ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
In memoria di Ebru Timtik: la resistenza dell’Avvocatura in Turchia - Un reportage di Barbara Spinelli
Parte Prima: Essere giovani avvocate in Turchia
Di queste case/non è rimasto/che qualche/brandello di muro.
Di tanti/che mi corrispondevano/non è rimasto/neppure tanto.
Ma nel cuore/nessuna croce manca.
È il mio cuore/il paese più straziato.
(G.Ungaretti, Porto sepolto)
Ebru ci ha lasciato un’eredità impegnativa, interrogarci sul ruolo dell’avvocatura nella difesa dei diritti e dello stato di diritto.
Per capire il suo gesto, occorre andare indietro nel tempo e capire le radici della scelta di dedicarsi all’avvocatura, in una società in rapido movimento eppure terribilmente statica nelle dinamiche di repressione del dissenso.
Cosa significa essere giovani avvocate/i in Turchia dopo i fatti di Gezi Park? Come ha vissuto l’avvocatura turca l’esperienza dello stato di emergenza dopo il fallito colpo di stato? Perché Ebru ha scelto il digiuno fino alla morte? Il suo gesto ci parla di noi?
Tre approfondimenti con gli occhi di un’avvocata ed osservatrice internazionale, che in Turchia può ritornare solo con la memoria, interdetta dal ritornarvi fisicamente proprio in ragione della sua stretta collaborazione con i colleghi turchi.
Sommario: 1. Premessa - 2. Il ruolo dell’avvocatura in Turchia - 3. Essere giovani avvocati in Turchia oggi - 3.1. Memorie d’infanzia - 3.2. La ricerca di un riscatto nella difesa degli ideali democratici - 3.3. La persecuzione per la tutela giurisdizionale dei diritti umani.
1. Premessa
Sono stata osservatrice internazionale in Turchia per quattro anni, prima di essere respinta alla frontiera con divieto di reingresso. In quei quattro anni, alle volte anche una o più volte al mese, mi sono recata in Turchia per osservare le udienze di processi in cui i nostri Colleghi erano (e sono) imputati con accuse gravissime, reati di terrorismo o contro l’unità dello stato, per il solo motivo di aver svolto la loro professione di avvocati. Ho conosciuto i colleghi imputati ed i loro difensori, ho partecipato alle riunioni dei collegi difensivi, ho letto capi di imputazione, verbali di udienza, sentenze, ed insieme a loro ho anche attraversato le riforme legislative e quelle politiche che il Paese stava vivendo, osservando il ruolo svolto dall’avvocatura in quella società complessa ed in movimento.
Ho conosciuto avvocati, giudici, giornalisti, parlamentari, sindaci, accademici, attivisti per i diritti umani, insegnanti, gente comune della capitale, dei grandi centri metropolitani e delle cittadine curde, ed anche nostri concittadini expat. Ho imparato qualche parola di turco, e la lingua curda fino al livello A2. Ho osservato elezioni svolte sotto la minaccia armata, e la vita nei villaggi e nei quartieri curdi sopravvissuti al regime di coprifuoco, alla fine del processo di pace, mentre dall’altro lato del confine prima imperversava la resistenza dei curdi a Daesh (Isis), e poi si susseguivano le operazioni militari turche per il controllo e l’occupazione del territorio siriano ed iracheno sottratto dai curdi al controllo dell’Isis (Scudo dell’Eufrate, Peace Spring, Ramoscello d’Ulivo). Ho incontrato le profughe yezide nei campi di accoglienza ufficiali e non ufficiali della Turchia, del Rojava, del Kurdistan iracheno. Ho partecipato a matrimoni, funerali, feste di compleanno, manifestazioni, seminari. Ho partecipato a conferenze nazionali ed internazionali, ho rilasciato interviste e scritto articoli e rapporti che sono finiti sui tavoli dell’ONU e del Parlamento italiano[1].
Ciò di cui sono stata testimone in Turchia, ha segnato indelebilmente la mia vita privata e professionale. Non è facile scriverne, e non è questa la sede dove poterlo fare compiutamente. Ad essere del tutto onesta, parlare e scrivere di Turchia per me significa ogni volta mettere sale su di una ferita ancora aperta. E’ una scelta tanto dolorosa quanto inevitabile, quella di non dimenticare, di non volgere altrove lo sguardo ed anzi puntarlo proprio lì, sempre. Dolorosa perché richiama alla mente l’attualità della sofferenza di molti colleghi conosciuti, stimati professionisti oggi in carcere, o a rischio di detenzione in ragione dei procedimenti pendenti, e per le violenze che continuano indiscriminate nei confronti della popolazione civile curda, delle persone lgbt, dei diversi gruppi religiosi ed etnici presenti nel Paese e più in generale dei gruppi di opposizione al regime attuale.
Dopo il mio respingimento ho preso l’unica decisione per me possibile, quella di mantenere dritto il timore, e continuare a segnare la rotta con direzione Turchia, sebbene non potessi più navigare in quelle acque agitate.
La situazione è peggiorata incredibilmente, e la rete di solidarietà internazionale costruita grazie alle strette relazioni intrecciate con i colleghi turchi, ha consentito di squarciare il velo sulle quotidiane negazioni del diritto alla difesa, sulle violazioni dei diritti dei detenuti, sulle torture e sui crimini contro l’umanità che ad oggi si stanno consumando a casa dei nostri vicini. Rendere queste violazioni di pubblico dominio e non smettere mai di cercare giustizia è stato il mio giuramento. Farlo in quanto avvocata ed insieme alle realtà nazionali ed internazionali dell’avvocatura è stato il mio obiettivo.
Chi era Ebru Timtik, e perché abbia scelto di intraprendere un digiuno fino alla morte, non lo si può capire leggendo la sua biografia su Wikipedia o i coccodrilli sui giornali. Per capire il suo gesto, occorre capire cosa significhi in generale scegliere di essere avvocate/i in Turchia, ed in particolare cosa significhi oggi, per i giovani della mia generazione, indossare la toga in quel Paese. Mi scuserete quindi, se nel ricostruire questi ultimi anni, mi soffermerò sul ruolo dell’avvocatura, lasciando in secondo piano la non meno grave e sistematica persecuzione (e resistenza) di giornaliste/i, magistrate/i, uomini e donne di cultura e della politica.
2. Il ruolo dell’avvocatura in Turchia
L'assenza di separazione tra il potere governativo e quello giudiziario ha sempre costituito un grave vulnus all'indipendenza della magistratura in Turchia ed al rispetto dei principi del giusto processo e del diritto alla difesa.
Nonostante la riforma costituzionale del 2010, e la creazione del Consiglio superiore dei giudici e dei procuratori (HSYK), persistevano criticità strutturali che già furono documentate e censurate dalla Relatrice Speciale dell'ONU per l'indipendenza di giudici e degli avvocati nel suo rapporto sulla missione in Turchia del 2011[2].
Già allora la Relatrice notava che “L'aumento del numero di casi di arresto, detenzione e di avvio di indagini per accuse legate al terrorismo di avvocati che difendono individui accusati di terrorismo è di particolare interesse per lo Special Rapporteur. Il Principio fondamentale n. 18 sul ruolo degli avvocati prevede che gli avvocati non siano identificati con i loro clienti o le cause dei loro clienti come risultato dell'adempimento delle loro funzioni‖ ed il principio n. 20 afferma che gli avvocati godono dell'immunità civile e penale per le dichiarazioni pertinenti rese in buona fede nelle memorie scritte o orali o nelle loro apparizioni professionali dinanzi ad un tribunale, o altra autorità legale o amministrativa. Questi principi sono tra i più violati su base quasi quotidiana, poiché è tutt'altro che raro che vengano avviate indagini contro avvocati sulla base di un loro presunto collegamento o favoreggiamento delle presunte attività criminali dei loro assistiti. Purtroppo ciò sembra che avvenga sempre più spesso in Turchia”[3].
Parole profetiche, in quanto l'utilizzo politico del sistema giudiziario ha reso possibile, specialmente dopo la grande manifestazione popolare di Gezi Park, una serie di indagini che hanno colpito avvocati, difensori di giornalisti e attivisti per i diritti umani, per il solo fatto di avere esercitato le loro funzioni difensive, assimilando il loro ruolo a quello dei propri assistiti, specie quando accusati di reati politici, di attentare all'unità dello stato o di terrorismo.
A partire da Gezi Park, le continue riforme alla legislazione antiterrorismo e l'estensione dei poteri di polizia hanno permesso il perfezionamento di un diritto penale del nemico volto a criminalizzare ogni forma di dissenso.
Ed infatti la persecuzione di giornalisti, attivisti politici e magistrati e la sistematica violazione dei diritti umani delle “minoranze” è iniziata ben prima del colpo di stato del 2015, che ha consentito esclusivamente la legittimazione e l'estensione di tali pratiche attraverso l'imposizione dello stato di emergenza[4].
3. Essere giovani avvocati in Turchia oggi
3.1. Memorie d’infanzia
Per capire quello che è successo ad Ebru Timtik occorre comprendere chi sono le/i giovani avvocati attivi in prima a linea a difesa dei diritti umani in Turchia, e perché hanno scelto di dedicarsi a questa professione.
La Turchia ha attraversato momenti molto bui nella sua storia recente. La violenza di stato è stata rivolta nei confronti delle “minoranze” etniche, religiose, politiche. Una violenza brutale, sproporzionata ed al di fuori della legge, alla quale anche molti bambini hanno assistito, della quale hanno subito le conseguenze, e che ha generato nella memoria collettiva dei traumi trasmessi intergenerazionalmente, ed al contempo la voglia di vivere in una società diversa, di pace, tollerante.
I bambini e le bambine le cui vite sono state segnate da questi traumi[5], crescendo si sono trovati davanti a una scelta, per raggiungere l’obiettivo di una società migliore, e più giusta con i deboli. Questa scelta, come mi è stato riferito in uno dei miei viaggi, per molti è stata tra il diventare avvocato e lottare per la democrazia, o arruolarsi tra le file della lotta armata.
Ho ascoltato molte storie sull’infanzia dei miei colleghi e delle mie colleghe: alcune di discriminazione generale, altre davvero terrificanti. Chi di loro aveva visto da bambino la loro madre o la loro sorella stuprata dai militari davanti agli occhi, chi aveva avuto parenti senza nessuna colpa, se non quella del loro orientamento politico, scomparsi e poi ritrovati dopo giorni e giorni di ricerche torturati nelle stazioni di polizia, e poi detenuti per anni prima di essere assolti, o morti in carcere senza mai uscirne. Chi era stato costretto a seguire la famiglia, esiliati nella grande metropoli, allontanati dai villaggi natii dai famigerati guardiani del villaggio. Quelli come me nati all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, non potevano parlare la loro lingua natale, il curdo. E’ stato vietato dopo colpo di stato del 1980, fino al 1991, così come era vietata qualsiasi “circolazione e pubblicazione di idee” nella stessa lingua. Furono cambiati i nomi dei villaggi e delle città: così Gever divenne Yuksekova, Amed fu ribattezzata Diyarbakir, e così via. Persino i nomi delle persone, dei monti e dei fiumi non potevano più essere in curdo. Alcuni di loro, da adulti, hanno scelto di riappropriarsi delle loro radici, studiando la lingua all’Istituto di cultura curda (chiuso per decreto durante lo stato di emergenza), altri apprendendola in carcere, come una collega, oggi parlamentare, che vi era ingiustamente finita per oltre due anni, per il solo fatto di far parte del team difensivo di Abdullah Ocalan, senza mai averlo incontrato.
Cito le memorie della collega turca in esilio volontario a Vienna, Serife Ceren Uysal: “Almeno per la mia generazione in Turchia, ciò a cui abbiamo dovuto assistere durante la nostra infanzia e la nostra giovinezza ha determinato la posizione che abbiamo preso nella nostra vita professionale.
Immagina un bambino curdo che è stato sottoposto a migrazione forzata, che ha visto suo padre, suo zio o altre persone nel suo villaggio essere giustiziati a colpi di arma da fuoco. Quel bambino curdo aveva bisogno di nascondersi sotto il letto durante le notti per essere protetto dalla caduta dei proiettili ... Quante notti? Non lo so perché questa non è la mia storia, non l'ho mai vissuta. Posso solo immaginare quanto sia doloroso, e posso solo immaginarlo attraverso gli occhi dei miei colleghi che hanno vissuto queste situazioni.
Ad esempio, pensa a un altro bambino. Questo bambino potevo essere io o migliaia di altri avvocati turchi. Suo zio, che era un insegnante, è stato rapito di notte da casa da uomini armati e mascherati. Tutta la famiglia lo ha cercato nelle stazioni di polizia per 10 giorni. Le informazioni ufficiali sono state ottenute dopo 10 giorni. Quando lo hanno visitato dopo 10 giorni, lo zio alto e forte non poteva stare in piedi a causa delle torture a cui era stato sottoposto. Tuo zio, che ti accarezza i capelli e ti abbraccia ogni volta che ti vede, non ha la capacità di alzare la mano. Sono passati dei mesi ... Tuo zio è ancora in prigione. Tutti in famiglia sono infelici. Tuo cugino che è più giovane di te non capisce. Furioso ... Mesi dopo, lo zio fu assolto.
Cosa resta nella memoria di quel bambino? Forse la paura rimane. così come il desiderio di fare qualcosa contro l'ingiustizia. Questo bambino diventerà un avvocato e cercherà di impedire che altri zii vengano torturati. Diamo un nome a questa bambina e chiamiamola Ebru Timtik!”[6].
Sono memorie che lasciano paura, rabbia e sete di giustizia. Erano gli anni Ottanta e Novanta, gli anni delle sparizioni forzate, delle torture di stato e degli omicidi politici nei confronti di chiunque curdo o comunista, giornalista o sindacalista, fosse sospettato di essere entrato in qualsiasi modo in contatto con organizzazioni sovversive, in particolare con il PKK[7].
Human Rights Watch tra il 1992 e il 1996 aveva contato almeno 500 sparizioni forzate[8], 800 secondo il movimento che ancora oggi chiede verità e giustizia, quello delle “madri del sabato”[9]. Circa duemila villaggi curdi in quel periodo furono militarizzati e distrutti, provocando oltre due milioni di rifugiati[10]. La Turchia ha ricevuto 34 condanne dalla CEDU solo per le sparizioni forzate avvenute in quegli anni[11], molte delle quali rimaste ineseguite.
3.2. La ricerca di un riscatto nella difesa degli ideali democratici
I bambini che sono cresciuti con questi ricordi negli occhi, con questo sradicamento, hanno scelto di essere avvocati per farsi agenti di pace, per combattere le ingiustizie con le armi del diritto e dei diritti umani, per difendere gli ultimi dagli abusi di stato, per estirpare i germi del nazionalismo e contribuire a creare, per sé e per gli altri, un Paese democratico, laico, rispettoso delle diversità. Hanno una profonda cultura umanistica ed internazionale, e cercano di attingere all’esperienza di chi altrove nel mondo prima di loro ha usato le armi dei diritti umani per rendere un mondo migliore. Molti di loro sono politicamente impegnati e fanno parte di numerose associazioni a tutela dei diritti umani. Rimasi stupita, alla mia prima osservazione, nel vedere un giovanissimo collega il quale, saputo che ero italiana, si avvicinò a me e mi mostrò raggiante le lettere dal carcere di Gramsci, che stava leggendo con entusiasmo. Rimasi addirittura esterrefatta quando poi sentii un collega turco citare durante un’arringa la sentenza n. 364 del 1988 della Corte Costituzionale italiana sul principio di colpevolezza.
Le immagini della loro infanzia che quei bambini, oggi avvocati, hanno conservato nella memoria, con l’interruzione del processo di pace, nel marzo 2015, drammaticamente si sono ripresentate ai loro occhi, dapprima come nefasti presagi e poi come inquietanti realtà. Lo scenario si è ripetuto uguale, con le sparizioni forzate[12] e le operazioni antiterrorismo che dal 2015 al 2016 si sono svolte nel sud-est della Turchia, con l’imposizione in via amministrativa di coprifuoco ed attività armate, e che hanno afflitto tutta la popolazione in 32 distretti (a maggioranza etnica curda, bacino di voto del partito di opposizione HDP, che alle elezioni del 2015, avendo superato la soglia di sbarramento con il 13% dei voti aveva impedito ad Erdoğan di ottenere la maggioranza necessaria a trasformare la Turchia in una repubblica presidenziale)[13]. Secondo l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, queste “operazioni anti-terrorismo” hanno afflitto 1,6 milioni di persone e provocato almeno 355000 profughi interni, in conseguenza della distruzione operata nel corso delle operazioni militari[14]. Oltre 2300 civili sono stati uccisi[15], a parte i combattenti ed i militari morti nel conflitto. Crimini contro l’umanità, che hanno colpito indiscriminatamente i civili, che ho avuto modo di documentare direttamente in diverse missioni di osservazione[16], mio malgrado.
Se si riescono a ricostruire le tappe che hanno portato all’immane tragedia di quegli anni, e le conseguenze del conflitto in termini di perdite di vite umane e di danneggiamento di beni, ciò che non si riesce a spiegare è la profonda tragedia del vedere una popolazione, cittadini di un Paese del Consiglio d’Europa, colpita in maniera sproporzionata, ed illegittimamente, dalle autorità del Paese che dovrebbe proteggerli, con crudeltà, a titolo di punizione collettiva di un intero gruppo sociale, senza ottenere protezione sufficiente dalle autorità sovranazionali, per impedire quello che alcuni hanno definito un vero e proprio tentativo di genocidio culturale dei curdi, ancora in atto[17].
Immaginate voi l’effetto che può fare, vedere i propri concittadini ed i propri famigliari in stato d’assedio, la propria città ed il proprio quartiere rasi al suolo, i propri vicini ammazzati dai cecchini dell’esercito, dai propri connazionali, in nome di una lotta al terrorismo in cui essere curdo equivale ad essere terrorista, sicché la punizione arriva senza processo ed è collettiva, in uno Stato che pure fa parte del Consiglio d’Europa, e che per un simile spargimento di sangue neppure è ricorso alla proclamazione dello stato d’emergenza, assegnando ad una figura prefettizia di diretta nomina governativa il potere di stabilire i limiti temporali e territoriali del coprifuoco, in assenza di qualsiasi base legale[18].
Immaginate voi la responsabilità che ci si deve assumere nei confronti dei propri cari, dei propri compaesani, per cercare la giustizia, in un mondo che non ha nulla di giusto, in un crescendo di disumanità che annulla il confine tra quello che i curdi siriani subiscono dall’Isis a Kobane, e quello che i militari e paramilitari turchi fanno ai curdi di Cizre, Şırnak, Nusaybin, Silvan, Yuksekova...
Immaginate voi cosa significhi spiegare tutto questo ai vostri colleghi e vicini di casa che vivono con voi a Istanbul o nella capitale, e che non hanno mai messo piede in Bakur (il sud-est della Turchia popolato dai curdi) e non hanno la più pallida idea di quello che là si sta consumando, per via della censura.
Immaginate voi cosa significhi spiegare tutto questo a colleghi europei che nel frattempo, ignari di ciò, magari pianificano una bella vacanza ad Antalia o una visita all’alba sul monte Nemrut.
Immaginate voi cosa significhi spiegare tutto questo a un Giudice europeo il quale ritiene insussistenti i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria ovvero umanitaria in favore di un richiedente asilo curdo, perché “nel paese non vi è una situazione oggettiva che mette a rischio i diritti umani”…
Il Governo, nel suo bollettino quotidiano, aggiorna sul numero di “terroristi” che vengono “neutralizzati” nelle operazioni antiterrorismo. Io mi sono sempre espressa pubblicamente affinché i giornalisti italiani non utilizzino questo termine proprio della comunicazione di regime turca. Che cosa significa “neutralizzati”? Significa ammazzati a sangue freddo in operazioni militari. Non arrestati, fermati, detenuti e sottoposti a processo. A questo dovrebbero servire, in uno stato di diritto, le operazioni antiterrorismo. Allora non si utilizzi il termine neutralizzati, ma uccisi, perché è l’unico idoneo a descrivere la realtà.
Chi sono questi “terroristi” “neutralizzati”? C’è da chiederselo. E’ terrorista una donna disarmata, come Shirin Bilgin, di 37 anni, freddata da un cecchino per essere uscita sul balcone durante il coprifuoco[19]? O una donna disarmata come Selamet Yeşilmen, che era incinta, stava male, e mentre provava a raggiungere il giardino dal secondo piano per chiedere aiuto, insieme a due dei suoi cinque figli, di dieci e quattordici anni, è stata freddata da un cecchino sulle scale, davanti ai suoi figli, che, sebbene feriti, si sono salvati scappando di nuovo in casa[20]? Dopo tutti questi anni, il fascicolo relativo alla morte di Selamet si trova ancora in fase di indagini. Il Pubblico Ministero non ha disposto il rinvio a giudizio, perché, nonostante le testimonianze dei presenti, il referto autoptico e le foto del carrarmato sul luogo del delitto, a suo avviso “non ci sono elementi sufficienti per trovare il colpevole”[21]. Purtroppo l’elenco di attacchi deliberati nei confronti di civili, soprattutto donne e bambini[22], è lungo, e non rende onore alle forze armate turche, rimaste impunite per i crimini contro l’umanità commessi nel corso di queste operazioni.
La realtà è che tutto questo non è neanche lontanamente immaginabile, se non lo si vive, se non lo si vede con i propri occhi. L’incubo di subire le conseguenze di una guerra, ma in un paese che è in pace. L’incubo della morte e della distruzione, per mano di quei militari che sono tuoi concittadini, ma che ti vedono come un nemico da annientare senza scrupoli e senza regole, non in Siria, non in Iraq, ma in un paese che fa parte del Consiglio d’Europa…
Ciò che più mi ha colpito, nel visitare le cittadine colpite dal coprifuoco, nel parlare con le persone, nel raccogliere le testimonianze e nel visionare quelle raccolte dai colleghi turchi, non sono solo le torture e le esecuzioni sommarie, quanto la deliberata umiliazione dei civili durante le operazioni di coprifuoco. Le case di quelli che sono stati allontanati sono state violate e saccheggiate. Sono stati lasciati escrementi umani sui letti. Sperma sulla biancheria intima estratta dai cassetti. Preservativi sporchi di sangue. Scritte nazionaliste sui muri delle case. Cimiteri bombardati. Madri che, in un calvario senza fine, giravano di stazione di polizia in obitori per reclamare la restituzione dei corpi dei loro figli, costrette a passare in rassegna i cadaveri mutilati e torturati di quelli caduti durante il coprifuoco.
Non dimenticherò mai il viso di quella madre che a Yuksekova ci raccontava la storia del suo caro figlio, mostrandoci la sua stanza bruciata, e del riconoscimento del suo cadavere a lungo cercato, dopo oltre un mese dalla perdita del contatto con lui, nell’obitorio. Forse un giorno sarà possibile scrivere apertamente di questi orrori rimasti impuniti, e chiederne conto a chi li ha commissionati, a chi non li ha impediti.
Tanta sofferenza è inimmaginabile, in un paese del Consiglio d’Europa, in tempo di pace. Così come è inimmaginabile che siano stati lasciati morire così tanti civili nell’indifferenza generale dei media e delle istituzioni, disattenti e disinteressati a queste notizie, che pure venivano fatte circolare e documentate dai noi osservatori internazionali e dai giornalisti locali, a costo della loro vita e della loro libertà.
Şırnak, dopo 81 giorni di coprifuoco, non era altro che un cumulo di macerie. Io l’avevo visitata pochi mesi prima, come osservatrice alle elezioni del 1 novembre 2015, insieme ai colleghi originari di quella città. Una città di montagna, di una bellezza che affascina, ma irrimediabilmente turbata da un episodio orribile occorso giusto un mese prima delle elezioni: un ragazzo curdo di 28 anni, un attore, Haci Osman Birlik, cognato della deputata HDP Leyla Birlik, era stato ucciso nella città di Şırnak con 28 corpi di arma da fuoco dalle forze armate turche nel corso delle “operazioni antiterrorismo” del 2 ottobre, ed il suo corpo era stato trascinato da un furgoncino dell'esercito per le strade della città, e poi il video era stato postato sui social media[23]. Un episodio orribile che ha segnato la società civile in maniera indelebile, e che ha spinto molti giovani curdi prima non politicizzati ed estranei alla lotta armata ad unirsi in gruppi di autodifesa nelle città sottoposte a coprifuoco, a difesa della popolazione civile dalla violenza militare. Suo padre è stato processato per propaganda terroristica per aver esibito al funerale la foto del figlio con la scritta in curdo “I martiri non muoiono mai”. Era stato assolto dal Tribunale di Diyarbakir, ma a gennaio 2020 la sentenza è stata ribaltata in sede di appello. Gli avvocati della famiglia avevano sporto denuncia contro Hacı Murat Dinçer, l'ufficiale di polizia che aveva ordinato il trascinamento del corpo del ragazzo, con l’accusa di tortura e maltrattamenti, e per insulto alla memoria del defunto, abuso di autorità e omicidio di primo grado, provando che Birlik era ancora vivo quando era stato legato al veicolo. Nei quattro anni e mezzo da allora, il caso ha avuto uno scarso sviluppo, tuttavia l'ufficiale ha partecipato alle elezioni parlamentari del 2018 come candidato del partito al governo per la giustizia e lo sviluppo. Dinçer ha anche ricevuto un premio dal presidente Recep Tayyip Erdoğan per i suoi servizi a Şırnak[24].Ciò è stato possibile perché con un provvedimento del giugno 2016 era stato disposto, al fine di assicurare impunità agli abusi commessi dalle forze di sicurezza nelle operazioni antiterrorismo, che per iniziare un’indagine nei confronti di un militare impegnato in tali operazioni fosse necessario un permesso accordato dal Governo, e che competente per il giudizio fosse il Tribunale militare.
La notte prima delle elezioni del 1 novembre 2015 mi trovavo a Şırnak in delegazione insieme a due parlamentari italiani, una giornalista ed un’altra collega avvocata. Ricordo nitidamente il coprifuoco, il rumore dei carrarmati in movimento nella strada di sotto, e poi l’operazione di polizia con tanto di elicottero, a meno di un chilometro dal nostro albergo. E in un contesto di militarizzazione totale si svolsero quelle elezioni[25]. Mesi dopo, quando in televisione vidi passare le immagini di Şırnak alla fine del coprifuoco, e su Twitter vidi quel cumulo di sassi che era divenuta la casa di famiglia uno dei miei colleghi, il suo intero quartiere, non trovai le parole per lui. E’ in Turchia che per me i versi di Ungaretti hanno acquistato vita e significato.
3.3. La persecuzione per la tutela giurisdizionale dei diritti umani
Oggi come ieri, alcune delle macro-violazioni commesse nei confronti dei civili curdi sono finite davanti alla Corte EDU[26]. Chi ha promosso questi ricorsi, per ciò solo è stato perseguitato. Come d’altronde tutte/i coloro che hanno documentato quanto occorso durante le operazioni antiterrorismo nel corso dei c.d. coprifuochi ad orologeria nelle città del sud-est curdo, tra il 2015 ed il 2016.
Un giovane collega turco, Ramazan Demir, ha ricevuto minacce ed è stato criticato pubblicamente in ragione dei ricorsi che ha presentato alla Corte costituzionale turca e alla Corte europea per i diritti umani in relazione alle pratiche di coprifuoco in corso nel sud-est regione. Il Pubblico Ministero, tra le condotte contestate, ha inserito anche quella di "denigrare la Turchia a causa dei ricorsi presentate alla Corte europea dei diritti dell'uomo e dei contatti che aveva con avvocati stranieri". Ramazan Demir, prima di essere arrestato, aveva fatto in tempo ad iniziare 50 procedimenti davanti alla Corte europea per i diritti umani. Ad Human Rights Watch ha riferito che a suo avviso l'operazione di polizia e l'arresto degli avvocati, ed il suo in particolare, sia stato un tentativo di impedire loro di adempiere ai loro doveri professionali di avvocati e di diffondere informazioni, anche tramite i social media, circa il coprifuoco generale dal 14 dicembre 2015 al 1° marzo 2016 e le operazioni militari e di polizia contro i gruppi affiliati al PKK nella città sudorientale di Cizre[27]. Demir è stato uno degli avvocati che con maggiore frequenza si era rivolto alla Corte europea dei diritti umani nei mesi precedenti la sua detenzione per conto di clienti i cui parenti erano rimasti feriti e intrappolati a Cizre e che avevano urgente bisogno di assistenza medica. Nel gennaio 2016 la Corte europea aveva ordinato "misure provvisorie", in cinque casi che coinvolgevano persone ferite nei quartieri di Cizre, ordinando alle autorità turche di proteggere la loro vita e la loro integrità fisica. Solo uno dei cinque richiedenti a favore dei quali il tribunale aveva emesso una misura urgente è stato sottoposto a cure mediche[28].
L'ex Commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa, Nils Muiznieks, ha proposto un intervento di terzi nella causa in corso presso la Corte europea che esamina la condotta delle forze di sicurezza a Cizre. Nell’atto di intervento, ha sollevato serie preoccupazioni riguardo al procedimento penale contro Demir che, ha suggerito, si è verificato "sia in primo luogo che incidentalmente, in relazione al suo ruolo legittimo di portare i casi alla Corte"[29]. Infatti, il 15 novembre e il 10 dicembre 2018, subito dopo la partecipazione di Demir, il 13 novembre, alle udienze davanti alla Corte Europea di Strasburgo per conto dei suoi clienti, il Ministero della Giustizia, attraverso la sua sezione per i diritti umani e la Direzione Generale del Diritto e della Legislazione, ha scritto al Pubblico Ministero e all'Ordine degli Avvocati di Istanbul per chiedere l'apertura di un'indagine disciplinare nei suoi confronti. In risposta, il 3 gennaio 2019 l'Ordine degli avvocati di Istanbul ha aperto un'indagine che potrebbe portare alla radiazione di Demir dalla professione legale.
Il processo c.d. “ ÖHD2” nei confronti di Ramazan Demir e di altri 11 suoi colleghi e colleghe dell'associazione ÖHD (avvocati curdi libertari), iniziato nel 2017, è ad oggi ancora pendente[30].
Ma più di tutti, ieri come oggi, c’è un uomo, anzi un avvocato, che ha affiancato le famiglie delle vittime nella loro richiesta di giustizia sia a livello nazionale che davanti alla Corte Edu: Tahir Elçi, uno dei fondatori di Amnesty Turchia, nonché Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Diyarbakir, ucciso con un colpo alla nuca il 28 novembre 2015, mentre denunciava i crimini contro l’umanità commessi durante le operazioni antiterrorismo avvenute nel corso del coprifuoco proclamato a più riprese nel quartiere di Sur[31], con il danneggiamento anche di monumenti dichiarati dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità.
Il suo non è stato un omicidio ordinario, quanto piuttosto una pubblica esecuzione. C’erano tantissime telecamere a riprendere la sparatoria nel corso della quale ha perso la vita, perché è avvenuta durante una conferenza stampa all’aperto. La conferenza stampa si è svolta davanti ad uno storico minareto danneggiato dalle operazioni di sicurezza la mattina del 28 novembre 2015. Durante questa conferenza si è svolto un conflitto armato tra due militanti armati del PKK e la polizia, durante il quale è stato ucciso colpito a morte Tahir Elçi. Il Governo inizialmente aveva accusato del suo omicidio due “terroristi curdi” che erano inseguiti dalla polizia. Le indagini, condotte dai colleghi dei poliziotti coinvolti nella sparatoria, dopo tre anni, si trovavano ad un punto di stallo, ancora contro ignoti, ed era scomparso un frammento di un video che riprendeva il momento dell’omicidio. Così l’Ordine degli Avvocati di Diyarbakir ha incaricato Forensic Architecture di procedere ad una ricostruzione indipendente dei fatti[32], dalla quale è emerso che i colpi sparati a Tahir Elçi provengono dall’arma di uno dei tre poliziotti coinvolti nella sparatoria. La ricostruzione mostra che, quando i militanti erano ormai fuggiti, i poliziotti scaricavano quaranta colpi in nove secondi in direzione di Tahir Elçi, ed uno di questi lo colpiva alla nuca, determinando la sua morte.
La ricostruzione di Forensic Architecture ha consentito il rinvio a giudizio dei tre poliziotti, che tuttavia sono stati imputati per il solo omicidio colposo, essendo stati sparati i colpi che hanno ucciso Elçi, secondo l’accusa, per “neutralizzare” dei “terroristi del PKK”, uno dei quali è stato rinviato a giudizio per omicidio volontario, ciò in palese contrasto con la ricostruzione di Forensic Architecture, che ha dimostrato come nessuno dei quaranta colpi visibili durante le riprese della scena è stato sparato dai “terroristi del PKK”. Secondo il Pubblico Ministero "Dato che ... la posizione di Tahir Elçi al momento della morte non può essere determinata chiaramente, che il proiettile che ha causato la sua morte non può essere recuperato e che non ci sono filmati del momento in cui è stato colpito, lo è possibile che uno dei proiettili di Uğur Yakışır (militante del PKK) e delle pistole [del secondo militante] Mahsum Gürkan possa aver colpito Tahir Elçi".
Al contrario, secondo la ricostruzione di Forensic Architecture, “nessuno dei quaranta colpi di arma da fuoco che sono visibili o udibili durante il periodo delle riprese (durante il quale più telecamere stavano registrando la scena) sono stati sparati dai due militanti del PKK. Piuttosto, gli unici colpi che avrebbero potuto uccidere Elçi, sono stati sparati da uno dei tre ufficiali che abbiamo identificato”.
Numerose associazioni internazionali di giuristi si sono dette preoccupate del fatto che il caso non stia procedendo in conformità ai principi che disciplinano il giusto processo[33].
Fin dalla prima udienza, che si è svolta il 21 ottobre 2020 alle ore 10, davanti alla 10a Corte penale superiore di Diyarbakir, gli avvocati che rappresentano la famiglia Elçi hanno lamentato che l'indagine si è svolta in violazione del Protocollo del Minnesota, tardivamente, determinando la perdita di prove cruciali, incluso il proiettile che ha ucciso Tahir Elçi, e con l’interrogatorio degli agenti di polizia che erano sulla scena e che hanno sparato il colpo letale solo all'inizio del 2020, più di quattro anni dopo l'omicidio. Inoltre, il pubblico ministero ha rifiutato di ascoltare diversi testimoni presentati dagli avvocati della famiglia di Tahir Elçi e non ha convocato gli agenti di polizia responsabili della pianificazione e dell'esecuzione dell'operazione e del monitoraggio della conferenza stampa. Le registrazioni video delle telecamere di sicurezza intorno alla scena e delle telecamere di sicurezza della polizia nell'area sono state manomesse o non sono state acquisite. Diverse registrazioni cruciali erano mancanti o le parti rilevanti che coprivano il tempo dell'omicidio sono state cancellate.
Il processo è stato rinviato al 3 marzo 2021, con grande apprensione da parte degli osservatori internazionali in quanto già l'udienza dinanzi al 10 ° tribunale penale di Diyarbakir il 21 ottobre 2020 è stata molto problematica perché, anche davanti a così gravi rilievi sulle indagini espressi dalla famiglia di Elçi nell’atto di costituzione di parte civile, la Corte ha rifiutato la richiesta degli avvocati della famiglia di essere ascoltati all'inizio dell'udienza, come previsto dal codice di procedura penale, ed ha declinato di ascoltare di persona gli agenti di polizia imputati, insistendo invece per ascoltarli tramite un sistema di videocomunicazione ufficiale, senza che tuttavia fossero visibili alla famiglia di Tahir Elçi o ai suoi avvocati, perché il piccolo schermo era troppo lontano da loro per essere visto, ed in violazione di legge perché non erano in presenza di un giudice designato al momento del loro esame, sicché non è stato possibile garantire il rispetto delle norme procedurali appropriate, compresa l’identificazione degli imputati. Neppure è stato concesso il controesame alle parti civili. C'erano poi diversi problemi tecnici che rendevano difficile ascoltare la dichiarazione degli imputati, e questi problemi tecnici non sono stati risolti dalla Corte, anche su richiesta degli avvocati della famiglia. In quell’occasione il tribunale ha rifiutato più volte di consentire agli avvocati di parlare e presentare le loro richieste. Ha minacciato gli avvocati e la signora Elçi che, se avessero insistito per parlare, sarebbero stati espulsi dall'aula con la forza. Gli avvocati hanno ricusato i giudici sulla base di questi eventi durante l'udienza. Tuttavia, il Tribunale non si è pronunciato su questa richiesta. Secondo il regolamento di procedura, prima di procedere con l'udienza, il giudice avrebbe dovuto preliminarmente decidere sull’istanza di ricusazione. Ci sono insomma gli elementi per temere che il processo non verrà trattato da un tribunale indipendente, imparziale e competente che sia in grado di stabilire i fatti e la verità sull'omicidio di Elçi, nel rispetto degli standard internazionali in materia di diritto ad un equo processo, ed in conformità con gli obblighi internazionali assunti dalla Turchia.
Suonano profetiche le dichiarazioni rilasciate da Demirtaş, co-presidente del Partito Democratico dei Popoli (HDP), alla morte dell’amico e collega Tahir Elçi: "Dubitiamo che questo omicidio politico sarà completamente risolto. Abbiamo il diritto di essere dubbiosi. Non potremmo dire addio ad altri amici caduti con la tranquillità che gli assassini saranno arrestati. Abbiamo lavorato affinché questo stato fosse di tutti, e ci stiamo ancora lavorando. L'assassino di Tahir non è lo stato, ma la mancanza dello stato"[34].
Ancora oggi l’opinione più diffusa è che quella di Tahir Elçi sia stata una vera e propria esecuzione dimostrativa, per via non solo delle modalità omicidiarie, ma anche del contesto nel quale sono occorse.
Tahir Elçi era noto per il suo impegno prioritario per la ripresa del processo di pace e la ricerca di una soluzione politica al conflitto curdo. Oltre alle sue difese in qualità di avvocato, era parte o in alcuni casi un membro fondatore di alcune tra le più prominenti organizzazioni non-governative turche, inclusa la Fondazione per i Diritti Umani in Turchia ed Amnesty International Turchia. Nel 2013 ha ottenuto la storica condanna della Turchia da parte della CEDU nel caso Benzer e altri v. Turchia[35], per il bombardamento da parte dei militari turchi di due villaggi con un aereo che, nel marzo 1994, che aveva causato la morte di più di 30 dei parenti stretti dei ricorrenti, ed il ferimento di alcuni dei ricorrenti, nonché la distruzione della maggior parte della loro proprietà e del bestiame. Il governo turco aveva ingiustamente incolpato del massacro il PKK. Prima ancora, negli anni ‘90 Elçi aveva difeso a Cizre i diritti dei curdi detenuti, torturati, e cercato giustizia per le vittime di sparizioni forzate, anche rischiando la propria vita per portare avanti queste azioni giudiziarie.
Ma, al momento dell’omicidio, stava ricevendo reiterate minacce di morte perché circa un mese prima, il 12 Ottobre 2015, durante un’intervista televisiva al canale nazionale della CNN Turk, aveva condiviso le sue visioni della questione curda e sulla fine del processo di pace, dichiarando che il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) non dovrebbe essere considerato un'organizzazione terroristica, perché quello tra il governo turco ed il PKK è da considerarsi un conflitto armato esteso alla popolazione Kurda che rivendica la propria identità culturale e civile, oltre che politica (“Anche se alcuni degli atti del PKK hanno natura terroristica, il PKK è un movimento politico armato... È un movimento politico con richieste politiche e con un sostegno molto forte nella società”), sostenendo che una risoluzione pacifica del conflitto richiederebbe il riconoscimento del fatto che il PKK, nonostante la sua documentata storia di violenza, è principalmente un'entità politica, con richieste politiche e con un sostegno significativo tra la popolazione civile del paese[36]. Concetto peraltro oggetto di dibattito giuridico a livello internazionale, che pochi mesi dopo il suo omicidio è stato confermato anche da una sentenza del Tribunale di Bruxelles del 3.11.2016, successivamente confermata anche dalla Cassazione belga[37].
A riprova del suo impegno per una soluzione pacifica del conflitto che infiammava il “Bakur”, il fatto che egli, al crescere dell’uccisione di civili nel corso delle operazioni da parte delle autorità turche, mentre la resistenza popolare alle operazioni si intensificava e si creavano i gruppi di autodifesa armata locali, ancora una volta aveva fatto appello alla calma ed al ritorno al processo di pace tra il governo e il PKK, ed insieme ad altri avvocati, aveva chiesto il permesso di visitare il leader imprigionato del PKK, Abdullah Ocalan, nella speranza che avrebbe lanciato un appello affinché i suoi seguaci smettessero di resistere con le armi. Il governo respinse la sua domanda. Ocalan il 28 settembre 2006 Öcalan aveva fatto rilasciare una dichiarazione al suo legale, Ibrahim Bilmez, in cui chiedeva al PKK di dichiarare un armistizio e cercare di raggiungere la pace con la Turchia, sostenendo la teoria del Confederalismo Democratico[38]. Il Comunicato di Öcalan affermava che "Il PKK non dovrebbe utilizzare le armi tranne che se attaccato con l'intento di annichilimento" e che "è molto importante costruire un'unione democratica tra i Turchi e i Curdi. Con questo processo la via al dialogo democratico verrà finalmente aperta". Per questo da allora aveva preso parte ai colloqui di pace. Il 27 febbraio 2015 le due parti erano pervenute ad un risultato storico, un accordo in 10 punti c.d. “Accordo di Dolmabahçe”, che prevedeva i pilastri per una soluzione democratica del conflitto. La dichiarazione fu presentata alla stampa internazionale dalle due parti coinvolte, che avevano accettato di iniziare i negoziati nella prigione dell'isola di Imrali con la partecipazione di Abdullah Ocalan ed il gruppo di monitoraggio nominato da Erdoğan e Ocalan. Ma, poco prima delle elezioni, il presidente Erdoğan respinse integralmente la dichiarazione e il processo di dialogo, e, dopo le elezioni nel corso delle quali il partito filocurdo di opposizione HDP ottenne brillanti risultati, iniziò la militarizzazione del sud-est curdo del Paese.
Elçi era un lucido analista delle conseguenze nefaste per il Paese dell’interruzione del processo di pace, e cercava una soluzione democratica e definitiva alla questione curda nel Paese, che evitasse il prolungarsi di quelle violenze nei confronti del suo popolo. Questa a suo avviso era possibile solo attraverso la dismissione della logica del nemico interno, mediante un dibattito pubblico onesto su quanto stava accadendo nel sud-est del Paese, sulla pericolosità dell’escalation di violenza che le operazioni militari avevano innescato. Per questo aveva chiesto di poter visitare Ocalan, per questo aveva rilasciato quell’intervista.
All’intervista sono seguiti il linciaggio mediatico, le minacce di morte, ed a distanza di pochi giorni, il 20 ottobre, l’arresto con l’accusa di aver diffuso "propaganda terroristica" a nome del PKK, reato punito con una pena massima di sette anni e mezzo di reclusione. L'Ordine degli avvocati all’epoca accusò le autorità di "criminalizzare la libertà di parola".
In una lettera congiunta alle autorità turche, the Lawyers for Lawyers Foundation (L4L), Fair Trial Watch (FTW) e Lawyers Rights Watch Canada (LRWC), in occasione dell’arresto dichiararono: “Ci opponiamo fermamente al modo in cui viene trattato il signor Elçi. Gli avvocati, come gli altri cittadini, hanno diritto alla libertà di espressione. In particolare, avranno il diritto di prendere parte alla discussione pubblica su questioni riguardanti la legge, l'amministrazione della giustizia e la promozione e protezione dei diritti umani. Il diritto alla libertà di espressione degli avvocati è esplicitamente stabilito nell'articolo 23 dei Principi Fondamentali delle Nazioni Unite sul ruolo degli avvocati.
Gli avvocati in Turchia, compreso il signor Elçi, svolgono un ruolo fondamentale nel documentare gli eventi che si verificano nel conflitto nel sud-est della Turchia e nel sostenere le vittime delle violazioni dei diritti umani. È essenziale che il prezioso ruolo svolto dagli avvocati in una società democratica come la Turchia sia riconosciuto dal governo turco, soprattutto in tempi difficili come questi. La Turchia è obbligata "a garantire che gli avvocati siano in grado di svolgere tutte le loro funzioni professionali senza intimidazioni, impedimenti, molestie o interferenze improprie" e "non subiranno né saranno minacciati di persecuzione di sanzioni amministrative, economiche o di altro tipo per qualsiasi azione intrapresa conformemente a doveri professionali, standard ed etica riconosciuti”(Articoli 16 e 17 dei Principi Fondamentali). Gli avvocati devono essere in grado di svolgere il proprio lavoro senza temere che ciò possa avere conseguenze negative per se stessi. Il trattamento del signor Elçi si pone in contraddizione con tali principi[39].
Il giorno stesso fu disposta la scarcerazione di Elçi a causa dell’immediata mobilitazione a livello internazionale in suo favore, ma gli venne imposto il divieto di viaggio all’estero fino alla conclusione delle indagini.
D’altronde, già in passato Elçi era stato arrestato e perseguitato in ragione della sua indipendenza di giudizio e di azione professionale, identificato con i propri assistiti del PKK. E la sua integrità e la ricerca di giustizia per il torto subito fu il motivo per cui ottenne l’ammirazione dei colleghi e l’amore del popolo
Tahir Elçi infatti, insieme ad altri avvocati turchi, si era rivolto alla Corte europea per i diritti umani per lamentare che nel novembre e nel dicembre 1993 erano stati detenuti da agenti delle forze dell'ordine con il pretesto di essere coinvolti in attività criminali, ma in realtà perché avevano rappresentato i propri assistiti dinanzi alla Corte per la sicurezza dello Stato ed erano stati coinvolti nel lavoro di documentazione delle violazioni dei diritti umani dai medesimi subite davanti alla Commissione Europea contro la Tortura. Tutti affermavano che la loro detenzione era illegale, ovvero era avvenuta in violazione dell'articolo 5 della Convenzione. Alcuni di loro, tra cui Tahir Elçi, lamentarono la violazione dell’articolo 3 della Convenzione, per essere stati torturati e comunque maltrattati nel corso della detenzione, e dell’articolo 8 della Convenzione ed 1 del Protocollo n. 1, per la perquisizione ed il sequestro di beni arbitrariamente subito al momento dell’arresto.
Tahir Elçi fu arrestato nel suo studio legale di Cizre. I suoi giornali, i suoi computer, i suoi fascicoli, vennero sequestrati. Anche la sua casa fu perquisita. Il trattamento che gli fu riservato fu terribile: “È stato denudato, insultato, minacciato e picchiato. I suoi testicoli sono stati strizzati e l'acqua fredda è stata versata su di lui. Questo è durato circa un'ora. Quindi hanno portato il ricorrente al comando della gendarmeria del distretto di Cizre dove è stato tenuto, bendato, per un paio di giorni in uno scantinato. Successivamente è stato consegnato al comando della gendarmeria provinciale di Diyarbakir.”
Solo dopo due giorni suo fratello è stato avvisato della sua detenzione. Per 15 giorni è stato trattenuto al comando della gendarmeria provinciale di Diyarbakir in regime di incommunicado detention. Ha affermato che durante questo primo periodo di detenzione è stato interrogato sotto tortura riguardo il motivo dei ricorsi che aveva presentato per conto dei clienti alla Commissione. La corrispondenza e la documentazione relativa a tali ricorsi gli sono state messe davanti dai suoi interrogatori. Avrebbe dovuto confessare di avere rapporti con il PKK e di essere un corriere del PKK. Quando si è rifiutato è stato torturato. Gli inquirenti lo hanno aggredito e insultato, in particolare riguardo a uno dei casi che aveva portato alla Commissione riguardante eventi nel villaggio di Ormaniçi. È stato spogliato e lasciato nudo. È stato minacciato di morte se avesse sostenuto l’accusa relativa ai casi di allontamento forzato ed alle sparizioni forzate dal villaggio. Ad un certo punto è stato portato in campagna su un veicolo militare e gli è stato detto che doveva essere ucciso. Tuttavia, si è rifiutato di firmare qualsiasi dichiarazione di confessione, anche dopo essere stato lavato con acqua fredda e dopo che gli avevano schiacciato i testicoli. Nel comando della gendarmeria era costretto a sdraiarsi su un pavimento di cemento, bendato, gli era proibito parlare con gli altri o alzarsi in piedi. Nel giro di 24 ore ha ricevuto una fetta di pane raffermo ed è stato portato in bagno due volte. Una richiesta di altre esigenze da soddisfare era una scusa per ulteriori sessioni di tortura. È stato portato davanti a un pubblico ministero il 10 dicembre 1993, e là gli sono state presentate accuse basate sulle dichiarazioni di un certo Abdülhakim Güven, un pentito del PKK che beneficiava della legge sul rimorso. È stato erroneamente affermato che una rivista e un documento illegali erano stati trovati nel suo ufficio. Suo fratello, Ömer, che era stato presente anche durante la ricerca e aveva controfirmato il rapporto di ricerca, ha potuto confermare questo errore, così come l'altro fratello, Mehmet, che era stato presente anche durante la ricerca. Un falso rapporto di ricerca (una copia inviata via fax non originale) ha soppiantato la versione autentica nel fascicolo del tribunale nazionale. Il ricorrente è stato detenuto in custodia cautelare da un giudice dal 10 dicembre 1993 al 17 febbraio 1994, quando è stato rilasciato dopo un'udienza dinanzi alla Corte per la sicurezza dello Stato. Nonostante le ripetute richieste dei suoi rappresentanti legali, i suoi fascicoli e la corrispondenza della Commissione presumibilmente non gli sarebbero mai stati restituiti. La sua attività professionale è stata irrimediabilmente danneggiata da questi procedimenti, dopo di che si è trasferito a Diyarbakır. Analogo il trattamento riservato ai suoi colleghi.
Nel caso Elçi and others v. Turchia (2013) la Corte riscontrò una violazione degli articoli 3, 5 § 1 e 8 della Convenzione nel trattamento riservato agli avvocati turchi ricorrenti[40].
E’ chiaro perché Tahir Elçi era un faro per gli avvocati turchi in un momento così difficile: perché aveva già navigato in acque burrascose, ed aveva guidato la nave in porti sicuri. Con la sua guida nella denuncia dei crimini contro l’umanità commessi durante il coprifuoco, gli avvocati procedevano sicuri, non cedendo davanti alle indagini, agli arresti, alle intimidazioni. La sua esecuzione pubblica è stata un segnale chiaro rivolto a chiunque fosse intenzionato a prendere il testimone del suo impegno professionale[41]. Nessun avvocato, dopo il suo omicidio, si sarebbe più sentito al sicuro. La risposta è stata collettiva: decine di migliaia di persone al suo funerale, e la sua foto in tutte le manifestazioni dell’avvocatura. Sotto, la scritta “non ti dimenticheremo mai”.
Se Tahir Elçi ha pagato con la morte il proprio impegno professionale, la fedeltà alla propria funzione, l’incorruttibilità della sua indipendenza, non è andata meglio ai difensori del leader del PKK Abdullah Öcalan.
Vale la pena ricordare che Abdullah Öcalan è stato riconosciuto tardivamente rifugiato politico dal Tribunale di Roma. Rapito dai servizi segreti turchi mentre si trovava in Kenya, in Turchia, all’esito di un procedimento sommario nel quale fu enormemente compresso il diritto di difesa, è stato condannato a morte, pena poi modificata nell’ergastolo a vita a seguito dell’abolizione della pena di morte in Turchia, e per dieci anni è stato detenuto da solo nell’isola prigione di Imrali. Dopo l’isola prigione si è popolata di altri cinque detenuti politici, all’esito della visita del Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d'Europa, che aveva censurato le condizioni di totale isolamento in cui veniva detenuto. Nel 2005, la Grande Camera della CEDU, nel caso Öcalan V. Turkey (Application no. 46221/99) ha stabilito che la Turchia aveva violato gli articoli 3, 5 e 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo rifiutando di consentire a Öcalan di presentare ricorso contro il suo arresto e condannandolo a morte senza un giusto processo[42]. La richiesta di Öcalan per un nuovo processo è stata rifiutata dai tribunali turchi. Per tutto il periodo di interruzione del processo di pace, ad Öcalan non è stato permesso di ricevere le visite dei famigliari. Nel 2014 la Corte EDU, nel caso nel caso Öcalan V. Turkey n.2 (Application n. 24069/03, 197/04, 6201/06 e 10464/07) ha ha ritenuto che vi fosse stata violazione dell'articolo 3 della Convenzione per quanto riguarda le condizioni di detenzione del ricorrente nel periodo di isolamento totale, e per quanto riguarda la condanna del ricorrente all'ergastolo senza possibilità di liberazione condizionale, constatando che, in assenza di qualsiasi meccanismo di revisione, l'ergastolo inflitto a carico del ricorrente costituiva una condanna “irriducibile” che costituiva un trattamento disumano. La Corte ha inoltre dichiarato che non vi era stata violazione dell'articolo 8 ritenendo legittime le restrizioni applicate al diritto di visita dei famigliari, per motivi di sicurezza e ordine pubblico.
Dal 27 luglio 2011 al 2 maggio 2019 il collegio difensivo di Abdullah Öcalan non è mai stato autorizzato a vederlo. Dal luglio 2011 al dicembre 2017 i suoi avvocati hanno presentato più di 700 ricorsi per visite, ma tutti sono stati respinti[43]. Il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa, nel suo ultimo rapporto relativo alla visita effettuata nel 2019 ad Imrali ha esortato le autorità turche “a prendere le misure necessarie per garantire che tutti i detenuti nella prigione di Imralı siano effettivamente in grado, se lo desiderano, di ricevere le visite dei loro parenti e avvocati. A tal fine, si dovrebbe porre fine alla pratica di imporre il divieto di visite familiari per motivi "disciplinari"”[44].
Il 2011 non è una data casuale: allora è iniziata la nuova ondata di persecuzione degli avvocati di Ocalan con il processo c.d. “KCK Lawyers/1”, nel quale sono imputati 46 avvocati, difensori di Ocalan, molti dei quali dopo l'arresto nel novembre del 2011 hanno scontato anni di custodia cautelare in carcere, accusati di essere collegati con la Unione delle Comunità del Kurdistan (KCK), considerata dal governo turco come organizzazione terroristica legata al PKK. Questo processo è solo uno dei processi KCK instaurati in tutto il Paese a seguito di maxi operazioni di polizia che hanno portato in tutta la Turchia all'arresto nel 2009 di oltre 8mila giornalisti, sindacalisti, politici, deputati, sindaci e consiglieri comunali, accusati di fare parte del KCK (ed oggi perlopiù condannati a svariati anni di carcere). Gli imputati di questo processo, tutti avvocati, hanno fatto parte del collegio di difesa di Abdullah Öcalan. Secondo l'accusa gli avvocati trasferivano istruzioni da parte di Ocalan ai suoi sostenitori. La difesa sostiene da sempre l'inconsistenza delle accuse, tenuto conto del fatto che i colloqui tra Ocalan ed i suoi difensori venivano video registrati ed avvenivano in presenza delle guardie carcerarie e, inoltre, che molte prove poste a fondamento dell'accusa sono false oppure sono state assunte illecitamente violando il diritto di difesa (ad esempio intercettazioni telefoniche disposte senza l'autorizzazione dell'A.G.). Questo processo è costruito su prove false: è stato accertato infatti che esso trae origine da indagini operate da polizia giudiziaria e Pubblici Ministeri attualmente indagati e detenuti da vari mesi poiché sono stati condannati per aver confezionato prove false in altri processi. La Corte costituzionale si era pronunciata dichiarando illegittima la Corte speciale che aveva iniziato il processo a carico dei 46 avvocati, che hanno subito una lunga carcerazione preventiva prima di essere rimessi in libertà. A seguito di questa pronuncia il processo e' stato trasferito innanzi al tribunale ordinario di Istanbul, con il numero di procedimento sopra indicato. Nell'udienza del 28 giugno 2016 gli avvocati avevano chiesto l'acquisizione degli atti relativi ai procedimenti che vedevano imputati i pubblici ministeri e il giudice che ha deciso sull'ammissione delle prove nel processo tenutosi davanti al Tribunale speciale, per avere costruito e ammesso prove false in oltre 240 altri procedimenti, e di attendere la pronuncia della Corte Costituzionale circa la (il)legittimità della prosecuzione del processo davanti a una Corte differente. La Corte ha accolto entrambe le istanze dei difensori. Nel corso del 2017 il processo ha subito alcuni rinvii formalmente motivati, tra l’altro, dal fatto che gli atti relativi agli altri procedimenti non erano stati ancora trasmessi nella loro interezza. All’udienza del 6 luglio 2017, tenutasi nonostante l’ennesimo cambio di collegio, circostanza che nel sistema processuale penale turco non determina la necessità di dover riaprire il dibattimento, prima dell’inizio dell’udienza il Tribunale si è rivolto agli osservatori internazionali presenti, dando loro il benvenuto, rimarcando però che la Costituzione turca non prevede la presenza di avvocati stranieri, ammessi solo perché l’udienza è pubblica. La sensazione, condivisa, è che la presenza alle udienze di alcuni processi in Turchia di avvocati dei maggiori Paesi europei, oltre che di alcune rappresentanze diplomatiche, passi tutt’altro che inosservata. L’esito dell’udienza non era scontato, nello scorso mese di aprile infatti il processo a carico degli imputati non avvocati, accusati di far parte del KCK, si era concluso a Diyarbakir con pesanti condanne, fino a 25 anni di reclusione. L’udienza si è svolta in un clima generale reso pesante dalle quotidiane azioni repressive ed i continui arresti di intellettuali, accademici, magistrati, pubblici funzionari, politici dell’opposizione, giornalisti, avvocati e perfino del Presidente della sezione turca di Amnesty International. La difesa in questo processo è compromessa dal fatto che tutti i difensori fanno parte dell'associazione degli avvocati libertari curdi ÖHD, che, in esecuzione del decreto emergenziale del 22 novembre 2016, è stata dichiarata illegale ed i cui beni sono stati confiscati. Da allora la persecuzione nei confronti dei colleghi appartenenti a tale associazione si è intensificata, dando origine anche al processo ÖHD. I colleghi a loro volta indagati per i medesimi reati non possono dunque più far parte del collegio difensivo[45]. Ad oggi il procedimento è pendente.
Paradossalmente (ma non troppo) anche il mio respingimento è legato al solo fatto di aver osservato i loro processi. Pochi mesi dopo il colpo di stato, sono stata respinta alla frontiera, dopo oltre 16 ore di trattenimento, con divieto permanente di reingresso. Nella sentenza di primo grado, confermata fino alla corte costituzionale turca, ed ora all’esame della Corte Europea per i Diritti Umani, si afferma che il provvedimento con il quale sono stata respinta ed è stato vietato il mio ingresso in Turchia è legittimo, a tutela della sicurezza nazionale e dell’ordine pubblico, in quanto la sottoscritta, stando alle informazioni fornite dal MIT (Servizi segreti turchi) “ha una stretta collaborazione con gli avvocati turchi e stranieri di Abdullah ÖCALAN, capo di un’organizzazione terroristica, ed ha partecipato alle udienze del processo Kongra-Gel (PKK)/KCK (cioè quello in cui sono imputati gli avvocati di Ocalan) come osservatore internazionale”.
[1]https://www.camera.it/leg17/995?sezione=documenti&tipoDoc=assemblea_allegato_odg&idlegislatura=17&anno=2015&mese=10&giorno=02
[2] https://undocs.org/A/HRC/20/19/Add.3 . Si veda anche L. PERILLI, Lo Stato di diritto, l’indipendenza della magistratura e la protezione dei diritti fondamentali: la tragica deriva della Turchia dal 2013, in La magistratura, 16 febbraio 2017, online. http://www.associazionemagistrati.it/doc/2514/lo-stato-di-diritto-lindipendenza-della-magistratura-e-la-protezione-dei- diritti-fondamentali-la-tragica-deriva-della-turchia-da.htm
[3] Ibidem, para. 64.
[4] Per approfondimenti: B. Spinelli – R. Giovene di Girasole, “Manuale per osservatori internazionali dei processi. La difesa dei diritti umani”, Nuova Editrice Universitaria, p.109 ss. In distribuzione gratuita su richiesta al C.N.F. http://www.nuovaeditriceuniversitaria.it/Libro-la-difesa-dei-diritti-umani.html
[5] Soyalp, N. (2019). A transdisciplinary perspective on the historical traumas among armenian, kurdish, and turkish people of anatolia: Transgenerational trauma, “Turkishness,” and the epistemologies of ignorance (Retrieved from https://search.proquest.com/dissertations-theses/transdisciplinary-perspective-on-historical/docview/2334214331/se-2?accountid=9652.
Bolton, P., Michalopoulos, L., Ahmed, A. M., Murray, L. K., & Bass, J. (2013). The mental health and psychosocial problems of survivors of torture and genocide in Kurdistan, Northern Iraq: A brief qualitative study. Torture, 23, 1– 14.
Daud, A., Skoglund, E., & Rydelius, P.‐A. (2005). Children in families of torture victims: Transgenerational transmission of parents' traumatic experiences to their children. International Journal of Social Welfare, 14, 23– 32.
aitz, M., Levy, M., Ebstein, R., Faraone, S. V., & Mankuta, D. (2009). The intergenerational effects of trauma from terror: A real possibility. Infant Mental Health Journal, 30, 158– 179.
[6] https://iadllaw.org/2020/12/a-life-dedicated-to-justice-and-struggle-ebru-timtik/
[7] “Il golpe del 1980 concluse nel modo più drammatico uno dei periodi più bui della storia turca: episodi di violenza tra militanti dell’estrema sinistra e dell’estrema destra, tra maggioranza sunnita e minoranza alevita, nascita del PKK e del terrorismo curdo inizialmente diretto contro rivali tribali e feudali, grave crisi economica, incapacità dei leader politici dell’epoca, Demirel e Ecevit, di affrontare la situazione con una visione politica chiara avevano condotto il Paese in una guerra civile strisciante. La maggioranza della classe media (e non solo) turca accolse il golpe militare con un sospiro di sollievo, come del resto fece anche lo schieramento occidentale. Ma il sollievo durò molto poco, in quanto la svolta autoritaria si rivelò particolarmente pesante per il Paese, con un tentativo in buona parte riuscito di completa depoliticizzazione del Paese: chiusura del Parlamento, scioglimento di partiti, sindacati e associazioni, censura permanente. Non solo i movimenti di estrema sinistra e quelli filoislamici (nella cui nascita qualche anno prima molti vedono la longa manus dei militari nel tentativo di contrastare i primi), ma anche i repubblicani, i nazionalisti e gli attivisti curdi pagarono conseguenze durissime. Dal golpe scaturì poi la Costituzione del 1982, simbolo tuttora vigente di una difficile sintesi islamico-nazionalista filoccidentale in chiave autoritaria che ha plasmato la Turchia moderna ma ha anche contribuito a creare ulteriori tensioni, in particolare aggravando la questione curda e contribuendo al consolidarsi del ruolo chiave del PKK” Fonte: http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DOSSIER/0/940332/index.html?part=dossier_dossier1-sezione_sezione6-h1_h121 .
[8] https://www.hrw.org/report/2012/09/03/time-justice/ending-impunity-killings-and-disappearances-1990s-turkey ; https://www.hrw.org/sites/default/files/reports/TURKEY933.PDF .
[9] https://en.wikipedia.org/wiki/Saturday_Mothers
[10] "Conflict Studies Journal at the University of New Brunswick". Lib.unb.ca. Retrieved 29 August 2010. Jongerden, Joost (2007-05-28). The Settlement Issue in Turkey and the Kurds: An Analysis of Spatial Policies, Modernity and War. BRILL. p. 82. Human Rights Watch/Helsinki, “Turkey’s failed policy to aid the forcibly displaced in the southeast,” A Human Rights Watch report, vol. 8, no. 9 (D),June 1996. Human Rights Watch, “Displaced and Disregarded: Turkey’s Failing Village Return Program,” A Human Rights Watch report, vol. 14, no. 7 (D), October 2002.
[11] Si veda ad esempio European Court of Human Rights, Osmanoğlu v. Turkey, judgment of 24 January 2008, Sayği v. Turkey, judgment of 27 January 2015, Orhan v. Turkey, judgement of 6 November 2002, ed altri.
[12] E che, dopo il colpo di stato, sono state perpetrate anche in danno dei sospetti gulenisti: https://www.hrw.org/news/2020/04/29/turkey-enforced-disappearances-torture .
[13] https://espresso.repubblica.it/internazionale/2015/10/12/news/turchia-tremila-morti-in-tre-mesi-bombe-cecchini-attentati-cosi-muore-la-democrazia-1.234010
[14] Resolution of the Parliamentary Assembly of the Council of Europe on the functioning of democratic institutions in Turkey,Resolution 2121 (2016), 22 June 2016, paragraph 10
[15] https://www.crisisgroup.org/content/turkeys-pkk-conflict-visual-explainer
[16] http://www.staticfiles.it/clients/ggdd/file- ; https://ilmanifesto.it/Demirtaş-entra-a-cizre-testimonianza-di-avvocata-italiana-e-assedio-e-strage/reposit/posts/2015/09/20150921110852/documents/ggdd_20150921110852.pdf ; https://www.repubblica.it/solidarieta/emergenza/2015/10/30/news/il_kurdistan_nella_morsa_turco-siriana_tra_le_esecuzioni_sommarie_e_la_ricostruzione_di_kobane-126244488/ .
[17] Si veda in particolare ZAGATO L. , Il coprifuoco in Turchia e la violazione di massa dei diritti umani. Sulla via di un genocidio culturale? , Ricerche giuridiche e-ISSN 2281-6100
Vol. 6 – Num. 1 – Giugno 2017. Online qui : https://edizionicafoscari.unive.it/media/pdf/article/ricerche-giuridiche/2018/1/art-missing-article-doi_nKXob2Y.pdf , https://ekurd.net/genocide-kurdish-case-turkey-2018-02-06 , https://it.scribd.com/doc/60669321/Kurtlerin-sonu-haydar-isik , https://tr.wikipedia.org/wiki/K%C3%BCrt_Sorununda_Demokratik_%C3%87%C3%B6z%C3%BCm_Bildirgesi
https://www.aninews.in/news/world/middle-east/kurdish-leader-says-turkey-pursuing-socio-political-genocide-against-kurds20191221203508/ , Cultural Genocide and Asian State Peripheries, a cura di B. Sautman, Springer, 2006, p.12. Social Inequality & The Politics of Representation, Di Celine-Marie Pascale, sez. 15 Language as a means of civilizing the kurdish women in Turkey, p.234. M. Van Bruinessen, Genocide of the Kurds, in “The Widening Circle of Genocide”, di Israel W. Charney, Transaction Publishers, 1994.
[18] https://rm.coe.int/ref/CommDH(2016)39 ; https://www.venice.coe.int/webforms/documents/?pdf=CDL-AD(2016)010-e , para 98-100.
[19] https://armedia.am/eng/news/26435/turkish-policeman-killed-pregnant-woman.html
[20] https://bianet.org/english/print/169283-4th-day-of-curfew-in-nusaybin-one-dead-four-wounded ; https://www.ilmattino.it/primopiano/esteri/donna_curda_incinta_uccisa_polizia_turca_foto-1359359.html .
[21] https://100-reasons.org/selamet-yesilmen/
[22] https://hakikatadalethafiza.org/wp-content/uploads/2016/07/2016.07.02_Idil-KadinCocukRaporu-EN.pdf
[23] https://www.nytimes.com/2015/10/06/world/europe/turkey-to-investigate-images-of-dead-kurdish-man-being-dragged.html ; https://observers.france24.com/en/20151008-turkey-police-dragged-streets-kurdish-video .
[24] https://ahvalnews.com/turkey-kurds/turkish-court-overturns-acquittal-kurdish-man-charged-attending-sons-funeral
[25] https://www.giuristidemocratici.it/Comunicati/post/20151105131006
[26] Abdullah Kaplan v. Turkey (no. 4159/16), Adem Tunc v. Turkey (no. 4552/16), Ahmet and Zeynep Tunc v. Turkey (no. 4133/16), Ahmet Tunc v. Turkey (no. 39419/16), Alpaydinci and Others v. Turkey (no. 10088/16),
Altun v. Turkey (no. 4353/16), Balcal and Others v. Turkey (no. 8699/16), Bedri and Halime Duzgun v. Turkey (no. 901/16), Caglak v. Turkey (no. 2200/16), Cengiz Abis and Others v. Turkey (no. 10079/16), agli and Others v. Turkey (no. 6990/16), Dolan v. Turkey (no. 9414/16), Erkaplan v. Turkey (no. 10085/16), Eroglu v. Turkey (no. 478/16), Gecim v. Turkey (no. 5332/16), Gorgoz v. Turkey (no. 480/16), Inan v. Turkey (no. 2105/16), Irmak v. Turkey (no. 5628/16), Karaduman and Cicek v. Turkey (no. 6758/16), Karaman v. Turkey (no. 5237/16), Kaya v. Turkey (no. 9712/16), Koc and Others v. Turkey (no. 8536/16), Omer Elçi v. Turkey (no. 63129/15), Oncu v. Turkey (no. 4817/16), Oran v. Turkey (no. 1905/16), Paksoy v. Turkey (no. 3758/16), Sariyildiz v. Turkey (no. 4684/16), Seniha Surer and Others v. Turkey (no. 10073/16), Seviktek v. Turkey (no. 2005/16), Sultan and Suleyman Duzgun v. Turkey (no. 891/16), Tunc and Yerbasan v. Turkey (no. 31542/16), Uysal v. Turkey (no. 63133/15), Vesek v. Turkey (no. 63138/15), Yavuzel and Others v. Turkey (no. 5317/16).
[27] Human Rights Watch interview with Ramazan Demir, January 22, 2019. https://www.hrw.org/report/2019/04/10/lawyers-trial/abusive-prosecutions-and-erosion-fair-trial-rights-turkey#_ftn67
[28] V. anche : “Turkey: State Blocks Probe of Southeast Killings,” July 11, 2016: https://www.hrw.org/news/2016/07/11/turkey-state-blocks-probes-southeast-killings
[29] https://rm.coe.int/168070cff9 , para. 41, p.10.
[30] Per approfondimenti: B. Spinelli – R. Giovene di Girasole, “Manuale per osservatori internazionali dei processi. La difesa dei diritti umani”, Nuova Editrice Universitaria, p. 126 ss. In distribuzione gratuita su richiesta al C.N.F. http://www.nuovaeditriceuniversitaria.it/Libro-la-difesa-dei-diritti-umani.html
[31] https://en.wikipedia.org/wiki/Siege_of_Sur_(2016) ; https://www.hdp.org.tr/Images/UserFiles/Documents/Editor/amnestyreporteng.PDF https://www.amnesty.org/en/latest/news/2016/12/turkey-curfews-and-crackdown-force-hundreds-of-thousands-of-kurds-from-their-homes/ .
[32] https://forensic-architecture.org/investigation/the-killing-of-tahir-Elçi
[33] https://www.uianet.org/es/valores/joint-statement-case-concerning-killing-tahir-Elçi-and-lack-effective-investigation-his
[34] https://english.alaraby.co.uk/english/comment/2015/12/1/the-death-of-turkeys-tahir-el%C3%A7i
[35] https://hudoc.echr.coe.int/app/conversion/pdf/?library=ECHR&id=001-128036&filename=001-128036.pdf
[36] Due settimane dopo, ha spiegato i suoi commenti al giornalista freelance Yvo Fitzherbert. "Non l'ho detto perché sostengo il PKK", ha detto, nei commenti pubblicati dopo la sua morte. "Piuttosto, volevo affermare un fatto riguardo alla loro legittimità agli occhi di molti curdi" https://english.alaraby.co.uk/english/comment/2015/12/1/the-death-of-turkeys-tahir-el%C3%A7i
[37] https://www.retekurdistan.it/2020/01/14/corte-di-cassazione-pkk-non-organizzazione-terroristica-ma-parte-belligerante/?fbclid=IwAR3G8UR4kfC2p5-K3SPrSnJEEq3EWCUU3WcqbYfKQWDVaTBgWkLQNgMFGRk.
[38] http://ocalanbooks.com/downloads/it-confederalismo-democratico.pdf
[39] https://www.lrwc.org/turkey-arrest-and-investigation-of-human-rights-lawyer-tahir-Elçi-letter/
[40] http://echr.ketse.com/doc/23145.93-25091.94-en-20031113/
[41] https://www.dinamopress.it/news/perche-dobbiamo-tenere-viva-la-memoria-di-tahir-Elçi /
[42] http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-69022
[43] http://www.freeocalan.org/news/english/lawyers-meet-with-ocalan-for-the-first-time-in-8-years
[44] http://hudoc.cpt.coe.int/eng?i=p-tur-20190506-en-13
[45] Paragrafo estratto da: B. Spinelli – R. Giovene di Girasole, “Manuale per osservatori internazionali dei processi. La difesa dei diritti umani”, Nuova Editrice Universitaria, p.120 In distribuzione gratuita su richiesta al C.N.F. http://www.nuovaeditriceuniversitaria.it/Libro-la-difesa-dei-diritti-umani.html
PENSIERI PER IL FUTURO
Cari lettori e lettrici, care amiche e amici,
alla fine di questo difficilissimo e lunghissimo anno noi della redazione di Giustizia Insieme sentiamo il bisogno di ringraziarvi per l’affetto e la costante, a volte inaspettata attenzione con cui ci avete sempre seguito nel nostro percorso. Vogliamo farlo regalandovi le parole di alcune donne e uomini, a ciascuno di noi e in diversi modi care, che nel 2020 ci hanno dolorosamente lasciato.
Vedrete però che non sono parole tristi: sono parole di speranza, di impegno e di ispirazione - e anche di leggerezza! - scelte per accompagnarci prendendoci per mano nella strada che si stende davanti a noi, parole che ci fanno sentire meno soli e che ci spingono a migliorare ancora e a rinnovare, anche noi, il nostro impegno per fare sempre di più
Giustizia Insieme.
Buon 2021 dalla Redazione
Gli effetti del lockdown su bambini e adolescenti
Intervista di Betta Pierazzi a Lino Nobili e a Sara Uccella
Quali sono gli effetti e breve e lungo termine del lockdown sulla costruzione dell’identità, e dell’identità sociale, dei ragazzi? Quanto e come i social media possono aiutare, e quali sono le strade da evitare? Come dovrà cambiare la scuola quando si tornerà, appena possibile, alla normalità?
Dieci risposte di due importanti neuropsichiatri infantili per orientarci nel groviglio di domande, preoccupazioni e incertezze sugli effetti della forzata limitazione dei contatti sociali dovuta alla pandemia.
I possibili rischi per i bambini e gli adolescenti, i segnali da tenere sotto controllo, le migliori strategie personali e familiari e le priorità da seguire come collettività per fare i conti con le conseguenze di quell’incredibile esperimento sociale che, tra le altre cose, è stato il lockdown.
1. Nel giugno scorso il Dipartimento di Neuropsichiatria infantile dell’Ospedale Gaslini di Genova da lei diretto, professor Nobili, ha svolto una ampia indagine sull’impatto psicologico e emotivo del lockdown sulle famiglie italiane. Cosa è emerso, quali sono stati e con quale incidenza i disturbi o comunque le conseguenze a breve termine del lockdown e della pandemia in generale per i bambini e gli adolescenti? E ci sono state differenze tra le varie fasce d’età?
L’indagine in realtà, pur essendo stata pubblicata sul sito del Ministero a giugno, è nata agli esordi del confinamento in Italia. Quando l’abbiamo lanciata nel web, il primo intento era cercare di capire che effetto stessero avendo la pandemia ed il confinamento, dettato dalle misure di contenimento del contagio, sulle famiglie. In particolare volevamo vedere se c’erano differenze tra famiglie con o senza minori in casa.
All’indagine hanno risposto in quasi settemila partecipanti adulti, chi con figli chi senza. Nella maggioranza della popolazione (più del 95%) sono stati dichiarati cambiamenti comportamentali, vale a dire maggiore difficoltà a concentrarsi, disturbi del sonno (come risvegli notturni, incubi, difficoltà ad addormentarsi), cambiamenti d’umore, esacerbazioni di malattie croniche o sensazioni corporee inspiegate (che afferiscono all’area delle reazioni che il corpo ha nei confronti di un evento stressante o traumatico). Nella popolazione dei genitori di bambini e ragazzi al di sotto dei 18 anni lo stress è stato in media maggiore, con picchi più elevati nella fascia dei genitori con figli in età prescolare (al di sotto dei 6 anni). Nelle risposte dei genitori poi, i cambiamenti comportamentali nei figli sono stati riportati da più della metà dei figli, con circa il 64% dei figli al di sotto dei sei anni e circa il 72% nei figli nella fascia di età 6-18. Per i più piccoli, i sintomi maggiormente osservati sono stati maggiore irritabilità, difficoltà ad andare a dormire da soli e risvegli notturni. Per la fascia 6-18 invece più frequentemente si sono osservate sensazioni corporee come sensazione di fame d’aria e disturbi del sonno a tipo “ritardo di fase” ovvero difficoltà ad addormentarsi e a svegliarsi la mattina. Il disagio dei figli correlava con il disagio dei genitori (che era maggiore se in casa erano presenti anche persone con più di 65 anni o se il genitore riferiva fragilità psicologiche pregresse).
2. Quali prevedete possano essere le conseguenze a medio e lungo termine?
E’ difficile prevedere le reali conseguenze a lungo temine di questo momento storico. Attualmente ci rendiamo conto, anche nella nostra attività clinica, che questa situazione di isolamento sociale e di paura ha esacerbato (soprattutto nelle famiglie meno fortunate da un punto di vista socioeconomico, dove gravano disagi psichici noti o misconosciuti, o pregresse problematiche relazionali interne) disturbi psicologici e comportamentali anche severi.
3. Quali “strategie di sopravvivenza” domestica si sono rivelate migliori durante il periodo del lockdown? Quali gli elementi di rischio e quali quelli di forza all’interno delle famiglie?
La World Health Organization[1] e l’Unicef[2] (per i bambini) avevano stilato a inizio della pandemia dei suggerimenti per affrontare il confinamento forzato. Sicuramente cercare di stare assieme bene in famiglia, impiegando del tempo per intrattenersi, provando a distogliere l’attenzione da notizie sul virus è la prima cosa da fare. Cercare di scandire i ritmi della giornata, fare esercizio fisico regolarmente, mangiare sano e trovare delle abitudini regolari (anche nell’andare a dormire) sono le regole d’oro per la “sopravvivenza domestica”. Questo, è stato anche quanto emerso dalla nostra indagine, dove chi ha avuto meno tempo per mettere in atto queste strategie, sono stati proprio i genitori dei bambini più piccoli, che hanno dovuto lavorare, gestire i bimbi a casa ed occuparsi dei nonni (categorie a rischio), nello stesso tempo.
4. Pochi mesi dopo la vostra indagine, a novembre, uno studio pubblicato sulla rivista Psychiatry Advisor[3] ha evidenziato che i bambini e gli adolescenti che svolgono più ore di attività nella “vita reale” sono più soddisfatti della propria vita, più ottimisti e in sostanza più felici, mentre quelli che trascorrono più tempo davanti agli schermi hanno livelli superiori di ansia e depressione. Avete rilevato anche voi questa correlazione, anche nel periodo precedente la pandemia?
Abbiamo letto l’articolo non appena uscito, davvero interessante. Dice tante cose che sarebbero dovute essere ribadite anche prima e dovrebbero esserlo ancora di più ora.
Sicuramente, come già hanno mostrato anche studi su animali, l’attività fisica e ludica, svolta insieme ai propri pari, è in grado di far produrre “neurotrasmettitori” benefici per la nostra salute psico-fisica, in modo nettamente maggiore che se eseguita in solitudine.
Il nostro studio non prendeva strettamente in considerazione questi aspetti, anche se fondamentali, perché abbiamo cercato di avere informazioni a largo raggio su adulti e loro figli e non volevamo che il questionario durasse troppo tempo. Sicuramente il confinamento ha messo un freno a mano forzato a quelle attività della “vita reale” che colorano l’esistenza umana e fanno crescere, oltre a rendere più felice. Ci sarà da lavorare in questo senso (nel favorire gli incontri, quelli in carne ed ossa), cercando di rispettare comunque le norme di prevenzione pubblica di contenimento dei contagi.
5. In questo periodo quanto e come la socialità a distanza ha saputo supplire alla assenza della socializzazione in presenza? Ci sono differenze nell’utilizzo dei social da parte dei ragazzi rispetto a prima della pandemia?
Sicuramente le videochiamate via Zoom e Skype, gli eventi in streaming su piattaforma digitale (Facebook, Instragram, Youtube...) possono aver dato un certo grado di beneficio, che è stato osservato anche nel nostro studio. Dall’altro lato, un utilizzo improprio dei socials per restare iperconnessi ha dato l’effetto contrario, anche nel nostro campione (per quanto riguarda i ragazzi e adolescenti tra i 6 ed i 18 anni di cui i genitori hanno descritto i cambiamenti comportamentali nella nostra intervista). Questo è un po’ quello che sta raccontando anche la letteratura di questi mesi: se da una parte potersi connettere agli altri dà un senso di appartenenza, dall’altro può anche generare alienazione; così come l’utilizzo della tecnologia e dell’informazione può avvicinare chiunque alle recenti innovazioni, dall’altro può aumentare sentimenti di frustazione ed impotenza, portando anche a sviluppare sintomi ansioso-depressivi, anche nei più giovani.
6. Il lockdown ha imposto anche agli adolescenti che trascorrevano poco tempo in casa di “rimanere in famiglia”, e tutt’ora la socialità con i gruppi dei pari è fortemente limitata per le restrizioni agli incontri. A me pare che l’isolamento abbia un impatto diverso su un adulto, un bambino e un adolescente, perché le relazioni sociali degli adulti si sono costruite nel tempo e dunque possono meglio resistere ad un momentaneo allentamento dei rapporti; quelle dei bambini sono in fase di sperimentazione, anche se forse sono ancora legate in prevalenza alla famiglia, mentre per gli adolescenti questo è il momento in cui tutto succede. Vi domando, quindi, quali sono per i bambini e gli adolescenti gli effetti di un periodo così lungo di deprivazione sociale?
Riteniamo che lei abbia toccato molti spunti interessanti. Da un lato, è vero che i bambini più piccoli potrebbero avere risentito meno dell’aspetto di deprivazione sociale, ma sicuramente hanno vissuto molto i sentimenti e le emozioni dei loro genitori (mai come in questo periodo i bambini hanno respirato “l’aria che tira” in casa). Pertanto, l’esperienza dei più piccoli è stata fortemente e inevitabilmente correlata con la modalità di reazione familiare al confinamento. Per quanto riguarda invece gli adolescenti, la traiettoria è stata sicuramente diversa. L’adolescenza è il momento di differenziazione di un individuo che, distaccandosi dalle idee di riferimento del gruppo parentale e familiare, intraprende il suo processo di individuazione. Sicuramente i vari socials (Whatsapp, Instagram, e tanti altri che adesso vanno di moda tra i preadolescenti e gli adolescenti e di cui nemmeno conosciamo il nome) possono aver aiutato a supplire una carenza di esperienze ed affettiva. Gli adolescenti infatti sembrano un mondo a parte, in grado di fare coesione e gruppo tra pari. Tuttavia, i ragazzi più isolati o provenienti da contesti familiari più sfavorevoli o che già prima dello scoppio della pandemia presentavano fragilità psicologiche sono stati sicuramente penalizzati da questo momento storico. C’è chi, tra questi ultimi, ha sofferto molto (i ricoveri per urgenze psicologiche nel nostro reparto sono raddoppiati, per non parlare del numero di accessi in pronto soccorso) e chi invece ha mantenuto una apparente condotta di comfort durante questo isolamento sociale. E’ possibile che in quest’ultima situazione abbia svolto un ruolo anche la paura dell’altro e del nuovo. Ne verificheremo gli effetti nel momento di normalizzazione della regolamentazione sociale.
Nel nostro campione, dove è possibile che abbiano riposto i genitori più in difficoltà, i cambiamenti comportamentali nella fascia 6-18 sono stati osservati, come menzionavamo prima, ad ampio raggio.
7. La fortissima pressione sui ragazzi in questo periodo per “restare a casa” e dunque con i genitori può avere avuto un effetto dannoso sulla loro capacità di acquisire e costruire la loro indipendenza? Quali possono essere le conseguenze? E quali spazi di intimità e autonomia è possibile e sano offrire ai bambini e a ai ragazzi anche in questa fase?
Siamo comunque fiduciosi nella forza dell’adolescenza e degli adolescenti. Sarà stato e sarà faticoso, ma pensiamo che i ragazzi sapranno cogliere da questa esperienza forze per il futuro. Certo, tutto ciò dipende anche dalla loro maturità e dall’ambiente familiare, nonchè dal substrato culturale. Anche pur restando in casa è comunque necessario mantenere un giusto compromesso tra indipendenza e osservanza delle regole; questo per tutti, grandi e piccini.
8. Questa domanda sono, in realtà, due domande. I genitori e chi si occupa di bambini e adolescenti si chiedono come ha influito sui ragazzi l’allontanamento dal luogo fisico della scuola e dalla vita comunitaria, e come influirà nel lungo periodo per quelli che ancora devono frequentare le lezioni a distanza. La prima domanda dunque è se ci saranno problemi a medio e lungo termine per l’apprendimento e l’educazione a stare insieme.
Sono consapevole però anche della complessità e varietà delle diverse possibili situazioni. Ad esempio, la stragrande maggioranza dei bambini e dei ragazzi chiede a gran voce di poter tornare in classe, ma una cara amica che insegna in un liceo mi ha raccontato che alcuni studenti, che a scuola rimanevano abitualmente in disparte, nel lockdown hanno inaspettatamente cominciato a partecipare alle lezioni e a interagire con i compagni e gli insegnanti molto vivacemente (lei ha detto che sono “rinati”).
In questo caso, quali sono i meccanismi che possono spiegare il cambiamento?
La mancanza della scuola in questi mesi è sicuramente un costo che stiamo pagando e pagheremo tutti come società. Non è pensabile che un anno tra le mura di casa sia paragonabile a quello che accade tra i banchi di scuola, non solo a livello di apprendimento ma soprattutto per quel che riguarda la quantità di esperienze che la scuola porta con sé (il rapporto con i pari, quello con altri adulti differenti da quelli circolanti attorno al proprio nucleo familiare, la varietà di culture e la crescita stessa delle autonomie individuali). Ora la scuola deve adattarsi a questi tempi e trovare una didattica alternativa, che non sia solo frontale (così come spesso avviene anche in modalità “didattica a distanza”) ma che consenta di sviluppare il più possibile l’interazione, la discussione e che, ancor più di prima, cerchi di infondere nei ragazzi il piacere del sapere, della ricerca, anche autonoma, del sapere. In questo modo, quando potremo ritornare a una situazione “normale”, i nostri ragazzi potranno avere anche forse risorse in più.
Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, riguardante i ragazzi più “isolati”, questi probabilmente messi in una condizione di comfort come quella delle mura domestiche (dove sono meno giudicati per l’aspetto fisico, il loro modo di essere o di vestire) potrebbero in effetti essere stati avvantaggiati da una didattica a distanza. Si tratta comunque di un risultato, di cui però non bisogna accontentarsi: bisognerà controllare che questi ragazzi restino agganciati all’interno del gruppo, pur mantenendo la propria individualità ed unicità.
9. Secondo voi, ci sono state differenze nell’utilizzo dei social da parte dei ragazzi rispetto a prima della pandemia? E la socialità a distanza ha saputo supplire alla mancata socializzazione in presenza? Lo domando anche perché mi è stato suggerito che forse le maxirisse dei ragazzi delle settimane scorse potrebbero essere in qualche modo correlate con le limitazioni sociali dovute alla pandemia. È possibile che l’assuefazione ad una socialità virtuale renda meno empatici i bambini e gli adolescenti? E in questo caso, quali sarebbero i rischi per i singoli e per la collettività?
Come spiegavamo prima, sicuramente in parte i social hanno supplito. Ma non potrà essere così per sempre. Sicuramente i ragazzi ora sono abituati, si sono organizzati quindi in media potrebbe esserci un utilizzo più consapevole; dall’altro lato però sono anche stanchi e questo ha generato molto più malumore ed apatia, anche nel cercare l’altro a distanza.
Quanto alle vicende di cronaca legate alle maxirisse, crediamo più che altro che le persone non siano abituate a sentire la propria libertà limitata. Siamo tutti figli di una società che non ci ha insegnato il diniego ed il sacrificio e culturalmente siamo abituati, noi occidentali, ad avere un sufficiente margine di scelta. Ciò può aver aumentato i livelli di rabbia ed esplosività in alcuni gruppi di adolescenti. È sottile comunque parlare di assuefazione alla socialità virtuale e di riduzione dell’empatia. Uno studio interessante di Tomova ed altri[4], uscito in parallelo con l’inizio del confinamento, spiegava che l’isolamento porta a dei meccanismi simili alla fame, attivando circuiti molto ancestrali. Senza dilungarci oltre sulla biologia e le neuroscienze di questo tipo di fenomeni, è possibile che questo periodo di isolamento del primo “lockdown” abbia avuto i suoi effetti.
10. Infine, una domanda specifica sui bambini: la rappresentazione della vicinanza fisica come fonte di pericolo dal quale guardarsi, in una fase evolutiva nella quale si sperimenta e si incontra il mondo, rischia di avere delle conseguenze sulla loro capacità di avvicinarsi e fidarsi dell’altro? Quali sono le strategie per evitare che questo accada?
I bambini fanno tendenzialmente quello che i genitori insegnano loro. La rappresentazione della vicinanza fisica come fonte di pericolo è un problema che andrà affrontato, ma crediamo non per tutti. Ci sarà da rinsegnare ad alcuni bambini a non avere paura dell’altro. E come società dovremo essere pronti a questo passo.
Grazie!
Grazie a voi. Speriamo che questo possa essere spunto per nuove strategie di intervento anche ad alti ranghi!
Lino Nobili (professore ordinario di neuropsichiatria infantile presso l'Università di Genova)
Sara Uccella (dottoranda presso l’Università degli Studi di Genova su un progetto di ricerca su sonno, prematurità e sviluppo psichico)
[1] https://www.who.int/docs/default-source/coronaviruse/mental-health-considerations.pdf
[2] https://www.unicef.org/serbia/en/how-cope-new-situation-during-COVID-19-epidemic
[3] https://www.psychiatryadvisor.com/home/topics/child-adolescent-psychiatry/real-life-activities-lead-to-happier-teens/
[4] https://www.biorxiv.org/content/10.1101/2020.03.25.006643v1
Gli effetti della pandemia su diseguglianza e crescita economica
Intervista di Franco Caroleo a Giuseppe Arbia
Giuseppe Arbia (professore di Statistica economica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma) nel 2016 ha scritto un saggio intitolato “Diseguaglianza, redistribuzione e crescita”, in cui ha trattato la questione della diseguaglianza nella distribuzione dei redditi e il suo rapporto con la crescita economica.
Il tema è tornato di estrema attualità ora che la pandemia sembra aprire nuovi scenari di diseguaglianza economica, tutti ancora da decifrare.
Seguendo un approccio empirico-induttivo, basato il più possibile su dati obiettivi, l’intervista ripercorre gli effetti economici della pandemia e in particolare le sue conseguenze negative sulla diseguaglianza dei redditi e sulla crescita economica.
Quali potrebbero essere le misure da adottare per contenerne gli effetti negativi?
Professore, quali sono gli effetti economici più rilevanti provocati dalla pandemia e dalle misure di contenimento adottate nei diversi paesi? Che tipo di dati abbiamo a disposizione attualmente e come vanno esaminati?
L’esplosione dell’epidemia del virus Sar-Cov-2 ha procurato un immediato danno all’economia e sollevato importanti preoccupazioni relative all’impatto economico nel medio e lungo periodo. Sull’argomento non c’è concordanza di opinioni. A me piace fondare le mie osservazioni su elementi obiettivi e, purtroppo, i dati empirici affidabili sui quali fondare conclusioni rigorose non sono molti. Parlando del nostro paese, tuttavia, è proprio di qualche giorno fa un interessante rapporto dell’Ufficio Studi dell’Unioncamere (https://www.lavoce.info/archives/71202/nuove-imprese-chiuse-dalla-pandemia/), basato sui dati mensili relativi alle iscrizioni e le cancellazioni dal registro delle imprese delle Camere di Commercio, il quale ci può fornire un’idea abbastanza precisa dell’impatto che sta avendo la pandemia sul processo di nascita e morte delle imprese. Dai dati presentati nel rapporto si evince come nel primo trimestre del 2020 (mesi nei quali la pandemia ha iniziato a diffondersi) il numero delle iscrizioni abbia registrato un picco negativo col valore minimo nel mese di Aprile (con un -65,5 % rispetto all’Aprile del 2019). Tale calo persiste anche nel secondo trimestre (quando il tendenziale delle iscrizioni scede a -37,1 % rispetto all’anno precedente), per poi tornare ai livelli degli anni precedenti nel terzo trimestre quando la situazione dell’epidemia sembrava tornata sotto controllo (vedi la Figura 1). Questi dati quantificano un aspetto importante della crescita economica mostrando un indicatore che sembra reagire molto rapidamente agli stimoli negativi. Il valore minimo, invero, corrisponde al mese di Aprile proprio quando si era al picco dell’epidemia (raggiunto il 19 Aprile), ma anche nel lockdown più rigido (che si protrasse fino al 4 Maggio). Resta quindi aperta la questione se queste performances negative debbano essere ascritte interamente all’epidemia in sè, come sostengono alcuni, o se, invece, le misure di lockdown che si sono rese nessarie per fare fronte alla stessa ne abbiamo accentuato le dinamiche come sostengono altri. E su questo che si incentra il dibattito di chi si esprime a sostegno delle misure di contenimento e chi, temendo dure ripercussioni sulle imprese, ne invoca al contrario un alleggerimento.
Fig. 1
Figura 1: “Iscrizioni totali” e “Cessazioni non di ufficio” registrate Dalle Camere di Commercio in Italia da Gennaio 2019 a Ottobre 2020. Fonte: Rinaldi A. (2020) Nuove imprese “chiuse” dalla pandemia, La voce.info, 9 dicembre 2020.
Le chiusure via via disposte in questo periodo possono portare ad un beneficio economico sul lungo periodo? O ha ragione chi sostiene che queste chiusure non fanno che accentuare la crisi in atto?
Questa sua domanda mi permette di chiarire un aspetto ulteriore rispetto a quanto detto precedentemente. A fronte di un evidente calo dell’attività economica, non è facile distinguere in questi mesi drammatici quanto esso sia dovuto all’epidemia in sé ed ai costi economici (oltre che umani!) ad essa connessi, e quanto, invece, vada ad aggiungersi ad essa come effetto di misure di contenimento giudicate da taluni eccessive e non giustificate. Nelle settimane precedenti alla decisione di imporre un nuovo blocco totale durante le feste natalizie, si è in effetti assistito a dure proteste da parte di produttori ed esercenti i quali chiedevano maggiore libertà di azione vedendo in pericolo la propria attività.
Mentre è difficile dare una risposta conclusiva a riguardo, una possibilità è quella di guardare al passato ed esaminare gli effetti economici degli interventi di contenimento durante la grande pandemia influenzale del 1918. In effetti, sotto numerosi aspetti, vi sono evidenti analogie con la situazione attuale: gli interventi restrittivi attuati nel 1918, sebbene meno estensivi, somigliano infatti, alle misure usate per ridurre l’attuale diffusione del COVID-19 (chiusura di scuole, teatri e chiese, divieto di assembramenti, quarantena per i casi sospetti e riduzione delle ore lavorative). Un recente lavoro condotto da studiosi dell’MIT di Boston e della Federal Reserve [1] ha confrontato le performances economiche di due gruppi di città statunitensi sottoposti a due diversi regimi di lockdown negli anni di diffusione della influenza spagnola: molto severo il primo, più lasco il secondo in ragione dei differenti modi di fronteggiare l’epidemia da parte dei diversi governi locali negli Stati Uniti.
Significativo il titolo stesso del lavoro: «Le pandemie deprimono l’economia, non gli interventi di sanità pubblica».
L’esame dei dati empirici dell’epoca mostrano, in effetti, come gli interventi finalizzati a contenere la pandemia non siano stati in contrasto con le esigenze economiche. Nel breve periodo, infatti, i danni alle attività furono simili nelle città con lockdown severo ed in quelle con lockdown meno severo. Le informazioni storiche disponibili relative ai danni subiti dalle aziende indicano che le città che hanno appiattito la curva dei contagi con lockdown drastici non hanno subito maggiori danni nelle attività locali. Ma ancora più sorprendentemente lo studio mostra come nel medio periodo le città con misure di contenimento più severe crebbero addirittura più velocemente delle altre. Mentre è evidente come non si possano estendere tout court questi risultati all’epidemia in corso (data anche la diversa incidenza della influenza spagnola sulle classi di età lavorative) tuttavia i risultati evidenziano come non sia possibile una conclusione scontata sulla relazione tra contenimento della trasmissione e danni all’economia. Limitare maggiormente le attività oggi potrebbe addirittura condurre ad un’uscita più rapida e efficace dall’emergenza limitando innanzitutto le perdite umane e limitando nel tempo i costi connessi con la gestione sanitaria costituendo in tal modo un trampolino di lancio per la successiva ripartenza. E’ in fondo quanto ci ha mostrato in questi mesi, ad esempio, la Cina, la quale, pur avendo imposto restrizioni anche molto dure, sembra essersi già rilanciata dal punto di vista economico.
Si può già scorgere un’incidenza anche in termini di diseguaglianze economiche? Se sì, quali sono i soggetti più colpiti? Si intravede un nuovo divario o si allargano i divari pre-esistenti?
La ripresa ci sarà e sarà ingente, ma purtroppo è facile prevedere che quando essa finalmente arriverà le diseguaglianze economiche nel nostro paese (ed anche tra paesi) si saranno acuite.
Nuovi divari tra le imprese e gli individui si manifesteranno. Infatti, alcune imprese trarranno un immediato beneficio dalla situazione attuale (ad esempio quelle del comparto delle tecnologie della informazione o quelle del mercato delle consegne a domicilio), altre sono già state e ancor più saranno in grado di trasformarsi rapidamente per adattarsi al nuovo scenario economico che va formandosi e quindi capaci di cogliere le nuove opportunità che esso offrirà. Altre, infine, non saranno nella condizione di reinventarsi nel breve periodo e già oggi sono in sofferenza. Il punto è dunque accompagnare con misure adeguate chi è in difficoltà ora, e che potrebbe perdersi lungo la strada, per aiutarlo a farsi trovare pronto alla ripresa.
Va sottolineato come ciò sia non solo necessario per un’ovvia solidarietà verso chi è maggiormente in difficoltà, ma anche per prepararsi al meglio come sistema economico alla fase di ripresa che verrà.
In effetti, la relazione tra diseguaglianza e crescita è molto complessa. Ad essa ho dedicato alcuni anni fa un saggio esaminando varie evidenze empiriche a riguardo [2]. I dati empirici, in effetti, mostrano come elevati livelli di crescita del reddito siano spesso associati ad una diseguaglianza elevata. Questa evidenza empirica porta taluni ad affermare che un’elevata diseguaglianza non sia incompatibile con la crescita economica. Invece, questa interpretazione è errata: non si può pensare che le due grandezze possano convivere a lungo in quanto il meccanismo di causa-effetto è proprio di segno opposto. Un’elevata diseguaglianza tende (per varie ragioni che sarebbe troppo lungo discutere in questa sede) a rallentare la crescita e, in assenza di adeguati interventi redistributivi, può innestare una spirale la quale può condurre all’implosione del sistema economico.
Se l’allargamento delle diseguaglianze costituisce un fattore che frena l’economia, cosa ci aspetta al termine della pandemia? Un percorso di riduzione delle disuguaglianze da dove dovrebbe partire?
Innanzitutto, va premesso che trattando di diseguaglianza economica, come per una malattia, è meglio prevenire che curare. Il nostro paese già da anni sta sperimentando una crescita della diseguaglianza economica il cui indice dal 2000 ad oggi è cresciuto da 29 a 33.4[3]. Occorrerebbe dunque mettere in atto da subito provvedimenti che contrastino tale aumento, il quale inevitabilmente sarà esacerbato dalla pandemia, attraverso sostegni economici alle attività in crisi. Le risorse ad oggi non ci mancano dato il cospicuo contributo fornito dall’Unione Europea. Tali interventi di sostegno dovrebbero essere però mirati a quelle attività economiche che maggiormente stanno soffrendo delle conseguenze negative della pandemia. Al fine di graduare in modo razionale gli interventi, occorrerà quindi trovare numeri ed evidenze oggettive per l’individuazione dei settori economici maggiormente colpiti, quali ad esempio i dati sulle iscrizioni e le cancellazioni dal registro delle imprese delle Camere di Commercio di cui parlavo prima. Tali interventi, per quanto possibile, dovrebbero essere erogati non a fondo perduto, ma, al contrario, essere utilizzati per aiutare la necessaria riconversione delle attività in ragione del nuovo scenario economico che si formerà al termine dell’emergenza. Ciò premesso, le misure per contrastare gli effetti negativi sulla crescita dovuti all’inevitabile accresciuta diseguaglianza economica che osserveremo al termine della pandemia nel nostro paese sono note, purché si sia disposti ad attenderne con pazienza gli effetti. Esse potrebbero riguardare, ad esempio, una maggiore progressività delle imposte (che ad oggi si arrestano alla soglia massima dei 75000 euro) prevedendo ulteriori scaglioni di reddito oltre quelli attuali con aliquote crescenti il cui gettito andrebbe a consentire una contemporanea revisione verso il basso delle aliquote inferiori. Inoltre, si potrebbe introdurre una progressività anche nell’imposta di successione attualmente caratterizzata da aliquote molto basse e non progressivamente legate all’ammontare del patrimonio ereditario come avviene invece in molti paesi come, ad esempio, negli Stati Uniti, in Olanda, in Germania, in Francia, in Spagna e nel Regno Unito per nominarne solo alcuni. Contrariamente all’imposta sul reddito da lavoro e sul reddito da capitale, tra l’altro, l’imposta di successione implicherebbe un incremento del gettito senza rischiare di introdurre effetti negativi né sui consumi né sugli investimenti. Il gettito addizionale derivante dall’introduzione di una maggiore progressività nell’imposta sui redditi e sulle successioni potrebbe essere utilizzato in parte, come detto, per la riduzione delle aliquote dell’imposta sui redditi più bassi, ed in parte per l’incremento dell’investimento pubblico soprattutto in capitale umano e ricerca scientifica i quali, rappresentano i due motori principali della crescita. Tali misure, sarebbero di sicuro beneficio per l’economia, contrastando al tempo stesso l’accresciuta diseguaglianza che ne frenerebbe la crescita. Come abbiamo già detto, non è solo per una solidarietà sociale che tali interventi dovranno essere predisposti al fine di sostenere gli individui ed i settori maggiormente colpiti dalla pandemia, ma anche per un sostegno alla crescita nel medio-lungo periodo della quale beneficerebbero tutti, anche quei settori meno penalizzati dalla attuale emergenza sanitaria.
[1] Sergio Correia, Stephan Luck, and Emil Verner. Pandemics Depress the Economy, Public Health Interventions Do Not: Evidence from the 1918. June 5, 2020
[2] Arbia, G. (2016) Diseguaglianza redistribuzione e crescita, Le Nuove Bussole, Vita e Pensiero
[3] Si fa qui riverimento all’indice di diseguaglianza di Gini. Si veda Arbia, G. (2016) op. cit.
Cashback, moneta elettronica ed evasione fiscale
di Giuseppe Ingrao e Raffaello Lupi
La concessione generalizzata del c.d. cashback di stato per tutti gli usi della moneta elettronica (salvo quelli in rete) lo rende eccessivamente oneroso rispetto ai benefici per le casse erariali; esso viene infatti erogato anche per gli acquisti presso operatori economici di notevoli dimensioni, organizzati in modo pluripersonale, dove la registrazione degli incassi, anche in contanti, è di per sé assicurata dalle logiche di controllo interno aziendale. Peraltro, la possibilità di raggiungere il plafond con i soli acquisti presso la grande distribuzione potrebbe vanificare l’emersione di maggiori imponibili presso piccolo commercio, artigianato e piccole attività, dove si annida la massa dell’evasione da omessa registrazione dei corrispettivi; il cashback darà comunque una spinta psicologica all’utilizzazione della moneta elettronica, che però non necessariamente assicura, per le attività suddette, la fedele registrazione dei corrispettivi, vista la notevole informalità dei meccanismi bancari e finanziari sottostanti.
Cashback, conflitto d’interessi e impatto sulle abitudini dei consumatori
di Giuseppe Ingrao
Sommario: 1. Il successo dell’idea presso la popolazione - 2. I limiti dello strumento: parificazione tra acquisti presso i circuiti di grande distribuzione e acquisti presso le piccole attività commerciali - 3. Passaggio spontaneo alla moneta elettronica e futura soppressione del cashback.
1. Il successo dell’idea presso la popolazione
Giustizia Insieme ha già dato risalto (si veda l’articolo di Carlo Amenta linkato qui –Il Cashback di Stato: evidenze empiriche e inquadramento fiscale - alla nuova misura con cui si vogliono premiare i soggetti che effettuano acquisti utilizzando strumenti tracciabili di pagamento, riconoscendogli un rimborso pari al 10% delle somme spese, fino ad un massimo di € 150. Misura avviata nel mese di dicembre 2020, che verrà riproposta da gennaio del 2021, periodo in cui i cittadini “virtuosi” potranno ottenere un rimborso per le spese regolate appunto con bancomat, carte di credito ed app ([1]) fino ad un massimo di € 150 per semestre.
Anche se il cash back può essere comunicato politicamente come una misura di sostegno dei consumi, a ben vedere si tratta di un strumento finalizzato ad ostacolare l’evasione fiscale conseguente alla omessa registrazione degli incassi da parte di piccoli commercianti e artigiani. Ed infatti, sul piano teorico, il pagamento con moneta elettronica lascia traccia sul conto corrente del beneficiario e quindi lo induce ad emettere la fattura o lo scontrino, sul quale lo Stato incamera l’Iva e le imposte sui redditi. Per le operazioni di importo inferiore a quello fissato per il divieto di uso del contante (in atto € 2.000), si è pensato, quindi, di scoraggiarne l’uso prevedendo la concessione di un “rimborso” a favore del consumatore che sceglie di avvalersi di pagamenti elettronici. Il cashback farebbe così “sistema”, nella prospettiva del contrasto all’evasione, con il provvedimento che vieta l’utilizzo del contante per le operazioni economiche superiori ad un determinato valore.
L’idea ha avuto un notevole successo presso la popolazione, perché da subito si sono registrati milioni di download della app che gestirà il rimborso; vi è stata, quindi, una “corsa” a dotarsi di tutti gli strumenti necessari per accaparrarsi il beneficio (al pari d’altra parte di quanto registratosi di recente in merito al c.d. bonus bici). In effetti la misura di cui ci occupiamo è politicamente molto meno imbarazzante, e tecnicamente più gestibile, rispetto alla proposta di istituire una tassa sul contante, ventilata in passato e non più riproposta (è indubbiamente più accattivante sul piano del consenso elettorale una misura premiale rispetto ad una “punitiva”). Ci sono, così, tutte le premesse per assistere ad una netta impennata del numero di transazioni di modesto importo regolate con carte di credito, bancomat ed app.
2. I limiti dello strumento: parificazione tra acquisti presso i circuiti di grande distribuzione e acquisti presso le piccole attività commerciali
Una compiuta analisi della misura introdotta non può, però, arrestarsi qui. Occorre, infatti, chiedersi se ci sia un vantaggio finanziario per lo Stato in termini di incremento delle entrate tributarie, al netto della spesa erariale per il cashback. Il risultato dipende da una valutazione applicabile anche a misure analoghe ormai in vigore da tempo, come le detrazioni sulle spese per ristrutturazioni, che sono nate anch’esse con la logica di introdurre il c.d. conflitto di interessi, anche se nel tempo hanno assunto l’ulteriore funzione di sostegno del settore dell’edilizia. Nel caso di specie, si realizza un conflitto tra l’esercente, che preferisce il contante per non emettere il documento fiscale, e l’acquirente, che vuole sfruttare il ristoro erariale, peraltro senza che emergano i noti problemi dei c.d. incapienti, cioè di coloro che sono privi imponibili in grado di assorbire la detrazione.
Orbene, la sussistenza o meno di un beneficio per i conti pubblici grazie al cashback dipende dall’emersione incrementale di ricavi rispetto a quelli che sarebbero stati comunque registrati dall’insieme di aziende e professionisti interessati alla misura analizzata. Sotto questo profilo, il bilancio è destinato ad essere negativo in quanto il ristoro di Stato viene concesso per qualsiasi pagamento con moneta elettronica anche presso circuiti di grande distribuzione e dove comunque i corrispettivi incassati sarebbero stati registrati, in quanto diretti a strutture organizzate in modo pluripersonale.
L’eventuale maggior gettito emerso presso piccoli commercianti e artigiani sarà ben poca cosa rispetto all’enorme ammontare di cashback concesso a chi paga con carta di credito presso la grande distribuzione ed altri circuiti dove l’evasione dei corrispettivi era semplicemente impensabile. I condizionamenti di rimborso sul singolo acquisto e complessivo nel semestre rendono palese, per chi è “affezionato” al contante, la facilità di raggiungere l’obiettivo di cashback limitandosi a fare acquisti al supermercato, continuando a pagare in contanti gli acquisti in piccoli negozi a conduzione familiare, e presso artigiani per riparazioni domestiche, su veicoli, servizi alla persona etc. Il prezzo pagato in termini di risorse pubbliche assorbite dal cashback appare, pertanto, un multiplo, rispetto all’emersione di maggiori basi imponibili, anche presso quei soggetti maggiormente a rischio di occultamento dei corrispettivi. Questi ultimi, almeno se svolgono l’attività avvalendosi di una sede fissa, dichiarano già oggi un “minimo sindacale” apprezzabile, parametrato alle dimensioni dell’attività, a prescindere dagli incassi in contanti o con carta. Il cashback, anche su questi soggetti, provocherà un aumento di ricavi registrati solo quando gli incassi con moneta elettronica saranno superiori a quelli stimabili per ordine di grandezza in base alle caratteristiche dell’attività. Fino a quel momento il cashback provocherà solo uno spostamento, all’interno del suddetto “minimo sindacale” da moneta cartacea a moneta elettronica. Anche in questi settori c’è insomma il rischio che siano registrati fiscalmente più pagamenti con pos e meno pagamenti in contanti, fermo restando il totale delle registrazioni.
Quanto sin qui esposto, può considerarsi ragionevole almeno fino a che i pagamenti ricevuti con moneta elettronica non siano così elevati da rendere inverosimile la rappresentazione di attività che, nel senso comune, comportano consistenti incassi in contanti. L’ammontare dei pagamenti elettronici spingerebbe così ad aumentare i ricavi registrati, rispetto a quelli stimati dal contribuente in base alle caratteristiche materiali dell’attività. In questa misura, l’obiettivo di far emergere l’evasione fiscale sarebbe raggiunto, ma ad un costo decisamente sproporzionato per le pubbliche finanze, a causa dell’erogazione del cashback anche per una massa di pagamenti elettronici cui non corrisponde per definizione, in capo al percettore, alcuna mancata registrazione degli incassi.
3. Passaggio spontaneo alla moneta elettronica e futura soppressione del cashback
E’ ipotizzabile, tuttavia, che il cashback determini benefici alla casse erariali solo nella misura in cui accelera un processo spontaneo di passaggio alla moneta elettronica; paradossalmente, in sostanza, il successo del cashback si vedrà quando verrà abolito, essendosi ormai diffusa l’abitudine ad utilizzare sistematicamente bancomat e carte di credito. L’utilizzo di questi sistemi di pagamento tracciati indurrà la massa degli operatori economici ad una maggiore credibilità tributaria, in quanto le possibilità di far coesistere moneta elettronica ed evasione richiedono una certa dose di artificio. Si tratta di sistemi di cui parlerà più avanti Lupi, ma che presuppongono una certa dose di spregiudicatezza, rispetto alla passiva percezione di incassi in contanti, non registrati, nella quale anche i consulenti tributari, che non hanno nulla da guadagnarci, eviteranno di essere coinvolti. Grazie al cashback allora si potrà ridurre la massa di contante in circolazione, in quanto chi viene pagato con moneta elettronica, ed usa conti bancari e carte di credito, sarà sempre meno propenso a prelevare e pagare in contanti. Il denaro contante tenderà quindi a polarizzarsi su coloro che incassano somme sempre in contanti; questi soggetti saranno certamente restii a versare le disponibilità monetarie in banca, esponendosi ad un accertamento fiscale, per pagare poi con il bancomat o la carta di credito, beneficiando magari del cashback. Ed allora, un risultato finanziario deludente nell’immediato per i conti pubblici potrebbe dare frutti psicologici importanti in una prospettiva psicologica.
In conclusione, il successo di pubblico del cashback conferma l’assunto secondo cui lo spirito solidaristico non basta né a spingere all’adempimento tributario proprio, né ad indurre gli altri ad adempiere. Non ci sono quindi gli onesti (non evasori) e i disonesti (evasori), ma ognuno tiene conto della determinabilità dei propri presupposti economici d’imposta, della sua percezione del rischio di controlli e delle proprie necessità di spesa. Su queste premesse non c’è una lotta (all’evasione) da fare, ma un più sistematico intervento valutativo degli Uffici impositori sulla credibilità degli imponibili dichiarati di piccoli commercianti e artigiani rispetto alle caratteristiche dell’attività, e alle altre informazioni, tra cui - in un verosimile futuro - anche gli incassi con moneta elettronica.
Moneta elettronica e illusoria “ragionierizzazione” delle piccole attività al consumo finale
di Raffaello Lupi
Sommario: 1. Le ragioni politiche di un cashback indiscriminato - 2. Spersonalizzazione gestionale come vera ragione della tax compliance, anche in contanti - 3. Nuove possibilità di evasione tramite la moneta elettronica.
1. Le ragioni politiche di un cashback indiscriminato
L’intervento che precede ha messo giustamente in risalto il modo maldestro con cui il cashback è stato esteso a tutti i pagamenti elettronici, rispetto ai quali quelli a rischio di mancata registrazione fiscale sono netta minoranza. E’ come se la politica non avesse avuto il coraggio di dire quello che tutti intuiscono, riflettendo sull’evasione di massa, cioè che essa riguarda in massima parte la mancata registrazione dei corrispettivi da parte di piccole organizzazioni al dettaglio, nonché artigiani e piccoli commercianti. E’ una mancanza di coraggio derivante dall’utilizzazione, nella comunicazione politica, dell’evasione come capro espiatorio per disfunzioni dei pubblici uffici con ragioni ben più complesse; spiegare queste disfunzioni con la mancanza di risorse finanziarie (“mancano i soldi”) a causa dell’evasione, è una comoda scorciatoia per eludere problemi amministrativi molto spinosi. I limiti di questa chiave di lettura si presentano quando, dopo aver dipinto l’evasore come “nemico del popolo”, ci si rende conto che si tratta di milioni di piccoli operatori, la cui criminalizzazione dà un pessimo dividendo politico. Questa è probabilmente la ragione dei diversivi come il mito dei grandi evasori oppure le spiegazioni impersonali del fenomeno, come appunto la circolazione del contante. Quest’ultimo è quindi messo tutto sullo stesso piano dal cashback di stato, come se pagare una bolletta della luce o comprare una torta in pasticceria presentasse gli stessi rischi di mancata registrazione del corrispettivo; l’unica esclusione è stata per gli acquisti online non per difendere il commercio tradizionale, come pure è stato comunicato; il motivo è che solo nel commercio tradizionale è ipotizzabile l’alternativa tra acquisti in contanti e con moneta elettronica, che invece non ha alternative negli acquisti in rete. La sproporzione per eccesso del cashback rispetto all’obiettivo perseguito è stata rilevata anche dalla BCE, con lettera riportata qui https://www.milanofinanza.it/news/ecco-la-lettera-integrale-della-bce-sui-dubbi-per-il-cashback-202012181509216388 la quale avrebbe potuto anche far notare che l’istituto spinge a un frazionamento dei pagamenti, anche se effettuati in unica occasione (ad esempio convengono di più tre pagamenti da 200 euro che uno da 600, anche a costo di ripetere le code al centro commerciale).
2. Spersonalizzazione gestionale come vera ragione della tax compliance, anche in contanti
Distorcere la realtà in nome della comunicazione politica ignorando la diversa determinabilità dei presupposti economici d’imposta finisce per impedire di vederla, facendo travisare le vere ragioni dell’adempimento e quelle dell’evasione. Non è infatti il pagamento in moneta elettronica a trattenere dall’evasione, ma la presenza di un’organizzazione amministrativa pluripersonale, dove chi gestisce gli incassi è diverso dal loro beneficiario finale, titolare dell’attività economica. Quest’ultimo, dovendosi servire di terzi per i propri incassi, mette infatti in piedi controlli interni diretti a scongiurare la sottrazione di risorse, di cui poi si giova anche la determinazione delle imposte; ciò accade anche per gli incassi in contanti, privi di rischi fiscali quando sono conseguiti da grandi organizzazioni amministrative [2] o da circuiti “solidi” come ad esempio quelli gestiti dalle filiere di esercizi pubblici coordinati da società informatiche (ad esempio Sisal, Lottomatica, etc.). Da quest’immagine di affidabilità, per uno strano transfert, si è diffusa nella pubblica opinione l’idea che i consumatori e le banche, variamente messi assieme, possano essere un surrogato dei suddetti uffici amministrativi e dei sostituti di imposta. La realtà ha già mostrato che è un obiettivo illusorio, anche per l’attuale modestissima consapevolezza diffusa sulla determinabilità dei presupposti economici d’imposta, come nucleo essenziale del diritto tributario. Basti pensare che il problema della diversa determinabilità degli imponibili è assente nei più diffusi manuali di diritto tributario. Anche per questo, da decenni, iniziative volte alla rilevabilità contabile dei presupposti di imposta sono svolte senza andare al di là dell’effetto annuncio di una analisi superficiale; ricordo che all’obbligo dei libri contabili bollati non corrispondevano meccanismi per informare gli uffici tributari su quanti fogli avesse bollato ciascun contribuente e lo stesso accadeva per le bolle d’accompagnamento, anch’esse prive di quadratura tra bolle acquistate, utilizzate e rimaste in giacenza. Non c’è tempo di soffermarsi qui su analoghi fenomeni riguardanti ricevute fiscali e scontrini, ma se queste possibilità di aggiramento esistevano per adempimenti di mero diritto amministrativo-tributario, è facile immaginare cosa può accadere per la moneta elettronica, che è un fenomeno globale e di mercato.
3. Nuove possibilità di evasione tramite la moneta elettronica
Nell’ingenuo immaginario di chi porta avanti la “lotta al contante” si pensa a un piccolo commerciante o artigiano che appoggia il c.d. “pos” sul conto riferibile all’impresa, facilmente accessibile dagli uffici tributari. E’ una narrazione idealizzata, conforme ai sensazionalismi che circolano in rete sul “fisco che vede tutto quello che fai”. Come per tutte le leggende metropolitane un po' di vero c’è, nel senso che il fisco, e le pubbliche autorità in genere, possono sapere tutto di uno specifico contribuente. Il passaggio ulteriore, privo di fondamento e sostanzialmente immaginario, è la possibilità di svolgere simili indagini in modo massivo, moltiplicando per i milioni di piccoli commercianti e artigiani quello che si può fare per pochi di essi, in modo da determinare in modo accettabile i presupposti economici d’imposta riferibili a milioni di piccoli commercianti, artigiani e organizzazioni padronali. Anche per questo mi sembrano eccessive le preoccupazioni di utilizzo dell’istituto per una finalità Orwelliana di limitazione della riservatezza personale, avanzate anche da docenti di diritto tributario, come Alessandro Giovannini http://www.opinione.it/editoriali/2020/12/21/alessandro-giovannini_cashback-evasione-economia-sommersa-bce-governo-schedati-italia-mezzi-pagamento/. Il problema è piuttosto quello della determinazione dei presupposti economici d’imposta, e sull’impossibilità di un loro calcolo ragionieristico di massa per questi operatori economici, rinvio ai parr. 4.5, 5.9 e 5.16 del mio “Diritto amministrativo dei tributi” https://didattica.uniroma2.it/files/index/insegnamento/185193-Diritto-Tributario.
La moneta elettronica apre infatti nuove frontiere non solo per la tracciabilità dei pagamenti, z beneficio del fisco, ma anche per l’evasione. Si moltiplicano infatti gli strumenti per trasferire denaro sostanzialmente anonimi, in quanto tracciabili solo a prezzo di indagini troppo impegnative per essere gestite su scala abbastanza vasta da indurre a un adempimento credibile una massa di contribuenti come quella sopra indicata. Dalla ricarica delle carte di credito, alle ricariche telefoniche, ai buoni spesa prepagati, si moltiplicano infatti i mezzi di pagamento privi di qualsiasi controllo amministrativo e aperti alla movimentazione internazionale dei capitali. Basta cercare in rete per accorgersi della facilità di aprire un conto online, appoggiandovi sopra strumenti di pagamento elettronico. Come spiegato in questo video https://www.youtube.com/watch?v=34KcCjqVhcE&t=25s c’è molta improvvisazione ed ingenuità nel contrastare l’evasione con la lotta al contante, come se il POS consentisse di trasformare consumatori e banche in sostituti di imposta di milioni di piccole attività al dettaglio. E’ senza dubbio credibile che l’aumento della moneta elettronica spinga questi contribuenti, come sostiene Ingrao nell’articolo che precede, ad una maggiore credibilità tributaria. Ma la pluralità di POS o l’appoggio dei medesimi su conti di terzi sono possibilità offerte dal mercato e difficili da mettere sotto controllo. Immagino oggi un artigiano che incassa davvero 50 mila euro e ne dichiara 20, abituato a un certo tenore di vita, che si ridurrebbe molto qualora ne dichiarasse il doppio, per non dire la totalità. Le scappatoie sopra indicate, per conciliare evasione e moneta elettronica, diventerebbero strumento di difesa del tenore di vita, più che una perversione di evasori incalliti, secondo la definizione di Ingrao. Altrimenti molte attività diventerebbero non più convenienti, come spiego al termine del paragrafo 1.6 di Diritto amministrativo dei tributi; in tale sede ipotizzo anche un circolo virtuoso di crescita ed efficientamento delle dimensioni delle attività, ma ciò dipende da molte variabili extratributarie, su cui sono impossibili previsioni. E’ però certo che non si tratta di questioni risolvibili col colpo di bacchetta magica dell’eliminazione del contante.
[1] Sono esclusi i pagamenti mediate bonifici bancari, in quanto, nonostante rappresentino strumenti tracciabili, sarebbe tecnicamente complesso agganciare i ristori operati dall’erario a questa modalità di pagamento. Il bonifico si presta ad essere efficacemente utilizzato nei casi in cui il bonus statale venga quantificato autonomamente dal contribuente in dichiarazione annuale mediante il godimento di un credito di imposta, verificabile dagli Uffici impositori in sede di controllo.
[2] ) Si pensi ai supermercati della metà del secolo scorso, in cui fu inventato lo scontrino, rilasciato dal registratore di cassa Sweda, per chi lo ricorda, ben prima che si immaginasse la moneta elettronica.
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