Sul destino dell’Europa – Parte seconda. Intervista di Marco Dell’Utri a Roberta De Monticelli, Donatella Di Cesare, Luisa Passerini e Marina Sereni
di Marco Dell’Utri
Sommario: 1. Le domande - 2. La scelta del tema - 3. Le risposte - 4. Le conclusioni.
1. Le domande
1) Il sogno di un’Europa (realmente) unita è ancora attuale, o possiamo realisticamente considerarlo come l’ultimo capitolo di una storia delle idee e delle utopie irrealizzate che, da Tommaso Moro in poi, ha accompagnato la vicenda della cultura moderna e contemporanea?
2) Il fallimento (sin qui registrato) del progetto politico eurounitario è (principalmente) dovuto a motivi politici contingenti, o è la coerente conseguenza di una crisi culturale o di civiltà?
3) Se è vero che l’incontro dei popoli ha per lo più avuto inizio attraverso l’organizzazione dello scambio commerciale e la creazione dei corrispondenti istituti giuridici, non vi sembra che in Europa (ormai da tempo stabilizzata ai limiti di quello stadio minimo) sia effettivamente mancata, nel disegno politico delle classi dirigenti, un’adeguata elaborazione di un ethos o di prassi pedagogiche e progressive (tipiche della mentalità utopistica) necessarie a dar vita a un’effettiva koinè culturale e politica oltre l’homo oeconomicus ?
4) Una più larga e diffusa penetrazione della cultura dei diritti della persona (oltre i limiti strutturali delle competenze proprie dell’Unione, e secondo il modello del Consiglio d’Europa e della Corte di Strasburgo) può ritenersi il possibile punto di partenza per la realizzazione di un rinnovato ‘esperanto’ europeo, fondato sul riconoscimento della sovranità della ‘persona’, da cui muovere per una ‘ricostruzione’ democratica delle sue istituzioni?
2. La scelta del tema
Marco Dell’Utri Non più di tre mesi fa, questa rivista ritenne opportuno sollecitare una riflessione a più voci sul destino dell’Europa.
L’iniziativa, in larga misura, traeva motivo dall’osservazione, in piena crisi pandemica, dell’ennesima dimostrazione di incapacità, dei diversi governi europei, di reagire, nei termini di una spontanea solidarietà, attraverso l’adozione, se non di comuni politiche, di strategie o azioni coordinate, destinate a far fronte alle nuove e improvvise difficoltà dei paesi maggiormente colpiti dalla violenza dell’epidemia.
Sembrava, allora, che l’istinto egoistico o conservativo che aveva accompagnato le reazioni politiche delle classi dirigenti continentali alla crisi economica del 2008, alle sempre più diffuse insofferenze nei confronti delle istituzioni europee (fino all’abbandono della Gran Bretagna) o, ancora, alle vicende dell’immigrazione africana e mediorientale nei territori europei, fosse tornato a prevalere su quell’antico disegno di integrazione politica che aveva animato le visionarie prospettive dei governanti europei usciti dalle macerie della seconda guerra mondiale.
Una riflessione meno frettolosa, o emotiva, sulle odierne difficoltà del progetto politico europeo – scrivevamo – avrebbe potuto agevolare una comprensione più adeguata delle cause del (prefigurabile?) fallimento del disegno dell’Unione continentale, invitando a ricercarne le eventuali origini in una più radicale crisi dell’intera cultura o della civiltà occidentale, presa tra gli istinti predatori o distruttivamente nichilistici che animano (o rianimano) gli egoismi neocapitalistici, e le (pur sostenute) declamazioni dei diritti di emancipazione delle persone e delle comunità politiche.
Su queste premesse, ritenemmo utile sollecitare una riflessione sui riconoscibili limiti dell’originario progetto eurounitario del secondo dopoguerra, o sulle eventuali carenze delle classi dirigenti del secondo Novecento.
Nel quadro del discorso che coinvolge l’impegno culturale del giurista – provavamo a interrogarci – sembrava non ozioso domandarsi se l’orizzonte di un nuovo inizio avrebbe potuto individuarsi in un percorso inverso a quello originariamente avviato negli anni ‘50: ossia in un cammino che, lungi dal muovere dall’alto (da una preliminare ‘ingegneria’ delle istituzioni del potere), sapesse porre al centro del progetto europeo il valore ‘sovrano’ della persona e delle sue prerogative di elaborazione delle istanze di senso, capaci di valorizzarla fuori da una mortificante prospettiva politica ‘difensiva’, ridotta a una mera gestione amministrativa della sua sola sopravvivenza biologica.
Una prima parte di questa riflessione collettiva è stata pubblicata su questa rivista domenica 3 maggio 2020 (https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/1059-sul-destino-dell-europa), attraverso la proposizione degli interventi di Giuliano Amato, di Massimo Cacciari, di Virgilio Dastoli e di Walter Veltroni.
A distanza di breve tempo, gli eventi che si sono andati succedendo, di settimana in settimana, hanno via via incoraggiato, da un lato, l’adozione di letture più ottimistiche sul senso di realtà del sentimento eurounitario (l’acquisto di titoli degli Stati membri da parte della BCE; la predisposizione di una linea di credito agevolata e senza condizionalità nell’ambito del MES per la spesa sanitaria; la messa a punto del c.d. SURE per il sostegno dei lavoratori; la proposta della Commissione Europea per un Recovery Fund, di recente definita in seno al Consiglio europeo) ma, dall’altro, la riaffermazione di prese di posizione di segno contrario, inclini a negare alcuna adeguata giustificazione all’assunzione di politiche di finanziamento o di sostegno economico ai singoli paesi europei maggiormente colpiti dalle sopravvenienze, al di fuori dei parametri di equilibrio già negoziati, o comunque in assenza di adeguate garanzie di corrispettività (la ferma opposizione dei c.d. ‘paesi frugali’ al Recovery Fund, la decisione del Tribunale costituzionale tedesco sulla dimensione dell’acquisto di titoli degli Stati membri da parte della BCE).
Permane, dunque, la sensazione che le linee del confronto politico, nel quadro delle istituzioni di vertice dell’Unione, non divergano in ragione della diversa lettura dei percorsi di realizzazione degli interessi europei, bensì della stessa configurabilità di un interesse europeo distinto e assorbente rispetto all’egoistico perseguimento degli interessi dei singoli attori nazionali.
Nel ‘limbo’ della condizione attuale – che appare più simile a uno ‘stallo’, che a una fase di procedimento politico – si collocano le riflessioni proposte da quattro donne diversamente coinvolte dalle responsabilità civili e politiche del nostro tempo: Roberta De Monticelli e Donatella Di Cesare, entrambe impegnate nell’approfondimento degli studi e nella diffusione del pensiero filosofico, non solo sul piano accademico, ma anche al più generale livello del dibattito della società civile; Luisa Passerini, storica della cultura e studiosa sensibile e attenta alle vicende della storia europea e, infine, Marina Sereni, politica a tutto tondo, attualmente responsabile sul piano istituzionale, quale Viceministra degli Affari Esteri italiani.
3. Le risposte
1) Il sogno di un’Europa (realmente) unita è ancora attuale, o possiamo realisticamente considerarlo come l’ultimo capitolo di una storia delle idee e delle utopie irrealizzate che, da Tommaso Moro in poi, ha accompagnato la vicenda della cultura moderna e contemporanea?
Roberta De Monticelli Lo hanno visto tutti: proprio mentre non ci speravamo più, una grande opportunità si è riaperta con la fase Post-COVID19. Questo inaspettato evento, vale a dire un impegno nuovo in direzione di una più vera unione fiscale, è stato promosso sostanzialmente da parte dei due paesi leader, su iniziativa della Francia di Macron e con una sorprendente nuova disponibilità da parte della Germania di un’Angela Merkel che passerebbe alla storia se le cose andassero avanti nel modo giusto. Purtroppo noi italiani facciamo ancora in tempo a sabotarlo o ad azzopparlo nella sua grande portata – materiale e simbolica. Perché troppo a lungo è prevalsa da noi una nozione sbagliata di “solidarietà europea”. Insisto: quella vera è quella che va in direzione di un’unione fiscale, una delle unioni ancora non realizzate – che comporterebbe un’autorità fiscale comune, e alla lunga quindi una comune politica fiscale, come del resto ha recentemente suggerito addirittura Christine Lagarde, invitando l’UE a darsi degli strumenti fiscali comuni, perché non tutto si può fare attraverso il controllo della moneta. Vorrei più tardi riprendere il tema dell’idea sbagliata di solidarietà, ma intanto terrei a sottolineare quanto la circostanza che la svolta di oggi sia dovuta all’iniziativa di due capi di Stato o di Governo riproduca il modo in cui quasi sempre sono avvenute le grandi svolte nel processo di integrazione europea, avviato idealmente con la fondazione del Movimento Federalista Europeo e materialmente col Mercato Comune e le Comunità del Carbone e dell’Acciaio. Le grandi svolte sono in generale rese possibili dalle decisioni politiche nazionali – perché è ancora a quel livello che il potere politico si esercita: ma tutto, poi, dipende dalla giustezza delle idee e dall’efficienza delle istituzioni sovranazionali esistenti (esistono, eccome!) – e quindi dalla preparazione di chi le anima e anche del supporto che esse hanno al livello sovranazionale. Del resto, come sempre avviene, le decisioni politiche sono essenzialmente risposte a eventi non previsti: e qui sembra si stia avverando una specie di profezia emessa da Romano Prodi, allora Presidente del Consiglio, in occasione dell’entrata dell’Italia nell’Euro, nel dicembre 2001: “Sono sicuro che l’euro ci obbligherà a introdurre un nuovo insieme di strumenti di politica economica. Questo è politicamente impossibile proporlo ora. Però un giorno ci sarà una crisi e nuovi strumenti verranno creati” (cit. in G. Costa 2018, Giacomo Vaciago in Search of a Soul for Europe, “Rivista Internazionale di Scienze Sociali”, 2018, n. 4, pp. 359-376).
Donatella Di Cesare L’ideologia dell’antiutopismo, che si è andata affermando dopo il crollo del Muro di Berlino, ha provocanti enormi danni. Anzitutto sulla politica che, priva di una visione del futuro e di un afflato filosofico, si è ridotta a mera governance amministrativa. Come se il suo compito si riducesse semplicemente a risolvere, più o meno bene, i problemi urgenti che di volta in volta si pongono. Così si è imposta l’idea che non ci sarebbe alternativa – there is no alternative. Questo modo svilente di intendere la politica, che non può immaginare vie diverse dal capitalismo, ha avuto effetti nocivi per l’Europa, quel grande sogno che non sogniamo più. Anziché elevare lo sguardo, abbiamo abbassato gli occhi, assecondando così i nuovi sovranismi. Le frontiere sono state rafforzate – intorno all’Europa, ma anche fra gli Stati-nazione. Prima sono stati respinti i migranti; poi, con l’esplodere della pandemia, sono riaffiorate le vecchie ombre dell’antico e inquietante nazionalismo. Mai come ora l’Europa è l’orizzonte a cui occorre guardare.
Luisa Passerini Premetto che è mia intenzione rispondere a questa intervista condivisa dal punto di vista delle mie competenze nel campo della storia culturale, senza pretese generaliste.
La domanda tocca un tasto dolente, in senso sia collettivo sia individuale, almeno per quanto mi riguarda personalmente. Dal primo punto di vista, basta aver ascoltato alla radio la rassegna stampa mattutina nelle ultime settimane per rendersi conto di come la speranza in un’Europa unita alternativamente affiori e affondi: dopo l’amarezza per l’incomprensione da parte dell’Unione Europea verso i problemi dell’Italia, i segni di disponibilità europea sono apparsi confortanti ma sono sbiaditi quando si è passati alla messa in atto concreta, e si sono nuovamente rafforzati agli annunci di prestiti da parte della Banca Centrale Europea. Vedo queste alternanze non solo come disappunti e compiacimenti a proposito di vantaggi economici, ma anche come sintomi delle disavventure del vecchio sogno dell’unità europea. È sempre stato un sogno, e tanto più sembrava tale in uno dei periodi cruciali della storia d’Europa, gli anni tra le due guerre, specialmente nel paese che ora ci appare più lontano dal continente europeo, il Regno Unito. Proprio a metà degli anni Trenta, di fronte all’ascesa di Hitler, la parola d’ordine dell’Europa unita assunse nuovo significato nei circoli progressisti britannici. Nonostante il suo carattere indefinito, quello slogan riusciva a nutrire l’idea di una federazione di stati europei e a significare solidarietà contro il nazi-fascismo. Se era utopico e irrealizzabile dal punto di vista storico, costituiva tuttavia un germe di idee di libertà e un potenziale legame tra popolazioni diverse. Pochi anni più tardi, un giovane inglese, Frank Thompson, dopo essere stato paracadutato in Serbia all’inizio del 1944, scriveva parole significative sulla prospettiva di un’Europa unita e di quale preparazione avrebbe richiesto sul piano culturale. Thompson – che faceva parte dello Special Operation Executive, il servizio militare segreto creato da Winston Churchill nel 1940 – era impegnato nella Resistenza antinazista in Bulgaria, dove fu giustiziato nel maggio del 1944 dal governo bulgaro filo-Asse. In quegli anni di catastrofe pressoché mondiale aveva scritto alla madre e al fratello Edward lettere piene di entusiasmo per un’unione sovranazionale di stati europei. La collocava fermamente nel contesto dell’umanità come un tutto, osservando come sono deboli e indifesi gli esseri umani se non si uniscono, dopo tutte le sofferenze patite per millenni. Si riprometteva di contribuire alla realizzazione di quella prospettiva con un progetto per la comunicazione tra i linguaggi europei, basato sulle sue competenze nel campo della linguistica comparata: ciascun bambino doveva imparare in modo attivo una lingua di un determinato gruppo linguistico e in modo passivo quella di un altro, entrambe scelte sulla base di similarità e contrasti rispetto alla sua lingua madre. Mi piace ricordare che le speranze di Thompson andavano nello stesso senso del romanzo di Roman Gary, Education européenne, scritto tra il 1941 e il 1944.
Dal mio punto di vista personale, negli ultimi anni avevo quasi completamente perso la fiducia nel potenziale della parola d’ordine di un’Europa unita, rispetto a quello che ancora credevo negli anni 1990. Si era ormai quasi del tutto dissolta la speranza ingenua (da me condivisa con altre e altri) che i contributi del nostro lavoro intellettuale potessero avere a tempi relativamente brevi un potenziale liberatorio sul piano delle politiche dell’Europa. La distanza che ci separa dall’inizio del secolo Ventunesimo ha segnato un’ulteriore caduta di illusioni e accentuato la consapevolezza delle difficoltà di avvicinarci in questa fase storica all’Europa di giustizia, libertà, democrazia e accoglienza adombrata nel 1941 dal Manifesto di Ventotene. Nei mesi recenti, mi è parso che la catastrofe che abbiamo vissuto potrebbe restituire significato a una comunicazione di base su un piano culturale come quello che albergava il progetto escogitato da Frank Thompson. Ma non nel senso ottimistico di “ricominciare dalla cultura” per costruire un’Europa politicamente unita – qualunque sia lo statuto, quasi certamente mitico, della frase di Jean Monnet. No: nel senso più specifico e modesto di usare il nostro mestiere, il lavoro intellettuale svolto da ciascuno di noi sul suo terreno di ricerca e trasmissione del sapere, per contribuire a re-intravedere una qualche forza utopica di quell’antico slogan, collocandolo in un contesto mondiale. Senza fare scale di comparazione tra la nostra esperienza e quella di altre catastrofi nella storia, in molti abbiamo potuto intuire la verità di parole come quelle di Frank Thompson per il nostro presente. La nostra catastrofe è stata accompagnata da un sommovimento emotivo, indotto dal suo intervento penetrante su scala locale, ma anche dalla sua estensione globale. Tutto questo ci spinge a tentare di porre ogni nostro impegno significativo in quella dimensione.
Assumersi compiti limitati con intenti che cerchino di tener conto del mondo richiede uno sforzo utopico, ma anche la consapevolezza che l’utopia è irrealizzata per definizione. Ci serve come banco di prova o cartina al tornasole rispetto al presente. Quello che ci vuole è il coraggio di stabilire e mantenere una tensione tra l’utopia e l’attuale realtà, non l’illusione di realizzarla.
Marina Sereni L’Europa moderna è il luogo di nascita dello Stato nazionale. Lo Stato nazionale è anche la forma che si è data storicamente - a partire dal 1789 - la democrazia a suffragio universale, che resta l'elemento imprescindibile di ogni progetto di integrazione politica ed economica basato su valori condivisi e sulla tutela dei diritti fondamentali. La sfida che ci troviamo davanti è quindi quella di dare legittimazione democratica piena a quell'embrione ancora immaturo di "Stati Uniti d'Europa" che è oggi l'Unione europea.
Il percorso sarà ancora lungo. Come indicato nel contributo italiano alla discussione nel quadro della prossima Conferenza sul futuro dell'Europa, bisogna partire dal basso, creare un autentico discorso democratico pan-europeo, superando la logica dei singoli discorsi nazionali sull'Europa, spesso fra loro incompatibili. È da una coscienza europea condivisa, da partiti politici che si collochino su una prospettiva transnazionale e pan-europea, che scaturirà un dibattito democratico veramente europeo, possibile radice di quel futuro super-Stato europeo a base democratica in cui vi sia accountability.
In questo senso, il progetto europeo ha ragion d’essere - e maggiori chance di riuscita - se concepito come un “cantiere vivo”, un progetto che persegue pragmaticamente un “bersaglio mobile” e che è pertanto capace di adattarsi alle necessità storiche. Credo che la crisi del Coronavirus ne sia la prova: dopo un’iniziale fase di sgomento in cui abbiamo effettivamente visto emergere egoismi che hanno deluso molti europei, è prevalsa la consapevolezza delle classi politiche che nessuno può uscire dalla crisi da solo o, peggio, a scapito di qualcun altro. Seppure con fatica, le strade della responsabilità e della solidarietà sono risultate essere le uniche percorribili, proprio perché rispondenti ad una logica pragmatica, capace di superare i tabù ideologici. Le scelte già operative sono numerose e straordinariamente importanti: acquisto di titoli degli Stati membri da parte della BCE per 750 miliardi di Euro; 200 miliardi della BEI per gli investimenti e la liquidità delle imprese; una linea di credito agevolata e senza condizionalità per 200 miliardi nell’ambito del MES per la spesa sanitaria; 100 miliardi per SURE con cui si potranno sostenere le misure di protezione per i lavoratori. A tutto questo si è aggiunta la proposta della Commissione Europea per un Recovery Fund da 750 miliardi di Euro, di cui 500 in forma di contributi a fondo perduto, da mettere a disposizione dei Paesi maggiormente colpiti dalla crisi del Covid. Questa proposta – che si costruisce attraverso la garanzia del Bilancio Pluriennale europeo – per diventare effettiva dovrà essere accettata dal Consiglio Europeo (cioè dai 27 governi degli Stati Membri) e il Parlamento europeo avrà l’ultima parola. Quindi ci aspetta ancora un negoziato impegnativo, perché sappiamo delle resistenze che ancora ci sono. Ma il dato politico rimane: siamo di fronte ad un pacchetto di misure di valore eccezionale che prefigurano un salto di qualità del progetto europeo destinato a rimanere anche per il futuro. E la capacità di costruire alleanze e dialogo da parte del nostro Paese, in particolare con Francia e Germania, è stata determinante.
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2) Il fallimento (sin qui registrato) del progetto politico eurounitario è (principalmente) dovuto a motivi politici contingenti, o è la coerente conseguenza di una crisi culturale o di civiltà?
Roberta De Monticelli A me non sembra che si possa parlare di fallimento, ma solo di realizzazione incompiuta, fortemente deficitaria, costantemente minacciata – e allora si ci può chiedere perché. Ma – per fare un esempio di questi giorni: se per l’ennesima volta il Parlamento italiano viola la legge europea e se ne impippa delle raccomandazioni e sanzioni, rifiutando di approvare una disciplina trasparente sugli appalti delle spiagge (che rispetti fra l’altro il diritto dei cittadini a che siano preservate spiagge libere), questo prova che l’UE esiste, ma alcuni Stati nazionali ne riconoscono la parte di sovranità solo quando fa loro comodo, ad esempio quando chiedono “solidarietà”. Comunque l’esempio che ho fatto è già un inizio di risposta alla questione del perché la realizzazione del progetto politico è così deficitaria e così lenta. Il problema di fondo è la riluttanza dei governi nazionali a cedere progressivamente fette di sovranità dove sarebbe necessario – in funzione dell’ambizione molto più grande e “storica” di creare una sovranità democratica sovranazionale o federale Europea. Difendendo la propria sovranità anche contro i patti sovranamente sottoscritti, i governi nazionali si condannano all’impotenza, lasciando spazio alla logica degli interessi delle potenze nazionali. Potenze ormai piccine, su scala globale. E di questo forse alcuni dei leader europei più avveduti, in Francia e in Germania e forse anche in Italia (ora penso soprattutto a Gentiloni) si stanno accorgendo. Per “condanna all’impotenza” intendo ad esempio il voto all’unanimità invece che a maggioranza qualificata da parte delle rappresentanze nazionali nel Consiglio, sulle questioni cruciali per la sopravvivenza dell’UE: non a caso – questo sì è un sogno che bisogna pregare si avveri – si medita, dove si può, di ridurne l’impiego e soprattutto di levarlo di mezzo per le decisioni da prendere ora. E’ chiaro che la concorrenza fra Parlamento e Commissione da una parte (che sono, com’è noto, gli organi legislativo ed esecutivo dell’UE) e il Consiglio dall’altra (dove decidono infine i leader politici nazionali) – costituisce l’ostacolo maggiore al processo di integrazione europea: un enorme ostacolo piantato di traverso sui binari di quel processo. Perché pone l’uno contro l’altro, virtualmente, da un lato un vero Parlamento sovranazionale, che esprime un vero esecutivo sovranazionale, e dunque virtualmente una democrazia sovranazionale, effettivamente cosmopolitica: cioè il diavolo stesso per i nostri sovranisti e i movimenti neo-tribali italiani ed europei. E dall’altro lato un organismo intergovernativo, sostanzialmente un coro stonato, che fa eco, ciascuno secondo le sue note, al duo franco-tedesco. Il solo decisivo, più spesso discorde e ora come nei momenti buoni concorde. E bisogna pregare, dicevo, che l’accordo duri fino alla miglior realizzazione possibile del progetto attuale dei Recovery Funds: per evitare che tutto rientri nella triste norma passata e si avveri l’altra concezione sulla natura effettiva dell’UE, la concezione della Realpolitik che vede nell’UE “nient’altro che un incidente nella storia delle tormentate relazioni politiche e militari di Francia e Germania” (Costa 2018, p. 360).
Non credo quindi che ci siano né motivi politici contingenti né una crisi culturale o di civiltà alla base della fatica e della precarietà del progetto UE. E’ piuttosto la stessa altezza etico-politica, e la grandiosità istituzionale dell’idea, che ne rende tanto difficile la realizzazione – pensiamo al fatto che anche dal punto di vista teorico dissociare l’idea di sovranità democratica da quella di nazione è una novità quasi assoluta, che introdusse Altiero Spinelli in molti suoi scritti (e non solo nel Manifesto di Ventotene, il solo che si conosce), e non è stata sufficientemente discussa. E dal punto di vista pratico, è una novità assoluta che il processo di costituzione di una Federazione – gli Stati Uniti d’Europa – sia iniziato pacificamente, per iniziativa delle libere volontà personali, nell’accordo all’inizio quasi unanime delle rappresentanze dei popoli coinvolti. Quando questo processo sarà finalmente giunto a compimento, la grandezza degli Adenauer, dei De Gasperi, degli Schumann e dei Mitterrand, perfino dei Monnet e poi via via di coloro che hanno reso possibili le grandi svolte, impallidirà di fronte alla grandezza del pensiero di Altiero Spinelli, forse la sola aquila teorica del pensiero politico europeo del Novecento. Perché nella storia come nella vita quotidiana tale è il rapporto fra le idee e le forze: le idee da sole non hanno forza, ma le forze possono essere guidate nelle direzioni giuste solo da chi ha le idee, e dalle istituzioni normative che le realizzano.
Donatella Di Cesare Sarebbe un giudizio avventato parlare di «fallimento» per un progetto nato solo qualche decennio fa. Ma è indubbia la profonda delusione che serpeggia ovunque. Nella memoria di molti popoli europei resterà indelebile la mancanza di solidarietà avvertita durante la catastrofe del coronavirus. Per l’ennesima volta l’Unione ha rischiato di rivelarsi un’assemblea scomposta di com-proprietari che, a colpi di compromessi vacillanti, si contendono lo spazio per difendere ciascuno i propri interessi. E proprio qui sta il grande nodo politico: quello dello Stato-nazione. Né motivi contingenti, né crisi di civiltà. L’Europa si è sempre considerata in crisi, già solo per la sua provenienza enigmatica, per la sua storia tormentata, per sua identità eccentrica. Distinti in questo dai greci, così orgogliosamente autentici, gli europei, si sono sempre sentiti altri e estranei. L’Europa avrebbe dovuto diventare non solo l’inedito luogo comune di una riscoperta della politica, ma anche il laboratorio dove sperimentare nuove forme di cittadinanza, sganciata dalla filiazione e dalla nascita, e sbarazzarsi del mito tossico della nazione. Purtroppo quando è stato il momento di mettere alla prova i diritti umani, accogliendo chi chiedeva rifugio, la patria di quei diritti ha tradito se stessa.
Oggi l’Europa è all’esterno un Iperstato-nazione, un guardiano dell’immunità securitaria, che difende poliziescamente le proprie frontiere, all’interno un coacervo di Stati-nazione che difendono ciascuno la propria pretesa identità Al contrario, avrebbe dovuto essere da tempo una forma politica sovra-nazionale. Mentre si immaginava una cittadinanza europea basata solo sulla residenza, aperta perciò agli stranieri, in grado, anzi, di inventare lo statuto inedito del «cittadino europeo», privo di una nazionalità interna all’Europa, tutto è finito in un insensato raddoppiamento dell’appartenenza, in un duplicato privilegio della nascita. All’apertura progressiva dello spazio Schengen, che dal 1985 avrebbe dovuto agevolare la libera circolazione, ha fatto seguito l’immunizzazione ossessiva delle frontiere. La forma politica dello Stato e il mito della nazione sono il grande ostacolo dell’Europa.
Luisa Passerini Una delle contraddizioni storiche che vedo tra il progetto politico originario dell’Europa unita e il presente si colloca a monte dell’unità basata sull’euro, ma a mio parere ha inciso su tutto l’insieme progettuale. Quel disegno si dava come inclusivo dell’apertura dei confini geografico-culturali e della realizzazione dell’uguaglianza di genere, mentre assistiamo al fallimento della messa in pratica di tali principi e delle promesse fatte su questi temi. Metto in chiaro fin da subito che per uguaglianza di genere non intendo né una semplice rivendicazione di parità tra donne e uomini né una valorizzazione delle donne in quanto donne. Parlo invece di un riconoscimento dei diritti in tutte le scelte di genere che possa incidere profondamente nel modo di intendere la democrazia e la cittadinanza. Noto di passaggio che a tutt’oggi la cittadinanza europea non è data indipendentemente dalla cittadinanza nazionale; conferisce una serie importante di diritti nell’ambito europeo (che variano – come gli obblighi – a seconda della condizione di lavoratore subordinato o indipendente oppure studente), ma la prima è derivata e aggiuntiva rispetto alla seconda, e quindi possono darsi delle discrasie, anche gravi, tra i diritti riconosciuti ai cittadini a livello europeo e a livello nazionale.
Rispetto all’alternativa proposta dalla domanda, ritengo che motivi politici contingenti abbiano certamente avuto un peso, ma siano collegati a una forma di pregiudizio che è l’opposto della civiltà. Considero che sia tale l’insistenza su “valori europei”, “identità culturale europea”, “patrimonio culturale europeo” concepiti in modo ristretto ed esclusivo, stabilendo gerarchie sia tra il retaggio europeo e il resto del mondo sia all’interno della stessa eredità europea e tra le diverse regioni d’Europa. Per sollevarci da questo pantano ci vuole l’impegno in una critica radicale rispetto a quei vecchi discorsi, che in parte c’è stato nel corso di un lungo dibattito intellettuale su scala internazionale per quanto riguarda i valori e l’identità. Recentemente c’è stata anche la critica del patrimonio non solo dal punto di vista teorico e storico, ma da quello economico, come hanno fatto Luc Boltanski e Arnaud Esquerre mostrando l’intreccio tra locale e multinazionale nello sfruttamento del marchio della cultura europea a fini turistici. Tutto questo parla di fine del primato della civiltà europea, in un modo che la retorica pubblica dell’UE non riconosce adeguatamente. Da molto tempo sono convinta della rilevanza anche politica di una critica in profondità – non solo concettuale ma anche terminologica (pensiamo a parole come “migrante” o “straniero”) – delle forme di europeità ignare del proprio carattere ibrido, dovuto ai continui scambi economici, intellettuali e culturali nel corso della storia. Non ci si può esimere dal farsi carico di questo retaggio spesso funesto, il lato oscuro dell’Europa: eurocentrismo, esclusivismo gerarchico, genocidio. Bisogna eroderlo dall’interno, capire che non si può evitare di sapersi europei, e nello stesso tempo interrogarsi sui riflessi di tutto questo anche per gli altri: che cosa significa “post-coloniale” nell’Europa di oggi? “post-imperialista”? “decoloniale”? Se non si pongono queste domande – in qualsiasi forma purché con chiarezza – non resta che crogiolarsi nella “crisi di civiltà”, espressione vaga e vittimistica. Non si tratta di restaurare le crepe di una civiltà che già teneva a stento, spesso ai danni degli altri. Certo non è possibile saltare via dalla posizionalità ricevuta. Si può invece accettare di sperimentare una specificità europea, propria di una tradizione molteplice e contraddittoria, senza smettere di esplorarne i debiti e le aporie. Cercando di dire sempre di dove parliamo, da quale posizione geopolitica e intellettuale, e con quali vantaggi o svantaggi.
Marina Sereni Non condivido affatto l’assunto secondo cui quello a cui abbiamo assistito sinora sarebbe un fallimento del progetto europeo. Dovremmo parlare di fallimento solo facendo nostra la logica massimalista secondo cui, fino a quando non si avranno gli “Stati Uniti d’Europa”, tutti i progressi sul fronte dell’integrazione sono irrilevanti. Non è su questa logica che abbiamo costruito il percorso europeo. E se lo avessimo fatto, probabilmente ci saremmo trovati con risultati molto inferiori di quelli che comunque abbiamo ottenuto in questi sessant'anni.
Non dobbiamo dimenticare che, pur con tutti i limiti, l’integrazione europea è una storia di successo. E il successo è stato proprio nel cammino, un cammino di compromessi, certo, ma anche un cammino in cui la logica della cooperazione ha sempre finito col prevalere su quella del conflitto. Era quello che aveva in mente Robert Schuman scrivendo la celebre Dichiarazione di cui abbiamo da poco celebrato i settant'anni (“L'Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto”). Il percorso di integrazione, incluso l’obiettivo finale degli “Stati Uniti d’Europa”, va visto come uno straordinario mezzo per prevenire il riaffiorare di conflitti secolari e per gestire l’interdipendenza in maniera cooperativa, nell'interesse primario dei cittadini europei. Se dunque questa è la nostra prospettiva, ne discende non solo la validità dei concetti che ho già menzionato di Europa come “cantiere vivo” e “bersaglio mobile”, ma anche il riconoscimento del successo senza precedenti del progetto europeo.
Il problema è quindi come rinnovare continuamente l’apporto di sostegno politico dei popoli europei ad un progetto di integrazione che vive fasi storiche diverse, in modo che non manchi mai di legittimazione democratica. Al tempo stesso, le forze politiche a sostegno dell’integrazione devono ponderare attentamente l’idoneità del “capitale politico” corrente dell’UE a raggiungere i suoi ambiziosi obiettivi.
Sul piano istituzionale negli anni passati si è rafforzata una dimensione intergovernativa – la sede del Consiglio Europeo in cui le decisioni debbono essere prese con l’unanimità degli Stati Membri – a scapito delle sedi comunitarie, la Commissione e soprattutto il Parlamento Europeo, che pure ha via via assunto un importante ruolo di co-decisione nel processo legislativo europeo. Oggi – tanto più di fronte alla crisi economica che il Covid19 produrrà – tutte le istituzioni sono chiamate a fare scelte coraggiose.
Il rischio di un’Unione europea come nuova “Torre di Babele” è un valido argomento nell’arsenale dei critici dell’UE ed è un rischio reale.
Un esempio concreto di questo rischio non è tanto la Brexit, che è certo stato un evento triste e traumatico ma pur sempre dentro una logica democratica, quanto piuttosto la creazione all’interno dell’Unione di gruppi di Stati membri dalle ambizioni divergenti. Se permettiamo che all’interno dell’Unione si diffonda la sensazione che esiste un’Europa di “serie A” e una di “serie B”, un’Europa dei “forti” e una dei “deboli”, poniamo le basi del fallimento del progetto di integrazione.
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3) Se è vero che l’incontro dei popoli ha per lo più avuto inizio attraverso l’organizzazione dello scambio commerciale e la creazione dei corrispondenti istituti giuridici, non vi sembra che in Europa (ormai da tempo stabilizzata ai limiti di quello stadio minimo) sia effettivamente mancata, nel disegno politico delle classi dirigenti, un’adeguata elaborazione di un ethos o di prassi pedagogiche e progressive (tipiche della mentalità utopistica) necessarie a dar vita a un’effettiva koinè culturale e politica oltre l’homo oeconomicus?
Roberta De Monticelli Ho risposto già in parte a questa domanda. Le prassi pedagogiche e progressive presupporrebbero l’assimilazione del pensiero degli Spiriti Liberi del Novecento, un crogiuolo di idee grandiose che forse solo ora cominciano a trovare applicazione, almeno nelle menti di chi può farle fruttare. Per Spiriti Liberi intendo quelli che non rimasero intrappolati nella logica della guerra fredda e delle sue ideologie, e che sarebbero stati del tutto impermeabili alle malinconiche avventure seguite alla cosiddetta fine delle ideologie, dalla filosofia postmoderna ai mostriciattoli generati dalla fusione in dosi e componenti diverse degli elementi illiberali di dottrine hegeliane, marxiste, schmidtiane, heideggeriane, foucaultiane, convergenti in attacchi spesso violenti contro Modernità e Illuminismo/Umanismo (cioè in sostanza contro la ragione teorica e quella pratica, contro le scienze, in particolare economiche e sociali, e la democrazia).
Chi sono questi Spiriti Liberi? Ho già citato il Grande Edificatore, Altiero Spinelli. Fra i suoi amici e sodali ci fu il Grande Imprenditore, Adriano Olivetti. Ci furono un grande scrittore e un grande critico, fondatori di una delle più belle riviste italiane del Novecento, “Tempo presente”: Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte. Ci furono tutti gli uomini e le donne del Partito d’Azione, la cui discendenza fatichiamo a riconoscere oggi in Italia, perché è come se avessero perduto lo scintillio e il respiro dell’idealità, cioè della cognizione (anche affettiva, sensoriale) dei valori e disvalori, senza cui l’intelletto analitico (pur assolutamente necessario, con tutte le sue tecnicalità e le sue capacità di calcolo!) non vede abbastanza lontano.
E ne troviamo, in questi “Spiriti Liberi”, di spunti per pensare con onestà e chiarezza alcune delle questioni ove più tristemente è venuta a mancare una sovranità europea, o peggio si è manifestata in violazione dei valori della Carta di Nizza: Dignità, Libertà, Eguaglianza, Solidarietà, Cittadinanza, Giustizia. Ad esempio i migranti respinti alle porte orientali e meridionali. Ad esempio la questione dell’allargarsi delle disuguaglianze. O le discriminazioni di genere. O la legislazione sugli estremi della vita.
Donatella Di Cesare La subordinazione della politica all’economia che contraddistingue la globalizzazione ha avuto devastanti effetti in ambito europeo. La cosiddetta «troika», cioè Commissione Europa, Banca Centrale e Fondo monetario internazionale, è un’istituzione indipendente, non eletta, che incarna uno stato d’eccezione. Ma questo stato d’eccezione non ha i caratteri delle dittature del passato, dove c’era un’autonomia della politica. Nell’Unione Europea l’eccezione non è transitoria; piuttosto costituisce la regola ed è, anzi, il funzionamento normale. Ciò vuol dire una completa subordinazione della politica all’economia. È questa governance finanziaria lo stato d’eccezione ai tempi del Leviatano neoliberale. Le affinità culturali, la rete degli scambi di studio e di ricerca, i sogni, i progetti, le ambizioni che accomunano i popoli europei avranno poco margine di fronte a questa violenza economica.
Luisa Passerini Nelle circostanze in cui ci troviamo, parlare di prassi pedagogiche e progressive mi sembra doveroso, ma mi pongo molte domande su quale capacità di dar vita a una koinè culturale e politica possano avere tali prassi. Soprattutto mi chiedo: quale tipo di comunità? Con quale disegno politico? Quale ethos? E a questo punto, quale homo oeconomicus? Da tempo, il punto di riferimento non è più la comunità dei popoli “europei”. In essi sono presenti in modo determinante – anche sul piano economico – sia soggetti multinazionali sia individui e gruppi di persone provenienti da tutte le parti del mondo, alcuni in condizioni privilegiate e altri in posizioni emarginate, sfruttate, estreme. Durante le fasi acute della pandemia, le immagini dei profughi ai confini tra Turchia e Grecia erano terrificanti e umilianti per noi europei che assistevamo senza fare nulla, memori dei costosi accordi con Erdogan. Il silenzio sceso improvvisamente sia sugli sbarchi sia sulle voci razziste e xenofobe in proposito non ha cancellato lo scandalo dell’impotenza e assenza di volontà politica dell’Unione Europea rispetto alle mobilità di persone che cercano di attraversano le sue frontiere interne ed esterne. Sì, in Italia c’è stata una parziale regolarizzazione dei migranti e del lavoro nero, ma pensiamo anche ad altri paesi dell’Unione nell’Est Europa, come l’Ungheria, la Polonia, la Repubblica Ceca. È soprattutto rispetto a queste situazioni che l’Europa ha tradito l’ispirazione democratica e universalistica di cui si è a lungo detta portatrice.
Vorrei aggiungere che in questa situazione carica di azioni violente e proiezioni negative, un contributo della storia culturale e orale, umile quanto si vuole ma a mio parere prezioso, è l’analisi del ruolo della memoria e del linguaggio in riferimento all’immigrazione. I temi della libertà, della subordinazione, della democrazia, della differenza culturale e della deprivazione di memoria possono essere posti a due livelli di discorso, quello esistenziale-morale e quello politico-normativo. Il primo pertiene al legame di ogni singola persona con le sue radici e memorie sia culturali sia emotive, legame che permette al soggetto di mantenerle vive nello stesso tempo in cui sviluppa nuove radici e produce nuove memorie nella società di elezione. Il secondo livello concerne il rapporto di una persona migrante con il paese che ha scelto, non solo con le sue leggi ma anche con la cultura diffusa che lo caratterizza. Posso dire per esperienza che quest’ultima non contiene quasi mai solo elementi di razzismo, ma sempre anche di accoglienza e scambio quotidiani nelle scuole e nei quartieri dove ho raccolto testimonianze orali e visive con persone che hanno sperimentato la migrazione.
Marina Sereni L’integrazione giuridica ed economica tra gli Stati membri dell’Unione non ha eguali al mondo per profondità e risultati raggiunti. Dal punto di vista economico, l’integrazione europea ha consegnato ai cittadini decenni di crescita e benessere senza precedenti.
Per trarre il senso di questi benefici, basta dare uno sguardo ad uno studio pubblicato di recente dal Servizio per le ricerche del Parlamento europeo, che ha provato a quantificare i vantaggi economici dell'azione comune a livello europeo e il rischio connesso all’arresto o all’inversione del processo di integrazione nel contesto dell’attuale crisi del Coronavirus: le stime suggeriscono che l'erosione del Mercato unico costerebbe all'economia europea tra il 3,0 e l'8,7 per cento del suo PIL (il "valore aggiunto europeo" perduto in modo permanente); la perdita del potenziale non sfruttato, invece (il cd. “costo della non Europa”), ammonterebbe a circa il 14% del PIL dell'UE in dieci anni.
Ciò detto, non credo sia stato del tutto mancato l’obiettivo di creare una comunità culturale e politica in Europa. Le giovani generazioni, ad esempio, sono e rimangono tradizionalmente le più entusiaste del progetto europeo e con maggiore frequenza affermano di identificarsi con i valori dell’Europa unita e dei suoi simboli. Più in generale, la fiducia degli europei nell’Unione continua ad essere sensibilmente più elevata rispetto a quella nei Governi e nei parlamenti nazionali.
In ciò è possibile, a mio avviso, vedere una prova del superamento almeno parziale del paradigma dell’homo oeconomicus da cui ha preso slancio il processo di integrazione. Un segnale chiaro di tale cambio di paradigma è dato dall’introduzione del concetto di cittadinanza europea, che non entra in competizione con le cittadinanze nazionali, ma anzi le affianca e contribuisce così a solidificare un senso di appartenenza all’Unione che va oltre le tradizionali quattro libertà e il Mercato unico.
Il cambio di paradigma che si intravede nelle stesse linee di sviluppo dell’Unione Europea – green deal, sfida digitale, lotta alle diseguaglianze, gender equality – indica la possibilità di rinnovare uno dei caratteri più originali e positivi del progetto europeo: la capacità di coniugare libertà economica e solidarietà, quel modello sociale europeo che per molti decenni è stato alla base del consenso verso il processo di integrazione e che oggi – in termini nuovi ma con la stessa ambizione – possiamo rilanciare per riconquistare la mente e i cuori della maggioranza dei cittadini europei.
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4) Una più larga e diffusa penetrazione della cultura dei diritti della persona (oltre i limiti strutturali delle competenze proprie dell’Unione, e secondo il modello del Consiglio d’Europa e della Corte di Strasburgo) può ritenersi il possibile punto di partenza per la realizzazione di un rinnovato ‘esperanto’ europeo, fondato sul riconoscimento della sovranità della ‘persona’, da cui muovere per una ‘ricostruzione’ democratica delle sue istituzioni?
Roberta De Monticelli Questo è certamente un buon punto di partenza: e a questo riguardo suggerisco, come letture da rendere antologiche per i nuovi corsi di educazione civica che si vogliono aprire nelle scuole italiane, due grandi libri.
Il primo è Il radicamento di Simone Weil (1942) uno dei grandi “Spiriti Liberi” del secolo scorso, che ci insegna come i diritti individuali si fondano sulla giustizia, ma la giustizia è fatta di ciò che ciascuno di noi deve – agli altri, ma anche a tutte le altre creature, alla terra, ai paesi, al passato, ai patrimoni culturali e ideali, agli ultimi della terra. A proposito di questo, del resto, è un tema ben noto di Simone Weil come di Camus quello di indicare la bellezza come il lato sensibile della giustizia: ed entrambi, Weil e Camus, intensamente lavoravano a una costituente per l’Europa. Oggi c’è un intelligente politico tedesco, Sven Giegold, che ha costituito un movimento insieme per l’Europa e per la pietà della nostra violentata terra, insomma i Verdi-Europei, una concreta speranza di partito multinazionale, in prima istanza italo-tedesco, che sta costituendosi attraverso importanti e seguitissimi Webinar, cui consiglio calorosamente di partecipare.
Il secondo grande libro da comodino e da banco scolastico è Il diritto di essere un uomo – Antologia mondiale della libertà, in cui la filosofa Jeanne Hersch (una specie di venerato maestro per me anche se la conobbi solo dopo esserle del tutto indegnamente succeduta sulla cattedra di filosofia a Ginevra), raccolse nel suo biennio di direzione della sezione filosofica dell’UNESCO (1966-1968) le voci di tutti i popoli, dalle voci antichissime a quelle più moderne, accostando le steli babilonesi ai Voltaire e a Eleonora Roosevelt, che manifestassero un senso per la pari dignità degli esseri umani. Un libro meraviglioso, diviso in sezioni di passi e pagine memorabili, una sorta di breviario cosmopolitico dell’umanesimo di ogni luogo e tempo (ne esiste una recente edizione italiana, Mimesis 2015).
Infine, ai docenti stessi per orientare il lavoro dei ragazzi consiglio la lettura di G. Vaciago (2015), Un’anima per l’Europa, il Mulino, Bologna, e anche del già citato articolo di G. Costa (2018), vedi fine della prima risposta: ammirevole per la sintesi con cui espone e discute non solo le tesi di Vaciago, ma anche di due altri importanti economisti, Zingales, e Ciocca nel suo confronto con lo storico e filosofo Angelo Bolaffi (Bolaffi A. - Ciocca P. (2017), Germania/Europa, Donzelli, Roma). Questi testi, e il saggio di Costa che li discute tutti, sono un ottimo antidoto alla sequela di luoghi comuni radicati nella nostra ignoranza economica e giuridica, e nei residui ideologici dei vari “ismi” che ci portiamo tutti dietro.
Ma vorrei, per concludere, tornare al tema della solidarietà. Oggi il bicchiere della solidarietà europea, dopo l’accordo di massima sui fondi per la ricostruzione, viene presentato come mezzo pieno o mezzo vuoto. Ottimisti e pessimisti si fermano qui: per gli ottimisti tutta la grandezza del progetto europeo originario – e io intendo quello spinelliano – si risolverà anche per l’avvenire in un aumento di questa solidarietà; per i pessimisti l’insufficienza di questo aumento è la miccia che scatenerà ulteriormente i sovranisti. Ma quale concetto di “solidarietà” hanno in mente gli uni e gli altri? Fondamentalmente, trasferimenti di denaro dalle nazioni la cui economia girava e girerà molto meglio a quelle in cui andava e continuerà ad andare peggio. E nelle grida dei più, nei messaggi politici, quasi nessuno contesta l’assurdo antropomorfismo che ci presenta i paesi “virtuosi” come “egoisti”, e l’Europa come più o meno “altruista”; nessuno parimenti contesta la solita immagine del “battere i pugni”, più o meno vigorosamente, sul tavolo dell’Europa, come se noi stessi non fossimo parte di questo sgangherato intero, e dunque insieme pugno e tavolo. Che se poi si intende invece il tavolo tedesco o altri tavoli “nordici”, allora bisognerebbe pur dirlo: ma non si può, perché allora la “solidarietà”, che si baserebbe sull’appartenenza a una casa comune, cessa di essere un buon argomento, soprattutto se la si intende come un obbligo a una sola direzione, e neppure un obbligo di credito, ma un obbligo di dono.
Non può essere questo, la solidarietà. Ma – a proposito di “civiltà della persona” – l’espressione è di Spinelli – deve essere una virtù fondata non sulla coesione tribale dei sovranisti, ma sull’interdipendenza sempre più accentuata delle attività individuali a livello globale. Solidarietà è il valore che ispira una regolazione delle libere vite, e insieme una moltiplicazione delle opportunità loro offerte, proporzionata al livello sovranazionale dell’interdipendenza, non solo economica. Che accresca oltre i limiti della propria nazione la sovranità politica dei cittadini. Che ne faccia una democrazia veramente sovranazionale, appunto, con tutte le sue istituzioni – a partire dall’unione fiscale. Questa: e non i trasferimenti a forza di arlecchinate o di pugni sul tavolo. Che il cielo ispiri i nostri politici, perché l’occasione è di quelle che possono fare epoca.
Donatella Di Cesare È tempo di smettere di parlare di «sovranità della persona». Questo modo di intendere il soggetto ha lasciato dietro di sé macerie e non è più accettabile. Nessuno è sovrano, nessuno autonomo. Prima del sé viene sempre l’altro. E il sé si costituisce di volta in volta solo nella risposta all’altro, nella torsione, in quel suo volgersi assumendosi responsabilità. Proprio per questo è anche tempo di guardare con occhio critico la «cultura dei diritti». Quella in cui viviamo è una democrazia immunitaria che prevede diritti e tutela solo per alcuni, per i «cittadini», e che abbandona i reietti, gli esposti, quelli che non hanno una cittadinanza, un drappo nazionale, uno Stato a difenderli.
La «battaglia dei diritti», in cui si crede spesso di scorgere il fronte più avanzato della civiltà e del progresso è un boomerang. Si auspicano cura, assistenza per tutti. Ma il «tutti» è una sfera sempre più chiusa e ha frontiere. L’inclusione è un ostentato miraggio, l’uguaglianza è una parola vacua che suona ormai come un affronto. Il divario si amplia, lo scarto si approfondisce. Non è più solo l’apartheid dei poveri. Il discrimine è proprio l’immunità, che scava il solco della separazione. L’Europa non può essere Europa se continuerà a concepirla in questo modo.
Luisa Passerini Non ‘esperanto’, semmai la capacità di accogliere una pluralità di lingue, come sperava Frank Thompson, con tecniche che permettano di andare oltre Babele. Farò ancora una volta riferimento alla mia esperienza nell’organizzazione del lavoro culturale. Nei vent’anni dal 2001 ho lavorato a fondare e gestire delle Giornate di studio e discussione intitolate a Ursula Hirschmann e al gruppo “Femmes pour l’Europe” costituito da lei, Fausta Deshormes e altre donne a Bruxelles nel 1975.
Quegli incontri si sono succeduti prima all’Istituto Universitario Europeo di Firenze e poi all’Università di Torino. Le Giornate, come si può vedere dagli Atti pubblicati in forma digitale, hanno dato spazio centrale al tema dei diritti, partendo dalla giurisprudenza e allargando il discorso in varie direzioni. Per esempio, Elena Paciotti ha indicato come il diritto europeo abbia agito da promotore non solo a livello legale ma anche culturale, nelle politiche contro le discriminazioni di genere e sul terreno delle azioni positive e i diritti parentali; tuttavia ha riconosciuto che le strutture economiche e familiari insieme con politiche sociali inadeguate hanno favorito il permanere delle disuguaglianze nello stesso campo, particolarmente in un quadro reso complesso dall’immigrazione.
Il gruppo “Femmes pour l’Europe” si prefiggeva lo scopo di portare avanti l’ispirazione del Manifesto di Ventotene per un’Europa intesa come federazione ispirata agli ideali di libertà, giustizia sociale e uguaglianza, aprendola alla prospettiva di genere. Le componenti del gruppo si proponevano di contribuire in prima persona a questa impresa, riflettendo sul loro doppio ruolo di mogli di europeisti e di donne europeiste, e operando in tale direzione. Uno degli stimoli principali alla formazione del gruppo era stata la percezione di una tensione tra la sfera pubblica e la sfera privata, come indica il nome del gruppo in francese, lingua nella quale “femmes” significa sia donne sia mogli.
Anche se c’era un elemento di subordinazione nel punto di partenza, il carattere intersoggettivo della loro iniziativa conteneva molti aspetti positivi, che ci sta a cuore riscattare ed elaborare. La definizione di Ursula Hirschmann come “europea errante” riflette la valorizzazione di una genealogia di donne che hanno contribuito a forgiare una molteplicità di modi di appartenere all’Europa e che hanno operato attivamente per rendere possibile – non solo nel pensiero e nell’immaginazione, ma anche nell’azione politica e sociale – un’Europa diversa da quella esistente.
La prospettiva di genere aggiorna il tema dei diritti in modo sostanziale, aprendo una riflessione sulle forme di cittadinanza europea che tenga conto della soggettività incorporata. Il riferimento al corpo è decisivo e rientra nell’estensione dello sguardo di ricerca alla soggettività, intesa come capacità di coniugare identità e alterità nell’ambito delle scelte di genere. I discorsi dell’omofobia e dell’omonazionalismo possono essere assunti a testimoni dei contenuti e limiti della cittadinanza in Europa, mentre il concetto di marginalità sessuale può diventare una lente preziosa per interpretare l’esigenza politica di appartenenza.
Sono altrettante basi teoriche per l’auspicio di una rifondazione della cittadinanza europea che comprenda elementi di giustizia sociale post-nazionale, uguaglianza e coabitazione pacifica tra diversi, in un aggiornamento del progetto federalista europeo di Ventotene.
Con lo stesso intento un’altra studiosa, Rosi Braidotti, si è prefissa di pensare un’Europa federata come progetto post-nazionalista e post-eurocentrico. Gli aggiornamenti proposti da Braidotti vanno nel senso di raccogliere i messaggi dei movimenti femministi, pacifisti e antirazzisti, sviluppando la nozione politica di una cittadinanza flessibile orientata in senso multiculturale. La posizionalità da cui può prendere avvio questa operazione – che pertiene non solo al piano intellettuale e filosofico, ma anche a quello dell’immaginario sociale e delle emozioni – è la teoria di genere intesa come retaggio discorsivo e metodologico di portata globale: una posizionalità intesa non come prospettiva che riguardi solo le donne ma come soggettività e intersoggettività capaci di raccogliere il retaggio del pensiero e dei movimenti di genere nel mondo. Vorrei precisare che questa è la posizione da cui sto parlando, ma non è la sola a suggerire un allargamento dell’idea dei diritti: per fare un esempio significativo, Stefano Rodotà aveva parlato di diritto d’amore proprio in riferimento a identità, genere e diritto.
Negli ultimi vent’anni, le idee di una soggettività incorporata e del primato dell’intersoggettività che hanno ispirato gli studi di genere si sono arricchite sullo sfondo dei cambiamenti geopolitici in cui rientrano la diaspora mondiale delle popolazioni e l’assetto ecologico del pianeta, andando oltre il concetto della sovranità della persona. Per quanto riguarda la geografia globale che ci fa da contesto, il termine “intersoggettività” si è dilatato enormemente in senso spaziale e temporale, fino a includere oltre agli umani anche soggetti come la foresta amazzonica, considerata anch’essa capace di diritti. È un invito a continuare a fissare lo sguardo contemporaneamente su problemi locali e continentali, tenendo presente che li condividiamo con una comunità vivente di estensione globale seppur lacerata da conflitti e divisioni.
Marina Sereni Il riconoscimento della dignità della persona umana, iscritto nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri prima ancora che in strumenti giuridici quali la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e la Carta europea dei diritti dell’uomo, è una conquista fondamentale della civiltà occidentale, che va difesa sempre e con forza. Porre l’essere umano al centro dell’edificio politico non ha significato soltanto l’apertura di una “stagione dei diritti” senza precedenti nella storia. Il primato della persona umana ha avuto come conseguenza logica il trionfo della democrazia come sistema politico. Affermare il primato dell’essere umano, infatti, implica per lo Stato un vincolo al rispetto dell’individuo, di modo che la volontà dell’individuo diviene anche la fonte della legittimità del potere politico. Ciò contrariamente a quanto è avvenuto nei totalitarismi che hanno afflitto il XX secolo, regimi in cui (alcuni) individui trovavano affermazione attraverso lo Stato a scapito di altri individui e comunità.
In Europa abbiamo realizzato moltissimo sul fronte dei diritti umani, civili e politici e dovremmo giustamente ritenerci fieri di questo. Tuttavia non ci sfugge come oggi – anche in Europa – si manifestino segnali di crisi delle democrazie liberali, tanto da essere entrato nel lessico politico la definizione-ossimoro di “democrazie illiberali”. Né possiamo sottovalutare i tentativi di screditare l’Europa e le democrazie da parte di entità esterne che si muovono attraverso la rete con una azione organizzata di disinformazione per condizionare l’opinione pubblica. È un tema delicato e cruciale.
La Conferenza sul Futuro dell’Europa – che prevede un percorso di partecipazione e di dibattito pubblico molto ampio – ha dovuto rallentare il suo calendario a causa della pandemia. Ritengo che essa rappresenti uno strumento essenziale per costruire una nuova “narrazione” sull’Europa e i suoi valori fondanti. La democrazia, non solo a livello nazionale, ma anche europeo, non può fare a meno di simboli e prassi unificanti, capaci di suscitare il coinvolgimento dei cittadini al livello degli ideali e dei sentimenti e di mettere in moto il loro senso di responsabilità e solidarietà.
4. Le conclusioni
Il suono di una parola-chiave oscura gli orizzonti dell’antico sogno europeo: sovranità; il nuovo ‘fantasma’ che si aggira nel cuore dell’Europa.
Il grande ostacolo dell’unità europea – ricorda con sobria lucidità Donatella Di Cesare – sembra rintanarsi nella forma politica dello Stato e nel mito storico della Nazione.
Tutte le svolte più significative della storia europea, nota Roberta De Monticelli, sono il frutto di scelte politiche nazionali, poiché è ancora a quel livello che il potere viene esercitato e che sembra essersi storicamente arrestato.
Il cammino delle vicende europee (là dove hanno obiettivamente compiuto un percorso) è dunque il frutto della ‘giustezza’ delle idee nazionali che le hanno concepite, e del supporto (del semplice supporto) che le istituzioni sovranazionali sono in vario modo riuscite a garantir loro.
Le stesse istituzioni dell’Unione vivono nella propria carne l’invadenza degli egoismi nazionali, ne avvertono dall’interno gli attentati continui al disegno di una compiuta unità, ne riflettono la concorrenza, che finisce col porre l’una istituzione contro l’altra, secondo una logica sovente destinata a condannarle all’impotenza o allo stallo.
È emblematico, in quest’ultimo senso, il caso (nuovamente emerso nell’aspra vicenda negoziale conclusa, nell’ambito del Consiglio europeo, con riguardo alla definizione dei termini del Recovery Fund) della pretesa di invocare il meccanismo dell’unanimità per la formazione delle decisioni collegiali.
Si tratta di un tema antico, che l’avvertita riflessione di Edoardo Ruffini aveva affidato, nel 1927, a un piccolo saggio storico sul principio maggioritario[1]: un testo mai abbastanza letto e richiamato nei discorsi condotti attorno alla sostanza dell’idea democratica, e che testimonia dell’intrinseca debolezza storica del principio dell’unanimità sul piano dell’edificazione di un potere corporativo realmente comune.
La rinnovazione delle reciproche diffidenze tra le sovranità nazionali europee finisce dunque per offrire argomenti ineludibili all’idea, qui richiamata da Roberta De Monticelli, secondo cui l’Unione Europea altro non sarebbe che un incidente nella storia delle tormentate relazioni politiche e militari di Francia e di Germania.
E tuttavia, la distruttiva competizione destinata a rinnovare le volontà di potenza nazionali (che la lunga esperienza bellica del XX secolo sembra non aver cancellato del tutto) ha ormai cambiato pelle, trasferendosi dal piano politico-militare, a quello, assai più insinuante (ma non meno tremendo), della capacità produttiva dei diversi sistemi nazionali, quando non della semplice attitudine a ‘generare valore’ sul piano finanziario e meramente speculativo.
Si tratta di un’evoluzione del discorso economico che ha finito col determinare – vorrebbe dirsi secondo la logica e i termini che furono cari alla riflessione di Emanuele Severino – la completa subordinazione della politica alla tecnica, al suo ‘strumento’, come opportunamente ricorda Donatella Di Cesare, là dove sottolinea come questa governance finanziaria sia divenuta il modo di funzionamento ‘normale’ dell’Unione Europea e, dunque, il punto in cui si rivela l’autentico ‘stato d’eccezione’ ai tempi del Leviatano neo-liberale.
Le affinità culturali, la rete degli scambi di studio e di ricerca, i sogni, i progetti e le ambizioni che accomunano i popoli europei – ammonisce ancora Di Cesare – sembrano destinati a disporre di uno scarso margine di manovra di fronte a questa violenza economica, poiché le politiche nazionali sono ormai concepite unicamente alla luce di un’ideologia anti-utopistica, priva di prospettive e schiacciata sulla semplice gestione dell’esistente: si tratta di un’attitudine politica governata dall’idea della ‘conservazione’, in cui affondano le proprie radici i rigurgiti del sovranismo contemporaneo e il rifiuto del sogno europeo che lo identifica, e per cui le nozioni dello ‘sviluppo’ o della ‘crescita’, lungi dall’indicare il senso di un’evoluzione qualitativa, si riducono a contrassegnare i termini numerici di una sola misura.
La riflessione sulle vie di un possibile riscatto dell’esperienza politica sembra intravedersi nelle parole di Marina Sereni, là dove sottolinea, in primo luogo, l’essenzialità di un percorso dell’unità europea che sappia conservare le proprie origini e il proprio statuto democratico.
Il progetto politico su cui si fonda il disegno dell’Unione europea non è questione che possa ridursi al solo apporto di una classe politica o di élite variamente selezionate, trattandosi piuttosto di coinvolgere i popoli europei in un progetto capace di adeguarsi alle contingenze delle diverse fasi storiche, rifiutando e combattendo la sensazione, perdente o fallimentare, di un’Europa ‘a vari livelli’, di un’Europa ‘dei forti’ e di una ‘dei deboli’: si tratta, dunque, di richiamare le diverse formazioni politiche, collocate su un piano transnazionale e pan-europeista, ad assumersi la responsabilità della comune elaborazione di un’autentica ‘coscienza europea’.
Da questo punto di vista, non mancherebbero gli spunti o i riflessi di un effettivo cambio di paradigma suscettibile di essere riconosciuto nelle linee di sviluppo dell’Unione Europea. Green deal, sfida digitale, lotta alle disuguaglianze, gender equality: temi e progetti destinati a valorizzare uno dei caratteri più originali e positivi del progetto europeo, individuato nella capacità di coniugare la libertà economica e la solidarietà, secondo quel modello che per lungo tempo aveva convogliato il consenso popolare verso il processo di integrazione.
Ancora un richiamo al valore della ‘solidarietà’, come dimensione necessariamente complementare al naturale riconoscimento delle libertà individuali e collettive, nel comune impegno di edificazione di un sistema di convivenza ispirato all’idea di giustizia.
Ma quale significato – si interroga opportunamente Roberta De Monticelli – dobbiamo attribuire all’espressione che allude alla solidarietà? L’idea che la condivisione dei sacrifici e delle difficoltà affrontate dalle singole comunità nazionali possa essere realizzata attraverso il semplice trasferimento di fondi non può essere accettata; si tratta, piuttosto, di porre le premesse per un’interdipendenza sempre più accentuata delle attività individuali a livello globale. Se la solidarietà è il valore che ispira una regolazione delle libere vite, e insieme una moltiplicazione delle opportunità loro offerte, proporzionata al livello sovranazionale dell’interdipendenza (non solo economica), occorrerà allora accrescere la sovranità politica dei cittadini oltre i limiti della propria nazione, in vista di una democrazia autenticamente sovranazionale.
Qui il pensiero di De Monticelli finisce col riempire di contenuto concreto, di figure e di volti, quell’invito alla coniugazione dei valori di libertà e di giustizia invocata da Marina Sereni; sono le figure e i volti degli Spiriti Liberi del Novecento: Altiero Spinelli, Adriano Olivetti, i fondatori di una delle più belle riviste italiane del Novecento, Tempo presente, Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte, gli uomini e le donne del Partito d’Azione.
Anche Luisa Passerini ricorre alla rievocazione di una figura simbolica, come quella di Frank Thompson, allo scopo di riaffermare il carattere essenziale dell’utopia, ‘dell’umanità come un tutto’, e delle ineludibili responsabilità della classe intellettuale nel tener vivo lo sforzo di conservazione di una tensione ideale, di quella necessaria ‘apertura’ in cui si colloca la progettazione politica, nella consapevolezza dell’irrealizzabilità concreta dell’obiettivo, ma insieme nella determinazione a trarne motivo continuo di ispirazione per la prassi politica.
La riflessione che Luisa Passerini conduce nell’offrire le sue risposte assume un interesse di particolare intensità, la dove sottolinea come il generico riferimento al disegno di una comune koinè culturale europea impone, preliminarmente, di rispondere alla domanda a quale tipo di comunità, con quale disegno politico e quale ethos e, infine, a quale homo oeconomicus intendiamo riferirci.
Da tempo, il punto di riferimento non è più la comunità dei popoli ‘europei’. In essi sono presenti in modo determinante – anche sul piano economico – sia soggetti multinazionali sia individui e gruppi di persone provenienti da tutte le parti del mondo, alcuni in condizioni privilegiate e altri in posizioni emarginate, sfruttate, estreme.
È impossibile non condividere quanto Passerini ci invita a guardare con spirito critico ogni qualvolta si faccia riferimento ai ‘valori europei’, alla ‘identità culturale europea’, al ‘patrimonio culturale europeo’, concepiti in modo ristretto ed esclusivo, stabilendo gerarchie sia tra il retaggio europeo e il resto del mondo, sia all’interno della stessa eredità europea e tra le diverse regioni d’Europa.
L’essenziale ricognizione di Passerini ci ammonisce a non sottovalutare il modo in cui la retorica pubblica delle istituzioni europee ha sostanzialmente rimosso l’evento della fine del primato della civiltà europea, attraverso la riproposizione (anche terminologica, come nel caso delle parole che alludono alle figure del ‘migrante’ o dello ‘straniero’) delle forme di ‘europeità’ ignare del proprio carattere ibrido, dovuto ai continui scambi economici, intellettuali e culturali nel corso della storia. Occorre farsi carico di questo retaggio, spesso funesto, del ‘lato oscuro dell’Europa’: eurocentrismo, esclusivismo gerarchico, genocidio: occorre ‘eroderlo dall’interno’, capire l’impossibilità di sapersi europei senza interrogarsi sui riflessi di tutto questo anche per gli altri; prendere davvero ‘sul serio’ il valore di cosa significhi ‘post-coloniale’, ‘post-imperialista’, ‘decoloniale’, nell’Europa di oggi.
In questa prospettiva critica, ‘demitizzante’ o ‘decostruttiva’, assume particolare valore l’ammonimento di Donatella Di Cesare vòlto a disvelare la dimensione retorica (quando non la sottile ipocrisia) che rischia di celarsi dietro l’espressione che si richiama alla ‘sovranità della persona’. Si tratta di un modo di intendere il soggetto (secondo il contrassegno della modernità inaugurata da Cartesio) che ha lasciato dietro di sé macerie, nella misura in cui ha affidato all’oblio la dimensione costitutivamente ‘mondana’ dell’uomo, nel senso, heideggeriano, dell’uomo che necessariamente realizza il suo ‘progetto’ in una rete inestricabile di relazioni e di rapporti storicamente determinati, per cui ‘nessuno è sovrano’, ‘nessuno autonomo’: prima del sé viene sempre l’altro, e il sé si costituisce di volta in volta solo nella risposta all’altro, nella torsione, in quel suo volgersi assumendosi responsabilità.
Ecco, allora, come la riflessione della cultura aiuta il giurista a ‘riposizionarsi’, con un rinnovato occhio critico, rispetto alla c.d. ‘cultura dei diritti’; una cultura che ha permesso (non occorre qui decidere se in buona o mala fede) il declino, e infine la degenerazione, della democrazia liberale faticosamente disegnata dai nostri ‘padri costituenti’, in una ‘democrazia immunitaria’ (un’espressione che Di Cesare fa propria e che richiama la lunga riflessione biopolitica di Roberto Esposito), che prevede diritti e tutele solo per alcuni, per i ‘cittadini’, e che abbandona i reietti, gli esposti, quelli che non hanno una cittadinanza, un drappo nazionale, uno Stato, a difenderli.
È la lezione finale di Luisa Passerini – di raffinata sensibilità teorica – a fornire un modello concettuale di riferimento (storicamente educato, come quello della ‘prospettiva di genere’) a cui riportare, in termini aggiornati, la riflessione sul tema dei diritti e sulle forme di cittadinanza europea che tenga conto della c.d. soggettività ‘incorporata’.
Il riferimento al corpo assume qui un valore decisivo, non solo per la costituiva esposizione ‘carnale’ del sé all’altro (e dunque alla dimensione totalmente originaria del ‘fatto relazionale’), ma anche per l’estensione dello sguardo di ricerca a una soggettività intesa come capacità di coniugare insieme identità e alterità (com’è tipico nell’ambito delle scelte di genere).
In questo senso, sottolinea Passerini, i discorsi dell’omofobia e dell’omonazionalismo possono essere assunti a testimoni dei contenuti e dei limiti della cittadinanza in Europa, mentre il concetto di marginalità sessuale può diventare una lente preziosa per interpretare l’esigenza politica di appartenenza.
La proposta teorica di Luisa Passerini si avvale degli aggiornamenti proposti da Rosi Braidotti e della sua raccolta dei messaggi dei movimenti femministi, pacifisti e antirazzisti, sviluppando la nozione politica di una cittadinanza flessibile orientata in senso multiculturale.
La ‘posizionalità’ (da cui può prendere avvio questa operazione, rilevante, oltre che sul piano intellettuale e filosofico, su quello dell’immaginario sociale e delle emozioni) è la teoria di genere intesa come retaggio discorsivo e metodologico di portata globale: una ‘posizionalità’ intesa come prospettiva che non riguarda solo le donne, ma che si estende al concepimento di soggettività e intersoggettività capaci di raccogliere il retaggio del pensiero e dei movimenti di genere nel mondo.
L’idea di una soggettività inestricabilmente legata all’unicità del ‘corpo’ che la esprime, e del primato dell’intersoggettività che la rende viva, dopo aver ispirato gli studi di genere, si è arricchita dell’intera fenomenologia storica dei cambiamenti geopolitici: un discorso complesso, in cui rientrano, tanto la diaspora mondiale delle popolazioni, quanto lo stesso assetto ecologico del pianeta.
Si tratta di ripensare dalle fondamenta quell’idea (tutta moderna) di un diritto costruito sulla dimensione della persona come polo di aggregazione di ‘appartenenze’ (di diritti, di prerogative, di beni o sfere di sovranità), e di tornare a riflettere sul valore di una disciplina di studio che tutto punti sul valore costitutivo della relazione, dell’intersoggettività come reciproca e scambievole capacità di dare e di ricevere, fino a includere, oltre agli umani, anche entità come la foresta amazzonica, considerata anch’essa capace di diritti, e dunque di rinnovare lo sguardo su quell’antica distinzione tra le ‘persone’ e le ‘cose’ che proprio l’interrogazione sul corpo, secondo l’illuminante riflessione di Roberto Esposito[2], induce a porre in crisi.
Nel concludere la riflessione su un primo giro di interviste dedicate al ‘destino dell’Europa’ (https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/1059-sul-destino-dell-europa), si era sottolineata l’acquisizione di un ultimo ‘lascito possibile’ del dibattito culturale, rinvenibile nell’idea del riscatto dell’antica umiltà del diritto come ‘arte dell’incontro’ e come disciplina capace di coltivare il desiderio (ma anche il coraggio) per la cura dell’altro, come del misterioso, e sempre inconsapevole, custode del senso della vita.
Il dialogo di oggi torna ad offrire sicure e autorevoli conferme al concepimento di quell’illusione; un’utopia (sempre ‘regolativa’) da affidare, con rinnovata fiducia, alle buone volontà del tempo che viene.
[1] Edoardo Ruffini, Il principio maggioritario. Profilo storico, Milano, Adelphi, 1976 (1927).
[2] Roberto Esposito, Le persone e le cose, Torino, Einaudi, 2014.