Ma i principi della Costituzione, così come formulati nel 1948, possono davvero essere intesi come dogmaticamente intangibili, anche se dovessero rivelarsi, alla luce dello sviluppo storico, non più perfettamente adeguati e corrispondenti allo spirito del popolo ed alle sue esigenze di tutela? Ma ancor più: è consentito all’ermeneutica costituzionalista disattendere la problematicità del dato fattuale rivolgendo il proprio sguardo al numinoso ed astratto empireo dei principi di diritto?
Non è questo il luogo per affrontare un tema così complesso, che attanaglia gli studiosi di diritto costituzionale e della filosofia del diritto, certo non da ora, e che merita approfondimenti e confronti molto seri, ma ritengo che la sentenza in esame alla fine si ponga proprio su tale sentiero problematico.
2.Illegittimità del divieto tra principio astratto e applicazione concreta.
La recente e progressiva erosione dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario ad opera della Consulta e il piccolo “ritocco” all’art. 41 bis operato dalla pronuncia in esame sono a mio avviso forti sintomi di una esigenza di maggiore riflessione, a tutti i livelli interpretativi, sulla concretezza storica del diritto, della dottrina e della giurisprudenza, troppo spesso lontane dalla vita quotidiana dei cittadini e sempre più perse negli intrichi del tecnicismo fine a sé stesso.
La Corte Costituzionale sembra consapevole di tale grave problema anche nella sentenza in esame, laddove, dopo aver sancito l’illegittimità del divieto di scambio di oggetti tra detenuti al 41 bis comunque ammessi alla socialità comune, tenta di “correre ai ripari”, affermando espressamente: “Invece, anche dopo la presente sentenza di accoglimento, in forza della disposizione di cui alla lettera a) del comma 2-quater dell’art. 41-bis, ordin. penit. – secondo cui la sospensione delle regole di trattamento e degli istituti di cui al comma 2 può comportare «l’adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna» – resterà consentito all’amministrazione penitenziaria di disciplinare le modalità di effettuazione degli scambi tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo (ad esempio, qualora concernenti oggetti di cui non sia consentita la detenzione durante i momenti di socialità, prevedendo in proposito una annotazione in appositi registri), nonché di predeterminare le condizioni per introdurre eventuali limitazioni (con riferimento a certi oggetti che, più di altri, si prestano ad essere veicolo di comunicazioni difficilmente decifrabili, come già previsto, ad esempio, per il divieto – già disciplinato dalla citata circolare DAP del 2 ottobre 2017 in via autonoma rispetto a quello, generale, qui censurato – di scambiare libri o copie parziali tra detenuti). Naturalmente, tali limitazioni dovrebbero risultare giustificate da precise esigenze, da motivare espressamente, e sotto questi profili ben potrebbero essere sindacate, di volta in volta, in relazione al caso concreto, dal magistrato di sorveglianza, in attuazione di quanto disposto dagli artt. 35-bis, comma 3, e 69, comma 6, lettera b), ordin. penit.”
In parole povere: il divieto imposto in linea di principio non va bene, ma poi il caso concreto può consentire la limitazione purché adeguatamente motivata.
La Consulta, quindi, è ben cosciente che quanto rilevato nelle proprie conclusioni dall’Avvocatura di Stato non è una considerazione peregrina: “il legislatore, con una scelta «non irragionevole», avrebbe voluto evitare che lo scambio di oggetti, sia pure all’interno dello stesso gruppo di socialità, possa essere utilizzato come forma di comunicazione non verbale e, come tale, «di assai più difficile leggibilità nello svolgimento dei necessari controlli a cui i detenuti sono sottoposti». Inoltre, sempre secondo l’Avvocatura generale, “per il tramite dello scambio o della cessione di oggetti potrebbero affermarsi, all’interno dello stesso gruppo di socialità, logiche di sopraffazione che condurrebbero «il detenuto più debole, per carisma personale o per carica rivestita all’interno dell’organizzazione criminale di appartenenza, a soggiacere alle prevaricazioni di uno di quei pochi soggetti con i quali egli può avere contatti con immaginabili conseguenze in termini di sicurezza all’interno dell’istituto penitenziario»”.
La stessa Suprema Corte di Cassazione aveva infatti già sottolineato che “il Legislatore ha inteso escludere, con scelta non sindacabile in quanto non irragionevole, che lo scambio di oggetti, sia pure all'interno dello stesso gruppo di socialità, possa essere utilizzato come forma di comunicazione non verbale e, come tale, di assai più difficile leggibilità nello svolgimento dei necessari controlli a cui i detenuti sono sottoposti” (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 29300 del 18/04/2019 Cc. -dep. 04/07/2019- Rv. 276403 – 01; vds. anche Cass Sez. 1, Sentenza n. 5977 del 13/07/2016 Cc. -dep. 08/02/2017- Rv. 269185 - 01); è una forte sottolineatura dell’importanza del linguaggio simbolico che contraddistingue ad esempio la subcultura mafiosa e si estrinseca non semplicemente a parole, come testimonia del resto il requisito normativo descrittivo costituito dall’omertà (che non si riduce alla mera reticenza della vittima del reato a collaborare, ma si traduce in un vero e proprio “codice del silenzio”): trattasi di un elemento di valutazione che nasce dall’esperienza storica del fenomeno e che caratterizza lo stesso.
La Consulta però si eleva al di sopra del fenomeno storico negando la legittimità del divieto “in linea di principio”, per poi ridiscendere dall’empireo del numinoso per ricordare che in concreto il divieto può comunque essere giustificato nel caso specifico. Non è sbagliato quindi ritenere, che “lo scambio di oggetti, sia pure all’interno dello stesso gruppo di socialità, possa essere utilizzato come forma di comunicazione non verbale” (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 29300 del 18/04/2019 Cc. -dep. 04/07/2019- Rv. 276403 – 01) ma toccherà all’Amministrazione dimostrarne il significato comunicativo e la relativa pericolosità: probatio diabolica? Sicuramente! Perché richiede che l’Amministrazione penitenziaria, per intervenire efficacemente nel “predeterminare le condizioni per introdurre eventuali limitazioni”, debba essere a conoscenza dei codici di linguaggio adottati dai soggetti coinvolti nello scambio: come potrebbe altrimenti interpretare il gesto e quindi motivare adeguatamente il proprio provvedimento ostativo, suscettibile di reclamo ai sensi del combinato disposto ex artt. 35 – 69 OP? Si richiede cioè che gli operatori penitenziari siano immersi nella cultura mafiosa o nell’ideologia del movimento terroristico, ne conoscano perfettamente il simbolismo e siano in grado di decrittare la comunicazione non verbale in modo così preciso ed esauriente da consentire una argomentata motivazione del proprio divieto per il caso concreto.
Può sembrare paradossale ma, in realtà, la regola di diritto determinata dalla Consulta, con la pronuncia in esame, sembra condurre in un’unica direzione effettiva possibile, ossia la indiscriminata liberalizzazione dello scambio di oggetti tra detenuti al 41 bis OP all’interno del proprio gruppo di socialità, con effettiva obliterazione della funzione preventiva connaturata alla disposizione, ormai assolutamente inattuabile nel fatto concreto.
3.Ragionevolezza della legge e storicità del diritto.
Anche a livello meramente logico comunque mi pare evidente l’imbarazzo argomentativo in cui si incorre in sentenza, perché se in linea di principio “alla certa compressione di una forma minima di socialità – estrinsecantesi, peraltro, nell’ambito di una cerchia assai ristretta di soggetti, e consistente nello scambio di cose di scarso valore e di immediata utilità, nella prospettiva di una (assai parziale) “normalità” di rapporti interpersonali – non corrisponde un accrescimento delle garanzie di difesa sociale e sicurezza pubblica” (sent. C. Cost. 97/2020 in esame) non si comprende cosa poi si voglia “salvare” per il caso concreto. C’è forse una netta dicotomia tra principio di diritto e realtà? Rectius: ciò che è escluso in via di principio può realizzarsi nel caso concreto? A mio avviso la ritenuta eventualità del caso concreto falsifica il principio astratto, e ciò tutto a nocumento delle esigenze di prevenzione e tutela sociale a cui tutto l’art. 41 bis OP sottende.
Al di là di un apparato argomentativo poco convincente (la ritenuta violazione dell’art. 27 Cost., ad esempio, è rimasta in alta mente reposta), la pronuncia in esame appare porsi nel solco di un orientamento ermeneutico della Consulta diretto a privilegiare una visione puramente tecnica e ideale delle norme sottoposte al suo vaglio, svalutando la ratio storica e sociale delle stesse. Tale problematica emerge fortemente laddove, come nel caso in esame, la norma scrutinata non si pone in evidente insanabile contrasto con una disposizione della Costituzione, ma se ne deduce l’irragionevolezza alla luce dell’art. 3 Cost.
È noto che il principio di ragionevolezza delle leggi costituisce un corollario del principio di uguaglianza, elaborato dalla Corte Costituzionale, ispirandosi ad un analogo principio individuato dalla giurisprudenza anglosassone. Il principio di ragionevolezza esige che le disposizioni normative contenute in atti aventi valore di legge siano adeguate o congruenti rispetto al fine perseguito dal Legislatore. Tale principio esige quindi che l’analisi della norma vada effettuato nella sua concretezza applicativa, non per mere ipotesi, attraverso una osservazione sul campo della sua funzione e della sua effettività secondo le peculiarità del caso, verificando che la stessa non assuma caratteri di arbitrarietà. Sicuramente il rischio della incongruità del portato legislativo è maggiormente forte laddove la norma si cala in una funzione emergenziale di prevenzione e tutela del corpo sociale, ma proprio su tale terreno le specificità del fenomeno, come la mafia o il terrorismo, devono essere considerate con maggiore attenzione nei relativi aspetti concreti. Una lettura idealisticamente tecnicista della ragionevolezza della legislazione antimafia e antiterrorismo, soprattutto per gli aspetti della sicurezza e dell’ordine pubblico, può comportare il pericolo di uno svuotamento dell’effettività della stessa, determinando situazioni che in concreto non consentono soluzioni applicative coerenti alla auspicata funzione di tutela. L’art. 3 comma 2 Cost. pretende, invero, decisa concretezza. Camminando guardando le stelle si rischia di cadere in un pozzo.
Sottrazione di minori e sospensione dalla responsabilità genitoriale: incostituzionale l’automatica applicazione della pena accessoria(nota a Corte Costituzionale 29 maggio 2020, n. 102).
di Rita Russo
Sommario: 1. La sanzione, la relazione familiare e la irragionevolezza degli automatismi 2. La relazione familiare e la scelta della soluzione adatta al caso concreto. 3. Il miglior interesse del minore e il giudice idoneo ad accertarlo.
1. La sanzione, la relazione familiare e la irragionevolezza degli automatismi.
Con la sentenza in esame la Corte Costituzionale ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 574-bis, terzo comma, del codice penale, nella parte in cui prevede che la condanna pronunciata contro il genitore per il delitto di sottrazione e mantenimento di minore all’estero comporta la sospensione dell’esercizio della responsabilità genitoriale, anzichè la possibilità per il giudice di disporre la sospensione stessa, previa la valutazione in concreto della rispondenza di detto provvedimento all’interesse del minore, valutazione da compiersi all’attualità e cioè tenendo conto necessariamente anche dell’evoluzione delle circostanze successive al fatto di reato.
La Corte ha ritenuto non ragionevole l’automatismo sanzionatorio imposto dal legislatore, ponendosi nel solco di due precedenti decisioni, risalenti agli anni 2012 e 2013, in tema di pena accessoria ai delitti alterazione e soppressione di stato[1]. In entrambe le precedenti occasioni la Corte costituzionale ha affermato che la interruzione della relazione tra genitori e figli sul piano giuridico, ma anche naturalistico, si giustifica solo in funzione di tutela degli interessi del minore e ha dichiarato incostituzionale l’art. 569 c.p. (rispettivamente in relazione a gli artt. 566 e 567 c.p.) nella parte in cui stabilisce che, in caso di condanna pronunciata contro il genitore per il delitto di alterazione e soppressione di stato, consegua automaticamente la perdita della potestà (oggi responsabilità) genitoriale, precludendo al giudice ogni possibilità di valutazione dell’interesse del minore nel caso concreto. Interessante notare come la Corte costituzionale ha allora affermato che occorre assegnare al reato “null’altro che il valore di ‘indice’ per misurare la idoneità o meno del genitore ad esercitare le proprie potestà” e che, con una indicazione assai significativa, ha utilizzato, per definire la funzione genitoriale, il plurale anziché il singolare, definendo “le potestà” come “il fascio di doveri e poteri sulla cui falsariga realizzare in concreto gli interessi del figlio minore”. Anche la Consulta respirava l’aria di rinnovamento che, esattamente in quel periodo, ha condotto alla riforma della filiazione[2], riforma che, oltre ad avere enunciato i diritti (e i doveri) del minore, ha sostituito il termine potestà genitoriale con quello di responsabilità genitoriale, disegnando così la relazione tra i genitori e i figli in termini partecipativi e dando rilievo all’aspetto funzionale dell’impegno dei genitori, piuttosto che a quello autoritativo.
Oggi la Consulta rimarca l’importanza di questo processo di trasformazione, richiamando la relazione introduttiva al D.lgs. n. 154/2013, laddove si afferma che attraverso la nuova definizione dei rapporti tra genitori e figli si attribuisce «risalto alla diversa visione prospettica che nel corso degli anni si è sviluppata ed è ormai da considerare patrimonio condiviso: i rapporti genitori-figli non devono più essere considerati avendo riguardo al punto di vista dei genitori, ma occorre porre in risalto il superiore interesse dei figli minori».
Anche nella sentenza odierna la Corte Costituzionale richiama il concetto, sancito da diverse Convenzioni internazionali, prima tra tutte la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, di interesse superiore del minore, avvertendo della diversa sfumatura che esso ha nel testo in lingua inglese della Convenzione, ove la definizione è “best interests” cioè l’interesse migliore[3], e ricorda che esso è da considerare contenuto implicito dell’art. 8 CEDU (rispetto della vita privata e familiare) [4]. Esso è inoltre contenuto esplicito dell’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea che proclama il diritto di ogni persona al rispetto della propria vita privata e familiare (art. 7) e, nel riconoscere i diritti del minore (art. 24), prevede: che i minori hanno diritto alla protezione e alle cure necessarie per il loro benessere; che in tutti gli atti relativi ai minori, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l'interesse superiore del minore deve essere considerato preminente; che il minore ha diritto di intrattenere regolarmente relazioni personali e contatti diretti con i due genitori, salvo qualora ciò sia contrario al suo interesse.
La Corte di Strasburgo, malgrado l’assenza nella Convenzione di Roma di un esplicito riferimento ai best interests of the child ha tuttavia recepito detto principio, concettualizzandolo alla luce dello human rights-based approach. Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte, infatti, la Convenzione non va interpretata da sola, ma in armonia con i principi del diritto internazionale e, in particolare, con le norme concernenti la protezione internazionale dei diritti dell’Uomo[5]. Nella giurisprudenza della Corte di Giustizia della UE, inoltre, l’interesse del minore assume connotati ancora più oggettivi, fino quasi a identificarsi con i diritti fondamentali del minore espressamente enunciati dall’art. 24 della Carta di Nizza [6].
Si esplicita così il principio della prevalenza dell’interesse del minore sul diritto di ciascun genitore, ma senza trascurare l’importanza del diritto del genitore alla relazione familiare, diritto che pure esiste e che sarebbe irragionevole negare, a maggior ragione considerando che gli stessi diritti del minore sono da intendersi in chiave relazionale. La prevalenza dell’interesse del minore non deve fare dimenticare, infatti, che nel processo vi sono anche altri diritti ed interessi coinvolti e che di tutti deve tenersi conto[7].
La Consulta ci ricorda altresì che già dagli anni ‘80 essa Corte aveva “declinato” il principio con riferimento all’art. 30 Cost., come necessità che nelle decisioni concernenti il minore venga sempre ricercata la soluzione ottimale in concreto per l'interesse del minore, quella cioè che più garantisca, soprattutto dal punto di vista morale, la miglior cura della persona. E, in verità, nonostante il cambiamento di terminologia sia un portato della riforma della filiazione del 2012/2013, che recepisce la definizione europea, già da tempo nel diritto vivente nazionale si era affermata l’idea che la posizione del genitore si configura non come un diritto, ma come un munus che trova nell’interesse del minore la sua funzione ed il suo limite. La relazione tra genitori e figli è descritta dall’art. 30, primo e secondo comma, della Costituzione come un insieme di “compiti” che in caso di loro incapacità vengono diversamente assolti nei modi determinati dalla legge, e quindi come diritto-dovere che trova nell’interesse del figlio la sua ragion d’essere. La nostra Costituzione, anche con lungimirante anticipo su quella che sarebbe stata l’evoluzione sociale e legislativa, ha focalizzato l’attenzione sul minore configurando i doveri che caratterizzano l’impegno dei genitori come un compito da svolgere [8].
Se questo è il contenuto della responsabilità genitoriale, non si può prescindere, prima di incidere su di essa per qualsivoglia ragione, dalla necessità di accertare quale sia -nella concreta fattispecie- la scelta migliore per il minore; ciò determina il giudizio di non compatibilità dell’automatismo sanzionatorio con il sistema costituzionale.
2. La relazione familiare e la scelta della soluzione adatta al caso concreto.
Il giudizio negativo sull’automatismo sanzionatorio non è impedito dal fatto che nel caso di specie la condotta illecita del genitore si connota per una particolare gravità. La Corte infatti tiene conto dei rilievi in merito dell’Avvocatura dello Stato e rimarca che la sottrazione internazionale di minore è un delitto “odioso”, causa di pregiudizi sia per il genitore left behind che per il minore stesso, pur quando egli sia consenziente, anche se in questo caso si pone quel delicato problema di valutare come, se e fino a che limite tentare interventi di recupero della relazione familiare compromessa; e in effetti molte variabili sono in gioco, legate alle ragioni della sottrazione, alla non coercibilità della volontà del minore in ordine ai contatti con il genitore avversato, e comunque deve considerarsi la diminuita offensività del fatto per gli interessi del minore ultra quattordicenne che consapevolmente acconsente a seguire il genitore [9].
La Corte rileva che la pena accessoria della sospensione ha caratteri del tutto peculiari rispetto alle altre pene previste dal codice penale, perché incide non solo sul reo e sulla sua sfera giuridica, ma su una relazione, e quindi provoca effetti anche sul minore, perché pur non comportando ipso iure il divieto di convivere con, o di frequentare il minore, è evidente che la privazione di ogni potere decisionale nell’interesse del minore impedirà, di fatto, al genitore sospeso dall’esercizio della propria responsabilità di vivere il proprio rapporto con il figlio al di fuori della immediata sfera di sorveglianza dell’altro genitore, o comunque di persona che sia titolare della relativa responsabilità e sia, pertanto, in grado di assumere in ogni momento le necessarie decisioni per il figlio. In altre parole il rapporto diventa una limping relationship, una relazione carente di quelle facoltà decisionali che, traducendosi in scelte educative, contribuiscono a formare la personalità del minore. La relazione familiare è infatti una dimensione dell’individuo assai complessa, che si svolge all’interno di modelli familiari diversi e non necessariamente fondati sul matrimonio; in essa si intrecciano senso della identità personale, legami biologici, giuridici e sociali, sentimenti, aspirazioni, diritti, doveri, competenze, capacità di autodeterminarsi e di protezione. La sua salvaguardia, pertanto, richiede misure diverse ed appropriate, connotate dalla flessibilità e anche dalla tempestività della risposta, dal momento che il fattore tempo è, per la vita del minore, di primaria importanza[10].
Ed è proprio alla importanza del fattore tempo nella dinamica della relazione familiare che la sentenza fa riferimento nell’affermare, ed in questo se ne percepisce la modernità e l’attitudine a sviluppare un pensiero armonico con il contesto della cultura europea, che il principale problema dell’automatismo è la sua cecità rispetto all’evoluzione, successiva al reato, delle relazioni tra il figlio minore e il genitore autore del reato medesimo. La pena accessoria si applica al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, il che significa anche dopo alcuni anni dal fatto delittuoso, quando i rapporti familiari potrebbero essersi sanati o comunque evoluti in termini tali che sarebbe contrario all’interesse del minore applicare la sanzione.
Un esempio molto chiaro della necessità di scindere il profilo della valutazione del comportamento dell’adulto e quello delle conseguenze giuridiche e fattuali che incidono sulla vita del minore è il caso Šneersone e Kampanella contro Italia, di cui la Corte EDU si è occupata alcuni anni fa, emettendo sentenza di condanna contro l’Italia, per violazione dell’art. 8 della Convenzione[11]. Il caso Kampanella è esemplificativo perché si tratta appunto di una sottrazione internazionale e nella fattispecie non vi era dubbio alcuno che la madre, portando il bambino in Lettonia, contro la volontà del padre, rimasto in Italia, avesse agito illecitamente; per questa ragione il competente tribunale per i minorenni aveva emesso l’ordine di rimpatrio previsto dal reg. Regolamento(CE) n. 2201/2203 del 27 novembre 2003 (Bruxelles II bis).
Ciononostante la Corte EDU ha ritenuto che staccare il bambino dalla madre costituisse una violazione dell’art. 8 in considerazione del trauma psicologico derivante sia dalla rottura improvvisa e irreversibile degli stretti legami tra madre e figlio, sia dal fatto di essere inserito drasticamente in un ambiente linguisticamente e culturalmente straniero. Pur nella considerazione che il padre aveva assicurato che, ritornando il bambino a Roma, sarebbe stato seguito da uno psicologo, la Corte ha ritenuto che ciò non fosse una alternativa equivalente a benessere psicologico intrinseco nei legami forti, stabili e tranquilli tra un bambino e sua madre. L’interesse del minore, in altre parole, pur non essendo sempre “superiore” nel senso che non è sottratto al bilanciamento con altri interessi[12]può prevalere, in taluni casi, anche sulle esigenze di far seguire, all’accertamento del comportamento vietato, le conseguenze previste dalla legge. Ciò anche in virtù di quanto ritenuto dalla stessa Corte di Strasburgo in una altra decisione, che costituisce un leading case in tema di best interests del minore (citata anche dalla nostra Corte Costituzionale) e riferita anch’essa ad un caso di sottrazione internazionale. La Corte EDU ha affermato che l’interesse del minore comprende tanto l’interesse a mantenere regolari rapporti con i genitori quanto l’interesse a crescere in un ambiente sano, stabile e affidabile (sound enviroment). Il contatto con la famiglia si può recidere solo se essa è “particularly unfit”[13]. In questa come in altre decisioni, la Corte di Strasburgo sembra adottare una sorta di presunzione, secondo la quale il miglior interesse dei figli è il fatto di mantenere rapporti con i propri genitori, che lo Stato ha il dovere di garantire, con un adeguato “arsenale” di misure positive e salvo ricorrano circostanze di particolare gravità [14]. È chiaro poi che tra la famiglia perfetta (o la migliore famiglia possibile) e quella “particolarmente” inadeguata, o i cui membri siano adeguati in misura diversa, vi è tutta una scala di grigi dove l’indice misuratore e determinante diviene quello del diritto del minore a vivere in un ambiente sano, affidabile, stabile. Si tratta quindi di un accertamento estremamente complesso e che deve tenere conto della realtà dei fatti e del dinamismo che è connaturato alla relazione familiare, nonché del fatto che il tempo dell’adulto non è il tempo del minore, per il quale in spazi temporali brevi o relativamente brevi si gioca la partita della formazione armonica della personalità, con conseguenze talora non rimediabili. In questo contesto però non si deve dimenticare che le limitazioni all’esercizio della responsabilità genitoriale si pongono sempre come deroghe alla regola generale della pariteticità dei compiti parentali e quindi devono essere giustificate da una ragione forte e specificamente individuata. Il figlio, salvi i casi nei quali sia accertato un suo interesse di segno contrario, di regola fa riferimento ad entrambe le figure genitoriali, investite congiuntamente nei suoi confronti della responsabilità[15]. E’ questo il profilo qualificante e qualitativo del ruolo parentale, ben distinto da quello quantitativo, che si misura sui tempi di permanenza del minore presso l’uno o altro genitore; questo ultimo aspetto della relazione familiare, come rileva la Corte Costituzionale, non è impedito di per sé dalla pena accessoria, che però toglie alla relazione familiare la sua connotazione di paritetica funzione di scelta ed indirizzo del compito educativo.
3. Il miglior interesse del minore e il giudice idoneo ad accertarlo.
Ponendo al centro della questione la necessità di accertare in concreto il miglior interesse del minore è inevitabile, per chi abbia la cultura della giurisdizione intesa come momento in cui il diritto diventa reale perché ne viene assicurata (o talora negata) la tutela, porsi l’interrogativo di come si esegua questo accertamento e quale sia il giudice idoneo ad eseguire tale verifica. Ed è apprezzabile che la questione non resti sottotraccia nella sentenza, che ne tratta invece esplicitamente: pur nella consapevolezza che si tratta di scelte riservate al legislatore, la sentenza non manca di suggerire una via per affrontare la questione e cioè la necessità di assicurare un coordinamento con le autorità giurisdizionali – tribunale per i minorenni o, se del caso, tribunale ordinario civile – che siano già investite delle decisioni che riguardano direttamente il minore. E ciò anche al fine di garantire il rispetto della previsione – sancita espressamente dall’art. 12 della Convenzione sui diritti del fanciullo e dagli artt. 3 e 6 della Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, e ripresa in linea di principio a livello di legislazione ordinaria dagli artt. 336-bis e 337-octies cod. civ. – di sentire il minore.
In queste poche parole si scolpisce qui plasticamente il compito del giudice minorile -poiché tale è anche il giudice civile quando si occupa dei provvedimenti che riguardano il minore- e cioè quello di assicurare la tutela dei diritti alla persona vulnerabile e legalmente incapace, quindi in condizione di minor potere rispetto all’adulto; la condizione di svantaggio non deve però precludere al minore di partecipare alle decisioni che lo riguardano e di esercitare i propri diritti personalissimi nella misura in cui lo consente il suo grado di maturità. Si tratta quindi di un giudice che deve rimuovere gli ostacoli che si frappongono alla adeguata partecipazione del soggetto ai processi decisionali che lo riguardano. L’errore in cui talvolta si incorre quando si tratta dell’interesse del minore è quello di dargli una colorazione paternalistica e cioè ritenere che gli adulti competenti e il giudice, in quanto adulto super competente e se il caso coadiuvato da esperti delle scienze psicologiche, possano eterodeterminare, in via esclusiva, i contenuti dell’interesse del minore. In questo modo però l’interesse del minore finisce per diventare “una nozione confusa e ambigua, sfuggente e indeterminata, idonea a essere impiegata con modalità molto fortemente condizionate dalle scelte di valore di chi vi ricorre”[16].
L ’interesse “migliore” non è infatti quello che risponde a parametri astratti ma quello che corrisponde alle esigenze di quello specifico minore di cui si tratta, ed alla individuazione del quale deve partecipare lo stesso minore, nella misura consentita dalla sua capacità di discernimento. Per questo la Corte di Cassazione ha in più occasioni affermato che l'ascolto del minore di almeno dodici anni, e anche di età minore ove capace di discernimento, costituisce una modalità, tra le più rilevanti, di riconoscimento del suo diritto fondamentale ad essere informato e ad esprimere le proprie opinioni nei procedimenti che lo riguardano, nonché elemento di primaria importanza nella valutazione del suo interesse[17].
Sembra quindi che la Corte Costituzionale nell’esprimere un giudizio esplicito di illegittimità degli automatismi sanzionatori che non tengono conto degli interessi del minore, abbia anche indirettamente espresso un giudizio negativo sulle decisioni non assunte in esito ad un procedimento che consenta al minore di esprimere le proprie istanze ed opinioni tramite l’ascolto; decisioni che per questo rischierebbero di rivelarsi standardizzate e non attente alla peculiarità delle situazioni in concreto prospettate, valutate all’attualità. Il giudice penale dovrebbe quindi fondarsi o comunque tenere in debita considerazione i provvedimenti adottati, (e le valutazioni ad essi sottese), dalle altre autorità giudiziarie competenti per l’affidamento del minore stesso e la regolamentazione della responsabilità genitoriale. Del resto, è da presumere che dette decisioni, pur nella forma di provvedimenti provvisori o comunque modificabili rebus sic stantibus intervengano prima del giudicato penale, sicché di regola il giudice penale potrà avere a disposizione il provvedimento prima di adottare la sua decisione.
[1]V. Corte cost. 15/2/ 2012 n. 31; Corte Cost. 23/1/ 2013, n. 7.
[2] Attuata tramite la legge 10 dicembre 2012 n. 219 e il D.lgs. 28 dicembre 2013 n. 154.
[3] Approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989 a New York, la Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176 è un fondamentale strumento di tutela giuridica dell’infanzia. Da ricordare anche la Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata in Italia con legge 20 marzo 2006, n. 77 sull’esercizio dei diritti del fanciullo.
[4] Corte EDU, Grande Camera, 6/7/2010, Neulinger e Shuruk c. Svizzera; Corte EDU, Grande Camera, 26/11/ 2013, X c. Lettonia.
[5] LONG, Il principio dei best interests e la tutela dei minori, in Questione Giustizia, speciale Corte Strasburgo, aprile 2019.
[6] LAMARQUE, L’evoluzione della giurisprudenza costituzionale in tema di giustizia minorile, in Famiglia e Diritto, 2018, 13, 294.
[7] CONTI, Alla ricerca del ruolo dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nel pianeta famiglia in www.minoriefamiglia.it L’A. osserva che i diritti viaggiano, o meglio devono viaggiare, “su binari che continuamente si intersecano e si intrecciano, di guisa che l'omessa considerazione anche di uno solo di quei diritti incide, danneggiandola, sulla tutela dell'altro, apparentemente garantito, ma in realtà non pienamente tutelato”.
[8] Cass. 19/4/2002, n. 5714, in Fam. e Dir., 2002, 415; Corte Cost. 27/3/1992, n. 132, in Giur. cost., 1992, 1108. In dottrina cfr. ARCERI, Dello scioglimento del matrimonio e della separazione dei coniugi, in SESTA (a cura di), Codice della famiglia, 2a ed., I, Milano, 2009.
[9] Per la valutazione negativa delle misure coercitive nei confronti del minore si veda Corte EDU, V.A.M. c. Serbia, 13/3/2007; Corte EDU, Amanalachioai c. Romania, 26/5/2009.
[10] Da ricordare che le Linee guida del Consiglio d’Europa sulla giustizia a misura di minore richiedono al giudice una diligenza eccezionale nelle questioni di diritto di famiglia, che venga costantemente applicato il principio della urgenza per fornire una risposta rapida e per proteggere al meglio l’interesse del minore.
[11] Corte EDU, 12/7/ 2011 , Šneersone e Kampanella c. Italia.
[12] Corte Cost. 18/12/2017 n. 272; Cass. sez. un. 12/6/2019 n. 15750, laddove con riferimento al permesso di soggiorno speciale previsto dall’art. 31 del Dlgs d.lgs. n. 286 del 1998 si afferma che “il preminente diritto del minore a non vedersi privato della figura genitoriale fino ad allora presente nella sua vita di relazione non è assoluto, potendo risultare in concreto recessivo, all'esito di un circostanziato esame del caso”; in particolare si tratta qui delle esigenze di ordine pubblico con le quali l’interesse del minore viene in bilanciamento.
[13] Corte EDU, Neulinger e Shuruk c. Svizzera, cit.
[14] Si vedano Corte edu, Lombardo c. Italia, 29/1/2013; Corte edu, Piazzi c. Italia, 2/11/2010.
[15] Si veda, anche per i riferimenti bibliografici, AL MUREDEN “La responsabilità genitoriale tra condizione unica del figlio e pluralità di modelli familiari” in Famiglia e Diritto, 2014, 466.
[16] LENTI “L’interesse del minore nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo: espansione e trasformismo”, in NGCC 2016, 1 148. L’A. osserva che nella giurisprudenza della Corte EDU è frequente che la Corte ritenga i minori che hanno raggiunto l’età del discernimento come migliori interpreti del proprio stesso interesse, attribuendo un ruolo spesso decisivo alle loro scelte e non mettendo in dubbio che non siano eseguibili in via forzata le decisioni che se ne discostano.
[17] Cass. 07/05/2019 n. 12018; Cass. civ. 26/3/2015 n. 6129.
di Maria Alessandra Sandulli
Sommario: 1. Le misure di “semplificazione e liberalizzazione” introdotte dall’art. 264, comma 1, del d.l. rilancio; - 2. La “trappola” del secondo comma: le sanzioni “nascoste”; - 3. L’interdizione biennale da contributi, finanziamenti e agevolazioni; - 4. La revoca dei benefici già erogati; - 5. La “confusa giustificazione” proposta dai Servizi studi della Camera e del Senato; - 6. Conclusioni.
1. Le misure di “semplificazione e liberalizzazione” introdotte dall’art. 264, comma 1, del d.l. rilancio
L’art. 264 del d.l. 19 maggio 2020 n. 34, sotto il promettente e accattivante titolo di “decreto rilancio”, introduce nuove misure di “semplificazione e liberalizzazione” delle attività tradizionalmente soggette a controllo pubblico. Come ripetutamente denunciato in precedenti occasioni[1], la tecnica, ormai tristemente collaudata, utilizzata per eliminare i cd “lacci e lacciuoli” della burocrazia amministrativa, è in realtà semplicemente quella di trasformare i controlli preventivi – che “rassicuravano” il privato della legittimità del suo modus operandi, offrendogli un titolo amministrativo spendibile e tendenzialmente stabile – in un rischioso e vischioso sistema di verifiche postume sulla correttezza della procedura autoresponsabilmente seguita e sulla effettiva sussistenza dei presupposti autodichiarati per fruire di un titolo, agevolazione, beneficio, partecipare a una procedura valutativa o selettiva, avviare un’attività e simili. A ogni “sgravio” di compiti e di responsabilità dell’amministrazione corrisponde invero un aggravio di quelle del privato, chiamato a rilasciare “dichiarazioni sostitutive” di atti e documenti pubblici che, se in origine si limitavano a proprie situazioni personali (nascita, residenza, cittadinanza, stato civile, titolo di studio, reddito, e simili), si estendono ora indebitamente a profili di ordine giuridico e tecnico sempre più complessi, sui quali gli stessi organi pubblici istituzionalmente competenti (amministrazioni e giudici) dimostrano oggettive difficoltà di orientamento. Difficoltà tanto note e tanto vere che la giurisprudenza assume spesso posizioni disomogenee e che le più recenti proposte di riforma spingono per intervenire sul reato di abuso d’ufficio e per una riduzione della responsabilità amministrativa alle ipotesi di dolo, consapevoli che i ritardi e i silenzi delle amministrazioni trovano la loro prima causa nella “paura della firma”, che “paralizza i funzionari alle prese con un dedalo normativo spesso contraddittorio”[2]. All’opposto, i privati costretti a rinunciare all’ombrello protettivo dei controlli preventivi combattono con l’estrema difficoltà di spendere i titoli autocertificati (SCIA e CILA) e addirittura gli stessi provvedimenti impliciti (per “silenzio assenso”) che, in spregio alle disposizioni che ne ribadiscono la piena equiparazione ai provvedimenti espressi, alcuni giudici continuano a ritenere “non formati” in assenza dei presupposti di legge[3]. Sicché lo stesso legislatore ha rimesso al privato la scelta di rinunciare alla SCIA per avvalersi del permesso di costruire e alcuni giudici hanno ancora recentemente riconosciuto il diritto dell’istante a pretendere in ogni caso il provvedimento espresso senza accontentarsi di quello implicito[4].
Anche la normativa emergenziale COVID-19 segue tuttavia imperterrita la strada delle “autodichiarazioni” (le cui difficoltà di compilazione sono state per vero la migliore remora per uscire dalle nostre case) e l’art. 264 ne amplia ulteriormente l’ambito in relazione alle istanze di benefici e agevolazioni legate alla nuova, drammatica, emergenza pandemica, apparentemente curandosi di garantirne la massima stabilità. Il primo comma dell’articolo, infatti, sempre all’apparenza, conferma e rafforza i limiti all’autotutela caducatoria. Si riduce invero, in via eccezionale, con riferimento agli atti adottati (o all’attività intrapresa) in relazione alla stessa emergenza, da diciotto a tre mesi, il termine perentorio entro il quale, in forza degli articoli 19 e 21-nonies della legge generale sul procedimento amministrativo (l. n. 241/1990, come modificati dalle riforme dell’ultimo decennio), l’amministrazione può intervenire d’ufficio per annullare (id est rimuovere, con effetto ex tunc, per vizi originari), sempre che lo giustifichino ragioni attuali di interesse pubblico, gli atti (anche impliciti) di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, o per rilevare, in sede di “controllo di secondo livello”, vizi originari di validità/idoneità della SCIA. Il legislatore dell’emergenza si dà in proposito espressamente cura di ribadire, e dunque fa testualmente propria, la regola che tale limite, come disposto dall’art. 21-nonies, trova un’unica eccezione nel caso (e soltanto nel caso) in cui detti titoli siano frutto di “false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenze di condanna passate in giudicato”. Si conferma dunque che la deroga al limite temporale per inesatte “rappresentazioni dei fatti” richiede l’elemento della “falsità” e che, anche a voler accettare la lettura (a mio avviso strumentale e non conforme all’intentum legis[5]) che “sdogana” le “false rappresentazioni dei fatti” dal giudicato penale, quantomeno per le “dichiarazioni sostitutive”, stante il loro valore probatorio, tale garanzia è ineludibile. Si tratta di una precisazione molto importante, dal momento che le amministrazioni, avallate purtroppo in vari casi dalla giurisprudenza, attraverso una interpretazione inammissibilmente “creativa” di una regola iuris opposta alla lettera e allo spirito della legge[6], hanno ritenuto di poter autonomamente ricondurre alla falsa rappresentazione dei fatti, in tesi sganciata dall’accertamento penale della falsità, anche pretesi errori di ricostruzione del quadro normativo o tecnico (quali la validità di un titolo, la qualificazione di un intervento edilizio, la sussistenza di un vincolo, l’individuazione della regula iuris correttamente applicabile, e simili).
Nella medesima ottica di garanzia di stabilità del beneficio, lo stesso comma 1 dell’art. 264 dispone che, sempre fino al 31 dicembre 2020, il potere generale di revoca (rimozione con effetto ex nunc degli atti ad efficacia durevole) per ragioni sopravvenute di interesse pubblico è limitato, per i benefici e le agevolazioni Covid-19, alla sopravvenienza di ragioni “eccezionali”.
2. La “trappola” del secondo comma: le sanzioni “nascoste”
Come ho immediatamente rappresentato in un articolo pubblicato sul quotidiano Il dubbio del 22 maggio, tuttavia, il secondo comma dell’articolo deputato alle misure di semplificazione e liberalizzazione nasconde un potente veleno.
Accanto alle riferite misure “emergenziali”, esso introduce, infatti, una serie di disposizioni “a regime”, dirette dunque a valere in via generale e senza limiti temporali. In particolare, nel dichiarato obiettivo di accelerare la massima semplificazione dei procedimenti amministrativi e l’attuazione delle misure di “sostegno” a cittadini e imprese e di “rilancio” dell’economia, la novella introduce, alla lettera a), un inedito, e potenzialmente sproporzionato, regime sanzionatorio nei confronti dei soggetti che l’amministrazione competente alla verifica abbia ritenuto latori di dichiarazioni non veritiere.
Dietro la conclamata finalità di disporre “misure urgenti” per “assicurare piena attuazione ai principi che non consentono alle pubbliche amministrazioni di richiedere la produzione di documenti e informazioni già in loro possesso” (!), il legislatore dell’emergenza interviene infatti sulla disciplina generale dei controlli amministrativi sulle autodichiarazioni dettata dal Testo Unico n. 445 del 2000 e, nell’intensificare i controlli a campione sulla relativa veridicità, aggrava sensibilmente gli effetti del loro eventuale esito negativo, aggiungendo alla tradizionale (mera) “decadenza” dal beneficio prevista dall’art. 75, l’espressa previsione, al comma 1-bis dello stesso articolo, che, “La dichiarazione mendace [non si richiede quindi la prova del falso, né si pongono limiti temporali] comporta, altresì, la revoca degli eventuali benefici già erogati nonché il divieto di accesso a contributi, finanziamenti e agevolazioni per un periodo di 2 anni decorrenti da quando l'amministrazione ha adottato l’atto di decadenza”, oltre a un significativo aggravio delle sanzioni penali (che, con un periodo aggiunto al primo comma dell’art. 76, vengono aumentate “da un terzo alla metà”).
In buona sostanza, perdendo un’importante occasione per fare chiarezza sulla portata dell’eccezione ai limiti temporali dell’annullamento d’ufficio degli atti di autorizzazione e di attribuzione di vantaggi economici (e, a catena, del controllo tardivo sulla SCIA) per “false rappresentazioni dei fatti”, confermando la necessità del relativo accertamento penale, o, quanto meno, circoscrivendole a quelle incontrovertibilmente risultanti da dati oggettivi inopinabili (come l’iscrizione in pubblici registri), il legislatore ha inserito di soppiatto nella disciplina della semplificazione per l’emergenza, inopinatamente proponendola come norma diretta a garantire il rispetto da parte delle pubbliche amministrazioni dell’obbligo di non “richiedere agli amministrati la produzione di documenti e informazioni già in loro possesso”, un significativo inasprimento delle conseguenze delle autodichiarazioni di cui le stesse amministrazioni abbiano eventualmente ritenuto, in sede di verifica postuma e senza alcun limite temporale, la non veridicità.
3. L’interdizione biennale da contributi, finanziamenti e agevolazioni
Ciò è di immediata evidenza per l’aggravio delle sanzioni penali ed è, comunque, innegabile per l’interdizione biennale da qualsiasi contributo, finanziamento e agevolazione. Si tratta, invero, pacificamente di una misura che, per il suo palese carattere afflittivo, rientra a pieno titolo, alla stregua dei c.d. Engel criteria, nel genus delle sanzioni amministrative, soggette, come tali, ai principi di stretta legalità, irretroattività e proporzionalità propri delle sanzioni penali[7]. Ne consegue, oltre all’inapplicabilità della norma interdittiva alle dichiarazioni rese prima dell’entrata in vigore della novella, la radicale illegittimità costituzionale della stessa, per il rigido automatismo che la connota[8]. L’impatto della misura è peraltro ancora più grave quando si consideri che il generico riferimento alle “agevolazioni”, senza l’aggiunta dell’aggettivo “economiche”, può essere ritenuto idoneo ad abbracciare anche sanatorie, deroghe e simili. Per una siffatta interpretazione sembra del resto far propendere anche il successivo periodo, che tiene “fermi” gli interventi “anche economici” in favore dei minori e le situazioni familiari e sociali di particolare disagio. A prescindere dall'assoluta incertezza di quest’ultima espressione, che rinvia a concetti assolutamente indeterminati, l’inciso “anche economici” potrebbe invero avvalorare il timore che il termine agevolazioni possa essere considerato inclusivo anche quelle a carattere non economico. Con buona pace della certezza delle regole e del principio di stretta legalità delle pene.
4. La revoca dei benefici già erogati
La “trappola” delle autodichiarazioni con cui, sempre più frequentemente, il privato è chiamato ad assumersi responsabilità interpretative e ricostruttive di un sistema estremamente complesso e incerto in luogo degli uffici istituzionalmente competenti (e per il cui “servizio”, non dimentichiamolo, la collettività sopporta pesanti oneri fiscali), vale però in termini non meno gravi per il recupero dei benefici eventualmente medio tempore ottenuti.
La disposizione deve essere letta in parallelo con il richiamato art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 in tema di annullamento d'ufficio. La revoca ex tunc dei benefici in tesi indebitamente ottenuti in base a una dichiarazione non veritiera è legata infatti evidentemente a un vizio originario dell’atto che lo ha attribuito: il beneficio deve essere restituito perché è stato riconosciuto/concesso in forza della dichiarazione dell’esistenza di un presupposto che, in realtà, secondo l’amministrazione vigilante, non esisteva. Dunque, perché il suo riconoscimento/conferimento era ab origine viziato. La rimozione con effetto ex tunc di un atto amministrativo per originario difetto dei relativi presupposti rientra però in una precisa categoria giuridica, che corrisponde al nome di “annullamento”, che, con una precisa scelta legislativa – che l’art. 264 non smentisce, ma, al primo comma, come visto espressamente ribadisce e addirittura rafforza – il legislatore ha sottoposto a precipui limiti sostanziali e procedurali, che il nuovo art. 75, comma 1-bis, del D.P.R. n. 445 del 2000 chiaramente elude.
Oltre all’evidente intento di “aggirare” i limiti temporali, generali e speciali, imposti dalla legge per l’annullamento d’ufficio, l’utilizzo del termine “revoca” in luogo di quello di “annullamento”, più correttamente idoneo a qualificare un provvedimento diretto a rimuovere con effetto ex tunc un atto/beneficio in tesi originariamente viziato (per essere stato indebitamente ottenuto in base alla dichiarazione non veritiera), tradisce per vero la volontà di sottrarre la misura anche all’obbligo motivazionale sul bilanciamento dei contrapposti interessi, in relazione all’affidamento riposto dal dichiarante in buona fede nella legittimità e stabilità del titolo/beneficio (esplicitamente o implicitamente) rilasciato o comunque non tempestivamente contestato. È importante a questo proposito segnalare che la prima disposizione introduttiva di un limite temporale al potere di annullamento d’ufficio degli atti amministrativi (art. 1, comma 136, l. n. 311 del 2004) si riferiva proprio a quelli incidenti su rapporti negoziali o convenzionali: essa bilanciava la previsione di una deroga al predetto obbligo motivazionale con la garanzia di un indennizzo per l’eventuale pregiudizio patrimoniale arrecato al privato contraente e con la fissazione di un limite temporale rigido – tre anni dall’acquisizione di efficacia del provvedimento – che non ammetteva alcuna eccezione (neppure in caso di falso!). La successiva estensione della regola del limite temporale (dimidiato a diciotto mesi) a tutti i provvedimenti autorizzativi o attributivi di vantaggi economici (disposta, come noto, dalla l. n. 124 del 2015, c.d. “riforma Madia”) ha poi implicato, per un verso, l’introduzione della relativa derogabilità in caso di falso e, per l’altro, l’esplicita abrogazione della suddetta disciplina speciale, con conseguente generalizzata riespansione dell’obbligo motivazionale sul contemperamento dei contrapposti interessi, che deve quindi in ogni caso supportare la caducazione ex tunc del provvedimento o del titolo, escludendo in radice la possibilità di invocare motivazioni in re ipsa, per determinate categorie di interessi pubblici, men che meno di mero carattere economico[9]. Come evidenziato da una recentissima sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana a proposito dello speciale regime dell’annullamento regionale dei titoli edilizi[10], infatti, “la stabilità dei provvedimenti amministrativi costituisce un valore che acquista una rilevanza sempre maggiore in un sistema che vuole l’agere della pubblica amministrazione ispirato al principio di correttezza e buon andamento di matrice costituzionale”. Osserva in merito condivisibilmente l’autorevole organo giudicante che “il principio costituzionale dell'art. 97 Cost. fissa un limite al potere discrezionale autoritativo di ritiro”, che “trova fondamento anche nell'art. 3 Cost., su cui si fonda il principio di ragionevolezza e proporzionalità dell’agire pubblico”, sottolineando, più in particolare, come “non si tratta di una preclusione del potere ma di un limite all'esercizio del medesimo, di tipo motivazionale e procedurale, che si collega al principio di correttezza, ragionevolezza, proporzionalità, in quanto vieta l'uso scorretto, irragionevole e sproporzionato del potere pubblico”; e significativamente concludendo che “L'obbligo di motivazione è ancora più stringente quando le primigenie scelte che hanno ampliato la sfera giuridica dei privati non sono frutto di comportamenti fraudolenti da parte degli stessi, ma maturano in un rapporto con la pubblica amministrazione caratterizzato apparentemente dalla reciproca buona fede”.
La scelta del legislatore dell’emergenza è dunque anche sotto questo profilo fortemente criticabile, dal momento che la “revoca” ex tunc dei benefici, configurando in realtà una forma di “annullamento travestito”[11], si pone in aperta e insanabile contraddizione con i limiti temporali e motivazionali imposti a quest’ultimo istituto e specificamente richiamati dal primo comma dello stesso art. 264, addirittura, come visto, con la testuale riproduzione della puntuale eccezione di cui al comma 2-bis.
Non vi è dubbio, dunque, che, non diversamente dall’interdizione, la revoca persegua piuttosto un intento sanzionatorio.
Nel ricordato contributo pubblicato “a prima lettura” sul quotidiano Il dubbio concludevo pertanto con un’osservazione che mi piace riportare “È certamente giusto prevenire e severamente reprimere l’imprenditore disonesto e chiunque fraudolentemente dichiari/rappresenti il falso per accedere a vantaggi pubblici della più varia natura, ma non si deve dimenticare che le sanzioni sono soggette a regole ben precise e che, in ogni caso, le misure di semplificazione privano di fatto gli operatori delle garanzie del controllo preventivo dell’amministrazione. Si impone quindi particolare attenzione al confine tra dichiarazioni/ rappresentazioni effettivamente “mendaci” ed errori interpretativi di contesti giuridici e tecnici spesso scarsamente chiari, che per questo vengono tendenzialmente “scusati” alle amministrazioni e ai giudici. Ciò che appare comunque inaccettabile è il fatto che, soprattutto in un momento di massima confusione legislativa, tale inasprimento non sia stato segnalato, in modo chiaro ed espresso, in un apposito articolo e sotto un’apposita rubrica, come il rapporto di leale collaborazione tra le istituzioni e i cittadini avrebbe richiesto (invece che essere “celato” tra le misure di liberalizzazione e semplificazione dell’emergenza Covid-19, senza peraltro farne cenno neppure nella Relazione illustrativa). Perché ci meravigliamo se gli imprenditori non si fidano?”.
5. La “confusa giustificazione” proposta dai Servizi studi della Camera e del Senato
Dopo la pubblicazione dell'articolo e l’eco che esso ha avuto su vari media, il Servizi studi della Camera e del Senato, nelle schede predisposte per i parlamentari in vista della conversione in legge del decreto 34, hanno finalmente alzato il velo steso dal governo sulle misure introdotte dal comma 2, lettera a), dell’art. 264.
Le schede confermano però le criticità della novella e la totale confusione tra categorie giuridiche che ne ha indotto l'introduzione.
Sottolinea infatti, apertamente, la scheda relativa alle misure in commento che “per quanto concerne le sanzioni”, l’articolo aggiunge una disposizione all’articolo 75 del D.P.R. n. 445, stabilendo che la dichiarazione mendace comporta, oltre alla decadenza dai benefici indebitamente ottenuti, anche la revoca di quelli già erogati nonché il divieto di accesso a contributi finanziamenti e agevolazioni per un periodo di due anni decorrenti da quando l'amministrazione ha adottato l'atto di decadenza.
Nella parte esplicativa, la stessa scheda aggiunge peraltro, con un linguaggio evidentemente atecnico che non può non deludere per la fonte da cui promana, che in tal modo il dl rilancio “rafforza le sanzioni amministrative per le dichiarazioni mendaci”.
Se dunque la scheda ha il forte merito di segnalare ai parlamentari l’introduzione di nuove “sanzioni”, essa rivela sin da subito una superficialità di rappresentazione del contesto normativo e ordinamentale, laddove riconduce impropriamente la “decadenza” al genus delle “sanzioni amministrative”; e la superficialità aumenta quando, nel cercare di spiegare la disposizione, confonde le finalità della decadenza con quelle della revoca e dell’interdizione.
Ricordo che la decadenza ex art. 75, D.P.R. n. 445 del 2000, che correttamente il predetto Testo Unico non qualifica “sanzione”, risponde (rectius, dovrebbe rispondere), correttamente e ragionevolmente, alla logica di precludere la fruizione dell’utilitas in tesi indebitamente conseguita per effetto del mendacio, impedendo che il dichiarante goda di un beneficio che non avrebbe avuto titolo a ottenere: essa coerentemente opera ex nunc e, in questi termini e con questi limiti, prescinde dall'elemento soggettivo e dalla gravità del mendacio. Già con riferimento a tale disposizione è stata peraltro opportunamente sollevata la questione di legittimità costituzionale della lettura datane dal “diritto vivente”, nel senso di ritenerla applicabile, con un “meccanico automatismo legale (del tutto contestualizzato dal caso specifico)” e con “assoluta rigidità”, per qualsivoglia errore “sostanziale” della dichiarazione[12], a prescindere dalla sua concreta rilevanza e dalla sua effettiva gravità, anche sul piano dell’elemento soggettivo[13].
È indubbia comunque la differenza tra la preclusione al conseguimento o all’ulteriore godimento di un’utilitas cui il dichiarante non avrebbe avuto in tesi diritto e la revoca ex tunc dei benefici medio tempore ottenuti per l’inefficienza dei controlli amministrativi (o, più spesso, perché gli originari responsabili del procedimento avevano accolto una diversa interpretazione del quadro normativo e fattuale).
Per sottrarre tale misura al regime dell’annullamento d’ufficio (categoria cui, per quanto sopra detto, essa sarebbe più correttamente riconducibile), bisogna invero ricondurla, come ben compreso dai Servizi studi, al genus delle sanzioni. Ma ciò ne implica la soggezione ai principi di stretta legalità, proporzionalità e rilevanza dell’elemento soggettivo tipici di queste ultime.
Tanto l’interdizione biennale da ogni contributo, finanziamento o agevolazione, quanto la revoca di cui al novello art. 75, comma 1-bis, del D.P.R. n. 445 del 2000 devono pertanto rigorosamente rispettare i principi e le regole che la Costituzione, la CEDU e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Carta di Nizza) univocamente impongono per le pene.
Da ciò la palese erroneità della scheda quando unifica e assimila istituti come decadenza, revoca e interdizione e concetti come falsità e non veridicità, assumendo (con un’impropria estensione del surrichiamato “diritto vivente” sulla decadenza) che anche per le misure sanzionatorie (revoca ex tunc dei benefici e interdizione biennale da ogni agevolazione) introdotte dall’art. 264, comma 2, del dl rilancio la “dichiarazione falsa o non veritiera
6. Conclusioni
La confusione, purtroppo sempre più diffusa e frequente, tra le categorie giuridiche è uno dei più gravi difetti del nostro sistema e aumenta gravemente l'incertezza delle regole e, per l’effetto, la sfiducia degli investitori e degli operatori economici nel nostro Paese.
Allo studioso non resta quindi che auspicare che il Parlamento colga autonomamente la gravità e l’irragionevolezza delle nuove misure, e la loro macroscopica incompatibilità con le garanzie costituzionali, eurounitarie e convenzionali in tema di sanzioni. E che, in questa o altra occasione il legislatore (magari lo stesso Governo nel preannunciato “decreto semplificazioni”), si prenda doverosa coscienza e si rimarchi che, come lucidamente e provvidenzialmente sottolineato in una recentissima sentenza del Consiglio di Stato, “Il concetto di “falso”, nell’ordinamento vigente, si desume dal codice penale, nel senso di attività o dichiarazione consapevolmente rivolta a fornire una rappresentazione non veritiera. Dunque, il falso non può essere meramente colposo, ma deve essere doloso”[14] e si operi un attento e ragionevole ripensamento sul regime delle conseguenze degli errori eventualmente commessi dagli amministrati – obbligati ad assumersi la responsabilità di una corretta lettura e applicazione di un quadro normativo straordinariamente caotico e incerto – nel rendere le prescritte dichiarazioni sostitutive. Non si deve infatti dimenticare che le misure di semplificazione e liberalizzazione sono, sì, volte a rendere più efficace ed efficiente l'azione amministrativa, ma sono altrettanto inequivocabilmente finalizzate a garantire i diritti dei singoli costituzionalmente tutelati e di volta in volta coinvolti nel procedimento amministrativo attivato[15] e non possono quindi provocarne un sostanziale indebolimento, imputando ai relativi titolari “responsabilità oggettive” per condotte legate a deficienze del sistema normativo da cui si cerca di tenere indenni le amministrazioni.
[1] Da ultimo, “Controlli sull’attività edilizia, sanzioni e poteri di autotutela”, Relazione al 65° Convegno di Studi amministrativi, Varenna, 2019, in federalismi.it, 18/2019, ma già in numerosi altri scritti (inter alia, Le novità in tema di silenzio, in Libro dell’anno del diritto, Treccani, 2014 e Dalla DIA alla SCIA: una liberalizzazione a rischio, in Riv. giur. Edil., 2010, II, 645 ss.) a partire da Riflessioni sulla tutela del cittadino contro il silenzio della p.A., in Giust. Civ. 1994, 485 ss. Per ulteriori approfondimenti M. Calabrò, Silenzio-assenso e dovere di provvedere, in Federalismi.it, 16 aprile 2020; G. Mari, L'obbligo di provvedere e i rimedi preventivi e successivi alla sua violazione, in M.A. Sandulli (a cura di), Principi e regole dell'azione amministrativa, Milano, 2017; R. Caponigro, I comportamenti taciti, in www.giustizia-amministrativa.it.
[2] Così testualmente G. Trovati, Prove di semplificazione sulla responsabilità contabile, Il Sole 24 Ore del 25 maggio scorso. Il fenomeno è richiamato, da ultimo, da P. Severino, (La burocrazia difensiva, su La Repubblica del 30 maggio), che, parimenti, sottolinea come esso trovi la sua causa nelle “norme che hanno dato luogo a interpretazioni oscillanti e incerte” che inducono i funzionari pubblici “ad una tattica prudenziale e attendista come garanzia di impunità” e autorevolmente rimarca che tale atteggiamento è provocato anche dall’ “ambiguo confine della responsabilità erariale, che dovrebbe scattare solo a seguito di una condotta del soggetto pubblico accompagnata da dolo o colpa grave” (mentre “proprio la qualificazione di colpa grave” ha “subito una graduale erosione fino a identificarsi a volte con qualunque comportamento non conforme a canoni interpretativi più consueti”) e dall’incertezza nella delimitazione del reato di “abuso d’ufficio”, che, risente della difficoltà di “differenziare ciò che è legittimo da ciò che è illegittimo sotto il profilo amministrativo o addirittura illegale sotto il profilo penale”, portando a “considerare meritevoli di pena anche comportamenti del pubblico ufficiale che faccia cattivo uso del potere discrezionale”.
[3] Da ultimo, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 15 aprile 2020, n. 634.
[4] TAR Puglia, Bari, Sez. II, 30 marzo 2020 n. 454. Il Collegio, confermando l’orientamento della Sezione (cfr. sent. 20 maggio 2019 n. 725) ha evidenziato che “La natura rimediale (e derogatoria) del silenzio-assenso va qualificata in senso per così dire “protettivo” dell’interesse del richiedente all’irrinunciabilità dell’atto esplicito e formale, preordinato ad evitare l’avvio di un’attività a gravoso impatto territoriale ed economico, peraltro non facilmente reversibile”. La giurisprudenza ha colto, infatti, che il provvedimento espresso, infatti, garantisce al privato un “maggior grado di stabilità e certezza del rapporto”, che rileva “in relazione all’impegno economico-finanziario per l’edificazione, di avere contezza del termine finale dei lavori e della certezza del titolo edilizio, per l’avvio delle pratiche bancarie e finanziarie propedeutiche all’inizio delle opere, per il trasferimento del bene o del permesso, per la sottoscrizione del preliminare di acquisto delle porzioni di fabbricato, etc.” (TAR Lazio, Roma, Sez. II, 1 agosto 2019 n. 10227; TAR Campania, Salerno, Sez. II, 7 novembre 2019 n. 1936).
[5] Cfr. M.A. Sandulli, L’autotutela perde i limiti temporali imposti dalla «Madia», in Il sole 24 ore, 9 luglio 2018; Id., Autoannullamento dei provvedimenti ampliativi e falsa rappresentazione dei fatti: è superabile il termine di 18 mesi a prescindere dal giudicato penale?, in lamministrativista.it.
[6] Si rinvia, in tema, a M.A. Sandulli, Principi e regole del diritto amministrativo: riflessioni sul rapporto tra diritto scritto in realtà giurisprudenziale, in federalismi.it, n. 23/2017 e Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il processo, 3, 2018.
[7] Sull’equiparazione delle sanzioni amministrative alle sanzioni penali, cfr., ex plurimis, C. cost., sent. n. 63 del 2019, che ne ha addirittura dedotto l’applicabilità anche alle prime della regola della retroattività della legge più favorevole.
[8] Cfr. per tutte, C. cost., sent. n. 112 del 2019.
[9] Sul punto, cfr. però le ambigue considerazioni svolte dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza n.8 del 2017, su cui sia consentito il rinvio a M.A. Sandulli, G. Strazza, L’autotutela tra vecchie e nuove incertezze: l’Adunanza Plenaria rilegge il testo originario dell’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990, in S. Toschei (a cura di), L’attività nomofilattica del Consiglio di Stato, Roma, 2019.
[10] Sez. I, 26 maggio 2020, n. 325.
[11] Così testualmente i pareri della Commissione speciale del Consiglio di Stato sugli schemi dei decreti delegati di attuazione della legge Madia (pareri nn. 839 e 1784 del 2016). Sull’annullamento d’ufficio nella riforma Madia, cfr., per tutti, C. Deodato, L’annullamento d’ufficio, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017; M. Sinisi, Il potere di autotutela caducatoria, in M.A. Sandulli (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, cit..
[12] Il richiamo è a Cons. Stato, Sez. V, 9 aprile 2013, n. 1933, 3 febbraio 2016, n. 404 e 15 febbraio 2017, n. 1172; Sez. VI, 20 agosto 2019, n. 5761; CGA reg. sic., 9 dicembre 2019, n. 1039; TAR Lazio, Sez. III ter, 24 maggio 2017, n. 6207; TAR Liguria, Sez. I, 14 giugno 2017, n. 534.
[13] Cfr. TAR Puglia, Lecce, Sez. III, ord.n. 92 del 2020, che, riprendendo e sviluppando gli argomenti svolti nelle ordd. nn. 1346, 1531, 1552 e 1544 del 2018, dichiarate inammissibili per difetto di motivazione sulla rilevanza C.cost., n. 199 del 2019), ha (ri)sollevato la questione in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., sotto il profilo dell’irragionevolezza e sproporzione della misura impeditiva e decadenziale automatica, anche alla luce delle aperture create dall’ordinamento attraverso il soccorso istruttorio. Sottolinea invero l'ordinanza che “il giudizio di ragionevolezza, lungi dal limitarsi alla (sola) valutazione della singola situazione oggetto della specifica controversia da cui sorge il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, sia appalesa idoneo (…) a vagliare gli effetti della Legge sull’intera realtà sociale che la Legge medesima è chiamato a regolare, anche in funzione dell’ <<“esigenza di conformità dell'ordinamento a valori di giustizia e di equità” … ed a a criteri di coerenza logica, teleologica, …, che costituisce un presidio contro l'eventuale manifesta irrazionalità o iniquità delle conseguenze della stessa (sentenza numero 87 del 2012)>> (Corte costituzionale sentenza 10 giugno 2014 n. 162)”.
[14] Sez. V, 12 maggio 2020, n. 2976.
[15] Così chiaramente la citata ordinanza leccese n. 92 del 2020.
L'oralità (ir)rinunciabile nel processo penale
di Sandra Recchione
Sommario: 1. Il processo da remoto e l’oralità rinunciabile; - 2. Il dibattimento, luogo di elezione dell’oralità; - 3. L’oralità irrinunciabile; - 4. Il diritto dell’eccezione; - 5. Una occasione per riflettere sul degrado dell’oralità.
1. Il processo da remoto e l’oralità rinunciabile
Il dibattito acceso sul diritto dell’eccezione e, segnatamente sul processo senza oralità diretta o “da remoto” induce a chiedersi se, e quando, l’oralità “diretta” sia irrinunciabile.
Domanda tanto più rilevante ed attuale dopo l’intervento normativo effettuato dal D.l. n. 28 del 2020 che consegna alle parti la facoltà di celebrare “da remoto” le udienze di discussione e quelle nelle quali devono essere esaminati testimoni, parti, consulenti e periti (art 83, comma 12 bis d.l. n. 18 del 2020 come riformato dal d.l. n. 28 del 2020)[1].
Partiamo da una prima banale osservazione: l’oralità nella “formazione della prova” si disperde visibilmente nel corso della progressione processuale: in appello è limitata ai casi in cui si dispone la rinnovazione ed in cassazione è assente.
Diversa è la sorte dell’oralità nella “discussione” che caratterizza, invece, tutti i gradi di giudizio.
La discussione è il momento in cui i difensori ed il pubblico ministero, anche facendo ricorso alle loro abilità retoriche, offrono al giudice la loro valutazione sulla legittimità ed efficacia dimostrativa delle prove. Le parti confidano molto (forse troppo) in questo momento “persuasivo”.
Va detto che la rilevanza della discussione si attenua nel corso della progressione processuale: una brillante disamina orale non sana infatti eventuali deficienze degli atti scritti di impugnazione.
L’atto di appello, per esempio, è decisivo. Ed è scritto.
Un appello aspecifico, oltre a rischiare di essere dichiarato inammissibile non perimetra l’area del devoluto e si ripercuote negativamente sulle possibilità di successo dell’ultima impugnazione dato che interrompe la catena devolutiva ed impedisce la rilevazione in sede di legittimità dei vizi non dedotti e non rilevabili ex officio.
Un processo (proclamato come) orale ed immediato è, invero, visceralmente legato alla qualità degli atti scritti che determinano la progressione e sotto il profilo probatorio si cartolarizza inesorabilmente nel corso della progressione con le poche finestre riservate alla rinnovazione in appello.
2. Il dibattimento, luogo di elezione dell’oralità
Il luogo di elezione dell’oralità sembra invece essere il dibattimento di primo grado: è lì si sviluppa la cross examination nell’esame dei testimoni, dei periti e dei consulenti tecnici e si esprime a pieno il progetto accusatorio nella formazione in contraddittorio della prova.
Ma quanta di tale oralità è davvero irrinunciabile? Quanta di tale oralità contribuisce davvero a fornire al giudice la prova epistemologicamente più affidabile per la decisione?
I dibattimenti spesso sono il teatro del fallimento del progetto accusatorio.
La maggior parte dei testimoni viene infatti udito a distanza di tempo dai fatti: gli ufficiali di polizia sono spesso autorizzati a leggere gli atti (che non ricordano); i sanitari che leggono i referti (che non ricordano). Anche i periti spesso leggono le loro relazioni; mentre i testi semplici sono tempestati di contestazioni perché, anche loro, a distanza di tempo dai fatti non ricordano.
Il tutto si svolge non in una sola udienza, o in poche udienze ravvicinate, come da progetto accusatorio, fondato sui principi di oralità ed immediatezza: per un processo medio in genere si celebrano almeno otto-dieci udienze che si sviluppano in un arco temporale di circa un anno.
E’ sempre oralità necessaria? Forse no.
3. L’oralità irrinunciabile
Ma una oralità irrinuciabile esiste e va difesa. Con forza.
L’oralità che non si rinuncia è quella che si esprime nell’esame dei testi decisivi: nell’esame del perito sulle parti della relazione poco comprensibili o contestate dai tecnici di parte; degli ufficiali di polizia giudiziaria sulle parti non chiare o incomplete degli atti che hanno stilato; dei sanitari sui dati non refertati, ma rilevanti (come ad esempio le condizioni psichiche della persona curata).
A ben guardare non tutto il compendio dichiarativo è ad “oralità irrinunciabile” ed anche le prove tecnico scientifiche (talvolta) possono prescindere dall’esame orale, quando gli esiti e le relazioni scritte sono chiari (si pensi agli esami sulla sostanza stupefacente).
A ciò si aggiunge un dato che segnala una vera e propria mutazione genica del processo: la maggior parte delle prove ad oralità irrinunciabile, ovvero quelle dei testi “coinvolti nel fatto”, sia come vittime che come imputati di reato connesso o collegato, vengono raccolte prima e fuori dal dibattimento, in incidente probatorio. La capsula incidentale è diventata infatti la sede privilegiata per la raccolta della prova dichiarativa decisiva. Ed anche di quella scientifica. Con buona pace dell’immediatezza; ma con salvezza dell’oralità.
L’anticipazione del contraddittorio orale nella raccolta di queste prove decisive incide non solo sulle valutazioni “processuali”, ma anche su quelle procedimentali in ordine all’esercizio dell’azione penale (si pensi ad un incidente probatorio peritale in un processo per colpa medica o relativo ad un infortunio sul lavoro).
Ebbene: nella capsula incidentale le prove dichiarative che spesso vengono assunte con forme di oralità “attenuata”: perché i testi sono vulnerabili e sono protetti dal contatto con le parti dal vetro specchio o perché i dichiaranti sono collaboratori di giustizia uditi a distanza con le forme previste dall’art. 146 bis disp. att. cod. proc. pen.
La dispersione dell’immediatezza viene tuttavia spesso bilanciata dal ricorso a forme di documentazione aggravata come la videoregistrazione che rende l’evento testimoniale a “fruibilità permanente” anche i contenuti extraverbali dell’esame.
La prova decisiva, dunque, nella maggior parte dei casi si assume prima del dibattimento ed in modo “distanziato”, attraverso una parziale compressione dell’oralità ed una totale dispersione dell’immediatezza.
Lo stesso principio di oralità è, peraltro, sottoposto a vistose fibrillazioni interpretative: la Corte costituzionale con due sentenze emesse a distanza di pochi mesi la ritiene irrinunciabile in caso di riedizione della testimonianza in appello[2] e rinunciabile nel caso di mutazione del collegio[3]. Le sezioni Unite hanno rivisitato l’art. 525 cod. proc. pen. offrendo una inedita lettura dell’ obbligo di rinnovazione del dibattimento in caso di mutazione del collegio, di fatto affidando alle parti l’onere di allegare le ragioni per la irrinunciabilità della reiterazione degli esami di fronte al nuovo collegio[4][5].
4. Il diritto dell’eccezione
Se questo è lo stato dell’arte la discussione sull’oralità a distanza poterebbe assumere toni diversi ed essere l’occasione per rivalutare l’oralità essenziale. E, indirettamente, anche di salvaguardare l’immediatezza, annichilita da tempi processuali biblici, e da udienze frazionate che, di fatto, trasformano le prove “orali” in prove “di carta”, dato che al momento della decisione il giudice rileggerà i verbali di prove assunte molto tempo prima e che non ricorda più. Immediatezza che potrebbe risorgere se si ideasse una architettura processuale ad oralità variabile.
Forse per dare attuazione al mandato costituzionale accusatorio bisogna avere il coraggio di “isolare” e difendere l’oralità decisiva rinunciando alle “parate” formali di testi e periti che nulla aggiungono agli atti scritti e che erodono l’effettività del diritto al contraddittorio orale subdolamente trasformando in processi di carta anche i processi di primo grado.
Insomma: il processo ad “oralità variabile” che difenda e valorizzi il contraddittorio nella formazione della prova decisiva potrebbe essere la risposta al conclamato fallimento del dibattimento.
L’adesione a tale prospettiva selettiva richiederebbe un esame accurato delle fonti predibattimentali che conduca anche alla identificazione delle prove critiche ed incerte, oltre che di quelle “fisiologicamente” decisive. Alle parti sarebbe richiesto un atteggiamento processuale “direttivo” e non passivo funzionale alla trasformazione del dibattimento da “defatigante e formale” in “irrinunciabile e decisivo”.
Sarebbe importante inoltre - si ritiene sommessamente - che le prove orali siano sempre documentate in forma aggravata (ovvero con la videoregistrazione) in qualunque fase siano raccolte, dunque anche in dibattimento. La videoregistrazione renderebbe infatti la comunicazione extraverbale ed il contegno del dichiarante a “fruibilità permanente” e consentirebbe di contenere le rinnovazioni riservandole ai soli casi in cui nel corso della prima audizione vi siano contenuti (testimoniali o tecnici) incerti o inesplorati.
5. Una occasione per riflettere sul degrado dell’oralità
Tornando al diritto dell’eccezione: per il legislatore del Covid quello che è disponibile non è l’oralità tout court, che continua ad essere garantita (tranne che nel processo in Cassazione), ma l’oralità diretta, non distanziata, quella che si ottiene con la presenza in aula.
L’alternativa proposta dal legislatore del Covid, e rimessa al consenso delle sole parti[6], non è, infatti, tra processo di carta e processo orale ma tra processo ad oralità remotizzata e processo ad oralità piena. Il “salto” verso la cartolarizzazione consensuale è stato invero compiuto solo per il rito della cassazione (art. 83 comma 12 ter del D.l. n. 18 del 2020 convertito con modificazioni dalla legge n. 27 del 2020): passaggio facilitato dal fatto che il processo in quella fase è già “di carta” e residua uno spazio orale solo per la discussione, che, nella prassi, spesso si risolve in un formale rinvio ai motivi del ricorso.
Si tratta di diritto dell’eccezione. Nessuno si augura che diventi regola[7]. Se non altro per tornare a celebrare con continuità (e devozione) la liturgia dell’udienza che giustifica con le “forme” la (terribile, se si percepisce) sovrapposizione della realtà processuale a quella reale, e la rinnovata accettazione collettiva della convenzione secondo cui giustizia è amministrata dagli uomini, per gli uomini.
Tuttavia il Covid ci ha imposto di ragionare sulle oralità irrinunciabili, su quelle salvaguardabili in forma attenuata (da remoto) e su quelle inutili.
Resta fermo, ed in questo si condividono pienamente le osservazioni di G. Santalucia[8], che il diritto dell’eccezione non può incidere in via permanente sulla regola: si tratta di un diritto “temporaneo” che non può ambire ad alcuna stabilizzazione[9].
Tuttavia la scelta di prevedere che le parti possano scegliere di rinunciare all’oralità piena per scegliere l’oralità telematica o addirittura, in Cassazione, il processo “di carta” ha condotto a riflettere su quanta oralità sia irrinunciabile. E non per deprivare il processo e farlo regredire a stadi inquisitori, ma per valorizzare davvero l’oralità decisiva, quella davvero irrinunciabile. Quella sulle prove-cardine, che oggi vengono assunte senza essere “isolate” e rischiano di essere travolte ed “oscurate” da dibattimenti interminabili e defatiganti, nei quali l’oralità diffusa offusca e disperde quella necessaria.
Forse è arrivato il momento di chiedersi se la salvaguardia cieca ed acritica della oralità sia davvero una garanzia o se, invece, difendendo l’oralità diffusa si incida negativamente sulle pretese delle parti, disperdendo l’immediatezza ed elidendo di fatto la essenziale dimensione orale delle prove decisive, che valutate a distanza di molto tempo rispetto a quando sono state assunte, saranno paradossalmente esaminate su carta, attraverso la lettura dei verbali.
Si tratta di una riflessione che potrebbe condurre ad un miglioramento del processo se la tensione ideale per la tutela del progetto costituzionale si orientasse verso la massima valorizzazione della oralità nella assunzione delle prove decisive, e verso la diffusione della videoregistrazione.
In sintesi, se tale tensione si indirizzasse verso la ridefinizione di un processo “gestito” dalle parti e non “subito” come un ineluttabile ed, a tratti, inutile dispiegarsi di episodi di oralità formale.
Un’ultima notazione: le “rinunce” all’oralità non dovrebbero (come scelto dal Legislatore del Covid) essere mai sottratte al controllo del giudice, che può avere bisogno del contatto diretto con la prova, come anche della discussione orale. Al giudice deve essere infatti riservata l’ultima parola sulla sufficienza della “prova di carta” e deve potere “accendere” il processo ogni volta che ritiene l’oralità indispensabile, anche se le parti vi rinunciano.
Forse la immane tragedia del Covid ci porterà a progettare un processo gestito, pensato e non subito. Vedremo.
[1] Sul diritto processuale dell’eccezione v. G. Santalucia, “L’impatto sulla giustizia penale dell’emergenza da Covid 19: affinamenti delle contromisure legislative – note a prima lettura del d.l. n. 18”, in questa rivista 18 marzo 2020; nonché dello stesso autore “La giustizia penale di fronte all’emergenza da epidemia da Covid 19 (brevi note sul d.l. n. 11 del 2020, in questa rivista, 9 marzo 2020.
[2] Corte cost. n. 124 del 2019.
[3] Corte cost. n. 132 del 2019.
[4] Secondo le Sezioni unite l'intervenuto mutamento della composizione del giudice attribuisce alle parti il diritto di chiedere sia prove nuove sia, indicandone specificamente le ragioni, la rinnovazione di quelle già assunte dal giudice di originaria composizione, fermi restando i poteri di valutazione del giudice di cui agli artt. 190 e 495 cod. proc. pen. anche con riguardo alla non manifesta superfluità della rinnovazione stessa (Sez. U, n. 41736 del 30/05/2019 - dep. 10/10/2019, PG C/ BAJRAMI KLEVIS, Rv. 276754).
[5] Tra i commenti si segnalano Mangiaracina Annalisa, Mutamento della persona fisica del giudice e rinnovazione del dibattimento. (Immutabilità del giudice versus efficienza del sistema: il dictum delle Sezioni Unite), in Processo Penale e giustizia, 2020, 1, p. 136; nonché Galluccio Mezio Gaetano-Caligaris Anna, “Sezioni unite e ideale accusatorio: una relazione in crisi. (Galluccio Mezio Gaetano) - Quando l'immediatezza soccombe all'efficienza: un discutibile (ma annunciato) sviluppo giurisprudenziale in tema di rinnovazione del dibattimento per mutamento del giudice. (Caligaris Anna), in Cass. Penale, 2020, 3, sez. 2, 1030.
[6] V. G. Santalucia, decreto legge 30 aprile 2020 n. 28, in questa Rivista, 1 maggio 2020.
[7] Sulla transitorietà della disciplina e i rischi di snaturamento del processo v. G. Santalucia, “La tecnica al servizio della giustizia penale. Attività giudiziaria a distanza nella conversione del decreto “cura italia”, in questa rivista, 10 aprile 2020. V. anche C. Intrieri “La tecnologia nel processo penale e “l’abbaglio della normalità” in questa rivista 13 maggio 2020.
[8] G. Santalucia, “La tecnica al servizio della giustizia penale. Attività giudiziaria a distanza nella conversione del decreto “cura Italia”, cit., § 8.
[9] Sulla natura temporanea del diritto dell’eccezione v. T. Epidendio “il diritto nello “stato di eccezione” ai tempi dell’epidemia del coronavirus, in questa Rivista, 30 marzo e 19 aprile 2020,
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