ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
di Raffaella Calò
Sommario: 1. La recente applicazione dell’amministrazione giudiziaria nei confronti di Uber Italy s.r.l. e le problematiche sottese – 2. La scarsa determinatezza del delitto di sfruttamento del lavoro previsto dall’art. 603 bis c.p. – 3. La tutela dei riders prevista dal diritto del lavoro – 4. La lettura dell’art. 603 bis c.p. alla luce del principio di sussidiarietà – 5. I limiti applicativi dell’amministrazione giudiziaria del codice antimafia.
1. La recente applicazione dell’amministrazione giudiziaria nei confronti di Uber Italy s.r.l. e le problematiche sottese
Con una decisione immediatamente salita agli onori della cronaca, il 27 maggio 2020 la sezione misure di prevenzione del tribunale di Milano ha applicato alla società Uber Italy s.r.l., facente capo alla galassia del colosso Uber, la misura dell’amministrazione giudiziaria prevista dall’art. 34 del codice antimafia sul presupposto della sussistenza di indizi gravi, precisi e concordanti circa l’agevolazione, da parte della stessa, di condotte penalmente rilevanti di sfruttamento del lavoro poste in essere dai titolari di due imprese aventi sede a Milano che gestivano il servizio di food delivery in alcune città italiane.
Nel decreto in parola si afferma che dall’attività investigativa sarebbe emerso un grave quadro indiziario circa l’esistenza di un regime di sopraffazione e sfruttamento dei riders da parte delle imprese che ne gestivano le consegne – desumibile dalla condizione di richiedenti asilo dei lavoratori, dalle modalità di retribuzione e dal concreto atteggiarsi del rapporto di lavoro – di gravità tale da integrare gli estremi del delitto di cui all’art. 603 bis c.p.
A tale comportamento delittuoso, posto in essere dai preposti delle due imprese che gestivano nel complesso l’attività lavorativa di oltre 700 riders nelle principali città italiane, non sarebbe stata estranea la società Uber Italy s.r.l. atteso che alcuni dipendenti della stessa, ad avviso dei giudici meneghini, non solo avrebbero avuto piena consapevolezza delle condizioni di lavoro e retributive dei riders, ma avrebbero financo avallato di fatto tali pratiche delittuose ingerendosi nella gestione dei lavoratori.
Pertanto, essendo ascrivibile alla società Uber Italy s.r.l. una attività agevolatrice in favore dei soggetti indagati del grave delitto di sfruttamento del lavoro, quanto meno sotto un profilo di omesso controllo da parte della società o di grave deficienza organizzativa sul piano della reale autonomia rispetto alla casa madre con sede in Olanda, sussisterebbero i presupposti per l’applicazione nei confronti della stessa della misura dell’amministrazione giudiziaria finalizzata alla verifica, da un lato, dell’esistenza di analoghe forme di sfruttamento dei lavoratori; dall’altro, dell’esistenza e dell’idoneità del modello organizzativo previsto dal d. lgs. 231/2001 atto a prevenire disfunzioni di illegalità aziendale come quelle sopra descritte.
Ebbene, a prescindere dai concreti profili fattuali della vicenda, ancora sub judice, la decisione in parola offre l’occasione per riflettere sui rapporti tra beni di primissimo rilievo costituzionale, quale la libertà di impresa economica e la tutela del lavoro, nonché sull’adeguatezza del sistema repressivo penale in materia di lavoro.
Ed infatti, da un lato, si tratta di comprendere, su un terreno quanto mai scivoloso quale i rapporti di lavoro dei riders, costantemente in bilico sotto il profilo civilistico tra attività autonoma e subordinazione, a quali condizioni lo sfruttamento dell’evidente posizione di debolezza del lavoratore – debolezza nota al legislatore, che è intervenuto più volte per garantire livelli minimi di tutela, da ultimo con il duplice intervento del 2019 – costituisca non già soltanto una violazione contrattuale ma un illecito penale.
Si misura sotto questo profilo l’estrema difficoltà di incasellare negli schemi giuridici la complessa realtà fattuale dell’economia moderna, dovendosi al contempo garantire, in un quadro normativo estremamente complesso e mutevole sotto il profilo giuslavoratistico, la necessaria sussidiarietà dell’intervento penale e, prima ancora, il rispetto dei canoni di tipicità e determinatezza, messi a dura prova da norme incriminatrici che, come l’art. 603 bis c.p., paiono più descrittive del fenomeno sociale che si vuole combattere – segnatamente, lo sfruttamento dei lavoratori – che realmente selettive dei fatti meritevoli di sanzione penale.
Dall’altro, una volta eventualmente accertata la sussistenza di condotte delittuose a danno dei lavoratori, si tratta di stabilire, nei mutevoli e complessi rapporti di forza tra grandi multinazionali ed imprese medio-piccole, in quale misura trovi ragione un intervento di tipo preventivo che, come l’amministrazione giudiziaria, è nato e si è sviluppato sul diverso terreno della lotta alle mafie.
2. La scarsa determinatezza del delitto di sfruttamento del lavoro previsto dall’art. 603 bis c.p
Il primo problema che si pone, come accennato sopra, è rappresentato dalla scarsissima determinatezza del nuovo delitto di sfruttamento del lavoro introdotto dal legislatore con legge 29 ottobre 2016 n. 199.
Nel 2016, infatti, il legislatore è intervenuto sull’art. 603 bis c.p. riscrivendo la preesistente fattispecie di intermediazione illecita ed introducendo la nuova fattispecie delittuosa di sfruttamento del lavoro, che punisce chiunque utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l'attività di intermediazione illecita, sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno.
Con riferimento al nuovo delitto di sfruttamento del lavoro, sanzionato con pene certo non lievi, specie nelle ipotesi aggravate, la dottrina più accorta ha da subito evidenziato il marcato impoverimento dei contenuti descrittivi delle condotte tipiche e la conseguente frizione con il principio di determinatezza che deve presidiare l’intervento penale.
In assenza degli elementi che tradizionalmente denotano il disvalore penale in ambito lavoristico (la lesione o il concreto pericolo per la salute e la sicurezza dei lavoratori, la violenza e minaccia – qui relegati al ruolo ancillare di circostanze aggravanti –, la natura organizzata dell’attività imprenditoriale) l’intero disvalore riposa infatti sulla genericissima nozione di sfruttamento e sull’approfittamento dello stato di bisogno del lavoratore, rendendo difficile l’individuazione dell’oggetto di tutela se non rinvenendolo genericamente nella dignità del lavoratore[1].
Quanto allo sfruttamento, il legislatore, lungi dall’offrire una definizione dello stesso ai fini dell’integrazione del delitto in parola, si è limitato a prevedere alcuni “indici dello sfruttamento” i quali tuttavia, non solo non esauriscono la nozione di sfruttamento, rappresentandone soltanto degli elementi sintomatici, ma non possono neppure ritenersi elementi costitutivi dell’illecito non attingendo al livello della tipicità, come del resto chiarito, ad abundantiam, dalla relazione di accompagnamento[2].
D’altra parte, a prescindere dall’infelice tecnica legislativa ben lontana dai Regelbeispiele di matrice tedesca, il problema che si pone è quello della scarsa significatività degli stessi indici, atteso che le condotte ivi descritte (la reiterata violazione della normativa sulla retribuzione o sull’orario di lavoro, riposo, aspettativa obbligatoria e ferie, la violazione delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro e la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti) costituiscono di per sé mere violazioni della normativa lavoristica.
Una compiuta definizione della specifica condotta di sfruttamento rilevante ai fini della configurabilità del reato in parola sarebbe stata invece quanto mai opportuna, se solo si pensa che, da un lato, di per sé la nozione di sfruttamento in materia penale ha naturali tendenze espansive, finendo per abbracciare ogni condotta da cui l’autore ricavi un vantaggio economicamente valutabile, e dall’altro che l’art. 603 bis c.p. si applica ai rapporti di lavoro, naturalmente caratterizzati dalla ricerca di un vantaggio di natura economica da parte dell’imprenditore che a tal fine si accolla il rischio d’impresa[3].
A fronte di tale evanescenza della condotta di sfruttamento, il disvalore dell’illecito sembrerebbe dunque concentrarsi sull’altro elemento costitutivo della fattispecie, e segnatamente l’approfittamento dello stato di bisogno del lavoratore. Sennonché, come pure evidenziato dalla dottrina, anche tale elemento costitutivo pare privo di reale capacità di selezione delle condotte meritevoli di sanzione penale, atteso che il lavoro è naturalmente diretto alla soddisfazione di bisogni primari della persona, di talché lo stato di bisogno potrebbe ritenersi in re ipsa, tanto più in un mercato caratterizzato dalla evidente distanza tra domanda ed offerta di lavoro. Si dirà che non è lo stato di bisogno in sé ad essere elemento costitutivo del reato, ma “il fatto che il soggetto agente se ne avvantaggi, appuntandosi, così, l’attenzione su una condotta maggiormente riprovevole, piuttosto che su un fatto oggettivamente più dannoso”[4]. E tuttavia, premesso che la posizione di debolezza del prestatore di lavoro nei confronti della parte datoriale è talmente evidente da giustificare l’esistenza stessa del diritto del lavoro come corpus normativo autonomo rispetto al diritto civile comune, la previsione di un disvalore di condotta che assume una colorazione tendenzialmente soggettiva reca con sé il rischio dello slittamento verso la punizione di un autore socialmente nocivo e percepito come odioso più che di un fatto obiettivamente dannoso o pericoloso[5].
Da quanto sopra emerge che l’art. 603 bis c.p., così come novellato nel 2016, si presta alla punizione non già soltanto di fatti intollerabili di sopraffazione di lavoratori particolarmente vulnerabili da cui derivano concreti effetti lesivi della loro persona, bensì anche di condotte che – seppure censurabili, perché in contrasto con le norme extrapenali a tutela della salute e della dignità dei lavoratori – hanno un contenuto di disvalore eterogeneo rispetto alle prime.
Parrebbe dunque che il legislatore, intervenendo sull’art. 603 bis c.p. al meritorio fine di punire severamente sia i c.d. caporali sia gli utilizzatori dei lavoratori sfruttati che beneficiano dell’attività di reclutamento dei primi, non abbia saputo o voluto individuare con la necessaria chiarezza la tipologia criminologica che intendeva reprimere, finendo per attuare un intervento repressivo confuso ed ambiguo, con il rischio di uno smisurato allargamento dell’area della rilevanza penale che rischia di sovrapporsi completamente alla normativa lavoristica, in violazione del fondamentale principio di sussidiarietà.
In questo quadro, la magistratura è stata chiamata ad un intervento chiaramente suppletivo, volto a definire i contorni della nuova fattispecie criminosa evidenziando come, da un lato, la mera condizione di irregolarità amministrativa del cittadino extracomunitario nel territorio nazionale, accompagnata da situazione di disagio e di bisogno di accedere alla prestazione lavorativa, non può di per sé costituire elemento valevole da solo ad integrare il reato di cui all'art. 603 bis c.p.; dall’altro, che lo sfruttamento penalmente rilevante presuppone un eclatante pregiudizio e una rilevante soggezione del lavoratore, che il giudice deve accertare attraverso gli indici di rilevazione previsti dalla norma (Cass., n. 49781/2019).
3. La tutela dei riders prevista dal diritto del lavoro
Ebbene, negli stessi anni in cui in sede penale si apprestava la tutela del lavoro sopra descritta e pensata anzitutto per fronteggiare il caporalato e lo sfruttamento dei lavo
ratori irregolari nel settore agricolo, si consumava nella dottrina lavoristica e nei tribunali la complessa vicenda dei riders, categoria di lavoratori assurta a simbolo della c.d. gig economy, la cui patente debolezza contrattuale è tale da avere spinto il legislatore dapprima con il Jobs Act nel 2015 e successivamente con il duplice intervento del 2019 a prevedere una disciplina peculiare, superando – e dunque in una certa misura scardinando – la tradizionale distinzione tra lavoro autonomo e subordinato.
Infatti, sin dalla loro comparsa nel mercato del lavoro, la debolezza della posizione contrattuale dei riders – che nella gran parte delle volte sono lavoratori poco qualificati, che sovente non parlano la lingua italiana e versano in evidente condizione di bisogno economico e di isolamento sociale – ha portato molti giuslavoristi ad evidenziare come agli stessi male si attagliasse la definizione – e la conseguente applicazione della normativa – di lavoratori autonomi.
A sostegno della tesi della natura subordinata del rapporto di lavoro dei riders si sottolineava l’esiguità della retribuzione, e dunque la loro dipendenza economica dal gestore, la puntuale eterodeterminazione del lavoro, la sorveglianza di fatto attuata tramite la piattaforma digitale caricata sullo smartphone in uso agli stessi e si evidenziava la profonda ingiustizia dell’assenza di norme a tutela di diritti fondamentali, quale la salute o il diritto al riposo e a ferie retribuite a fronte di prestazioni continuative.
Si tratta, a ben vedere, di elementi molto vicini a quelli, sopra descritti, presi in considerazione dal legislatore penale nel 2016 quali indici di sfruttamento e che invece erano valorizzati da parte della dottrina giuslavorista al più limitato fine di estendere ai riders la tutela prevista dalla legge per i lavoratori subordinati.
Quanto alla giurisprudenza, in assenza di una norma ad hoc, i giudici del lavoro erano chiamati ad analizzare, caso per caso, le concrete modalità con cui si dispiegava di fatto il rapporto di lavoro portato alla loro cognizione, al fine di verificare – anche facendo ricorso ai c.d. indici sintomatici della subordinazione – se nel singolo caso si fosse in presenza di fatto di un rapporto di lavoro subordinato “mascherato” da contratti di collaborazione.
Nel 2015 si assiste ad un radicale mutamento di prospettiva a seguito dell’approvazione del d. lgs. n. 81/2015 (c.d. Jobs Act) che ha previsto la possibilità di applicare una tutela “rafforzata” nei confronti di alcune tipologie di lavoratori (quali quelle delle piattaforme digitali, considerati “deboli”), estendendo agli stessi le tutele sino a quel momento previste per i soli lavoratori subordinati. Esemplare, in questo senso, è la ricostruzione contenuta nella recente sentenza della Sezione lavoro della Corte di cassazione n. 1663/2020 che, prendendo posizione nel dibattito giurisprudenziale e dottrinale, ha fatto proprio il pragmatico approccio c.d. rimediale evidenziando la necessità di applicare una tutela “rafforzata” senza la necessità di prendere posizione circa la natura autonoma o subordinata del rapporto. Si tratta infatti, per dirlo con le parole della Cassazione nella sentenza n. 1663/2020 “di una scelta di politica legislativa volta ad assicurare al lavoratore la stessa protezione di cui gode il lavoratore subordinato, in coerenza con l’approccio generale della riforma, al fine di tutelare prestatori evidentemente ritenuti in condizioni di ‘debolezza’ economica, operanti in una ‘zona grigia’ tra autonomia e subordinazione, ma considerati meritevoli comunque di una tutela omogenea”.
Come accennato sopra, tale impianto normativo in vigore dal 1° gennaio 2016 è stato poi ampliato dapprima dal decreto-legge 3 settembre 2019, n. 101 e, successivamente, dalla legge di conversione del medesimo (legge 2 novembre 2019, n. 128) che ha introdotto ulteriori significative modifiche, estendendo ulteriormente la tutela dei riders.
La legge 128/2019 introduce infatti nel d. lgs. n. 81/2015 un capo V bis che, da un lato, fa salva la previsione contenuta nell’art. 2, co. 1 e dunque l’estensione alle collaborazioni organizzate dal committente delle tutele previste per i lavoratori subordinati; dall’altro, contiene puntuali disposizioni che costituiscono livelli minimi di tutela dei riders, dal legislatore definiti “lavoratori autonomi che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l'ausilio di velocipedi o veicoli a motore (…) attraverso piattaforme anche digitali”.
Senza potere in questa sede ripercorrere il vivace dibattito dottrinale e giurisprudenziale che ha accompagnato e spesso preceduto l’entrata in vigore delle disposizioni sopra richiamate, appare significativo che le puntuali previsioni contenute nel nuovo capo V bis del lgs. n. 81/2015, che costituiscono livelli minimi di tutela dei riders, appaiono descrittive di una prassi contrattuale esistente, lesiva dei diritti fondamentali del lavoratore, che il legislatore ha voluto chiaramente far cessare nel 2019.
Così, a fronte della prassi invalsa di non consegnare ai riders – spesso stranieri ed ignari delle norme vigenti in materia – nessun contratto di lavoro, si prevede che i contratti in discorso debbano essere provati per iscritto e che i lavoratori debbano ricevere ogni informazione utile per la tutela dei loro interessi, dei loro diritti e della loro sicurezza.
Con riferimento al compenso, tradizionalmente parametrato al numero delle consegne effettuate, il nuovo art. 47-quater prevede che i contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale possono definire criteri di determinazione del compenso complessivo che tengano conto delle modalità di svolgimento della prestazione e dell’organizzazione del committente. In difetto della stipula di tali contratti collettivi, “i riders non possono essere retribuiti in base alle consegne effettuate e ai medesimi lavoratori deve essere garantito un compenso minimo orario parametrato ai minimi tabellari stabiliti da contratti collettivi nazionali di settori affini o equivalenti sottoscritti dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale”. Ancora, con riferimento al compenso, si prevede che ai riders debba essere garantita un'indennità integrativa non inferiore al dieci per cento determinata dai contratti collettivi o, in difetto, con decreto del Ministro del lavoro per il lavoro svolto di notte, durante le festività o in condizioni meteorologiche sfavorevoli.
Il nuovo art. 47-quinquies del d.lgs. n. 81/2015, inoltre, dopo avere stabilito che ai riders si applica la disciplina antidiscriminatoria e quella a tutela della libertà e dignità del lavoratore previste per i lavoratori subordinati, prevede espressamente che “l'esclusione dalla piattaforma e le riduzioni delle occasioni di lavoro ascrivibili alla mancata accettazione della prestazione sono vietate”, al chiaro fine di porre un freno alla prassi invalsa nella realtà lavorativa dei riders per cui la mancata disponibilità degli stessi a connettersi alla piattaforma in determinare fasce orarie o la mancata effettuazione di una o più consegne era sanzionata dal committente con lo scollegamento – momentaneo o definitivo a seconda della gravità della violazione – dalla piattaforma digitale e, con ciò, con l’impossibilità di lavorare.
Infine, a fronte del patente deficit di sicurezza che aveva sino a quel momento caratterizzato la prestazione lavorativa dei riders, il legislatore del 2019 ne ha espressamente previsto la copertura assicurativa obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali nonché l’obbligo del committente che utilizza la piattaforma anche digitale al rispetto, a propria cura e spese, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81.
4. La lettura dell’art. 603 bis c.p. alla luce del principio di sussidiarietà
Ebbene, volendo tirare le fila del discorso sin qui svolto, è palese, ad avviso di chi scrive, che qualunque valutazione effettuata in sede penale delle condotte di sfruttamento in danno dei riders da parte di chi ne gestisce la prestazione lavorativa non può prescindere dall’analisi delle complesse norme extrapenali sopra richiamate che disciplinano, anche nel dettaglio, le modalità con cui deve dispiegarsi il rapporto di lavoro.
In tale complesso quadro normativo che ha visto il legislatore rincorrere la realtà economica e sociale al fine di governarla ed impedire – tanto in sede civile quanto in sede penale – il perpetrarsi di abusi in danno dei lavoratori più vulnerabili, l’interprete è infatti chiamato a trovare la quadra del sistema al fine di individuare quali, tra le molteplici possibili violazioni della normativa lavoristica cui devono conseguire i tipici rimedi civilistici, siano meritevoli anche della sanzione penale e, in ogni caso, evitare che comportamenti civilmente leciti possano essere ritenuti dalla magistratura penale lesivi della dignità del lavoratore e dunque sanzionati con pene che, nelle ipotesi aggravate, possono arrivare a otto anni di reclusione.
Non si tratta soltanto di arginare, con un’operazione ermeneutica, la tendenza legislativa di ricorrere con troppa leggerezza all’intervento repressivo penale a fini soprattutto simbolici, in dispregio del principio di extrema ratio che dovrebbe guidare le scelte di criminalizzazione, ma, prima ancora, di evitare che i giudici penali svolgano un ruolo suppletivo rispetto alle complesse dinamiche sociali che trovano espressione nella contrattazione collettiva, con quanto ne deriva anche in punto di certezza del diritto che costituisce un bene primario per la moderna economia.
Così, poiché ad oggi non sono stati ancora stipulati contratti collettivi che definiscono (con l’efficacia erga omnes che gli è propria) criteri di determinazione del compenso complessivo che tengano conto delle modalità di svolgimento della prestazione dei riders e dell'organizzazione del committente, la giusta retribuzione dei riders, alla luce della previsione del d.lgs. n. 81/2015 così come novellato nel 2019, deve ritenersi parametrata ai minimi tabellari orari stabiliti da contratti collettivi nazionali di settori affini o equivalenti sottoscritti dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale.
Come sanno bene i giudici del lavoro e chiunque si è cimentato in operazioni del genere, si tratta di valutazione certamente non semplice, né meccanica, che implica un difficile raffronto, fatto per approssimazioni successive, tra diversi profili lavorativi, al fine di individuare la paga minima oraria che deve essere corrisposta al lavoratore, al di sotto della quale non si può andare incorrendosi altrimenti nella nullità (parziale) del contratto di lavoro cui consegue l’applicazione del minimo salariale. Pertanto, sia nei casi in cui i riders sono pagati in base alle ore di lavoro svolte sia nei casi, più frequenti, in cui (in violazione delle norme extrapenali anzidette) sono pagati in base al numero delle consegne effettuate, non parrebbe giuridicamente corretto affermare, in maniera semplicistica e senza alcun richiamo ai contratti collettivi che regolano prestazioni simili, che una data retribuzione è troppo bassa, tale da potere integrare – se del caso unitamente ad altri elementi – gli estremi dello sfruttamento del lavoratore penalmente sanzionato.
Analogamente, con riferimento allo scollegamento dalla piattaforma digitale sovente effettuato dal gestore per punire il rider che ha tenuto, a suo avviso, comportamenti sconvenienti o comunque difformi da quelli richiesti, pur trattandosi di un comportamento odioso che, a far data dal 2019, è vietato dal Jobs Act, lo stesso non pare potere di per sé integrare gli estremi dello sfruttamento o financo della violenza o minaccia quali circostanze aggravanti. Invero, il diritto del lavoro conosce da sempre il potere sanzionatorio del datore di lavoro che – ovviamente all’esito di un procedimento disciplinare e nel rispetto del diritto di difesa del lavoratore – può concludersi anche con una multa inflitta al lavoratore, essendo palese che il mancato rispetto delle garanzie previste dalla legge – e in particolare dalla l. n. 300/70, che in parte qua dovrebbe applicarsi anche ai riders – conduce all’annullamento della sanzione inflitta, ma non determina la nullità del rapporto di lavoro né, tanto meno, integra di per sé forme di violenza o minaccia.
Gli esempi sopra fatti mostrano dunque come, essendo evidentemente la sanzione penale accessoria alla normativa lavoristica, la valutazione da parte del giudice penale degli estremi dello sfruttamento non può prescindere dal preliminare inquadramento della fattispecie sotto il profilo civilistico, dovendosi stabilire – con una valutazione necessariamente caso per caso, scevra da ogni presunzione – quando la distanza dal paradigma legale, sotto il profilo qualitativo e quantitativo, è tale da mostrare l’esistenza di una sopraffazione che, travalicando le normali dinamiche di asimmetria contrattuale, determina un intollerabile pregiudizio della persona del lavoratore.
Si tratta di un’operazione certamente difficile ma non nuova per il giudice penale, se solo si pensa alla giurisprudenza in tema di usura – delitto sotto qualche profilo assimilabile a quello previsto dall’art. 603 bis c.p. – in cui il giudice nel decidere dell’esistenza di un’usura c.d. in concreto (art. 644, co. 3 c.p.), è chiamato a valutare caso per caso se si sia verificata una condizione di sfruttamento delle condizioni di difficoltà economica o finanziaria della vittima attraverso l'induzione della stessa all'accettazione di condizioni contrattuali sproporzionate rispetto a quelle che caratterizzano il libero mercato (Cass., n. 26214/2017).
In caso contrario, laddove la magistratura penale non riuscisse nella complessa opera di interpretazione di norme anche extrapenali cui è chiamata, valorizzando nell’applicazione dell’art. 603 bis c.p. il principio di sussidiarietà dell’intervento penale, il rischio concreto è quello di uno smantellamento – di fatto e in via giudiziale – della complessa opera di creazione dello statuto di tutela dei riders – e più in generale di tutti gli altri lavoratori “deboli” della c.d. nuova economia – avviata dal legislatore nel 2015 e faticosamente raggiunta nel 2019 quale punto di approdo di un difficile bilanciamento tra la protezione dei lavoratori e la salvaguardia della libertà di impresa.
5. I limiti applicativi dell’amministrazione giudiziaria del codice antimafia
La recentissima decisione della sezione autonoma misure di prevenzione del tribunale di Milano offre inoltre lo spunto per una riflessione cursoria sui limiti del ricorso alle misure di prevenzione patrimoniali – come l’amministrazione giudiziaria prevista dal nuovo art. 34 del codice antimafia – nella materia in discorso.
In particolare, prescindendo completamene dai concreti profili fattuali della fattispecie all’esame del tribunale di Milano, le questioni principali, ad avviso di chi scrive, sono rappresentate dall’esatta individuazione dei presupposti applicativi della nuova misura di prevenzione dell’amministrazione giudiziaria, che sottrae temporaneamente il controllo aziendale al soggetto colpito dalla misura, e dalla possibilità di rinvenire – sotto il profilo astratto della fenomenologia criminosa – tali presupposti nelle complesse relazioni socio-economiche che legano le grandi imprese di food delivery e le aziende che reclutano e gestiscono i riders.
Prendendo le mosse dalla prima questione, è noto che il legislatore nel 2017, riscrivendo la norma sull’amministrazione giudiziaria già prevista dall’art. 34 del codice antimafia, ha previsto una misura di prevenzione patrimoniale che permette all’autorità giudiziaria di intervenire su attività economiche, anche di carattere imprenditoriale, che rivelino situazioni di infiltrazione mafiosa e di contiguità con le consorterie criminali, tali da danneggiare il regolare e libero esercizio dei ruoli imprenditoriali[6].
La norma sconta tuttavia un’irrimediabile ambiguità, essendo la sua applicazione ancorata alla presenza di due presupposti alternativi, l’uno molto diverso dall’altro. Invero, il tribunale può sottoporre un’impresa all’amministrazione giudiziaria sia qualora sussistano indizi sufficienti da rivelare condizioni di intimidazione o assoggettamento di tipo mafioso, sia qualora il libero esercizio dell’attività economica possa comunque agevolare l’attività di persone nei confronti delle quali è stata proposta o applicata una misura di prevenzione personale o patrimoniale, ovvero di persone sottoposte a procedimento penale per il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso o altri gravi reati, tra cui – per quanto qui interessa – l’art. 603 bis c.p.
Come evidenziato dalla dottrina, è evidente che nel primo caso l’imprenditore riveste una posizione di vittima in ragione dell’assoggettamento o intimidazione di tipo mafioso; nel secondo caso, invece, il legame tra attività economica e criminalità è piuttosto espressivo di una situazione di commistione di interessi che si manifesta nel compimento di una condotta agevolatrice[7].
Ebbene, senza potere in questa sede ripercorrere compiutamente il dibattito dottrinale e i percorsi argomentativi seguiti dalla giurisprudenza, si segnala che uno degli aspetti più discussi della nuova disciplina riguarda proprio l’esatta individuazione del concetto di agevolazione dell’attività illecita. Da un lato, infatti, si palesa l’esigenza di applicare la misura patrimoniale solo in situazioni di obiettiva contiguità rispetto all’attività illecita e di un apporto effettivo dell’impresa all’attività criminosa; dall’altro, la giurisprudenza soprattutto ha evidenziato come la condotta obiettivamente agevolatrice posta in essere dall’impresa a vantaggio del sodalizio mafioso o comunque dell’attività illecita (potendo la misura applicarsi anche in relazione a gravi delitti diversi dal reato di cui all'art. 416 bis c.p.) debba essere comunque espressiva di una negligenza o imperizia e dunque di una rimproverabilità colposa, non potendo la misura patrimoniale in parola attingere attività economiche lecite cui non può muoversi alcun rimprovero sotto il profilo del rispetto delle normali regole di prudenza e buona amministrazione imprenditoriale (trib. Milano, 23.6.2016, Nolostand spa). In ogni caso, la condotta imprenditoriale obiettivamente agevolatrice e contraria alle normali regole di prudenza e diligenza non deve attingere il profilo della piena consapevolezza della relazione di agevolazione del sodalizio mafioso o degli altri reati presupposto, realizzandosi altrimenti i presupposti delle ipotesi concorsuali o, quantomeno, agevolatrici (trib. Milano, 23.6.2016, Nolostand spa).
Sussiste infine un presupposto di ordine per così dire negativo, affermato espressamente dall’art. 34 cit., dato dall’insussistenza dei presupposti per l’applicazione di una misura di prevenzione all’imprenditore che esercita l’attività economica agevolatrice, dovendo quest’ultimo essere un soggetto necessariamente terzo rispetto all’agevolato, con piena disponibilità della propria attività.
Ebbene, così ricostruito per sommi capi l’ambito applicativo dell’amministrazione giudiziaria ed evidenziata l’estrema scivolosità della nozione di “condotta agevolatrice” che ne costituisce il presupposto richiamando – senza definirlo compiutamente – quel circuito grigio di commistione di posizioni dominanti e rendite che contribuisce a rafforzare la presenza economica delle cosche sul territorio[8], ci si interroga sulla astratta applicabilità di tale norma alle relazioni solitamente esistenti tra le grandi multinazionali che gestiscono le piattaforme digitali del food delivery e le imprese, spesso medio-piccole, che per conto delle prime selezionano i riders e ne gestiscono l’attività lavorativa.
In particolare, se si ritiene che in determinati contesti – una volta riscontrati tutti gli elementi di cui si è detto sopra – coloro che gestiscono l’attività lavorativa dei riders pongono in essere comportamenti penalmente rilevanti di sfruttamento del lavoro, tale da legittimare l’applicazione della misura dell’amministrazione giudiziaria nei confronti delle imprese che gestiscono la piattaforma e dunque tale sfruttamento agevolano, la questione che si pone è quella del ruolo concretamente svolto dalle grandi multinazionali del food delivery e dai loro preposti in sede locale.
Invero, potendo le prime effettuare, tramite la piattaforma digitale in uso ai riders, un controllo costante e capillare dell’attività svolta da questi ultimi e potendo altresì incidere di fatto, direttamente o indirettamente – in ragione della preponderante forza contrattuale – sulle concrete modalità di esecuzione del rapporto di lavoro che lega i riders ai c.d. fleet partners, potrebbe risultare difficile affermare l’esistenza di una condotta di agevolazione dello sfruttamento scevra di quella consapevolezza delle conseguenze e che indurrebbe piuttosto a configurare una responsabilità penale – nelle forme del concorso nel reato – delle persone fisiche tramite le quali le stesse operano sul mercato.
Altrimenti detto, se si ritiene che determinate condizioni di lavoro imposte ai riders dai loro datori di lavoro (o, se si vuole, committenti) costituiscono forme di prevaricazione e sopraffazione tali da configurare gli estremi del delitto di cui all’art. 603 bis c.p. – circostanza questa di per sé estremamente problematica, per tutte le ragioni sopra evidenziate – allora si rende necessario indagare l’effettivo potere di ingerenza e controllo esistente in capo alle persone fisiche tramite cui le multinazionali del food delivery agiscono e nel cui interesse, in ultima analisi, i riders rendono la propria prestazione.
In caso contrario, in presenza di condotte consapevoli che avallano determinate modalità di lavoro in danno della dignità del lavoratore, l’applicazione della sola misura di prevenzione alle società che non solo concretamente gestiscono la piattaforma digitale ma nel cui interesse, in ultima analisi, il lavoratore è sottoposto a sfruttamento, rischia di apparire distonica rispetto al reale assetto dei rapporti sociali ed economici che il diritto è chiamato a governare.
[1] Si vedano sul punto le lucide riflessioni di A. De Rubeis, Qualche breve considerazione critica sul nuovo reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, in Diritto penale contemporaneo n. 4/17, cui si rimanda anche per i molteplici riferimenti dottrinali e giurisprudenziali.
[2] Sul punto, V. Torre, Lo sfruttamento del lavoro. La tipicità dell’art. 603-bis cp tra diritto sostanziale e prassi giurisprudenziale, in Questione Giustizia, fasc. 4/2019.
[3] Analog., A. De Rubeis, Qualche breve considerazione critica, cit.
[4] A. De Rubeis, Qualche breve considerazione critica, cit.
[5] A. De Rubeis, Qualche breve considerazione critica, cit.
[6] In questo senso, L. Peronaci, Dalla confisca al controllo giudiziario delle aziende: il nuovo volto delle politiche antimafia. I primi provvedimenti applicativi dell’art. 34-bis D.lgs. 159/2011, in Giurisprudenza penale web 9/2018, cui si rinvia per i molteplici riferimenti giurisprudenziali e dottrinali.
[7] L. Peronaci, Dalla confisca al controllo giudiziario delle aziende, cit.
[8] L. Peronaci, Dalla confisca al controllo giudiziario delle aziende, cit.
Costo delle mascherine, orari di apertura delle attività commerciali e accesso alla garanzia per i finanziamenti.
Il T.A.R. Lazio non sospende le misure attuative della c.d. Fase 2.
Il T.A.R. del Lazio, con tre recenti provvedimenti cautelari, si è pronunciato su diversi aspetti relativi all’attuazione della c.d. Fase 2 dell’emergenza sanitaria, nell’ambito della quale il Governo e le amministrazioni decentrate, nei limiti delle rispettive competenze, stanno provando a rilanciare il sistema economico-finanziario continuando a tutelare il prevalente interesse pubblico della salute.
La Sezione I-quater (T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I-quater, ordinanza 27 maggio, 2020, n. 4097) si è pronunciata sulla nota questione del costo calmierato delle mascherine. Con ordinanza del 26 aprile 2020, n. 11, il Commissario Straordinario per l’emergenza Covid-19 ha imposto il prezzo massimo di vendita al consumo delle mascherine facciali “chirurgiche” (standard UNI EN 14683) in misura non superiore a 0,50 Euro per unità al netto dell’IVA. Il Collegio investito della questione non ha ritenuto sussistenti la gravità e l’urgenza necessarie per la concessione della misura cautelare richiesta da parte ricorrente (una società del settore), ritenendo che l’esigenza (della tutela della salute) perseguita attraverso il calmieramento del prezzo dei presidi medici in questione sia da considerarsi prevalente nell’ambito della comparazione tra gli interessi pubblici e privati coinvolti.
Il tema della preminenza della tutela della salute costituisce il perno attorno al quale ruota anche un’altra ordinanza cautelare del T.A.R. Lazio (TA.R. Lazio, Roma, Sez. II-ter, ordinanza 27 maggio, 2020, n. 4098), relativa al contingentamento degli orari di apertura al pubblico delle attività commerciali. Il Collegio adito, in questo caso, rammentando preliminarmente il potere attribuito da diverse fonti normative agli enti locali di consentire tali limitazioni, ha qualificato come adeguata la restrizione agli orari imposta per gli esercizi commerciali. A tal riguardo viene precisato che il bilanciamento degli interessi coinvolti, effettuato anche tenendo conto della limitata durata temporale del provvedimento impugnato (avente efficacia fino al 21 giugno 2020) e della riferibilità del danno prospettato esclusivamente alla posizione dei ricorrenti (società titolari di esercizi commerciali), deve far ritenere prevalente l’interesse pubblico alla tutela della salute della collettività, che viene posto a fondamento delle contestate limitazioni.
Con altro provvedimento cautelare (T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, decreto 28 maggio, 2020, n. 4106), il T.A.R. del Lazio ha poi esaminato la problematica relativa all’accesso ai finanziamenti a beneficio delle imprese per far fonte alla crisi economica. Più precisamente, è stata contestata in giudizio (da un’associazione italiana di consumatori) la possibilità di accedere al prestito garantito ex art. 1, d.l. n. 23/2020 per un’impresa con sede in Italia, ma controllata da un’altra impresa avente sede all’estero. La possibilità di consentire l’accesso al prestito garantito anche a questa categoria di imprese (italiane), secondo parte ricorrente, determinerebbe un duplice effetto negativo: a) i dividendi, distribuiti dall’impresa controllata (italiana) all’impresa controllante (estera), non sarebbero soggetti a tassazione nel nostro Paese, con la conseguenza che né lo Stato italiano né i cittadini italiani beneficerebbero della garanzia prestata dalla SACE s.p.a.; b) gli stessi cittadini italiani potrebbero trovarsi onerati di imposizioni fiscali maggiorate dallo Stato per sopperire alle eventuali uscite non compensate dal sistema dei prestiti garantiti ai sensi dell’art. 1, d.l. n. 23/2020, al fine di perseguire gli obiettivi di bilancio. La richiesta di concessione di misura cautelare in forma monocratica non è stata accolta, ritenendo insussistente il presupposto della estrema gravità e urgenza necessario per sospendere l’efficacia dei provvedimenti gravati (ai quali, tra l’altro, è stata riconosciuta una valenza essenzialmente normativa e programmatica), rinviando la definitiva pronuncia cautelare alla camera di consiglio in cui la domanda verrà esaminata collegialmente. (R. F.)
Dove va l’Europa dei diritti dopo la sentenza del Tribunale costituzionale tedesco federale sul quantitative easing
Intervista di Roberto Conti a Giuseppe Tesauro
Grandi reazioni e preoccupazioni ha fin qui suscitato la sentenza del Tribunale costituzionale tedesco federale del 5 maggio 2020 sul programma di acquisto di titoli di Stato della Banca Centrale europea.
Per valutare concretamente la portata della decisione, Giustizia Insieme ha chiesto al Prof.Giuseppe Tesauro, Presidente emerito della Corte costituzionale e già Avvocato generale presso la Corte di Giustizia dell’UE, la sua opinione sugli aspetti più controversi della pronunzia, anche al fine di verificarne l’effettiva portata e le possibili ricadute nel più ampio recinto del sistema dei rapporti fra diritto nazionale e diritto dell’Unione europea.
Le risposte sembrano circoscrivere la portata della decisione e, soprattutto, i possibili effetti di sistema, anzi Tesauro auspicando che esca rafforzato il ruolo dell'Unione europea, in modo da orientarne l'azione, soprattutto dopo la crisi pandemica da Covid 19, verso forme di maggiore tutela della salute dei suoi cittadini rispetto a fenomeni globali, fino al punto di attivare forme di cooperazione rafforzata tese regolare in modo armonico le scelte di politica economica e monetaria.
Insomma, una pronunzia, quella tedesca, che avrebbe utilizzato in modo poco accorto il principio di competenza sancito dall'art.5 del Trattato sull'Unione europea e che non è assolutamente in grado di mettere in discussione gli equilibri raggiunti nel tempo dalle giurisdizioni nazionali e sovranazionali quanto ai rapporti fra ordinamento interno, diritto UE ed i suoi giudici, essendosi ormai diradate le nubi che Corte cost.n.269/2017 aveva addensato all'orizzonte per effetto delle più recenti pronunzie della Corte costituzionale rese nell'anno 2019.
Il rinvio pregiudiziale alla Corte UE rimane dunque salvo -e ben saldo- e con esso la capacità di dialogo e confronto fra le Corti, per nulla scalfito dalla vicenda concreta che ha visto il giudice costituzionale tedesco discostarsi dalle indicazioni in precedenza espresse dalla Corte di Giustizia dell'UE.
Certo, Tesauro non manca di sottolineare come sul piano interno sia ancora insoddisfacente l'impossibilità di sperimentare il rimedio revocatorio per il caso di contrasto fra decisione del giudice nazionale e pronunzia della Corte di Giustizia alla luce dei principi espressi da Corte cost.n.6/2018, dimostrativi di una mai del tutto sopita diffidenza sul ruolo giurisdizionale pieno Corte di Lussemburgo.
In definitiva, la prospettiva di Tesauro è quella di una lettura costruttiva e meno preoccupata della pronunzia tedesca rispetto a quanto si sia talvolta fatto, anzi dalla stessa potendosi ragionevolmente rilanciare un rinnovato assetto dell'ordine giuridico europeo: "il calcio" del tribunale tedesco riuscirà forse ad aiutare a fare un passo avanti all’Europa!
Questo è l’auspicio che formula Tesauro sulla base di alcuni dati fattuali non marginali suscitati proprio dalla decisione del tribunale costituzionale tedesco, pur nella consapevolezza delle difficoltà che si porranno davanti a quanti- Istituzioni nazionali (politiche e giudiziarie) ed europee- intenderanno perseguire la strada del dialogo e della cooperazione, soprattutto sul versante del significato dei principi di competenza e proporzionalità per i quali un supplemento di attenzione ed approfondimento sembra comunque necessario proprio per la centralità che tali canoni assumono rispetto ai rapporti fra Unione e istituzioni nazionali. Difficoltà che, appunto, solo operatori non diffidenti rispetto alle opportunità che offre l'UE ai Paesi membri potranno tentare di dissipare.
1.Presidente Tesauro, quali conseguenze può produrre la sentenza del Tribunale costituzionale tedesco federale del 5 maggio 2020 sul rapporto tra Costituzioni nazionali e Trattati UE ?
Si tratta di un classico tema, di antica attenzione degli studiosi di diritto esterno (internazionale e dell’Unione) e poi di diritto interno, nonché degli operatori a vario titolo del diritto, in particolare i giudici, con ovvie differenze di attenzione, di sensibilità, di conoscenze e di memoria, i giudici con in più la responsabilità della definizione di casi concreti.
La risposta di chi ha vissuto da sempre e da varie angolazioni il tema, ma anche con il senno delle reazioni che si sono avute soprattutto in ambienti giuridici e politici tedeschi, potrebbe essere molto semplicemente limitata al vecchio detto “molto fumo e niente arrosto” o al titolo del film degli anni trenta “All’ovest niente di nuovo”. L’occasione va però colta, e ne sono grato al dott. Conti, sempre attento alle cose dell’Unione, che me la offre per qualche considerazione più generale alla quale il secondo senato del BVerG (Bundesverfassungsgericht) di Karlsruhe si è voluto esporre, non credo del tutto inconsapevolmente. La sentenza, in sintesi, non è un passaggio nuovo, tanto meno sorprendente, della giurisprudenza che in questi sessanta e più anni ha concretizzato il diritto comunitario, poi, secondo l’art. 2 del Trattato di Lisbona, “dell’Unione”: pone interrogativi tecnico-giuridici di qualche rilievo teorico e non solo, gli effetti apparentemente auspicati sarebbero, se realizzati, a dir poco inquietanti, quelli che effettivamente produrrà sembrano ragionevolmente molto modesti se non nulli o addirittura opposti a quelli voluti.
La sentenza appare anche a prima lettura inopportuna e in gran parte ultronea[1]. Inopportuna perché, anche a non voler considerare rilevante – e a ben guardare non lo è più di tanto - la crisi sanitaria e finanziaria dovuta alla pandemia di Covid 19, un Tribunale costituzionale, quale quello tedesco federale così come e più di altri, almeno per i motivi storici quanto alla ragion d’essere dell’Unione, dovrebbe sottrarsi a certe tentazioni ed evitare di alimentare il senso di sfiducia verso l’UE, così riuscendo a condividere la bandiera di taluni precisi ambienti politici non solo tedeschi e di taluni Paesi di recente democrazia. E’ invece quello che ha fatto, tentando di mettere in discussione alcuni principi-cardine dell’ordinamento giuridico dell’UE, quale il primato e il controllo esclusivo della Corte di giustizia sulla legittimità e quindi validità degli atti dell’Unione (TUE). La sentenza è in gran parte ultronea soprattutto perché il Tribunale costituzionale tedesco avrebbe facilmente potuto sottrarsi a questa tentazione, in quanto non aveva alcun motivo, che riguardasse la soluzione del caso sottopostogli, di inserire in un lungo obiter dictum il suo soggettivo europensiero, periodicamente emerso sui principi che regolano il rapporto tra il diritto dell’Unione europea e l’ordinamento tedesco. Sotto tale profilo, si comprende la rinnovata eccitazione letteraria soprattutto dei simpatizzanti della retorica anti-Unione o sovranista, che, partendo dal modello Stato, si dolgono che di questo l’Unione non abbia tutti i connotati, a cominciare da una legge fondamentale qualificata anche nominalmente Costituzione, ignorando che l’Unione, così come è stata ed è voluta dagli Stati membri, non è uno Stato, né federale né similfederale, e che la sua legge fondamentale (questo del resto è il nomen anche della Costituzione tedesca) era il Trattato di Roma del 1957, oggi diviso tra Trattato dell’Unione europea e Trattato sul funzionamento dell’Unione europea: ben poco di diverso, se solo si considera che per eliminare il nomen dal progetto di Costituzione pomposamente preparato fu sufficiente premere il tasto “cancel” per quel nomen, lasciando tutto il resto invariato.
La sentenza del 5 maggio è comunque soprattutto tecnicamente errata, anzitutto sotto il profilo processuale. Invero, la questione di legittimità del PSPP (o Quantitative Easing) era stata definita dalla Corte di giustizia UE con la sentenza Weiss, ai sensi degli artt. 19.1 TUE e 267 TFUE, su rinvio pregiudiziale dello stesso BVerG, sentenza che aveva lasciato le misure controverse immuni da vizi. E il giudice di Karlsruhe, d’altra parte, si è ben guardato dal dichiarare apertamente l’invalidità delle misure controverse, ciò che sarebbe stato troppo, considerata la incontestata incompetenza de su rinvio pregiudiziale dello stesso BVerG. Quando si parla dei giudici nazionali come di giudici comuni del diritto dell’Unione, è pacifico infatti che si intende la competenza ad interpretare in prima lettura quelle norme, fatta salva la competenza centralizzata e definitiva della Corte di giustizia, alla quale comunque spetta anche, ad esclusione dei giudici nazionali, anche costituzionali, la competenza a verificare la validità delle norme e degli atti dell’’Unione. Il BVerG ha pertanto solo censurato la BCE per non aver motivato adeguatamente sulla proporzionalità delle misure rispetto agli obiettivi monetari perseguiti ed ai suoi effetti sulla politica economica: in breve, in gergo, un difetto di motivazione, normalmente possibile causa di illegittimità come in ogni latitudine, per giunta costruito addirittura come sanabile da un aggiustamento che la Banca centrale tedesca dovrebbe sollecitare e ottenere dalla BCE entro tre mesi, pena, secondo il BVerG, la non vincolatività delle misure e della sentenza. Siamo di fronte ad un nuovo e singolare espediente pseudo-processuale, argomento ghiotto per gli studiosi di teoria generale del processo. È appena da sottolineare, poi, che l’invito alla Banca centrale tedesca contraddice vistosamente la tradizionale, vigorosa difesa tedesca dell’indipendenza di quella istituzione ed insieme della BCE. Ricordo in proposito che l’indipendenza della BCE fu la condizione della Germania perché fosse costituita. In breve, come è stato notato con qualche esagerazione, il BVerG ha lanciato un missile (secondo altri una bomba atomica), ma quale che sia l’“arma” utilizzata essa può essere disinnescata nei prossimi 3 mesi, per le solite vie non sempre trasparenti: sarebbe a dir poco singolare che la BCE, tanto meno la Corte di giustizia, accogliessero ufficialmente l’invito.
Ancora sotto il profilo tecnico, c’è appena da osservare che gli Stati membri sono sicuramente i “signori dei trattati”, come ha insegnato nel Maastricht Urteil del 1993 lo stesso BVerG a chi non lo avesse saputo da sempre, quindi possono modificarli o integrarli come e quando vogliono, chiaramente nel rispetto delle procedure previste. Nel caso in discorso, tuttavia, siamo molto vicini a quel tesoretto di principi supremi ben difficili da modificare o addirittura immodificabili[2] (approfitto di avere buona memoria dei due pareri della Corte di giustizia sull’adesione alla CEDU) [3]. Ciò che tuttavia di sicuro gli Stati membri non possono legittimamente fare è, dopo aver attribuito, come hanno attribuito con una scelta politica consapevole nell’esercizio pieno della loro signoria, e mai oggetto di proposte di revisione, al giudice dell’Unione la competenza esclusiva quanto al controllo giurisdizionale sulla legittimità degli atti dell’Unione (art. 164 del Trattato di Roma del 1957, art. 19 TUE con la riforma di Lisbona), pretendere poi di verificarne ogni giorno il buon esercizio sulla base dei parametri comunitari di legittimità anche se collegati nella sostanza a parametri nazionali, giuridici e di interesse, perfino economico. Non occorre scomodare troppe e sofisticate teorie giuridiche generali, basta già la norma di buon senso, oltre che di universale comprensione e applicazione, pacta sunt servanda. Ma di questo si era già parlato, anche se con una eccitazione mediatica molto più ridotta, quando il BVerG rese la sentenza Maastricht del 10 ottobre 1993, che giustamente non ha avuto seguito alcuno, neppure nella giurisprudenza tedesca. E lo stesso dicasi a proposito di altre esternazioni dell’europensiero del BVerG con le sentenze Lissabon (2009), MES (2014), OMT (2016), Unione bancaria (2019).
In conclusione, non ritengo che questa sentenza possa modificare lo stato del rapporto tra Costituzioni nazionali e Trattati dell’Unione. Il clamore suscitato dalla sentenza dello scorso 5 maggio, tra media e commenti di osservatori tuttologi non proprio addetti ai lavori, è dovuto soprattutto alla baruffa politico-elettorale in corso in Germania come in Italia e in qualche altro Paese membro, che fa della retorica anticomunitaria e del sovranismo un quadrupede da cavalcare, anche per una trasparente spinta di alcuni tuttologi al riposizionamento in vista di futuri probabili o possibili scenari (monsieurs s’amusent).
2.La Corte costituzionale tedesca ha fondato parte del suo ragionamento sui principi di attribuzione e di proporzionalità fissati dall’art. 5 del Trattato UE. Qual è il Suo avviso in proposito?
Il BVerG ha fatto un po’ di confusione tra i due principi. Il criterio della proporzionalità riguarda tutti gli atti dell’Unione e si sostanzia in un criterio di buon senso. L’atto deve essere di contenuto e portata adeguata alla realizzazione dell’obiettivo che si prefigge e non può essere sostituito da un atto meno restrittivo della libertà dei suoi destinatari o andare al di là di quanto è necessario per realizzare il suo obiettivo. Nella specie, il BVerG ha ritenuto che le misure varate dalla BCE producessero effetti economici oltre quelli monetari, dunque al di là del confine della competenza attribuitale dagli Stati membri, e ne ha dedotto una insufficiente motivazione sulla proporzionalità. Dubito molto che questo sia l’approccio corretto al principio di proporzionalità applicato al principio delle competenze di attribuzione. Quest’ultimo impone che l’Unione e le sue Istituzioni esercitino le competenze espressamente attribuite (salvo la clausola di flessibilità) dagli Stati membri e solo quelle. Se una Istituzione esercita una competenza che non gli è stata attribuita c’è una violazione del riparto di competenze tout court. Che le misure controverse della BCE producessero effetti di politica economica potrebbe configurarsi semmai come un’ipotesi di violazione del riparto di competenze, non della proporzionalità delle misure. Sarebbe come dire che il giudice che non rispetta i limiti della sua competenza funzionale o territoriale violasse il principio di proporzionalità. In altri termini, l’esorbitanza dei fisiologici limiti di attribuzione di competenze, normative o giurisdizionali, determina precisamente l’incompetenza. In ogni caso, non è questo il punto più dolente della sentenza.
3.La sentenza del BVerG del 5 maggio 2020 quanto incide sui giudizi delle Corti costituzionali e della Corte di giustizia?
La sentenza del 5 maggio è anche un passo falso in prospettiva. Infatti, è facile immaginarne le conseguenze se l’interpretazione definitiva e soprattutto la validità delle norme e degli atti dell’Unione fossero rimesse ai giudici nazionali, quale ne sia il rango: si realizzerebbe un caleidoscopio, una babele giurisprudenziale, in spregio all’obiettivo di uniformità centralizzata di interpretazione e applicazione delle norme sottoscritte nei Trattati dell’Unione, connotato insostituibile dello stesso sistema dell’Unione complessivamente considerato. Si ricorda appena che la nostra Corte costituzionale colse e superò, almeno sul piano pratico, criticità anche maggiore emersa con il caso Costa/ENEL, prima con la sentenza Fortini del 1973 e poi con la sentenza Granital del 1984. La tentazione di qualche giudice comune, ad esempio italiano, di profittare del dovere di disapplicazione o semplicemente del rinvio pregiudiziale per decidere della legittimità costituzionale e della incompatibilità comunitaria, e per questa seconda via ancora, indirettamente, della legittimità costituzionale, può essere forte e produrre rischi, ma non va sopravvalutata. In definitiva, ha riguardato una parte minima di giudici comuni, specie di merito, e in particolare, quanto alla sfera di applicazioni che da qualche parte si ritenne estesa alle posizioni puramente interne, ai primi vagiti della Carta europea dei diritti fondamentali elevata al rango dei Trattati. Basti pensare, in proposito, alle preoccupazioni che hanno indotto la nostra Corte costituzionale a inserire, non avendo colto al giusto le dimensioni trascurabili e temporanee del fenomeno, il noto e discusso obiter dictum posticcio nella sentenza 269/17[4], peraltro correttamente presto superato da alcune sentenze successive, poi oggi scimmiottato dal BVerG nella sentenza del 5 maggio scorso.
Non manca chi ha salutato con compiacimento questa sentenza come espressione della volontà della Germania di recuperare la parte di competenze normative delegata all’Unione europea ed alla deriva giurisprudenziale e della prassi che l’avrebbe sostanzialmente consolidata in maniera consistente. E addirittura si è scomodata la teoria dei controlimiti, che francamente non mi pare sia in questo caso da chiamare in causa. Come è noto, la teoria dei controlimiti ha lo scopo di sottrarre taluni principi nazionali (il c.d. nucleo duro dei principi supremi) alla prevalenza del diritto dell’Unione, così come succede per il diritto straniero la cui applicabilità sia impedita dall’ordine pubblico internazionale. In particolare, si tratta dei principi fondamentali dell’ordinamento e dei diritti inalienabili della persona. Tuttavia, chi conosce il meccanismo internazionalprivatistico, sa bene che non è consentito mettere in discussione l’interpretazione della norma resa nel suo ordinamento, basta impedirne l’ingresso e l’applicazione nell’ordinamento del foro: è il principio di conformità. È questa la logica rispettosa che si ritrova nella sentenza 238/14 della Corte costituzionale, rispetto al rapporto tra il diritto interno e il diritto internazionale come interpretato in quell’ordinamento dalla Corte Internazionale di Giustizia.
Quanto ai precedenti dei casi Taricco e Melloni, neppure ne vedo il collegamento con la sentenza del BVerG. La prima è diventata l’occasione per una difesa, francamente non proprio necessaria, di una specifica patologia del nostro sistema Giustizia, che non è certo la prescrizione in sé bensì la combinazione con l’imbarazzante, indifendibile ma non certo inguaribile durata dei processi, oggetto vero della censura della Corte di giustizia come da tempo di quella di Strasburgo. La Melloni aveva ad oggetto un preciso accordo a livello dell’Unione su un rigido e preciso standard di requisiti da tutti condivisi, per ciò stesso insuscettibili di modificazioni di maggiore o minore rigore per il riconoscimento di provvedimenti giudiziari. La sentenza del BVerG, per converso, richiama piuttosto una sua vecchia posizione che vorrebbe sindacare e all’occorrenza precludere l’applicazione in Germania di atti dell’Unione, comprese le sentenze della Corte di giustizia, che esso, con la sua interpretazione soggettiva, ritiene abbiano superato i poteri attribuiti con i Trattati dagli Stati membri (ultra vires). Come già sottolineato, violando il riparto di competenze quanto all’interpretazione e alla validità delle norme dell’Unione stabilito inderogabilmente dal TUE. Ricordo appena che il rinvio pregiudiziale di validità è obbligatorio finanche per il giudice non di ultimo grado quando ritenesse di sospendere d’urgenza un atto dell’Unione. Certo, nessuno è perfetto, ciò che vale per la Corte di giustizia UE, ma del pari perfino per il BVerG.
Quanto ai possibili effetti sulla giurisprudenza della Corte Costituzionale italiana e della Corte di giustizia, francamente non riesco a vederne di un qualche rilievo. La Corte di giustizia ha risposto abbondantemente sul tema in sessant’anni di giurisprudenza ed anche recentemente. Certo, occorrerebbero un po’ memoria e qualche conoscenza in più per coglierne al giusto il significato. La Corte costituzionale italiana ha avuto un momento di “amnesia” con la sentenza 269/17, come ricordato, che è presto stato superato dalle successive decisioni, in particolare dalla sentenza 63/19.
L’episodio tedesco, in definitiva, non va drammatizzato, costituendo un episodio infelice, come altri in passato, della normale dialettica del tanto apprezzato e necessario dialogo tra le Corti. Probabilmente, gli unici effetti della sentenza, a livello di UE, saranno quelli di indurre la BCE, la prossima volta, a spendere qualche parola in più sulle motivazioni alla base di future nuove misure di politica monetaria: e non sarebbe un male. La sentenza, d’altra parte, potrebbe sì rafforzare la posizione di taluni Paesi (penso soprattutto ai Paesi del Visegrad) e spingerli ad ignorare le sentenze della CGUE (alcuni segnali già sono stati lanciati), ma questo potrebbe anche inasprire la frusta, fino ad oggi un po’ blanda, della Commissione e della Corte sul rispetto della Rule of Law o della Comunità di diritto che dir si voglia: e anche questo non sarebbe un male.
In fatto, all’indomani della sentenza del 5 maggio, la Commissione ha formalmente dichiarato che prenderà in considerazione l’avvio di una procedura d’infrazione. Sebbene ritenga che questa sia una strada da non percorrere, perché credo sia opportuno spegnere i riflettori e far cadere nel dimenticatoio questa vicenda o comunque considerarla come un incidente di percorso del dialogo tra le Corti, in realtà ci sarebbe più di un motivo perché la Commissione possa dare avvio alla procedura, in quanto la sentenza: i) ha posto in discussione una competenza esclusiva della Corte di giustizia quanto alla validità degli atti UE e, come detto prima, i Trattati possono sì essere rivisti, ma nelle opportune sedi e non certo per mano di un giudice; ii) ha inciso sul ruolo della BCE e del SEBC che, ai sensi dell’art. 130 TFUE, nell’esercizio dei loro poteri e nell’assolvimento dei compiti e dei doveri attribuiti dai Trattati non possono sollecitare o accettare istruzioni né dalle istituzioni (organi e organismi), né dai governi degli Stati membri; iii) ha violato l’art. 267 TFUE, la sentenza pregiudiziale – com’è incontestato - essendo vincolante per il giudice nazionale, quale ne sia il rango.
4. Il dialogo fra le Corti come fattore di crescita o come elemento disgregante delle Costituzioni nazionali e dei Trattati?
Non esageriamo ! Occorre ben altro per il verificarsi di un effetto del genere, se il dialogo manterrà forme e sostanza come per oltre mezzo secolo. Certo, qualche ritocco potrebbe migliorare ancor più il ruolo e l’efficacia del rinvio pregiudiziale sotto il profilo della tutela effettiva dei diritti. Si tratta anche o soprattutto di un fatto culturale. Ad esempio, va ancora ridotta la diffidenza di alcuni giudici nazionali, va osservata per intero la sentenza della Corte di giustizia quando lascia a questi ultimi di verificare certi profili di sua competenza, va ripensato il limite improprio costituito dalla revocazione ex art. 111 della Costituzione “per i soli motivi inerenti alla giurisdizione”, fino a quando, in spregio a Simmenthal e seguenti, si escluderà dalla nozione di giurisdizione la Corte di giustizia (sentenza 6/18 della Corte Costituzionale). Per il resto, ripeto, ci vuole ben altro per rinunciare al dialogo e al rinvio pregiudiziale. Penso ai movimenti nati dopo la prima guerra mondiale in Germania e in Italia, non certo ad una decisione come quella del BVerG del 5 maggio scorso. Piuttosto, comincerei a pensare seriamente alla cooperazione rafforzata aut similia, “profittando” – perché no ? – anche dell’esperienza del coronavirus, quanto alle competenze effettive da attribuire finalmente all’Unione in materia di tutela della salute a dimensione ultranazionale e delle criticità provocate dalla separazione innaturale (c.d. “paradosso di Maastricht”) tra scelte di politica economica e scelte di politica monetaria. Né sarebbe superfluo riflettere su un percorso del processo decisionale più rapido per urgenze ed emergenze, pur rispettando i principi democratici e con essi le competenze del Parlamento europeo e del Consiglio. E tutto ciò a bocce quasi ferme.
Comunque la diversità di effetti rispetto a quelli auspicati dal giudice costituzionale tedesco si comincia già a vedere con chiarezza nelle esternazioni e nei comportamenti della BCE e della Corte di giustizia, del governo federale, della stessa Bundesbank e del chiacchiericcio sulla nomina dei prossimi giudici per Karlsruhe. Addirittura c’è stata una dichiarazione pubblica della Cancelliera sull’esigenza di consolidare e completare sul serio l’Unione Economica e Monetaria. Come sempre in passato, anche un calcio…può aiutare a fare un passo avanti.
[1] Per un commento più articolato alla sentenza, G. Tesauro, P. De Pasquale, La BCE e la Corte di giustizia sul banco degli accusati del Tribunale costituzionale tedesco, in Osservatorio europeo DUE (dirittounioneeuropea.eu), 11 maggio 2020. Il testo integrale, della sentenza è disponibile in lingua in inglese su bundesverfassungsgericht.de - ECB decisions on the Public Sector Purchase Programme exceed EU competences, (2 BvR 859/15, 2 BvR 980/16, 2 BvR 2006/15, 2 BvR 1651/15).
[2] G. L. Tosato, Per un rilancio dell’Europa - Le ragioni della flessibilità, in Studi sull’integrazione europea, n. 1, 2007, p. 7 ss.
[3] Corte giust., parere 28 marzo 1996, 2/94; parere 18 dicembre 2014, 2/13. In dottrina, A. Tizzano, L’adesione dell’Unione alla CEDU ed il ruolo della Corte di giustizia, in AA.VV., Il Trattato di Lisbona: due anni d’applicazione. Atti della Giornata di studio in ricordo di Francesco Caruso, Napoli, 2013, p. 59 ss.
[4] L. Salvato, Quattro interrogativi preliminari al dibattito aperto dalla sentenza n. 269 del 2017, in forumcostituzionale.it, 18 dicembre 2017.
Il dialogo Habermas-Günther riletto dalla cultura giuridica italiana, parte seconda. I giuspubblicisti.
Intervista di F. Francario a D. Sorace, F.G. Scoca e G.Montedoro
Giustizia insieme, dopo avere ospitato il confronto fra Habermas-Günther messo a disposizione dal settimanale tedesco Die Zeit, nella sua versione italiana -Jürgen Habermas e Klaus Günther Diritti fondamentali: “Nessun diritto fondamentale vale senza limiti”- ha deciso di promuove un dialogo a distanza fra i due pensatori tedeschi e la cultura giuridica italiana. Il ciclo di approfondimenti è stato inaugurato dal presidente emerito della Corte costituzionale Gaetano Silvestri -Il dialogo Habermas-Günther riletto dalla cultura giuridica italiana, parte prima - e prosegue con questa intervista di Fabio Francario ad altri tre autorevoli e illustri giuspubblicisti, Domenico Sorace, professore emerito di diritto amministrativo dell’università di Firenze, Franco Gaetano Scoca, professore emerito di diritto amministrativo dell’Università di Roma La Sapienza e Giancarlo Montedoro, Presidente di Sezione del Consiglio di Stato.
F. Francario (prima domanda): Il tema dell’intervista travalica il ristretto riferimento ad un dato ordinamento nazionale e investe in termini generali il problema della possibilità di limitazione dei diritti fondamentali e del loro eventuale bilanciamento.
Inizierei chiedendo di esprimere la propria opinione sulle posizioni espresse da Habermas e Gunther proprio con riferimento al fatto che la pandemia ha messo società civile e ordinamenti giuridici di fronte allo spietato interrogativo se la tutela della vita sia un diritto veramente assoluto e incondizionato o se lo sia tanto quanto possono esserlo anche altri diritti fondamentali dell’individuo e se possa pertanto porsi un problema di bilanciamento in primis tra diritto alla vita e alla dignità dell’uomo.
D. Sorace: Il titolo dell’intervista pubblicata su Die Zeit “Nessun diritto fondamentale vale senza limiti” può valere anche a riassumere quanto affermato dalla nostra Corte costituzionale nella sentenza n. 85 del 2013, nel giudicare della costituzionalità di una legge la cui ratio era indicata consistere in un “ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione”: il diritto alla salute (art. 32 Cost) e il diritto al lavoro (art. 4 Cost). In quell’occasione la Corte ha affermato che “tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri”, divenendo così “tiranno nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette”.
Mancano nella nostra Costituzione disposizioni come quelle che nella Legge Fondamentale tedesca riguardano, nel primo articolo, la dignità umana e, nel secondo, il diritto alla vita.
Tuttavia si ritiene pacificamente che il diritto alla vita sia il primo dei diritti dichiarati inviolabili dall’art. 2 (di cui è proiezione l’esclusione della pena di morte, art. 27). Obbiettivo finale di quella “tutela della salute” che, secondo l’art. 32 della Costituzione è “fondamentale diritto dell’individuo” (oltre che interesse della società) è considerato correntemente la salvaguardia della vita, la cui assolutezza è peraltro sempre più frequentemente riconosciuta alla condizione che possa essere qualificata appunto “dignitosa” (emblematica la vicenda che ha portato alla sentenza della Corte n. 142 del 2019).
D’altro canto, secondo la Corte costituzionale (nella sentenza n. 85/2013, già ricordata), tutte le “situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette ... costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona”, mentre nel testo costituzionale (rispettivamente negli articoli 3, c. 1 e 26, c. 1) si parla di “pari dignità sociale” e di “esistenza ... dignitosa”.
Riferendoci dunque al nostro ordinamento, la prima domanda da porre potrebbe essere: il diritto alla vita ha una posizione di preminenza rispetto alle libertà ed ai diritti sociali?
Si deve premettere che non è dubbio, giuridicamente, che ogni persona possa arbitrariamente decidere di rinunciare alla propria vita per una qualsiasi ragione, quindi anche perché ritiene insopportabile la carenza di libertà e/o di diritti sociali. Però in tal caso non si potrà dire che questi abbiano prevalso sulla vita della persona in questione, visto che il loro valore esiste in quanto esista la vita. Il loro valore potrà definirsi prevalente semmai nel caso di una persona che rinunci alla propria vita per favorire libertà e diritti altrui, ma in tal caso si dovrà parlare della loro prevalenza sulla vita non in termini individuali ma di comunità.
Però la questione che interessa qui è un’altra: riguarda lo Stato (intendendolo come insieme dei pubblici poteri), uno Stato retto in ipotesi da una Costituzione liberale e democratica, e la domanda è se gli si possa riconoscere il potere di togliere libertà ai cittadini al fine di salvare vite. Domanda che così posta è però troppo generica.
Innanzitutto: si tratta di togliere libertà e altri diritti ai cittadini per salvare le loro proprie vite o per salvare le vite di altri, o anche di altri?
Quanto alla prima ipotesi: se lo Stato non può imporre a una persona di vivere, a maggior ragione non può privarla delle libertà al fine di imporle di vivere.
L’ipotesi da considerare è dunque la seconda e la risposta può essere positiva se, senza limitazione di libertà e diritti di taluno, altri (o anche altri) perderà la vita: secondo la Costituzione “la Repubblica ... richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2) mentre la salute è tutelata anche come “interesse della collettività” (art. 32). Resta però fermo, ovviamente, che le conseguenti restrizioni delle libertà e dei diritti individuali potranno essere imposte soltanto con le modalità consone ad uno Stato liberale e democratico. Tuttavia, così formulata, l’ipotesi è astratta. Bisogna tener presenti invece ipotesi più realistiche: da un lato, considerando che le limitazioni delle libertà possono disporsi, da un minimo ad un massimo, in una gamma molto ampia; dall’altro lato, avendo presente che il rischio per la vita può, a sua volta, avere diversi gradi di probabilità e risolversi invece in affezioni più o meno gravi per la salute oltre che riguardare un numero più o meno grande di persone. Le limitazioni delle libertà in questione hanno comunque natura precauzionale e debbono essere appropriate e quindi rispettose del principio di proporzionalità, quindi idonee, non sostituibili, commisurate al fine.
Le misure restrittive motivate dalla pandemia Covid-19 hanno suscitato in molti un forte fastidio, però i giuristi sembrano aver ritenuto problematico il profilo della effettiva titolarità dei relativi poteri da parte delle numerose autorità che hanno decretato le restrizioni, piuttosto che quello dell’appropriatezza, secondo il canone della proporzionalità, delle pur fastidiose misure prese (ma v. nel numero del 24 marzo di questa Rivista, l’articolo di Giovanni Pitruzzella).
F.G Scoca: Mi sembra che sia universalmente condiviso (e condiviso anche da Habermas e Günther) che nessun diritto fondamentale possa essere riconosciuto in modo assoluto e incondizionato. Quanto al diritto alla vita, a differenza di ciò che risulta dall’ordinamento tedesco, non si trova, nel nostro ordinamento, una disposizione costituzionale che lo tuteli in modo esplicito; ciò non significa ovviamente che non sia adeguatamente riconosciuto e tutelato.
La Corte costituzionale considera la vita un bene fondamentale, “il primo dei diritti inviolabili dell’uomo riconosciuti dall’art. 2 della Costituzione (sent. n. 223 del 1996). A me sembra che il carattere fondamentale del bene della vita possa ricavarsi (anche) dall’art. 32, che qualifica la salute “fondamentale diritto dell’individuo”, oltre che “interesse della collettività”. Dal che si deduce che il bene tutelato non è (soltanto) la vita, bensì la vita sana; bene che comporta per lo Stato, non solo il rispetto della vita dei cittadini, anzi di qualsiasi persona (ad esempio con l’abolizione della pena di morte; che, peraltro, è ancora prevista dalle leggi militari di guerra), ma anche il dovere di garantire a tutti, nei limiti delle risorse disponibili, la cura contro le malattie e le disabilità. Diverso e problematico profilo è se vi sia anche un “dovere” di vivere, ovvero se possa configurarsi un diritto alla morte: su questo aspetto, che attiene al contenuto del diritto alla vita ma esula dal tema della intervista, rinvio alla sent. Corte cost. n. 242 del 2019.
Dagli artt. 2 e 3 Cost. si ricava ancora che l’ordinamento tutela la dignità dell’uomo, ossia il diritto fondamentale ad una vita “degna”; cosicché il bene tutelato costituzionalmente è, non solo la vita in sé stessa, ma la vita sana e dignitosa.
Considerando oggetto della tutela costituzionale la vita sana, può darsi il caso (e sembra che si sia dato nl momento di massima virulenza della pandemia) che la inadeguatezza dei mezzi di cura non consenta di provvedere a tutti coloro che avrebbero bisogno di essere curati. In tal caso il diritto fondamentale alla vita dell’uno si scontra frontalmente con il diritto fondamentale, avente lo stesso oggetto, dell’altro. Si verifica una situazione in cui non c’è spazio per alcun bilanciamento; il problema si può risolvere soltanto assicurando la tutela del diritto all’uno e negandola all’altro; come in tutti i casi di salvataggio con mezzi limitati.
Il bilanciamento è possibile – e, per ciò stesso, doveroso – tra diritti fondamentali diversi: se il diritto alla vita sana si scontra con altri diritti fondamentali, ad esempio con la libertà di circolazione, di riunione, religiosa e così via, nel senso che, per tutelare il primo, diventa necessario (per concorde opinione scientifica) limitare il godimento degli altri, diventa indispensabile raggiungere soluzioni che contemperino i bisogni in contrasto tra loro, assicurando il massimo della tutela possibile per ciascuno di essi. La Corte costituzionale riconosce pacificamente che la “Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluralistiche contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra principi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi, nel rispetto dei canoni di proporzionalità e di ragionevolezza” (sent. nn. 85/2013; 20/2017).
L’assenza di assolutezza dei diritti fondamentali discende, in primo luogo e – direi – intrinsecamente, dalla inadeguatezza delle risorse disponibili ed effettivamente impiegate per la sua tutela; inoltre discende dal fatto che nessuno di essi possa essere “tiranno” (termine usato nelle sentenze citate) nei confronti degli altri.
Ci si può chiedere se l’assenza di assolutezza comporti anche la inesistenza di una scala di valori tra i diritti fondamentali. Certamente una scala di valori non si rinviene nella Costituzione né nella giurisprudenza costituzionale; tuttavia il bene della vita potrebbe (e forse può) considerarsi prevalente sugli altri beni protetti, se si attribuisse (come è possibile) un significato effettivo alla affermazione della Corte costituzionale che lo considera “il primo dei diritti inviolabili”. Se così fosse, il bilanciamento con gli altri diritti fondamentali dovrebbe consentire la tutela prioritaria del diritto alla vita. Ma anche alla vita sana e dignitosa? Propenderei per una risposta affermativa; e su questa linea mi sembra che si sia posto Habermas.
G. Montedoro: La pandemia ci pone di fronte a questioni ultime, come tali indecidibili una volta per tutte ed in modo categorico e soprattutto questioni da non affidare, se non in modo assolutamente temporaneo, allo Stato ed ai suoi doveri di protezione, a pena di scivolare in una deriva da Stato etico.
Leggo poi alcuni lati inquietanti tuttavia nel ragionamento sia di Habermas che di Gunter.
Le posizioni dell’uno e dell’altro evidenziano alcuni aspetti del problema e sono per più parti condivisibili.
Tuttavia mi preme segnare alcune perplessità relative alla loro impostazione del tema.
Leggo Habermas: “Oggi è la vita autodeterminata e autoresponsabile ad essere quella “degna”. Possono darsi situazioni che fanno venire meno tale dignità, condizioni come quelle di una malattia incurabile, di soverchiante miseria o di umiliante privazione di libertà, nelle quali una persona preferisce la morte piuttosto che dover condurre una tale vita. Ma, a prescindere da situazioni tragicamente senza uscita, una tale decisione può essere presa soltanto in prima persona, e cioè dallo stesso interessato. Nessun altro, e certamente nessun potere dello stato vincolato ai diritti fondamentali può sottrarre ai cittadini una tale decisione.”
Condivido la tesi di fondo, ossia il fatto che lo Stato deve stare alla larga il più possibile da tali questioni, salvo il dovere di proteggere i corpi ( su cui fra un attimo ), ma non mi persuade del tutto il fatto di ritenere che la dignità sia essenzialmente nella autodeterminazione, poiché a rigore questo porterebbe a ritenere che non vi sia dignità in certe estreme forme di disabilità con ogni possibile conseguenza ( non certo accettabile per Habermas ne sono convinto ma filosoficamente derivante dall’identificazione – di stampo kantiano – fra dignità ed autonomia ).
Affermare infatti che dignità sia autonomia pone il tema delle situazioni estreme delle vite non autonome, se ci si trovi di fronte a vite non degne di essere vissute in quanto non autonome, indi, in astratto, sopprimibili anche per interventi esterni, indeterminati ed “a mon avis” ripugnanti perché attuabili in chiave di darwinismo sociale.
Il caso Englaro - comunque divisivo in Italia - è diverso, sul piano di principio, l’interruzione delle cure era possibile proprio perché riportata – in modo ritenuto controvertibile ma poi accertato dal giudice all’esito di una complessa vicenda di giurisdizione volontaria – ad una volontà supposta della stessa persona incosciente e viva per ventilazione assistita e non ad una volontà di un’autorità pubblica.
Uno potenziale ruolo improprio dell’autorità pubblica si rivela un risvolto implicito e nascosto nel pensiero habermasiano come in certe concezioni del diritto alla salute che ne sottolineano troppo gli aspetti collettivistici.
Meglio ritenere piuttosto – anche in una prospettiva laica - che la vita umana anche semplicemente biologica è sempre degna o assistita da una qualficazione di dignità e che sia pericoloso dall’esterno non ritenerla, tale identificando la persona solo e soltanto con la sua autonomia ( così fa un autorevole indirizzo della filosofia tedesca e penso al professor Quante da me ascoltato in una sua interessante conferenza modenese visionabile in rete ), aprendo il campo a esiti indeterminati sul confine fra esseri umani che sono pienamente persone ed esseri umani che non lo sono più.
Ancora oltre va il ragionamento di Gunter.
Ne riporto le parole: “Nell’ambito del diritto alla vita sorge, così ( intende: con l’affinamento delle capacità di cura della medicina ) l’obbligo dello stato di tutelare vita e salute, e ciò non soltanto, come già in precedenza, nei confronti di aggressioni antigiuridiche di terzi, ma anche tramite la predisposizione di un’adeguata assistenza medica. Ciò è però sottoposto alla riserva del possibile; nessuna società può allocare tutte le sue risorse nel sistema sanitario. A seconda però di quanto una società abbia ben costruito e mantenuto efficiente il suo sistema sanitario, varia il confine tra conseguenze mortali inevitabili ed evitabili dei “rischi generali per la vita”. Qui mi sembra consista l’essenza del conflitto di bilanciamento: vi è diversità di vedute su dove tracciare il confine tra decorsi patologici mortali evitabili e inevitabili a fronte dell’elevato dispendio in rinunce alla libertà dalle conseguenze imprevedibili – tra minimo e massimo.”
Qui è esplicitamente detto che si tratta di una questione da valutarsi solo sul piano costi-benefici.
Riterrei questa prospettiva ancora una volta e più ancora della precedente una china scivolosa, apertamente improntata ad una logica tecno-efficientistica del tipo di Sloterdejik (la vita è perfomativa e timocratica; è rischiosa con quel che ne consegue; gli apparati che governano gli umani sono apparati tecnici di efficientamento).
La prospettiva va criticata a fondo.
Le decisioni sulla vita sono sempre quelle per le quali l’unico decisore dovrebbe essere la persona umana non certo lo Stato in modo paternalistico dando rilievo ora alla vita intesa come oggetto di una tutela a tutta oltranza (a prezzo di tutti gli altri diritti fondamentali e animalizzando la vita umana astrattamente riducibile nel confinamento a tempo indeterminato a quella del memorabile scarafaggio kafkiano) ora alla dignità umana (costringendo gli uomini a morire in branco o in gregge, per salvaguardare in nome della collettività e di un dovere di avere coraggio, una normalità non sostenibile in alcune circostanze, richiedendo un coraggio che al limite conduce ad una società militarizzata ed obbediente votata mannianamente o heideggerianamente alla morte, penso al Thomas Mann del Doctor Faustus ed all’essere per la morte di Heidegger).
Lo Stato, piuttosto, intervenendo a protezione dei corpi ed imponendo limitazioni severe del tipo delle ben note quarantene, deve sempre cercare di conciliare vita e dignità della vita, promuovendo più che sanzionando e riducendo al minimo il sacrificio delle libertà.
Ciò è il frutto della piana lettura della nostra Carta fondamentale.
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F. Francario (seconda domanda): Calando la riflessione nel nostro ordinamento nazionale e vista l’esperienza concretamente vissuta, muoverei dalla considerazione che compito primario dello Stato nazionale è non solo quello di selezionare gli interessi ritenuti meritevoli di tutela nel proprio ordinamento giuridico e di stabilire modi e limiti della loro protezione, ma anche quello di provvedere alla cura concreta dell’interesse pubblico. Proprio nel caso della salute, la nostra Costituzione si preoccupa di affermare che la Repubblica tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività.
Quando bisogna provvedere alla cura concreta dell’interesse della collettività il problema del bilanciamento si pone inevitabilmente per diverse ragioni e sotto diversi profili.
In primo luogo perché, per garantire il diritto alla vita messo in pericolo da un evento pandemico, occorre innanzi tutto elaborare delle strategie di contrasto e questo significa che bisogna effettuare delle scelte sulle misure più idonee a contrastare il pericolo. Sotto questo profilo, viene immediatamente in discussione il rapporto tra decisione politico – amministrativa e conoscenze scientifiche. Queste ultime sono vincolanti per il decisore pubblico? E se le indicazioni offerte dalla comunità scientifica non sono univoche, cosa deve orientare il decisore pubblico?
D. Sorace: Anche a proposito del rapporto fra scienza (intesa come insieme di conoscenze acquisite applicando il metodo scientifico) e decisione politica esiste una condivisibile giurisprudenza costante della nostra Corte costituzionale che ha ripetutamente giudicato incostituzionali norme impugnate risultate in contrasto con acquisizioni scientifiche (v. tra tante la sent. n. 274/2014) e invece respinto obiezioni di incostituzionalità di norme coerenti con il contesto scientifico e tecnologico (v. fra tante la sent. n. 420/1994).
Esiste un acquis della ricerca scientifica che si può chiamare “scienza certa” o “verità scientifica - cioè condivisa universalmente dalla comunità scientifica (così che chi non la condivide viene considerato estraneo a questa), anche se, eventualmente, non ancora confermata sperimentalmente (è stato detto che “la capacità di comprendere prima di vedere è il cuore del pensiero scientifico”): a tali risultati della ricerca scientifica si può fare riferimento come a “dati fatto”. Vi è però anche una “scienza incerta” o nel senso che nella comunità scientifica esistono opinioni diverse o perché sono in via di formulazione nuove ipotesi da verificare che possono portare a revisioni o correzioni dei risultati fino ad un certo momento conseguiti.
Va aggiunto che il profano non può conoscere la scienza che attraverso gli scienziati, individuabili come tali attraverso criteri più o meno formali, che indicano il loro status di appartenenti alla comunità scientifica, e che non sempre gli scienziati quando esprimono un’opinione precisano se stanno riferendo di un risultato scientifico certo o invece incerto o in evoluzione o addirittura se stanno esponendo una opinione che non pretende di essere riconosciuta come scientifica. Questo spiega il fenomeno da molti lamentato di scienziati che esprimono opinioni diverse (facendo aumentare i dubbi di una parte del pubblico sulla attendibilità della scienza).
Il decisore politico deve dunque, in primo luogo, aver chiaro se l’opinione espressa dallo scienziato (o dall’organismo scientifico) chiamato a fornirgli un parere sia l’esposizione di una “verità scientifica” consolidata (anche se solo parziale), o se esponga invece un risultato non del tutto certo perché non ancora definitivamente accettato dalla comunità scientifica o perché se ne prospetta il superamento. Nel primo caso non potrà prendere decisioni contraddittorie con l’opinione che è stata espressa mentre nell’altro caso non potrà ignorarla ma, dando atto dei motivi della incertezza, potrà anche discostarsi dal parere facendo riferimento all’opinione di altri scienziati.
Nell’esperienza ancora in corso, non sembrano esserci state incertezze sulle terapie da adottare per curare chi fosse affetto da Covid-19, mentre è sulla necessità di certe restrizioni alle libertà e ai diritti dei cittadini decise in riferimento al rischio del contagio che sono stati espressi dei dubbi.
In proposito, è da aggiungere, che una volta acquisite con la maggior certezza possibile le conoscenze scientifiche vincolanti sui meccanismi del contagio, la decisione circa la misura del rischio accettabile, in relazione al quale dovranno essere conformi alla proporzionalità in senso stretto le eventuali misure restrittive, non è di competenza degli scienziati ma spetta al decisore politico.
F.G. Scoca: Quando, come nel caso della pandemia, la strategia di contrasto può essere elaborata soltanto sulla base delle cognizioni scientifiche disponibili sul modo in cui il virus si trasmette, è logicamente necessario che le scelte operative, il concreto modus operandi, sia deciso sulla base delle indicazioni degli esperti. Se gli esperti forniscono indicazioni non coincidenti, o addirittura contraddittorie, il loro esame e l’individuazione della linea da seguire va affidata agli organi tecnici dell’amministrazione pubblica, scelti secondo le caratteristiche della situazione concreta. Ad esempio, nella pandemia che si manifesta in modo differente negli ambiti regionali, dovrebbero, a mio avviso, coordinarsi gli organi tecnici sanitari statali e regionali.
La decisione finale sul bilanciamento, in modo adeguato e proporzionato, dei diversi diritti fondamentali coinvolti, comportando anche valutazioni non tecniche, resta tuttavia affidata agli organi politici, con precisione agli organi legislativi, dato che le limitazioni di ordine generale al godimento di diritti fondamentali sono materia soggetta a riserva di legge.
G. Montedoro: La questione posta ci fa tornare da un piano filosofico ad un sano pragmatismo che però non ci deve fare dimenticare mai l’esigenza di chiarezza concettuale.
La salute e l’integrità fisica sono beni tutelabili, definibili e relativi, come i corpi. La salute peraltro ha un suo nucleo duro, indegradabile sul piano del dover essere ( si pensi al caso Ilva nel quale è sempre più chiaro che le compressioni ammissibili vanno valutate sul piano della temporaneità e proporzionalità ).
La vita invece, la sua definizione, pone un coacervo di questioni etiche e filosofiche ( lo spirito, l’anima, lo slancio vitale ) da cui il nostro legislatore, anche costituzionale, si è voluto tenere lontano, anche nella consapevolezza di quanto possano essere divisive specie in un paese già diviso come il nostro.
Non a caso le questioni del fine vita che da tempo cercano una risposta nell’ordinamento giuridico italiano, restio a consegnare alla persona una piena autodeterminazione nel senso della propria dignità, nonostante il significato più profondo della Carta risieda nella centralità della persona, vera arbitra direi fra vita e dignità.
Nell’ordinamento italiano la vita pur non espressamente nominata, è oggetto, va detto, di una considerazione culturale e sociale, per ragioni storiche, molto più alta di quanto non sia in Germania ( dove la dignità intesa come autodeterminazione è ben al centro dell’esperienza giuridica come ovvia reazione all’esperienza nazista e spesso con una coloritura kantiana o solidaristico- collettivista e meno individualistico-personalistica o vitalistica ).
La dignità umana (lo ricordava sempre Stefano Rodotà) è il valore riassuntivo di ogni esigenza di tutela della persona, ma la persona è pienamente tale se è capace di scegliere – in ogni momento - fra vita e morte (ad esempio se arrendersi o combattere un dittatore, se abiuriare il proprio credo o affrontare il martirio).
E la vita, ogni vita, è degna in quanto tale per l’ordinamento anche se la persona che la vive può ritenerla non più dignitosa e quindi non più degna di essere vissuta.
Non è certo, in linea teorica, un’autorità pubblica che può fare questa scelta.
L’autorità pubblica, piuttosto, deve sempre tuttavia incoraggiare e promuovere la protezione della vita. Questo sul piano filosofico politico deriva dall’obbligo costitutivo dello Stato che è la protezione dei corpi umani.
Nel fare questo ogni autorità pubblica deve rispettare il principio personalistico e la dignità umana anche quando ha l’obbligo di limitare le nostre libertà per proteggere la comunità da eventi pandemici.
Sull’autorità pubblica grava un dovere di protezione dei corpi (da quando, nell’età moderna, lo Stato pastore del corpo – secondo Foucault – si è sostituito alla Chiesa istituzione pastorale delle anime).
Questo dovere – di protezione dei corpi - assume aspetti invadenti le nostre libertà, in alcuni momenti, ben noti alla cultura amministrativistica.
Penso ai momenti di emergenza come le catastrofi naturali o le pandemie. Requisizioni e quarantene.
Penso all’organizzazione della difesa bellica da un nemico esterno. La leva obbligatoria.
Le emergenze richiedono mobilitazioni collettive e limitano le nostre libertà.
Le limitazioni – quando necessarie - tuttavia devono avvenire sempre nel rispetto della dignità umana ( anche il diritto bellico ha questo scopo ).
Il dibattito Habermas Gunter si è fatto meritevolmente carico di questo anche se, come prima dicevo, mi sembra, per certi aspetti, molto interno alla cultura tedesca e ad un certo modo di intendere lo Stato del benessere ( un modo calcolante i confini fra persone – aventi dignità - e persone non autonome – esseri umani a dignità ridotta - e penso, come prima notavo, agli esiti di certo kantismo ed alle riflessioni del filosofo Michael Quante ) protettivo ma in modo integrale solidaristico paternalistico e teso ad economizzare i costi sociali di tutte le scelte.
Noi siamo più individualisti, per fortuna e, nel contempo, più realisti nell’accettare, a certe condizioni un intervento pubblico, ma senza caricarlo di significati ultimi ancorandolo alle emergenze.
Intanto mi sembra già fuorviante mettere la questione in termini di ( difficile o impossibile ) bilanciamento fra valori, beni diritti od interessi senza accennare prima a quello schmittiano ( e romaniano ) stato di eccezione che è il fatto generativo di ordinamenti giuridici temporanei che si erigono quando la natura ( o la storia ) minaccia l’uomo.
Naturalmente ciò non significa che la logica del bilanciamento – e ciò in comune con gli amici tedeschi - non ci dia concrete indicazioni su come esercitare i doveri di protezione, ossia sul modo di valutare la proporzionalità degli interventi.
Ma la vera giustificazione di ciò che si fa non è il bilanciamento, ma la protezione della vita come scelta sempre doverosa (salva la decisione che può essere solo dell’individuo di far prevalere la dignità su di essa ad es. rifiutando le cure ). [1]
Il bilanciamento è una formula che significa solo “abbia il decisore equilibrio”, eviti di assolutizzare un valore su tutti gli altri, fosse anche la vita. Senza dire che proteggerci dalla pandemia ( dal virus Covid ) ci espone ad altri rischi sanitari, essendo il sistema sanitario temporaneamente concentrato su un solo obiettivo ( evitare il sovraccarico dei reparti anestesia e rianimazione ).
L’equilibrio e la mancanza di assolutizzazione ed ipostatizzazione dei valori è opportuno sempre perché la vita è rischio di morte. E la morte si rischia in tanti modi, non solo per un virus.
Ma la vera ragione delle limitazioni alle libertà nella pandemia è l’esistenza di un dovere di protezione della salute come interesse della collettività e del modo in cui questo dovere debba attuarsi di fronte ad un evento devastante ed ignoto.
La salvezza dei corpi degli amministrati potrà essere una priorità, ma solo temporanea ossia fino a quando il virus non regredirà fino a scomparire o la pandemia non si attenuerà come – a quanto sembra - sta già accadendo.
Ma non ci sono solo aspetti giuridici del tema.
Ci sono conseguenze antropologiche forse di lungo periodo (le epidemie agiscono nel profondo, su abitudini consolidate come l’alimentazione, l’affettività, il sesso).
Alcune aporie etiche – significative sul piano antropologico - sono state rivelate da Agamben (che pur errando nel ritenere l’epidemia un’invenzione entrando in un campo non suo e prendendo per buone alcune minoritarie opinioni espresse inizialmente da una parte degli scienziati esprime avvisi ai naviganti degni di considerazione).
Agamben si è espresso così : “la paura è una cattiva consigliera, ma fa apparire molte cose che si fingeva di non vedere. La prima cosa che l’ondata di panico che ha paralizzato il paese mostra con evidenza è che la nostra società non crede più in nulla se non nella nuda vita. È evidente che gli italiani sono disposti a sacrificare praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religiose e politiche al pericolo di ammalarsi. La nuda vita – e la paura di perderla – non è qualcosa che unisce gli uomini, ma li acceca e separa. Gli altri esseri umani, come nella pestilenza descritta da Manzoni, sono ora visti soltanto come possibili untori che occorre a ogni costo evitare e da cui bisogna tenersi alla distanza almeno di un metro. I morti – i nostri morti – non hanno diritto a un funerale e non è chiaro che cosa avvenga dei cadaveri delle persone che ci sono care. Il nostro prossimo è stato cancellato ed è curioso che le chiese tacciano in proposito. Che cosa diventano i rapporti umani in un paese che si abitua a vivere in questo modo non si sa per quanto tempo? E che cosa è una società che non ha altro valore che la sopravvivenza?”
Si tratta del paradigma dell’immunizzazione – su cui ha riflettuto Roberto Esposito ( immunitas come opposizione a communitas ) – che diventa un problema quando si diffonde nel corpo sociale perché lo paralizza e lo svuota.
Canetti – in Massa e potere – riteneva che la società si avesse con i movimenti di massa come neutralizzazione dell’atavica umana paura di essere toccati, la pandemia distanzia la massa, quindi ci lascia soli.
Anche la diseguaglianza può cambiare segno, può, nell’emergere di nuove gravi povertà, divenire quello che Papa Francesco ( e Bauman ), chiama lo scarto.
Lo scarto non è solo il diseguale per comparazione con il più abbiente, è il socialmente distanziato.
Potenzialmente chiunque venga categorizzato in uno status escludente.
La lotta alla pandemia si conduce meglio con queste consapevolezze.
Agamben ha continuato : “Una società che vive in un perenne stato di emergenza non può essere una società libera. Noi di fatto viviamo in una società che ha sacrificato la libertà alle cosiddette “ragioni di sicurezza” e si è condannata per questo a vivere in un perenne stato di paura e di insicurezza.
Non stupisce che per il virus si parli di guerra. I provvedimenti di emergenza ci obbligano di fatto a vivere in condizioni di coprifuoco. Ma una guerra con un nemico invisibile che può annidarsi in ciascun altro uomo è la più assurda delle guerre. È, in verità, una guerra civile. Il nemico non è fuori, è dentro di noi.
Quello che preoccupa è non tanto o non solo il presente, ma il dopo. Così come le guerre hanno lasciato in eredità alla pace una serie di tecnologie nefaste, dai fili spinati alle centrali nucleari, così è molto probabile che si cercherà di continuare anche dopo l’emergenza sanitaria gli esperimenti che i governi non erano riusciti prima a realizzare: che si chiudano le università e le scuole e si facciano lezioni solo on line, che si smetta una buona volta di riunirsi e di parlare per ragioni politiche o culturali e ci si scambino soltanto messaggi digitali, che ovunque è possibile le macchine sostituiscano ogni contatto – ogni contagio – fra gli esseri umani.”
Ha dipinto un futuro totalitario o autoritario, orwelliano ed antiumano.
Poiché in Italia ogni questione grave non è seria abbiamo ora risorgenti ( ed irresponsabili ) movide più che un Big Brother all’opera, resta però un avviso da umanista che, depurato da ogni tono apocalittico, possiamo accettare perché la movida è all’opera mentre le università e le scuole faticano a riaprire.
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F. Francario (terza domanda): Nella domanda precedente ho volutamente impiegato il termine di scelte politico amministrative per consentire un inquadramento generale del problema della scelta che il decisore pubblico è comunque tenuto ad effettuare. Sarebbe possibile precisare se si stratta di scelte propriamente politiche o amministrative, e con quali conseguenze?
D. Sorace : Sembra evidente che molte decisioni anche se non sono stati prese con atti aventi forza di legge abbiano una sostanza sociologicamente politica. Una analisi sotto il profilo giuridico non risulta ancora svolta, dato anche il grande numero e la varietà degli atti che dovrebbero esaminati.
Comunque sembra di poter dire che, al di là del grado più o meno ampio di libertà nel fine riconoscibile nel contenuto di certi atti, nessuno di essi pare svincolato dalla necessità di corrispondere ad un parametro che consente la loro sottoposizione al sindacato di legittimità, ad iniziare da quella deliberazione da parte del Consiglio dei Ministri dello stato d’emergenza nazionale, indicata da Massimo Luciani in questa Rivista come il vertice della “catena normativa”, alla quale numerosissimi anelli sono stati agganciati ed altri ancora si stanno agganciando. Se sotto un certo profilo, il contenuto di tale decisione non può non considerarsi di natura politica, non per questo essa potrebbe essere sottratta al sindacato giurisdizionale, almeno per la verifica dell’esistenza degli eventi, con i requisiti previsti dalla legge, e della previa loro valutazione da parte di un certo organo statale che ne costituiscono il presupposto.
Si può aggiungere che è stata oggetto di polemica la mancata adozione in forma di atto con forza di legge che per molti atti, data la materia trattata, si riteneva fosse necessaria. Al di là della fondatezza o meno di tale assunto, vien da osservare che la forma dell’atto amministrativo, in senso residuale, presenta il vantaggio per chi si ritenga leso di ottenere la tutela di un giudice ordinario in tempi più rapidi di quelli necessari per ottenere una pronuncia del giudice delle leggi.
F.G. Scoca: Va premesso che l’insorgere e lo svilupparsi della pandemia, a causa di un virus non conosciuto, comporta l’esigenza di interventi tempestivi e adattabili allo sviluppo della malattia ed eventualmente all’incremento delle conoscenze scientifiche.
Le scelte strategiche di contrasto alla pandemia, ossia la determinazione delle linee generali di intervento, pur dovendo tener pienamente conto del parere degli esperti, sono, a mio avviso, scelte prettamente politiche; le quali, tuttavia, non possono che attuarsi attraverso una serie di atti amministrativi (ordini, divieti, ecc.). In questa prospettiva, le scelte strategiche appartengono al legislatore; il quale le può anche delegare, secondo i principi generali, ad organi idonei a decidere con maggiore tempestività.
L’attuazione in concreto delle linee fissate dal legislatore dovrebbe essere affidata all’apparato amministrativo secondo le ordinarie competenze, sempre che allo schema ordinario delle competenze si possa fare utile riferimento. In ogni caso, data la rilevanza del fenomeno da contrastare, data la struttura regionale del nostro ordinamento, e date infine le regole di riparto delle funzioni legislativa ed amministrativa tra i diversi livelli di governo, sarebbe (stato) opportuno stabilire con disposizioni generali gli interventi affidati a ciascuno di tali livelli.
La conseguenza più rilevante della distinzione tra scelte strategiche e atti di intervento concreto è che, per le scelte strategiche, è assai difficile ipotizzare responsabilità giuridiche, sia penali sia amministrative, anche, ma non solo, perché si tratta di scelte operate con atti di livello legislativo; mentre per gli atti di concreta attuazione le responsabilità sono teoricamente predicabili.
G.Montedoro : Qui si incontra una distinzione formale.
Politica è la scelta fatta con legge o atto avente forza di legge, amministrativa è la scelta fatta con D.P.C.M.
Stiamo assistendo ad un’ampia – a mio avviso inevitabile nella prima fase - amministrativizzazione del sistema delle fonti.
La conseguenza è la riduzione degli spazi di controllo della Corte Costituzionale e l’ampliamento del ruolo del giudice amministrativo, ma qui mi fermo per doveroso riserbo.
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F. Francario (quarta domanda) Il problema del bilanciamento si pone comunque non solo al momento della pianificazione normativa delle linee generali d’intervento, ma anche al momento della concreta erogazione del servizio amministrativo. L’esperienza Covid 19 ha mostrato in maniera drammatica come la scarsità o comunque l’insufficienza delle risorse disponibili imponga di effettuare scelte su quali diritti alla vita possano essere salvaguardati, su chi possa essere salvato e su chi no. E’ immaginabile una graduazione del diritto alla vita a seconda di chi ne sia titolare? Ovvero: debbono essere comunque seguiti determinati criteri o principi quando si arriva al drammatico momento in cui non è possibile tutelare il diritto alla vita di tutti?
D. Sorace: Durante il periodo di più ampio sviluppo e di maggiore gravità della pandemia Covid.19 si sono verificate situazioni di insufficienza di risorse sanitarie che hanno imposto delle “scelte tragiche”. In quel periodo sono stati elaborati due documenti che hanno affrontato il problema, uno da un organismo professionale (la SIAARTI, Società Italiana di anestesia analgesica rianimazione e terapia), l’altro da un organo consultivo della Presidenza del Consiglio dei Ministri (il Comitato nazionale di bioetica).
Nel primo documento, SIIARTI raccomanda di utilizzare come criterio di razionamento di risorse scarse quello della “maggiore probabilità di successo terapeutico” ovvero della “maggior speranza di vita” - accettando che possa rendersi necessario porre un limite di età all’accesso ai trattamenti di terapia intensiva, - e richiama alla necessità che la decisione di porre una limitazione alle cure sia comunque motivata, comunicata e documentata. SIIARTI ritiene che l’applicazione solo di criteri di giustizia distributiva per stabilire quali cure possano ritenersi appropriate sia giustificato nella straordinarietà della situazione che vede uno squilibrio estremo fra richiesta e diponibilità. Lo scopo dichiarato delle sue raccomandazioni è rendere espliciti i criteri di erogazione oltre che sollevare i clinici da una parte della responsabilità in scelte emotivamente gravose nei singoli casi.
Nell’altro documento, il CNB ritiene che nell’allocazione di risorse scarse (che “necessita della massima trasparenza nei confronti dell’opinione pubblica” “si debbano rispettare i principi di giustizia, equità e solidarietà” e “riconosce il criterio clinico come il più adeguato punto di riferimento” poiché “ritiene ogni altro criterio di selezione, quale ad esempio l’età, il sesso, la condizione e il ruolo sociale, l’appartenenza etnica, la disabilità, la responsabilità rispetto a comportamenti che hanno indotto la patologia, i costi, eticamente inaccettabile”. In definitiva il Comitato ritiene che “la priorità andrebbe stabilita valutando, sulla base degli indicatori menzionati, i pazienti per cui ragionevolmente il trattamento può risultare maggiormente efficace, nel senso di garantire la maggiore possibilità di sopravvivenza”.
Sembra che nella sostanza vi sia una convergenza nelle conclusioni dei due documenti.
Invero la situazione determinata dalla pandemia Covid-19 corrisponde ad un caso di scuola in cui tanto con criteri da law and economics che con i criteri etici propri di una certa società non si riesce a stabilire una regola che riesca soddisfacente da ogni prospettiva. Philip Bobbit, coautore insieme a Guido Calabresi, di quel libro “seminale” che è stato Tragic Choices, ha ricordato in questa rivista che in casi del genere “non esiste un "punto di equilibrio" che bilanciando i diversi valori in competizione riesca a massimizzarli tutti contemporaneamente”. Giudizio del tutto condivisibile, che può portare a qualche ulteriore considerazione.
Quanto al merito dei criteri, anche quello cronologico (ci si occupa per primo del primo arrivato) e quello casuale (si sceglie come capita), hanno una loro logica, che però si fonda sul presupposto che non possa esistere un criterio neppure approssimativamente razionale per affrontare il problema.
Sembra dunque preferibile il criterio indicato dai due documenti, sempre però che lo si intenda appunto come una raccomandazione, una guide line e non un precetto inderogabile (per esempio, ci si è domandati se a quel criterio ci si debba attenere anche nel caso che uno dei soggetti fra cui scegliere per riservargli l’unica prestazione disponibile sia uno scienziato il cui, anche breve, prolungamento della vita consentirebbe la scoperta di un vaccino o di un farmaco capace di evitare la morte di un gran numero di malati).
Sia la fissazione di criteri generali, sia le deroghe ad essi, presuppongono dati scientifici attendibili, forniti da scienziati, ma la decisione di adottare dei criteri o eventualmente di derogarvi non è in sé di natura scientifica e dunque non dovrebbe spettare ai medici. Anche se per l’urgenza potrebbe in qualche caso finire per ricadere su di loro, occorrerà tener conto di ciò.
G.D. Scoca
Ove la inadeguatezza dei mezzi di cura non consenta di tutelare tutti coloro che ne hanno necessità, la preferenza tra le persone da curare non può farsi sulla base delle loro caratteristiche fisiche (età, sesso, condizioni generali di salute) o di altri criteri oggettivi (nazionalità, cittadinanza, responsabilità familiari, livelli lavorativi, ordine temporale delle richieste, ecc.): il diritto alla vita è, in tesi, identico per tutti; non soffre graduazioni. I poteri pubblici devono, in primo luogo, cercare di incrementare tempestivamente i mezzi di cura: lasciare il diritto alla vita senza tutela deve essere una ipotesi del tutto eccezionale.
Ove tuttavia si verifichi una tale situazione drammatica, la sua soluzione non può che essere rimessa al singolo operatore sanitario; il quale dovrebbe, in base alla sua specifica esperienza, regolarsi secondo un criterio eminentemente clinico, l’unico, a mio avviso, moralmente ineccepibile (e neutro sotto il profilo della responsabilità del medico), stabilendo quale tra i malati da curare abbia migliori chances di scampare alla morte. Reputo assai difficile, e forse perfino immorale, che la regola preferenziale sia stabilita, a monte, in via generale da autorità politiche in base a criteri diversi da quello clinico.
G. Montedoro
Penso che sia un tema sul quale non si debba intervenire con norme giuridiche.
Il diritto penale e sanzionatorio si ferma di fronte all’inesigibilità della condotta.
In presenza di una scelta tragica occorre lasciare ai medici ed ai comitati bioetici dei margini di apprezzamento ed i giudici dovrebbero essere capaci di epoché.
Intendo dire che la scelta tragica va evitata, il lockdown a questo è servito, ma ove inevitabile non può seguire il criterio formale dell’anzianità del malato o della sua fragilità o della sua non autonomia o della vita di scarto.
Sono scelte che devono maturare per quanto possibile nel quadro di alleanze terapeutiche fra i medici e le famiglie.
Richiedono un’educazione collettiva al senso del limite della scienza e dell’uomo.
Il diritto – inteso come voglia di normare - si fermi di fronte a condotte inesigibili. E gli organi dell’accusa evitino di proporre razionalizzazioni a posteriori che inducono magari solo paura di operare e medicina difensiva ove vi erano impossibilità organizzative oggettive e scelte da lasciare alla sensibilità ed all’autonomia professionale dei medici, dei comitati bioetici delle persone e delle famiglie coinvolte.
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F. Fracario (quinta domanda): Le possibilità di scelta insite nella pianificazione degli interventi e nella concreta erogazione del servizio sanitario impongono anche la considerazione delle differenze esistenti tra i diversi sistemi regionali. Sono ipotizzabili o ammissibili soluzioni differenziate da regione a regione, in ragione delle risorse concretamente disponibili o della specificità del contesto territoriale propri di ciascuna di esse?
D. Sorace: Esistono al momento fra le diverse Regioni differenze non accettabili nell’organizzazione sanitaria e soprattutto nella qualità delle prestazioni sanitarie. I livelli essenziali di assistenza (LEA) non sembrano effettivamente garantiti ugualmente in tutto il territorio nazionale malgrado che il diritto alla salute sia una componente della massima importanza di quell’insieme che secondo la Corte costituzionale costituisce la “dignità”. Esiste notoriamente un problema di riordino della ripartizione delle risorse finanziarie fra le diverse Regioni del quale si parla da molto tempo ma la cui soluzione non pare ancora posta concretamente all’ordine del giorno, così come non pare ancora trovata una modalità efficace per intervenire a rimediare deficienze che non sembrano affidabili a meccanismi di autocorrezione. Sembra però innegabile l’esistenza di specificità territoriali, che riguardano, in modo più o meno accentuato, anche la salute delle persone, delle quali difficilmente potrebbe tenersi conto adeguatamente mediante un’articolazione burocratica del servizio sanitario nazionale, anche se certi impropri protagonismi cui si è assistito nei mesi passati non sono istituzionalmente corretti e sono diffusamente considerati ingiustificabili dall’opinione pubblica.
G.D Scoca: Le differenze tra i sistemi sanitari delle Regioni sono un dato di fatto e ciò comporta che nelle varie zone del territorio dello Stato la disponibilità dei mezzi di contrasto alla pandemia sia differente. Tuttavia il diritto alla vita è identico per tutti coloro che si ammalano nel territorio dello Stato. Ciò comporta che il servizio sanitario, la cui definizione e la cui disciplina hanno dimensione nazionale, deve assicurare a ciascun malato, in qualsiasi Regione sia residente, di avere le medesime opportunità di cura, anche attraverso il trasporto da una Regione all’altra e il ricovero in strutture di cura di Regioni diverse da quella di appartenenza.
A questo proposito devo aggiungere che il sistema sanitario nazionale, per come è attualmente strutturato, non consente di assicurare a tutti in loco, ovunque abbiano residenza nel territorio dello Stato, i medesimi livelli essenziali di assistenza. A mio avviso dovrebbe essere separata l’assistenza sanitaria di base e di ordinaria specializzazione, da restare affidate alle strutture regionali, dalla assistenza ultra-specialistica, per la quale dovrebbero incentivarsi strutture di eccellenza, ovunque esse siano collocate, aperte a coloro che ne abbiano bisogno, a prescindere dal luogo di residenza. Una simile riorganizzazione comporta ovviamente conseguenze anche sul modo di utilizzare e ripartire le risorse finanziarie disponibili.
D. Montedoro: La differenziazione è necessaria negli spazi non definiti dalla normativa nazionale.
Il senso è però chiaro si può solo restringere maggiormente.
Come in materia di ambiente, lo Stato fissa cautele minime non derogabili mediante aperture regionali.
Ma le regioni possono, in relazione a situazioni specifiche, adottare provvedimenti più rigorosi.
Il titolo V ci ha dato questo equilibrio.
Autorevoli voci (Sabino Cassese) si sono pronunciate in favore di un ripensamento di questo equilibrio e per un maggiore accentramento (notando anche che la profilassi sanitaria internazionale è materia statale).
Penso che queste critiche abbiano più di una ragione, poiché il sistema ha funzionato non senza poche cacofonie, ma l’urgenza imponeva anche di evitare conflitti Stato regioni e quindi si è trovato un compromesso imperfetto.
[1] Non lontano da questa idea ora espressa è Habermas che ridimensiona l’importanza deontica del bilanciamento : “Già Ronald Dworkin ci ha messo in guardia nei confronti della metafora del piatto della bilancia. I diritti non si riferiscono a “beni” che si possano bilanciare in base al peso. I diritti non sono neanche “valori”, che si possono collocare in una sequenza transitiva fondata su una condivisa preferenza politico-culturale. La decisione se un diritto sia adatto ad un caso consente solo un “si” o un “no”. Nel corso del processo di bilanciamento giudiziale i diritti fondamentali possono entrare in concorrenza tra loro. Ma, alla fine, la prevalenza resta di uno, il che significa che questo fa fuori tutti gli altri, ancorché esso debba, in caso di necessità, essere limitato in considerazione del pregiudizio agli altri diritti fondamentali che “devono arretrare”.
Dalla Sua osservazione ( di Gunter ) incidentale traggo ora che un “arretramento” non può riguardare allo stesso modo la tutela della vita e gli altri diritti fondamentali. La prima traccia, in ogni caso, al bilanciamento uno stretto confine, ove per soddisfare concomitanti pretese di diritti fondamentali un governo dovesse fare il tentativo di accettare il rischio prevedibile della morte di alcuni più o meno anziani, che hanno già vissuto la loro vita. Piuttosto, il nucleo contenutistico della tutela della vita, sulla base del carattere individualistico del nostro ordinamento giuridico, non ha un effetto impeditivo di ogni arretramento, che gli altri diritti fondamentali non hanno?”
Contraddittorio cartolare coatto, giudice amministrativo e Costituzione.
La Terza sezione del Consiglio di Stato, adita in appello nell’ambito di una controversia relativa a una procedura di gara per l’affidamento del servizio di ossigenoterapia domiciliare a lungo termine, ha dichiarato manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale e di compatibilità eurounitaria dell’art. 84, co. 5 d.l. 18/2020 sollevate in relazione agli artt 3, 24, 111 Cost., 6 Cedu. In particolare, la società appellante lamentava che il rito previsto dall’art. 84, comma 5, d.l. 18/2020, nella parte in cui prevede che la causa passi in decisione in assenza della discussione orale, con la sola presentazione di brevi note due giorni liberi prima dell’udienza (diversamente da quanto disposto per le udienze penali, civili, tributarie, per la magistratura militare, nonché per le udienze celebrate dinanzi alla Corte dei conti e alla Corte costituzionale, per le quali è individuata la necessaria partecipazione degli avvocati da remoto), sarebbe inidoneo a garantire il fondamentale principio del contraddittorio, di cui dagli artt. 6 Cedu, 47 Carta di Nizza, 111 Cost., 87, co. 1 e 73 c.p.a.
Il Collegio ha dichiarato la manifesta infondatezza delle riferite questioni, essenzialmente sulla base di tre argomentazioni.
In primo luogo, poiché esse sono rivolte a una misura di legge di somma urgenza avente carattere strettamente temporaneo, fondata su ragioni di ordine pubblico nazionale, quali il “preminente interesse pubblico generale a garantire la Comunità nazionale dall’espandersi della pandemia in atto, a tutela del diritto alla vita di ciascun suo componente e del connesso diritto alla salute”, fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività (art. 32 Cost), definito come “primo dei “diritti inviolabili dell'uomo” che la Repubblica, a norma dell’articolo 2 della Costituzione, non solo “riconosce” ma “garantisce”, dovendo la Repubblica adottare, così come nella fattispecie considerata, ogni misura idonea, ragionevole e proporzionata rispetto alla gravità del pericolo e potendo in tale quadro la legge temporaneamente conformare, entro i predetti limiti, i diritti di libertà ed economici secondo le previsioni del citato articolo 2”.
In secondo luogo, in ragione del fatto che il diritto di azione e di difesa, nonché il diritto al contraddittorio processuale dell’appellante non risultano indebitamente incisi da disposizioni in grado di alterare gli esiti del giudizio in corso, data la possibilità di scambiare memorie fino a poche ore prima dall’udienza (facoltà di cui, peraltro, entrambe le Parti si sono ampiamente avvalse) e la facoltà processuale, non attivata, di chiedere il rinvio dell’udienza fino al superamento dell’emergenza, ferma restando la piena tutela cautelare, anche inaudita altera parte.
Infine, in quanto la denunciata violazione dell’art. 3 Cost, in relazione al diverso trattamento previsto per altre tipologie di riti, non sussiste laddove, “secondo la consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale, la non irragionevole differenziazione della disciplina di fattispecie fra loro diverse rientra nell’ambito della cosiddetta discrezionalità del legislatore”.
Nella stessa linea, il TAR Campania, sede di Napoli, chiamato a valutare la legittimità dell’aggiudicazione di una gara per l’affidamento della progettazione esecutiva e dell’esecuzione dei lavori di realizzazione di un impianto per il trattamento del percolato prodotto dalla discarica di parco Saurino, ha respinto la richiesta della controinteressata di rinvio dell’udienza per consentire la discussione orale. Nel dettaglio, il Collegio ha in primo luogo ricordato che (i) l’art. 84, comma 5, d.l. n. 18/2020 (conv. nella l. n. 27/2020) prevede che, nel periodo dal 15.4.2020 al 31.7.2020, le controversie fissate per la trattazione, sia in udienza camerale sia in udienza pubblica, passano in decisione, senza discussione orale, sulla base degli atti depositati; (ii) nel giudizio de quo, le parti hanno articolato le proprie argomentazioni con ampie memorie e note di udienza, potendosi dunque ritenere adeguatamente soddisfatto il relativo diritto di difesa; (iii) la parte ricorrente non si è associata alla suddetta richiesta di differimento dell’udienza; (iv) il rinvio dell’udienza non sarebbe conforme al principio costituzionale della ragionevole durata del processo, soprattutto rispetto a quelle controversie, come ad esempio quelli in tema di appalti pubblici, in cui le esigenze di rapidità nella definizione sono vieppiù sentite.
Considerato l’orientamento manifestato dalla Sesta sezione del Consiglio di Stato nella nota ordinanza 21 aprile 2020 n. 2539 (in tal senso si vedano anche Cons. St., VI, 21 aprile 2020, n. 2538; id., V, 7 maggio 2020, nn. 2887, 2888 2889, 2890, 2891, id., III, 8 maggio 2020, n. 2918 e 2919, e la relativa analisi “Il principio dell’oralità secondo la giurisprudenza amministrativa nel periodo dell’emergenza Covid19”, a cura di V. Sordi, in questa Rivista, 27 maggio 2020), il TAR napoletano ha ritenuto doveroso sottolineare di non aver dubbi sulla costituzionalità dell’art. 84, co. 5 d.l. 18/2020, nella parte in cui preclude la discussione orale della controversia. In particolare, il Collegio ha escluso che tale norma potesse essere viziata da incostituzionalità, in quanto (i) alla stessa deve essere riconosciuta una natura eccezionale ed emergenziale, essendo finalizzata a evitare la “paralisi della Giustizia amministrativa”; (ii) il concetto di contraddittorio, quale “principio (sicuramente) ineludibile” non coincide con quello di oralità, costituendo quest’ultimo una modalità di svolgimento delle attività processuale, come tale “eventualmente surrogabile, specie in condizioni emergenziali e per un periodo di tempo limitato, da altri “modelli” (processo scritto; cfr. art. 352 c.p.c. per il giudizio innanzi alla Corte di Cassazione, art. 33 del D.Lgs. n. 546/1992 per il rito camerale tributario)”; il richiamo all’art. 6 CEDU, a dimostrazione dell’asserita incostituzionalità, non convince, dato che l’art. 15 della medesima Convenzione, “Deroga in caso di stato d’urgenza”, dispone che “1. In caso di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione, ogni Alta Parte contraente può adottare delle misure in deroga agli obblighi previsti dalla presente Convenzione, nella stretta misura in cui la situazione lo richieda e a condizione che tali misure non siano in conflitto con gli altri obblighi derivanti dal diritto internazionale”; infine (iii) “la compressione della facoltà delle parti di avvalersi della discussione orale è stata comunque bilanciata dall’introduzione dell’ulteriore strumento delle “brevi note” da depositarsi nei due giorni liberi anteriori dalla data di trattazione, a contenuto libero e quindi utilizzabili sia per la replica agli scritti delle altre parti che per la ulteriore illustrazione delle proprie prospettazioni e deduzioni”.
Anche in tale fattispecie, pertanto, il giudice amministrativo ha ritenuto che il modello processuale emergenziale, nonostante temporalmente comprima alcune facoltà processuali delle parti, è comunque conforme al sistema costituzionale, in quanto giustificato dall’esigenza di far fronte alla situazione determinata dalla diffusione del Covid-19 e, come tale, non è in grado di intaccare “in modo irrimediabile ed irreparabile la garanzia del contraddittorio tra le parti e la loro possibilità di “accesso e contatto” al/con il Giudice”.
(V.S.)
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