ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Attualità del giudice amministrativo di Carlo Emanuele Gallo
Sommario: 1. Pandemia covid, recovery plan e giudice amministrativo - 2. Il giudice amministrativo giudice del potere - 3. Il giudice amministrativo di fronte al diritto soggettivo - 4. I problemi della tutela in concreto - 5. I rapporti con il giudice ordinario.
1. Pandemia covid, recovery plan e giudice amministrativo. – Il diffondersi della pandemia e le iniziative pubbliche assunte dall’esecutivo per porre rimedio alla sua diffusione così come le possibilità di intervento riformatore connesse all’attuazione del recovery plan hanno rinnovato l’attenzione critica nei confronti del giudice amministrativo e del ruolo che questi svolge nell’ordinamento.
Si sono ripetute infatti considerazioni sfavorevoli sul fatto che il giudice amministrativo intervenga nei confronti di ordinanze d’urgenza o incida su provvedimenti finalizzati alla realizzazione di questo o di quell’altro intervento in tema di lavori o di servizi: l’occasione è stata colta per rimettere in discussione la funzione e l’esistenza stessa del complesso T.A.R. – Consiglio di Stato come autonoma giurisdizione.
La riflessione della letteratura scientifica e degli operatori del settore ha avuto perciò ragione di dedicare al tema un rinnovato interesse[1].
Le critiche mosse all’esistenza e al ruolo del giudice amministrativo sono ingiuste e contraddittorie. Sono ingiuste perché il giudice amministrativo è previsto dalla Costituzione a tutela del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, cosicché la sua eliminazione costituisce una obiettiva riduzione della tutela del cittadino, in quanto comporta l’eliminazione di uno specifico rimedio che il costituente ha ritenuto necessario nei confronti dei pubblici poteri[2].
Si tratterebbe di una scelta non solo sconsiderata, posto che la tutela giurisdizionale è uno dei fondamenti dello stato di diritto e la tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione lo è ancora di più, ma anche perché a livello europeo vengono mosse critiche frequenti e fondate nei confronti dei paesi che mettono in crisi il sistema di tutela nei confronti dei pubblici poteri[3], ma altresì incomprensibile ove si tenga conto che il giudice amministrativo, negli ormai oltre centotrent’anni dalla sua istituzione nell’Italia unita, con l’aiuto della giurisprudenza della Corte Costituzionale, delle opinioni della letteratura e degli interventi del legislatore ha progressivamente accresciuto la sua capacità di rendere giustizia, arrivando ad un livello di efficacia che è riconosciuto da pressoché tutti gli operatori del settore[4].
La valutazione negativa delle ipotesi abolizioniste vale non soltanto per quella di integrale soppressione del giudice amministrativo, per il vero di rarissima proposta, ma anche per quella, più sottile, che prevede la trasformazione del giudice amministrativo in una sezione specializzata del giudice ordinario: anche questa proposta infatti condurrebbe alla scomparsa dell’esperienza e del ruolo del Consiglio di Stato, così come si sono formati nei centotrent’anni richiamati, con un sostanziale arretramento del livello di protezione del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, che è quanto si è verificato per il pubblico impiego assegnato al giudice ordinario. Il ruolo del giudice amministrativo e il suo posto all’interno della tutela giurisdizionale non possono essere ridotti ma debbono anzi essere incrementati.
L’atteggiamento esasperatamente critico e soppressivo è altresì contraddittorio, poiché allorché si lamenta il pregiudizio arrecato da una sentenza di annullamento nei confronti dell’interesse pubblico perseguito dal provvedimento annullato o si lamenta il pregiudizio arrecato al soggetto aggiudicatario di un contratto allorché il medesimo venga dichiarato inefficace, si dimentica che, di fronte a questi, vi sono i soggetti pregiudicati vuoi dal provvedimento autoritativo vuoi dal contratto stipulato dalla pubblica amministrazione.
Si tratta molto spesso di soggetti, i controinteressati, che sono dal punto di vista sociologico esattamente corrispondenti a coloro che hanno proposto il ricorso.
Il che non significa, però, che il giudice amministrativo non debba rivedere il suo atteggiamento nei confronti della pubblica amministrazione, al fine di rendere la sua funzione più efficace e più garantista per il cittadino; ma questa stessa riflessione dev’essere compiuta dal giudice ordinario, che molto spesso non esercita i poteri di cui dispone nei confronti della pubblica amministrazione o assume degli atteggiamenti di protezione della medesima che non sono giustificati.
Il problema di fondo è che giudicare dell’amministrazione è delicato, poiché si rischia di amministrare e poiché il giudice, qualunque sia, consapevole delle esigenze del pubblico interesse – ed è bene che sia così – molto spesso si trova in difficoltà a scegliere la soluzione conforme al diritto.
2. Il giudice amministrativo giudice del potere. – Il giudice amministrativo è il giudice del potere amministrativo è cioè il giudice del potere che nel nostro ordinamento è riconosciuto, unico, con la caratteristica di modificare unilateralmente, in assenza di qualsivoglia precedente determinazione consensuale anche implicita, la posizione giuridica del destinatario. Questa configurazione del potere amministrativo è unica[5] perché soltanto al fine di perseguire il pubblico interesse è possibile introdurre nell’ordinamento una disparità tra soggetti dell’ordinamento generale medesimo, che altrimenti costituirebbe una violazione dell’art. 3 della Costituzione.
Per questa ragione, d’altro canto, il giudice amministrativo è stato a suo tempo istituito e la situazione non è significativamente mutata rispetto a quella denunciata da Silvio SPAVENTA nel suo discorso di Bergamo del 1880. Anche oggi occorre che il giudice amministrativo intervenga per riportare l’amministrazione pubblica al rispetto della legge ed evitare che vi possano essere scelte dissennate oppure contrastanti con la realtà di fatto e di diritto oppure ispirate a scopi non corrispondenti a quelli previsti dalla legge.
Ne consegue che il potere di annullamento è essenziale per il giudice amministrativo e che l’annullamento ove richiesto dev’essere sempre dispensato (come del resto bene ha detto l’Adunanza plenaria)[6]. È evidente che rispetto a questa impostazione, che il giudice amministrativo segue rigorosamente limitando al massimo l’esistenza degli atti politici che sono gli unici provvedimenti che sfuggono al suo sindacato, è dissonante il riconoscimento dell’esistenza di una sfera di attività di enti pubblici rispetto alla quale il potere di annullamento non può essere esercitato: il riferimento, ovviamente, è al mondo dello sport e all’ambito limitato della giustizia sportiva, che è stato legittimato in questi termini anche di recente dalla Corte Costituzionale con una pronunzia che non è in sé condivisibile e che se intesa nella sua assolutezza (non è detto che la tutela nei confronti della p.a. sia sempre una tutela di annullamento) sarebbe da respingere ma che è viceversa giustificata soltanto dal fatto che ammettere una tutela giurisdizionale in una materia nella quale la sensibilità popolare è così vivace significherebbe trascinare il giudice amministrativo perennemente nelle piazze (così come, in effetti, succedeva allorché la giustizia amministrativa poteva occuparsi di questo tipo di problematiche).
Il fatto che il potere del giudice amministrativo possa annullare i provvedimenti amministrativi non significa che egli si debba limitare a una pronunzia cassatoria poiché, come da tempo è stato riconosciuto dalla giurisprudenza sulla scorta dell’autorevole opinione di Mario NIGRO, ben più numerosi sono gli effetti del giudicato amministrativo, effetti che giungono a consentire al giudice di individuare qual è il provvedimento corretto che l’amministrazione pubblica deve assumere.
Va subito detto che non si può criticare la scelta qualche volta eccessivamente interventista del giudice amministrativo: al di là del fatto che si tratta di ipotesi molto limitate, è molto meglio ed è più conforme al sistema un giudice che è più efficace[7] piuttosto che un giudice che rinunzia alla sua funzione[8]. Il giudice infatti non può arrestarsi al non liquet, che non significa, come ritiene la Corte di Cassazione, che sia legittimo scegliere per decidere la ragione più liquida, e cioè quella più facilmente individuabile, ma significa invece che il giudice non può rifiutarsi di individuare la soluzione alla questione che gli è sottoposta, ancorché la medesima sia di difficile discernimento. Molto spesso, poi, l’intervento che può sembrare sopra le righe del giudice amministrativo è conseguenza della confusione che vi è a livello normativo, che rende evanescente la distinzione tra giurisprudenza dei concetti e giurisprudenza degli interessi poiché costringe il giudice ad individuare di volta in volta in una congerie di disposizioni contraddittorie e ridondanti qual è la ratio che deve seguire alla luce della Costituzione.
Il fatto che il giudice amministrativo sia il giudice del potere e che l’annullamento sia l’elemento centrale della sua funzione non significa però che egli non debba svolgere la sua attività anche allorché l’amministrazione pubblica non procede, rimanendo inerte definitivamente o per lungo tempo ritardando l’assunzione dei provvedimenti che le spettano. Il cittadino infatti è danneggiato sia dal provvedimento illegittimo sia dall’assenza del provvedimento o dal suo tardivo intervento. La scelta della giurisprudenza, in qualche misura accompagnata dal Codice, di consentire perciò interventi incisivi è una scelta anche in questo caso da condividere e si deve ribadire che il fatto che l’amministrazione rimanga inerte non giustifica una diminuzione della tutela, potendo il giudice amministrativo nei confronti del silenzio arrestarsi soltanto laddove vi sia una valutazione assolutamente discrezionale che non è in nessun modo anticipabile in giudizio. Si tratta peraltro di ipotesi rarissime[9] di modo che, di norma, il giudice amministrativo è sempre in grado di individuare il provvedimento che dev’essere adottato (è sufficiente non dilatare le ipotesi di discrezionalità assoluta e considerare invece quanti limiti in ordine all’an, al quomodo e al quando sono previsti dal legislatore o sono stati introdotti dalla stessa amministrazione nei precedenti atti normativi o generali o nelle precedenti fasi del procedimento).
In considerazione del fatto che la Costituzione distingue le giurisdizioni sulla base della posizione soggettiva, il giudice amministrativo può conoscere della lesione di interessi legittimi, che sono la posizione soggettiva connessa all’esercizio del potere[10].
Non si tratta però di una connessione episodica, e cioè legata al singolo provvedimento, come si riteneva alla fine dell’800, e nemmeno di una connessione che sia legata soltanto all’inizio del procedimento, come in qualche misura era possibile ritenere sulla base della legge 7 agosto 1990, n. 241 ma invece di una connessione stabile, che lega il cittadino all’amministrazione pubblica ogni qualvolta la sua posizione soggettiva sia contemplata dal legislatore in relazione all’esercizio del potere amministrativo. Così, il proprietario di un terreno è legato all’amministrazione già dal momento in cui la medesima si pone il problema della pianificazione essendovi tenuta dalla legge e cioè ben prima che lo stesso procedimento di pianificazione sia attuato: la riprova sta nel fatto che è possibile al cittadino richiedere all’amministrazione di completare la pianificazione con riferimento alle zone bianche, che siano un reliquato, cosa che ovviamente non potrebbe fare se l’interesse legittimo nascesse soltanto nel momento in cui l’amministrazione avvia il procedimento di pianificazione.
Questo rapporto con l’amministrazione, che è qualificabile come rapporto giuridico amministrativo, giustifica i poteri più incisivi che il giudice amministrativo ha e anche la configurazione della giurisdizione amministrativa come giurisdizione di spettanza e cioè come giurisdizione che deve giungere, ove la domanda sia fondata, ad individuare qual è il bene della vita che spetta al cittadino. Questo è possibile però soltanto se la domanda è fondata anche con riferimento al rinnovato esercizio del potere dell’amministrazione e pertanto anche con riguardo agli eventuali margini di discrezionalità che il giudice amministrativo può ripercorrere.
Se l’azione viceversa non è fondata, questo non significa che non esista l’interesse legittimo ma semplicemente che i vizi denunciati non sussistono; l’interesse legittimo per questa ragione non ha in sé come patrimonio ineluttabile il bene della vita costituito dal provvedimento amministrativo favorevole ma ha in sé soltanto il bene della vita costituito dalla pretesa che l’amministrazione proceda nel rispetto della legge, il che può significare che giunga ad adottare il provvedimento favorevole oppure no.
È questa la differenza rispetto alla situazione in cui ci si trova avanti il giudice ordinario, che decide sul diritto soggettivo, di modo che il diritto soggettivo esiste se il bene della vita preteso spetta, non esiste se il bene della vita preteso non spetta[11].
3. Il giudice amministrativo di fronte al diritto soggettivo. – La configurazione che si è illustrata muta, come è ben noto, allorché il legislatore attribuisce al giudice amministrativo la cognizione anche del diritto soggettivo: in questo caso, infatti, il giudice amministrativo si deve comportare come un giudice ordinario, e quindi deve provvedere esattamente negli stessi termini[12].
Anche la pretesa al risarcimento del danno da lesione all’interesse legittimo corrisponde ad un diritto soggettivo, come bene ha detto la Corte di Cassazione nella nota sentenza n. 500 del 1999. L’interesse legittimo in sé non ha una pretesa risarcitoria, ma può dar luogo ad una pretesa risarcitoria od anche ad una pretesa indennitaria.
L’affermazione compiuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 204 del 2004, secondo la quale il risarcimento da lesione dell’interesse legittimo è un completamento della tutela dell’interesse legittimo stesso, è stata compiuta soltanto per contrastare l’opinione in forza della quale, poiché l’interesse legittimo è la posizione ordinaria nei confronti della pubblica amministrazione, così facendo si sarebbe riconosciuto al giudice amministrativo un caso di giurisdizione esclusiva di carattere generale, e perciò non corrispondente ai rigidi paletti introdotti dall’art. 103 Cost.. In realtà, il problema non esisteva perché il risarcimento dalla lesione degli interessi legittimi è in sé una particolare materia, diversa dal diritto soggettivo al risarcimento per la lesione di diritti soggettivi.
Non vi è comunque motivo per ridurre il numero e l’ampiezza delle materie di giurisdizione esclusiva, poiché anche oggi l’eliminazione della difficoltà in ordine all’individuazione del giudice al quale rivolgersi, inevitabile a fronte della pluralità delle giurisdizioni, è una obiettiva situazione di vantaggio. Va da sé che la giurisdizione esclusiva non può essere così dilatata da eliminare la pluralità delle giurisdizioni, ma non è nemmeno comprensibile che la funzione semplificatrice della medesima venga vanificata con l’individuazione all’interno di ogni materia delle controversie attribuite al giudice amministrativo oppure no, così come fa attualmente la Corte di Cassazione. Il sistema infatti per essere utile dev’essere accessibile.
Quanto detto in ordine alla giurisdizione esclusiva può essere confermato anche per quanto concerne la giurisdizione anche in merito, che talvolta interessa diritti soggettivi talvolta no, poiché la possibilità per il giudice amministrativo di conoscere anche dell’opportunità dell’atto e di adottare interventi sostitutivi dell’amministrazione è una possibilità che amplia la tutela del cittadino: se già alla fine dell’800 il legislatore, pur provenendo da un sistema nel quale la giurisdizione amministrativa era stata soppressa come giurisdizione del contenzioso, ha ritenuto di poter mantenere dei casi di giurisdizione anche in merito, non si vede perché, nel momento in cui l’esigenza della tutela giurisdizionale nei confronti della p.a. è più avvertita ed è garantita a livello costituzionale possa considerarsi un progresso la diminuzione di questa tutela.
La sensazione che si trae da queste opinioni è che non vi sia in realtà una volontà di incrementare il livello di protezione del cittadino ma vi sia o il perseguimento di obiettivi di riconquista di spazi giurisdizionali o la volontà di affermazione di teoriche astratte non più giustificate (da questo punto di vista il riconoscimento della possibilità di risarcimento della lesione di interessi legittimi ha tolto un argomento particolarmente significativo alle tesi di coloro che sostenevano la prevalenza della giurisdizione ordinaria come effettività di tutela).
4. I problemi della tutela in concreto. – Il ruolo del giudice amministrativo e la sua giurisdizione hanno dato origine a un sistema che pressoché tutti ritengono efficace ed apprezzabile. Questo non toglie che vi siano dei profili e degli aspetti per i quali un perfezionamento e un completamento sono necessari, e potrebbero essere anche disposti tempestivamente approfittando appunto del cantiere delle riforme che è in corso di installazione.
Il giudice amministrativo, anche per quanto concerne la verifica della correttezza dell’esercizio del potere, molto spesso si astiene non solo da una verifica puntuale del potere discrezionale, ma anche dall’accertamento specifico della realtà di fatto, sia della realtà di fatto intesa in modo semplice sia dalla realtà di fatto intesa in modo complesso (secondo la nota distinzione tra fatti semplici e fatti complessi). Non si tratta di una limitazione accettabile ed egli dev’essere stimolato a procedere oltre sulla strada dell’accertamento dei fatti e, di conseguenza, occorre eliminare le previsione restrittive sull’uso della consulenza tecnica d’ufficio e sull’assunzione dei testimoni[13].
Si tratta di innovazioni processuali che possono indurre il giudice amministrativo ad un uso più incisivo dei poteri istruttori, per l’utilizzazione dei quali potrebbe essere introdotta anche una camera di consiglio ai fini istruttori, che consenta un contraddittorio tra le parti e il giudice anche in ordine a questi provvedimenti indipendentemente dalla fissazione dell’udienza e senza rimettere il tutto al presidente che, come è noto, non è in condizioni materiale di provvedere.
Il giudice amministrativo è poi estremamente restio nell’accordare il risarcimento del danno; l’espressione è eufemistica, poiché nei fatti il giudice amministrativo non accorda il risarcimento dei danni, o individuando ogni possibile ragione per negarlo oppure semplicemente astenendosi dal fissare l’udienza per la discussione dei relativi ricorsi.
Si tratta di un atteggiamento inaccettabile, che talvolta il giudice amministrativo esplicita, e che non tiene conto del fatto che la moderna concezione dell’interesse legittimo comprende in sé l’esistenza di una connessa posizione di diritto soggettivo ai fini risarcitori.
Soltanto l’attivazione di questa possibilità può spingere l’amministrazione pubblica a comportarsi correttamente, cosicché la condanna al risarcimento può svolgere una funzione educativa, come è stato più volte ricordato.
Viceversa, l’assenza di questa condanna legittima un atteggiamento neghittoso della p.a., che non si vede esposta a rischi di nessun genere, nemmeno a livello personale in capo agli amministratori o dirigenti. Da questo punto di vista l’impostazione del giudice amministrativo deve cambiare radicalmente: anche la condanna indennitaria prevista per il ritardo dall’art. 2 bis della legge n. 241 del 1990 non ha avuto nessun successo, come è dimostrato dal fatto che quei rari casi che si individuano nella giurisprudenza sono di rigetto. Viceversa, questo tipo di possibilità dovrebbe essere esplorata con maggior disinvoltura dal giudice amministrativo poiché consente l’applicazione di un’indennità di contenuto sostanzialmente modesto ma significativa della indicazione del dovere di provvedere (e non vi è nessun ostacolo a interpretare la disposizione che ha introdotto questa ipotesi come tutt’ora vigente).
5. I rapporti con il giudice ordinario. – Se il giudice amministrativo è per certi aspetti timoroso nei confronti della pubblica amministrazione, non è più audace il comportamento del giudice ordinario[14]. Basta considerare che il giudice ordinario non utilizza mai nei confronti della pubblica amministrazione i poteri estremamente incisivi, anche costitutivi, che gli sono attribuiti in materia di controversie di lavoro, riconoscendo alla pubblica amministrazione dei poteri discrezionali insindacabili e incoercibili come se l’amministrazione pubblica fosse un datore di lavoro privato e perciò dilatando a dismisura la libertà organizzatrice dell’imprenditore pubblico, con una drastica riduzione di tutela rispetto a quella che era accordata dal giudice amministrativo[15].
Ma per il vero, la Corte di Cassazione si è comportata nello stesso modo ogni qualvolta ha dovuto confrontarsi anche indirettamente con l’esercizio del potere, basti pensare alla giurisprudenza in tema di accessione invertita o di occupazione acquisitiva[16] oppure alla individuazione dei rapporti tra l’indennità di espropriazione e i poteri di pianificazione, per estendere i quali con effetti negativi sulla prima si è dato spazio ad ogni tipo di interpretazione (con l’unico limite del cosiddetto vincolo lenticolare).
La reazione della Cassazione rispetto alle attribuzioni di giurisdizione al giudice amministrativo perciò non pare ispirata alla volontà di accordare maggior tutela ma ispirata piuttosto alla volontà di preservare lo spazio di giurisdizione assegnatole tradizionalmente dall’ordinamento. Si tratta di una vera e propria actio finium regundorum[17], che, però, si è ritorta a danno della Cassazione con la sentenza della Corte Costituzionale 18 gennaio 2018, n. 6, che ha limitato la possibilità di intervento della Corte di Cassazione nei confronti delle sentenze del Consiglio di Stato appunto alla violazione dei confini. La sentenza della Corte Costituzionale è indubbiamente andata al di là di quanto era ragionevole, poiché la valutazione in termini di sussistenza della giurisdizione non è soltanto una valutazione in relazione alla ricomprensione della controversia nelle materie assegnate ma è anche una valutazione in ordine al rispetto dei requisiti fondamentali della funzione giurisdizionale. Tra questa ipotesi potrebbe esservi anche quella della ribellione alle sentenze della Corte di Giustizia. Nel caso esaminato dall’ordinanza della Corte di Cassazione del 18 settembre 2020 n. 19598, però, la ribellione non vi è stata, anche perché nel momento in cui l’ordinanza è stata pronunciata il Consiglio di Stato già si era adeguato all’ultima pronunzia della Corte di Giustizia in merito[18]. L’ordinanza del settembre 2020, perciò, è espressione di una volontà di riconquista di un ambito da parte della Corte di Cassazione, in modo astratto, volontà di riconquista, però, che così come formulata è incompatibile con il fatto che la Corte di Cassazione designa ben tre giudici della Corte Costituzionale di modo che non ha nessun senso che contesti la pronunzia della medesima e con il fatto che, essendo le Sezioni Unite della Corte di Cassazione al vertice del nostro ordinamento giudiziario, esse debbono avere la sensibilità istituzionale di non portare una disposizione della Costituzione all’esame di un giudice sovranazionale[19].
È peraltro da escludere che nel nostro sistema vi sia, come viceversa taluno ipotizza[20], una marginalizzazione del ruolo del giudice ordinario, e di conseguenza della Corte di Cassazione, nei confronti della pubblica amministrazione. I rapporti tra i due giudici non dipendono dalle norme processuali ma viceversa dalle scelte sostanziali del legislatore in ordine alla configurazione della posizione soggettiva dei cittadini nei confronti dell’amministrazione e alla qualificazione del potere e dell’azione di quest’ultima nei loro confronti (anzi, di norma, il rapporto è rovesciato, il legislatore si preoccupa prima dell’azione dell’amministrazione e solo di riflesso della posizione dei cittadini). Le vicende dello stato a diritto amministrativo hanno ovviamente un’influenza sui confini fra le giurisdizioni. Ma il giudice ordinario, al quale è assegnato un ruolo sempre centrale, anche nei confronti dei poteri pubblici, ha comunque un ampio spazio nel quale può muoversi per arricchire in concreto la tutela del cittadino, da un lato esercitando, come già più sopra si è richiesto, i suoi poteri di decisione laddove attribuitigli dall’ordinamento, dall’altro affinando le tecniche di verifica della liceità dell’azione amministrativa, riempiendo di contenuto i concetti di correttezza e buona fede, che sempre più si debbono allontanare da concetti giuridici indeterminati per assumere un contenuto articolato a somiglianza di quanto è avvenuto per l’eccesso di potere. Più il giudice ordinario sviluppa questa sua capacità di tutela, più è effettivo il suo ruolo di custode dei diritti dei cittadini. E, ancora, questa funzione del giudice ordinario viene ad agire da stimolo nei confronti del giudice amministrativo affinché anch’egli non rinunci a perfezionare le tecniche di sindacato sull’attività autoritativa dell’amministrazione che sperimenta fin dalla sua istituzione.
Anziché avviare una contesa l’un contro l’altro, i due giudici debbono cooperare perché sia sempre più garantita la tutela giurisdizionale nei confronti della p.a. che è uno dei principi fondamentali della Carta Costituzionale, nella fissazione del quale i costituenti si sono impegnati ed hanno raggiunto punti di rilievo, pur non essendone probabilmente all’epoca del tutto consapevoli.
È evidente che i rapporti fra il Consiglio di Stato e la Corte di Cassazione comunque incontrano dei momenti di frizione ed è necessario che queste frizioni vengano ricondotte il più possibile alla normalità delle vicende processuali[21], dovendosi tener presente che stante le diverse opinioni la stessa funzione nomofilattica è tendenziale[22].
Probabilmente, la soluzione potrebbe essere quella di un tribunale dei conflitti, che però, proposto già dagli inizi del ‘900 non è mai stato istituito per le varie resistenze che ciascuno dei soggetti coinvolti frappone ad ogni profonda modificazione. L’istituzione di un organo a ciò dedicato potrebbe essere effettuata anche in assenza di una riforma costituzionale, se la si configurasse come una particolare modalità di composizione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione allorché giudicano su questioni di giurisdizione[23]. La composizione delle Sezioni della Corte di Cassazione, ed anche delle Sezioni Unite, infatti, è contenuta in una legge ordinaria, la legge sull’ordinamento giudiziario, e la presenza dei Consiglieri di Stato nelle Sezioni Unite, unitamente ai magistrati della Corte dei Conti, non può certo costituire una violazione dell’art. 102 della Costituzione.
Va considerato infatti che quella previsione era volta ad evitare che all’interno della giurisdizione ordinaria potessero essere istituiti giudici speciali o straordinari, non certo ad evitare che giudici forniti delle medesime garanzie appartenenti ad organi giurisdizionali che la Costituzione espressamente salvaguarda (il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti) dovessero essere radicalmente esclusi dal partecipare a specifiche funzioni del giudice ordinario. La Carta Costituzionale, infatti, ammette che, con determinate garanzie, addirittura cittadini estranei alla magistratura possano prendere parte all’amministrazione della giustizia, a’ sensi del secondo comma dell’art. 102, e che soggetti estranei, ma qualificati, e cioè gli avvocati e i professori universitari, possano essere nominati consiglieri di Cassazione a’ sensi del successivo art. 106. I giudici del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti, perciò, proprio per il loro status e la loro funzione, ben possono essere coinvolti in specifiche funzioni presso la Corte di Cassazione, anche soltanto in forza di una legge ordinaria.
Le Sezioni Unite a questo fine potrebbero essere composte da nove magistrati, tre dalla Cassazione, tre del Consiglio di Stato e tre della Corte dei Conti e la presidenza potrebbe essere assegnata a turno al magistrato più anziano del plesso giurisdizionale non coinvolto nella questione di giurisdizione. Le Sezioni Unite dovrebbero risolvere la questione di giurisdizione e rimettere ad altra composizione la soluzione delle altre questioni eventualmente connesse.
Un organo di questo tipo, che non costituirebbe un apparato apposito con tutti i costi e gli inconvenienti conseguenti, potrebbe stemperare i rapporti tesi che periodicamente insorgono tra le giurisdizioni[24], ferma restando la necessità che si affermi uno spirito di collaborazione, già auspicato nel memorandum del 15 maggio 2017 e favorito dagli studi comuni recenti[25].
[1] Il riferimento è, in particolare, al numero 1 del 2021 della rivista Questione Giustizia, interamente dedicato al tema, ed aperto da un pensoso editoriale di N. ROSSI, Il policentrismo giurisdizionale e la coesistenza di sistemi di tutela giurisdizionale diversi ed equiordinati, che ritiene la coesistenza necessaria, pur con reciproche criticità.
[2] Sottolinea il ruolo del sindacato giurisdizionale per evitare deviazioni e disfunzioni in fase di attuazione delle leggi G. NAPOLITANO, Giustizia amministrativa e logica del diritto amministrativo (anche alla luce della pandemia), in Questione Giustizia, n. 1/2021.
[3] Del resto, a livello europeo la presenza di giurisdizioni dedicate alla tutela nei confronti della p.a. è cresciuta, come rileva A. PAJNO, Ricostituzione della fiducia e dialogo fra le giurisdizioni, in Questione Giustizia, n. 1/2021.
[4] Significativamente, F. G. SCOCA, Processo amministrativo e giusto processo, in Dir. e proc. amm., 2021, p. 1 ss, afferma che è “indiscutibile”che il processo amministrativo si sia profondamente evoluto fino ad essere almeno in potenza uno strumento pienamente efficace di tutela nei confronti della pubblica amministrazione. Anche nella pandemia il giudice amministrativo ha fornito una risposta adeguata, come sottolinea M. A. SANDULLI, Il giudice amministrativo come giudice dell’emergenza, in Giustizia Insieme, 21 aprile 2021.
[5] Evidenzia questa specificità F. PATRONI GRIFFI, Contributo al dibattito sul giudice amministrativo come risorsa, in Questione Giustizia, n. 1/2021.
[6] Ed è significativo che da ultimo l’appellabilità del decreto cautelare presidenziale sia stata ammessa se i tempi del decidere altrimenti lasciano spazio soltanto al rimedio risarcitorio: Cons. Stato, Sez. II, decreto 4 maggio 2021, n. 2289, commentata da I. GENUESSI, Sull’appellabilità del decreto cautelare monocratico: tra esigenze di tutela conseguenti alla pandemia e orientamenti giurisprudenziali contrastanti, in Giustizia Insieme, 20 aprile 2021.
[7] L’accresciuta efficacia del sindacato del giudice amministrativo è riconosciuta da G. MONTEDORO – E. SCODITTI, Il giudice amministrativo come risorsa, e da G. SEVERINI, Attualità e qualità della giustizia amministrativa tra trasformazione del potere pubblico e strumentazioni processuali, in Questione Giustizia, n. 1/2021.
[8] Il che non significa avallare ogni scelta interpretativa creatrice della giurisprudenza, come ben sottolinea M. A. SANDULLI, Incostituzionalità dell’interpretazione analogica “creativa” in malam partem (nota a Corte Cost. 14 maggio 2021, n. 98), in Giustizia Insieme, 31 maggio 2021.
[9] Ne individua talune D. U. GALETTA, L’azione amministrativa e il suo sindacato: brevi riflessioni in un’epoca di algoritmi e crisi, in Questione Giustizia, n. 1/2021.
[10] L’approfondita ricostruzione dell’istituto è in F. G. SCOCA, L’interesse legittimo – Storia e teoria, Torino, Giappichelli, 2017, che a pag. 399 ss. esamina la situazione attuale del problema. L’opinione qui espressa è più ampiamente argomentata in C. E. GALLO, Attualità dell’interesse legittimo, in Studi in memoria di A. ROMANO TASSONE, Editoriale Scientifica, II, Napoli, 2018, p. 1285 ss..
[11] Anche nel dibattito attuale vi sono diverse posizioni circa la natura delle due posizioni soggettive. Ritengono che si debba distinguere F. FRANCARIO, Interesse legittimo e giurisdizione amministrativa: la trappola della tutela risarcitoria e M. FRACANZANI, Per un giudice amministrativo veramente speciale, mentre sostiene la piena equiparazione L. FERRARA, Il giudice amministrativo come risorsa o come problema?, tutti in Questione Giustizia, n. 1/2021 (lo scritto di F. FRANCARIO è anche in Giustizia Insieme, 24 maggio 2021.
[12] Così anche M. LIPARI, La giustizia amministrativa italiana: una risorsa di qualità tra criticità e nuove prospettive, in Questione Giustizia, n. 1/2021.
[13] Insiste sulla necessità del pieno accertamento del fatto M. A. SANDULLI, La “risorsa” del giudice amministrativo, in Questione Giustizia, n. 1/2021.
[14] M. CLARICH, Riflessioni sparse sul dualismo giurisdizionale non paritario, in Questione Giustizia, n. 1/2021, correttamente osserva che il giudice amministrativo ha meno familiarità con le questioni risarcitorie mente il giudice ordinario ha meno familiarità nell’apprezzare gli atti amministrativi.
[15] Si vedano, per la limitata possibilità di una sentenza costitutiva, Cass., Sez. Lav., 23 giugno 2020, n. 12368 e viceversa, per una più incisiva pronunzia indennitaria, Cass., Sez. Lav., 9 marzo 2021, n. 6485.
[16] Vicenda complicatissima anche nelle più recenti configurazioni: G. TROPEA, Giurisdizione e acquisizione sanante: l’ennesima sciarada (nota a Cass., Sez. I, ord. n. 29625/2020, in Giustizia Insieme, 27 gennaio 2021.
[17] Criticata anche da L. VIOLANTE, Per una concezione “non proprietaria” della giurisdizione, in Questione Giustizia, n. 1/2021.
[18] Un atteggiamento più prudente è stato assunto da una successiva pronuncia commentata da P. BIAVATI, Il rilievo della questione pregiudiziale europea fra processo e giurisdizione (nota a Cass., Sez. un., 30 ottobre 2020, n. 24107, in Giustizia Insieme, 14 gennaio 2021.
[19] Questo non significa ovviamente che non sia possibile alla Corte di Cassazione rappresentare ai giudici sovranazionali opinioni diverse da quelle accolte dalla Corte Costituzionale, come del resto spesso fa lo stesso giudice amministrativo: si veda, in proposito, il commento di R. PAPPALARDO, La corsa al dialogo nella discordia sulla giurisdizione (nota a Cons. St., ord. 18 marzo 2021, n. 2377), in Giustizia Insieme, 5 aprile 2021, a proposito della rimessione alla Corte di Giustizia della questione circa l’impossibilità di esperire un ricorso in revocazione nel caso di successiva pronunzia dissonante della Corte di Giustizia.
[20] Si veda la posizione espressa da A. LAMORGESE, La maionese impazzita delle giurisdizioni, in Questione Giustizia, n. 1/2021.
[21] Anche se ogni criterio di riparto crea problemi, il pluralismo giurisdizionale è una ricchezza: così M. RAMAJOLI, Pluralismo giurisdizionale e situazioni soggettive sostanziali, in Questione Giustizia, n. 1./2021.
[22] Così pure A. TRAVI, Il giudice amministrativo come risorsa!, in Questione Giustizia, n. 1/2021.
[23] Ipotesi che pare ritenere praticabile R. RORDORF, Il ragno e la tela: note a margine di uno scritto di Scoditti e Montedoro sulla pluralità delle giurisdizioni, in Questione Giustizia, n. 1/2021.
[24] Favorevole ad eterointegrazioni reciproche degli organi di vertice delle giurisdizioni, ma previa modificazione del testo costituzionale, pare anche L. ROVELLI, Riflessioni sul tema del pluralismo delle giurisdizioni, in Questione Giustizia, n. 1/2021.
[25] Iniziative sulle quali insiste, proponendone anche una istituzionalizzazione, A. COSENTINO, Qualche riflessione su pluralità delle giurisdizioni e nomofilachia, che si dichiari invece contrario ad una composizione mista delle Sezioni Unite, della quale ricorda analiticamente le precedenti proposte.
Prosegue ancora la riflessione di Giustizia insieme sul Programma di gestione per l'anno 2021 della Corte di Cassazione. Agli interventi di Renato Rordorf - Commento al punto 11: “La motivazione dei provvedimenti” - di Bruno Capponi - Lampeggi sulle motivazioni - e dell'Avv. David Cerri su Chiarezza e concisione nel linguaggio del giudice (e delle parti) - si aggiunge, oggi, il contributo di Marco Dell’Utri sul tema degli stereotipi nel ragionamento giuridico.
Sugli stereotipi nel ragionamento giuridico
di Marco Dell’Utri
La Relazione illustrativa del Primo Presidente della Corte di Cassazione sul programma di gestione per l’anno 2021 dedica un significativo passaggio al tema dell’uso degli stereotipi (e, in particolare, di quelli di genere) nei provvedimenti del giudice.
Muovendo da questo spunto, il saggio propone una particolare riflessione sulle radici del pregiudizio (di cui lo stereotipo rappresenta una delle forme più tipiche di manifestazione), e sembra rinvenire, lungo il proprio cammino (dalla relazione uomo-donna, alle più recenti questioni dell’affettività delle coppie same sex e del relativo accesso ai procedimenti di procreazione medicalmente assistita o al sistema delle adozioni dei minori, fino ai temi più controversi posti dal transessualismo), i segni dell’antica, e mai sopita, disputa sui rapporti tra diritto e natura.
E con le profonde ragioni di quella disputa, chiama il giurista (e il giudice in primo luogo) – già nella composizione e nello stile formale della propria pagina – a misurarsi con umiltà e consapevolezza.
Sommario: 1. Sul linguaggio delle sentenze - 2. Linguaggio giuridico e stereotipi di genere - 3. La natura del pregiudizio - 4. Dell’“ordine naturale delle cose” - 5. Stereotipi di genere e dimensione sovranazionale - 6. Il diritto tra “ordine naturale” e artificio - 7. Per una lettura del “programma”.
1. Sul linguaggio delle sentenze
Si segnala come un invitante richiamo, tra le righe di un documento di prevalente destinazione burocratica, il passaggio della relazione sul “programma di gestione” redatta dal Primo Presidente della Corte di cassazione dedicato alla motivazione delle sentenze.[1]
Il tema, sviluppato lungo l’intero par. 11, è affrontato, in primo luogo, sotto il profilo della chiarezza e della comprensibilità del linguaggio dei provvedimenti del giudice che si rivendica come segno di un patrimonio professionale, e quindi della necessaria sinteticità, cui pure è associato il richiamo erudito alla concinnitas di derivazione ciceroniana; si tratta, con riguardo a ciascuna di tali caratteristiche, di qualità destinate ad assolvere al compito di agevolare la “progressione logica del ragionamento”; di scongiurare il rischio di “inutili ripetizioni”; di favorire “un confronto costruttivo tra le parti e tra queste e il giudice”, nell’incontro con l’altrettanto auspicata agilità o funzionalità dello stile che si prospetta come destinato a caratterizzare anche gli scritti che provengono dalle parti.
La riflessione teorica del ceto giudiziario sui temi dello stile e del linguaggio delle sentenze ha conosciuto nel tempo – segnatamente attraverso l’impulso delle strutture tradizionali della formazione (il Consiglio superiore della Magistratura nelle sue articolazioni interne, prima, la Scuola superiore della Magistratura, più di recente) – momenti di significativo approfondimento, tanto in chiave storico-culturale, quanto più strettamente sul piano dell’analisi delle tecniche redazionali dei provvedimenti giudiziari: un percorso di ricerca destinato a portare alla luce i significati che si nascondono nei diversi modi di giustificare la decisione; un discorso che appartiene alla storia delle idee e delle concezioni proprie sull’autorità o sul potere, nelle diverse latitudini geografiche o secondo le sensibilità proprie di aree nazionali o culturali di differente estrazione.
Non costituisce dunque un elemento di particolare originalità, in tal senso, il ritorno, da parte del documento di programmazione gestionale della nostra Corte Suprema, ai temi dello stile e del linguaggio dei provvedimenti, specie se collocato sullo sfondo di un prospettato recupero di funzionalità complessiva che l’adozione di modelli di più sobria o agile composizione formale consentirebbe di realizzare.[2]
2. Linguaggio giuridico e stereotipi di genere
Una questione di ben altro respiro o profondità culturale sembra, viceversa, potersi cogliere con riguardo al passaggio della relazione sul programma di gestione che si spinge a considerare il “non sufficientemente esplorato” aspetto dell’uso degli stereotipi, e “in particolare, di quelli di genere”, come punto critico di caduta della qualità o della stessa credibilità del discorso del giudice. Il documento sottolinea come la lingua manifesti e, allo stesso tempo, condizioni il nostro modo di pensare: “essa incorpora una visione del mondo e ce lo impone. Il linguaggio, quindi, non è soltanto uno strumento di informazione e comunicazione, ma rappresenta uno dei più importanti sistemi simbolici a nostra disposizione e uno degli strumenti privilegiati per la costruzione della soggettività individuale, compresa l’identità di genere”. Della lingua si sottolinea l’idoneità, non solo a rispecchiare i valori che si affermano in un determinato contesto sociale, ma a concorrere alla loro determinazione: “il linguaggio, sia esso quello storico-naturale che quello giuridico, racchiude la sedimentazione di tutti i significati individuali e collettivi attribuiti alle parole nel corso del tempo, nonché delle idee, dei giudizi di valore, dei comportamenti elaborati a livello formativo e sociale”. Da questa prospettiva, la relazione sul programma di gestione dichiara apertamente di fare proprio il contributo del Comitato per le pari opportunità, ritenendo “non più procrastinabile l’approfondimento sulla costruzione del ragionamento giuridico, sulle categorie da esso utilizzate, sul linguaggio, sulla loro “permeabilità” ai cambiamenti e alle nuove sensibilità maturate nella società con riferimento al tema del pregiudizio di genere e di ogni forma di discriminazione”.[3]
Poco più di un anno fa, questa rivista aveva segnalato, attraverso una delle sue “interviste”, la necessità di tornare a riflettere sul tema, significativo, del lessico di genere.[4] Si pose in evidenza, allora - sulle tracce del discorso heideggeriano sul linguaggio[5], e sull’attitudine “archeologica” e “decostruttiva” della ricerca sul potere (nel significato assunto da tali termini secondo le proposte teoriche di Foucault e Derrida[6]) - come l’ordine del discorso non sia mai innocente, spettando a ciascuno, nella misura in cui si nutre o si serve del linguaggio, porsi l’interrogativo radicale sulle origini, la funzione e lo scopo dello strumento comunicativo adoperato, di demistificarne l’aura quasi-sacrale, di decostruirlo appunto, affinché abbia a emergere la tessitura complessa dei poteri e delle culture che ne hanno, nel tempo, forgiato le forme e i contenuti simbolici. Si ammonì, allora, come nel quadro dei poteri che percorrono (talora apertamente, più spesso sotterraneamente) la struttura delle relazioni della vita quotidiana, quello che innerva i rapporti di genere appaia, singolarmente, quello più presente (o evidente) alla riflessione comune, ma, insieme (e contemporaneamente), quello più nascosto e insidioso.
L’invito del documento programmatico qui richiamato, come spunto e avvio di una comune riflessione sul senso del linguaggio giudiziario nella prospettiva delle questioni di genere, chiede dunque di essere inteso, non già - come solo brutalmente potrebbe intendersi - alla stregua di una surrettizia imposizione di orientamenti culturali predeterminati (evidentemente fuori luogo o comunque incompatibile con il senso o la funzione di un testo come quello in esame), bensì come indispensabile richiamo del giudice alla necessità di affinare i propri strumenti di consapevolezza critica dei ragionamenti posti a fondamento delle decisioni e dei linguaggi destinati a renderne conto sul piano formale. Si tratta, in breve, di un’ammonizione che guarda al pregiudizio (di cui lo stereotipo rappresenta una delle forme più tipiche di manifestazione) come a uno dei fattori di più frequente mortificazione, sul piano sociale, dei legittimi percorsi di costruzione delle identità individuali (compresa quella di genere) al di fuori da ogni indebita o illecita discriminazione.[7]
3. La natura del pregiudizio
In un’indimenticata lezione torinese della fine degli anni Settanta[8], Norberto Bobbio aveva avuto modo di soffermarsi sulla natura del pregiudizio, definito come “un’opinione e un complesso di opinioni, talora anche un’intera dottrina, che viene accolta acriticamente e passivamente dalla tradizione, dal costume oppure da un’autorità i cui dettami accettiamo senza discuterli”[9]. Il carattere acritico e passivo dell’accettazione senza verificazione sta a significare il rifiuto di ogni confutazione che venga fatta ricorrendo ad argomenti razionali. Per questo si dice, a buon diritto, che il pregiudizio appartiene alla sfera del non razionale, il complesso di quelle credenze che non nascono dal ragionamento e si sottraggono a qualsiasi confutazione fondata su un ragionamento. Proprio l’appartenenza del pregiudizio alla sfera delle idee refrattarie ad essere sottoposte al controllo della ragione serve a distinguerlo da qualsiasi altra forma di opinione erronea: il pregiudizio è un’opinione erronea creduta fortemente per vera che si distingue da tutte le altre forme suscettibili di essere corrette attraverso le risorse della ragione e dell’esperienza. Proprio in tal senso, “poiché non è correggibile o è meno facilmente correggibile, il pregiudizio è un errore più tenace e socialmente più pericoloso”[10]. Questa singolare tenacia del pregiudizio, proseguiva Bobbio, dipende generalmente dal fatto che “il credere vera un’opinione falsa corrisponde ai miei desideri, sollecita le mie passioni, serve ai miei interessi. Dietro la forza di convinzione con cui crediamo a ciò che il pregiudizio ci vuol far credere sta una ragione pratica, e quindi, proprio in conseguenza di questa ragione pratica, una predisposizione a credere nell’opinione che il pregiudizio tramanda”[11].
Il nesso di implicazione immediata tra pregiudizio e discriminazione si fonda sulle particolari modalità attraverso le quali l’opinione discriminatoria si forma e si radica nelle convinzioni comuni. Al giudizio di fatto, che ordinariamente accompagna la naturale constatazione delle diversità, la discriminazione accosta il giudizio di valore che sancisce la superiorità (morale, civile, intellettuale) dell’un termine della comparazione rispetto all’altro. Si tratta di criteri normalmente tramandati in modo acritico nell’ambito di un certo gruppo e che come tali si reggono sulla forza della tradizione o su un’autorità riconosciuta. Ma ciò che più ancora rileva, nei processi di formazione del pensiero discriminatorio, è che il trattamento da riservare al gruppo di cui è sancita la superiorità rispetto all’altro deve necessariamente tradursi nel comando, nel dominio, nella sopravvivenza contro la soppressione; in breve, nel privilegio del primo rispetto all’inevitabile soccombenza dell’altro.
L’esigenza di una particolare attenzione, o di una più avvertita sensibilità del giudice sul tema delle discriminazioni, discende, in primo luogo, dal principio fondamentale sancito dall’art. 3 della Costituzione, che notoriamente riconosce la pari dignità sociale di ogni cittadino dinanzi alla legge, “senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
A questo specifico riguardo, converrà fermare l’attenzione (ancora una volta sulle orme della riflessione raccomandata da Norberto Bobbio) su quella - tra le diverse forme di distinzione delle diseguaglianze - che suole compiersi tra le diseguaglianze naturali e quelle sociali: “si tratta di una distinzione relativa e non assoluta. Però è una distinzione che entro certi limiti ha un fondamento. [...] La distinzione fra queste due specie di diseguaglianze ha avuto una grande importanza in tutta la storia del pensiero politico. Una delle costanti aspirazioni degli uomini è di vivere in una società di eguali. Ma è chiaro che le diseguaglianze naturali sono molto più difficili da vincere che quelle sociali. Ragione per cui coloro che resistono alle richieste di maggiore eguaglianza sono portati a ritenere che la maggior parte delle diseguaglianze siano naturali e, come tali, invincibili o più difficilmente superabili. Al contrario, coloro che lottano per una maggiore eguaglianza sono convinti che la maggior parte delle diseguaglianze siano sociali o storiche. [...] La differenza fra diseguaglianza naturale e diseguaglianza sociale è rilevante per il problema del pregiudizio per questa ragione: spesso il pregiudizio nasce dal sovrapporre alla diseguaglianza naturale una diseguaglianza sociale senza riconoscerla come tale, senza riconoscere che la diseguaglianza naturale è stata aggravata dal sovrapporsi di una diseguaglianza creata dalla società, e che non essendo riconosciuta come tale viene considerata ineliminabile. Nella questione femminile proprio questo è avvenuto. Che fra uomo e donna vi siano differenze naturali è evidente. Ma la situazione femminile che i movimenti femministi rifiutano è una situazione in cui alla diversità naturale si sono aggiunte differenze di carattere sociale e storico, che non sono giustificate naturalmente e che, essendo un prodotto artificiale della società retta dai maschi, possono (o debbono) essere eliminate”.[12]
4. Dell’ “ordine naturale delle cose”
La distinzione tra origine naturale o culturale delle disuguaglianze può legittimamente ritenersi discutibile o controvertibile, e del resto lo stesso Bobbio invitava a non sopravvalutarla, preferendo ricondurne il richiamo a un’esigenza di carattere eminentemente retorico: “questa differenza tra diseguaglianze naturali e sociali deve essere presa con molta cautela, per quanto sia legittima. Però serve a far capire che il pregiudizio è un fenomeno sociale, è il prodotto della mentalità di gruppi formatasi storicamente, che proprio in quanto tale può essere eliminato”.[13]
La rievocazione di due diverse pronunce (una della Corte costituzionale dei primissimi anni ‘60, l’altra di una Corte d’appello di non molti anni fa) aiuta a rendere più agevolmente comprensibile il senso concreto del discorso che si conduce.
Nel 1961, la Corte costituzionale[14], rigettando la questione di incostituzionalità dell’art. 559 c.p. che prevedeva come reato unicamente l’adulterio della moglie e non anche quello del marito, giustificava tale decisione sostenendo come sia innegabile che anche l’adulterio del marito possa “in date circostanze, manifestarsi coefficiente di disgregazione della unità familiare; ma, come per la fedeltà coniugale, così per la unità familiare il legislatore ha evidentemente ritenuto di avvertire una diversa e maggiore entità della illecita condotta della moglie, rappresentandosi la più grave influenza che tale condotta può esercitare sulle più delicate strutture e sui più vitali interessi di una famiglia: in primo luogo, l’azione disgregatrice che sulla intera famiglia e sulla sua coesione morale cagiona la sminuita reputazione nell’ambito sociale; indi, il turbamento psichico, con tutte le sue conseguenze sulla educazione e sulla disciplina morale che, in ispecie nelle famiglie (e sono la maggior parte) tuttora governate da sani principi morali, il pensiero della madre fra le braccia di un estraneo determina nei giovani figli, particolarmente nell’età in cui appena si annunciano gli stimoli e le immagini della vita sessuale; non ultimo il pericolo della introduzione nella famiglia di prole non appartenente al marito, e che a lui viene, tuttavia, attribuita per presunzione di legge, a parte la eventuale – rigorosamente condizionata – azione di disconoscimento”.
Sette anni dopo la Consulta, con un radicale revirement (segno dell’iniziale incidenza delle ragioni che pochi anni più tardi avrebbero condotto alla riforma del diritto di famiglia), dichiarò l’incostituzionalità della norma[15], testimoniando il più generale progresso nella comprensione del principio di uguaglianza tra i sessi nonché dei rapporti sociali tra uomini e donne, restando tuttavia da intendere – ricorda l’autore di uno dei più recenti studi giuridici sugli stereotipi di genere – “se e fino a che punto le immagini patriarcali e stereotipate delle donne contenute nel passaggio della sentenza […] siano realmente sparite, e quali strascichi invece persistano nella nostra società odierna e nel nostro diritto.[16]
Quanto quel timore, manifestato solo pochi anni fa, non apparisse privo di ragioni sembra testimoniato dalla vicenda sottoposta, alla fine del 2014, all’esame della Corte di cassazione, nel quadro di un’ordinaria questione di carattere risarcitorio avanzata da due coniugi.
In quel caso, a seguito di un sinistro stradale che coinvolse una coppia di coniugi, il marito riportò gravi lesioni che lo costrinsero a una lunga assenza dal lavoro, durante la quale venne assistito dalla moglie. I coniugi adirono di conseguenza il Tribunale di Venezia per vedersi risarciti i danni patiti dai responsabili dell’incidente. Tra questi, il marito rivendicò il risarcimento del danno da perdita della capacità di lavoro, ivi compreso quello domestico; pretesa a cui la moglie associò la richiesta del risarcimento, tanto del danno non patrimoniale derivatole indirettamente dalle sofferenze patite dal coniuge, quanto del danno patrimoniale provocato dalla forzosa rinuncia allo svolgimento delle attività domestiche, causata dalla necessità di assistere il marito infermo a causa del sinistro.[17]
Tanto il Tribunale quanto la Corte d’Appello di Venezia, accogliendo parzialmente le domande dei due coniugi, respinsero quelle relative all’incapacità lavorativa domestica del marito e del conseguente danno patrimoniale riflesso della moglie. In particolare, la Corte d’Appello motivò il rigetto della domanda del marito affermando come non rientrasse “nell’ordine naturale delle cose[18] che il lavoro domestico venisse svolto da un uomo”. Quanto alla domanda della moglie, il relativo rigetto trasse motivo, vuoi dalla già avvenuta considerazione del danno indiretto nella liquidazione del danno non patrimoniale, vuoi dalla mancata dimostrazione che, a causa della malattia del marito, la stessa dovette abbandonare “completamente e quotidianamente” le occupazioni domestiche.[19]
Al di là degli aspetti critici messi in evidenza dal severo monito della nostra Corte suprema[20], spicca, nel quadro del discorso composto dalla Corte veneziana, il riferimento al carattere normativo dell’ordine naturale delle cose, che il giudice lagunare richiama, nella propria argomentazione, come un fatto da assumere alla stregua di un dato di indiscutibile rilievo, non bisognoso di alcuna particolare dimostrazione.
Si tratta, come è evidente, della plastica riproposizione di quel pregiudizio (ben descritto dal discorso bobbiano) originato dalla sovrapposizione, alla naturale disuguaglianza tra uomini e donne, di una diseguaglianza sociale non riconosciuta come tale; di un’analisi incapace di riconoscere come la diseguaglianza naturale sia indebitamente aggravata – proprio in forza della riproposizione di uno stereotipo – dal sovrapporsi di una diseguaglianza di origine socio-culturale che, inconsapevole di sé, viene considerata ineliminabile.
5. Stereotipi di genere e dimensione sovranazionale
Si è in precedenza accennato al testo della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, approvata il 18 dicembre 1979 dall’Assemblea generale dell’ONU (CEDAW), e ai riferimenti positivi (artt. 5 e 10) che, con immediatezza, individuano, in quel documento, la grave incidenza ritardante, sullo sviluppo e l’affermazione di una cultura realmente non discriminatoria, degli stereotipi destinati a tramandare le convinzioni fondate sull’inferiorità o la superiorità dell’uno o dell’altro sesso, o sull’idea di una rigida ripartizione dei ruoli che, di necessità, accompagnerebbero l’esperienza di vita di uomini e donne.
Più di recente, nel quadro delle attività connesse al monitoraggio sull’attuazione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (la c.d. “Convenzione di Istanbul”), il “Gruppo di esperti/e sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica” (GREVIO)[21] ha rilasciato un “Rapporto di Valutazione” riguardante l’Italia, sulle misure legislative e di altra natura da adottare per dare efficacia alle disposizioni della Convenzione di Istanbul.[22]
In tale rapporto, si menzionano gli stereotipi di genere tra le “cause alla radice della violenza contro le donne” (pag. 9); se ne registra la “persistente” presenza nelle decisioni dei tribunali sui casi di violenza domestica (pag. 14)[23]; se ne segnala la permanente problematicità nella cultura italiana[24]; si evidenzia, degli “stereotipi patriarcali”, l’idoneità a favorire l’accettazione della violenza e la tendenza a colpevolizzare le donne (pag. 36); il relativo contributo ad esporre le donne a una vittimizzazione secondaria (pagg. 42, 58 e 70), con particolare riguardo all’esperienza dei tribunali penali, spesso responsabili “di discriminazioni nei confronti delle donne”, di sottovalutazione delle “conseguenze e [de] i rischi della violenza basata sul genere”, oltre che di fomentare “pregiudizi e stereotipi sessisti” (pag. 70).
Il “Rapporto” riprende talune denunce delle organizzazioni femminili inclini a sottolineare l’estrema difficoltà di “erodere gli stereotipi negativi sessisti all’interno delle aule di tribunale”, mentre “le forze dell’ordine, i magistrati e gli avvocati dovrebbero ricevere una maggiore formazione e sensibilizzazione su questi temi” (pag. 75).
Il contenuto di tali documenti è improvvisamente riapparso, rapidamente ripreso dalle cronache degli ultimi giorni, tra le righe di una decisione con la quale la Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte Edu) ha condannato l’Italia a seguito dell’emissione, da parte di una corte d’appello fiorentina, di una sentenza di assoluzione di taluni imputati da un’accusa di stupro di gruppo.[25]
Nel ricorrere contro il nostro paese, la ricorrente – a seguito del procedimento penale seguito alla denuncia di uno stupro di gruppo dalla stessa presentata e conclusosi con l’assoluzione dei suoi presunti aggressori – aveva contestato l’avvenuta violazione, da parte dello Stato italiano, dei doveri di protezione sullo stesso incombenti in relazione al diritto alla privacy e all’integrità personale della donna (di cui agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo) in occasione del processo.
Nella sua iniziativa dinanzi ai giudici europei, la ricorrente ha evidenziato come i suoi diritti di presunta vittima non fossero stati sufficientemente protetti nel procedimento per stupro contro i suoi presunti aggressori; ha spiegato come l’intera procedura fosse stata lunga e dolorosa; ha sostenuto di essere stata sottoposta a continue e ingiustificate interferenze nella sua privacy da parte delle autorità; ha rilevato come la corte d’appello fiorentina avesse deciso di assolvere gli imputati sulla base di una valutazione soggettiva delle sue abitudini sessuali e delle sue scelte intime e personali, e non sulla base di prove oggettive, riproducendo un concetto restrittivo e superato di violenza sessuale. Ha inoltre affermato di essere stata interrogata più volte su dettagli della sua vita privata e sessuale non collegati all’aggressione (come la storia delle sue performance artistiche, o delle sue relazioni sessuali) allo scopo di dimostrare il carattere “anormale” del proprio stile di vita e del proprio orientamento sessuale.
La Corte europea, dopo aver sottolineato di non essere chiamata a pronunciarsi su eventuali errori od omissioni dei giudici italiani (non potendo sostituirsi ad essi nella valutazione dei fatti relativi al caso specifico), ha comunque rilevato l’effettiva violazione, da parte delle autorità giudiziarie italiane, delle ragioni della donna. E tuttavia, non già in relazione ai modi con i quali sarebbero state condotte le indagini preliminari, o governato il dibattimento, bensì (e il rilievo vale a inserirsi nel quadro delle riflessioni qui rapidamente raccolte) per essersi i giudici italiani ingiustificatamente riferiti, nei diversi passaggi della sentenza di assoluzione degli imputati, ad aspetti propri della persona o della vita della presunta vittima del tutto privi di concreta rilevanza rispetto alle esigenze del giudizio.
I giudici di Strasburgo ricordano, a tale riguardo, i riferimenti alla lingerie rossa “mostrata” (non già “indossata” o “inavvertitamente rivelatasi”) dalla ricorrente durante la serata in occasione della quale si svolsero i fatti del processo; i commenti sulla bisessualità della donna o sulle sue relazioni sessuali occasionali di poco precedenti la relazione di gruppo oggetto della denuncia; il carattere inappropriato delle considerazioni dei giudici italiani sull’atteggiamento ambivalente della ricorrente nei confronti del sesso o sulla circostanza che la stessa avesse partecipato, in passato, come attrice, a un cortometraggio dai contenuti violenti ed esplicitamente sessuali; la valutazione della decisione della ricorrente di denunciare i fatti che, secondo la corte d’appello, era il risultato di una volontà della donna di “stigmatizzare” e sopprimere un “discutibile momento di fragilità e debolezza”; il finale riferimento alla sua “vita non lineare”.
La circostanza che il complesso di tali elementi non fosse in alcun modo utile ai fini della valutazione della credibilità della donna (già esaminabile alla luce delle numerose altre risultanze oggettive del procedimento) era valsa a tradursi in un’illecita divulgazione di informazioni e dati personali della ricorrente non correlati all’oggetto del processo, e tale da costituire un’ingiustificata interferenza nella sua vita privata.[26]
Nel richiamare il rilievo (già presente nel rapporto sull’Italia del Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione contro le donne e nel già citato rapporto GREVIO riferito all’Italia) relativo alla persistente iterazione degli stereotipi sul ruolo delle donne e la resistenza della società italiana alla causa dell’uguaglianza di genere, la Corte di Strasburgo ha sottolineato come il linguaggio e gli argomenti utilizzati dalla Corte d’appello di Firenze avessero finito col veicolare nuovamente i pregiudizi sul ruolo delle donne che esistono nella società italiana, come tali suscettibili di impedire l’effettiva protezione dei diritti delle vittime di violenza di genere, al di là dell’eventuale apprezzabilità del quadro legislativo nazionale. Si tratta dell’ennesimo ricorso, attraverso la riproduzione di stereotipi nelle decisioni giudiziarie (suscettibili di minimizzare la violenza di genere), di forme di vittimizzazione secondaria, frutto di un linguaggio colpevolizzante e moraleggiante capace di scoraggiare la fiducia delle vittime nel sistema giudiziario (v. parr. 140 e 141).[27]
6. Il diritto tra “ordine naturale” e artificio
Se il superamento di sedimentazioni culturali così marcatamente inadeguate (sul piano civile, prim’ancora che su quello culturale) può ritenersi operazione storicamente definita in relazione ai rapporti sociali di genere, assai più incerto e inquietante deve intendersi il percorso che attende la riflessione collettiva sul terreno della rivisitazione delle convinzioni che ancora oggi, con estrema difficoltà, il discorso razionale affronta, nel tentativo di misurarsi con i riflessi d’indole emotiva o passionale che pure agitano o turbano i riferimenti più consolidati della coscienza sociale.
Si tratta di questioni che toccano nel profondo le persuasioni più radicate sul senso stesso dell’esperienza umana, sull’origine della vita, sulla strutturazione delle relazioni parentali, sul significato della genitorialità, sulla declinazione, attorno a ciascuno di tali temi, del ruolo del “sesso”, come estremo identificativo rilevante sul piano strettamente biologico e, insieme, del “genere”, come dimensione identificativa della persona su cui incidono, con determinante rilievo, il peso delle più libere latitudini del discorso culturale e gli schemi che si affermano, riflessivamente, sul terreno sociale e comportamentale.
Sono i temi che il discorso pubblico, spesso frettolosamente, considera nell’affrontare, tra le altre, le vicende dell’affettività delle coppie same sex; del relativo accesso ai procedimenti di procreazione medicalmente assistita o dell’apertura, in forma più o meno completa, al sistema delle adozioni dei minori; del transessualismo e dell’irrilevanza, ai fini della concreta rettificazione del sesso nei registri dello stato civile, dell’intervento chirurgico demolitorio e/o modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari.[28]
Torna ad affacciarsi, nell’accostamento dialettico tra “sesso” e “genere” (nella loro dimensione identificativa e costitutiva della persona), lo spettro antico della contrapposizione tra “natura” e “cultura”, tra l’ordine naturale che esige il debito dell’osservanza (il diritto naturale; l’astratta deduzione della regola), e l’attitudine ‘costruttiva’ della politica e della cultura (il diritto come sedimentazione politico-culturale in perenne divenire).
In questo senso, l’allusione alla figura dello stereotipo legata alle questioni di genere, convoca, all’orizzonte della riflessione, l’intero percorso della costruzione moderna e contemporanea sul tema dell’identità personale e della soggettivazione, dalla lettura metafisica e sostanzialista di origine cartesiana, fino alle più recenti proposte di dissoluzione della idea stessa dell’identità personale come di un processo di ricerca meramente autoreferenziale, per intenderla, piuttosto, alla stregua di una costruzione dipendente, in modo determinante, dalla qualità delle relazioni istituite con la società e l’ambiente.
Si è detto dell’estrema difficoltà di affrontare con la necessaria nettezza la tradizionale distinzione tra origine naturale o culturale delle disuguaglianze; e si è rilevato il carattere paradossale di un uso spregiudicato o irriflesso dell’espressione che allude all’“ordine naturale delle cose” al fine di desumerne valide conseguenze sul piano normativo.
Al tema dell’“ordine naturale delle cose”, uno tra i nostri giuristi civilisti di più apprezzata e raffinata cultura, aveva ricondotto non molti anni fa – quasi come a un comune denominatore – l’ispirazione di talune, ricche, riflessioni dedicate ai più diversi temi (come la soggettività, l’uguaglianza, le biotecnologie, il multiculturalismo), tenendo sullo sfondo il dilemma da sempre iscritto nelle dispute, mai sopite, sul rapporto tra diritto e natura.[29]
La storia delle dottrine del diritto naturale, si ammonisce, è la nostra storia intellettuale, che prende vita dall’esperienza presocratica, con la proiezione, nella natura, di principi e affermazioni di valore tratti dall’esperienza delle relazioni sociali, e l’annuncio dell’apertura del pensiero, con l’abbandono della magia, a ciò che diverrà, in progresso di tempo, il senso della causalità scientifica. Una storia lunghissima, coerentemente misurabile fino alle reazioni opposte, in un tempo a noi più vicino, agli orrori delle dittature del ‘900, con la dichiarazione dei diritti universali dell’uomo e la creazione di una dimensione giuridica sovra-nazionale e sovra-statuale.
E tuttavia, pur quando così ben strutturato sulla trama elegante dell’“ordine naturale delle cose”, nessuno steccato immaginario ha mai potuto preservare l’esperienza delle nostre comunità dalle istanze del pluralismo, dal bagno della concretezza, dalla dilagante problematicità del reale. Su quelle forze “dis-ordinanti” ancora registriamo oggi, come esiti politico-culturali di un secolare tragitto, la permanente espropriazione, da parte degli esecutivi (in nome dell’urgenza e del tecnicismo delle decisioni), della funzione legislativa; la liquidazione della legge; la trasformazione della politica da rappresentanza in rappresentazione; il giudizio politico, morale, e perfino quelli storico e giuridico, veleggianti verso approdi conformisti, ludici, puramente estetici.[30]
Cospira a questi effetti, senza alcun dubbio e paradossalmente, “il progresso della conoscenza, che con la vertigine della storia genera anche quella di un’infinita complessità. Si direbbe che l’uomo contemporaneo sia meno in grado di ogni suo predecessore di reggere il fardello – di sopportare quello che sa. Come è solito nascondersi l’umanità della legge giuridica, così amerebbe non aver scoperto che è rivedibile la legge naturalistica, e che l’ordine si presenta in entrambi i sensi come un prodotto instabile della mente. […] Nell’era dell’onnipotenza tecnologica, l’idea dell’ordine naturale tradisce, attraverso brandelli di antiche dottrine, il suo sembiante di gran lunga più ingenuo: la vita ‘secondo natura’ – ed in essa un individualismo “debole”, sordo e muto – come abbandono al corso delle cose, come scelta di non scegliere, la cui sola evocazione è sufficiente a candidarla come la migliore delle scelte possibili. Se natura è ciò che è intatto da manipolazione – in contrapposto all’artificio – abbiamo oggi ogni elemento per affermare che, quale criterio dell’azione, non c’è da farvi affidamento. […] Anche le abitudini che troviamo, per la loro diffusione e familiarità, massimamente naturali – le nostre maniere di lavorare, abitare, nutrirci, quelle di amarci con anime e corpi – conosciamo come il risultato di una lunga evoluzione umana nella storia. Ci sappiamo insomma, anche se stentiamo a dichiararlo, inchiodati senza scampo a una cultura sovrapposta alla natura: le opzioni dell’etica non sono mai tra natura e cultura, ma fra diverse possibilità aperte nel contesto culturale in cui viviamo”.[31]
Rivista da questo punto di vista, la moralità del diritto risiede tutta nell’artificialità, e il nichilismo appare non un suo nemico, ma un suo intimo e naturale alleato: secondo l’ammonimento di Gustavo Zagrebelski (significativamente maturato all’interno della “classica” rimeditazione dell’Antigone sofoclea), “lo Stato giusto e, alla fine, duraturo è quello che assume come suo fondamento l’uguaglianza dell’uomo nella nullità del suo valore, l’uomo destinato al regno di Ade. […] Solo la fondamentale uguaglianza degli uomini nella loro intrinseca mancanza di valore di fronte alla morte può dare un senso alla vita dell’essere umano”.[32]
Appartandoci nello studio delle leggi positive, delle retrostanti forme geometriche, di invarianti ontologiche o di verità teologiche, ritiriamo il nostro sguardo dalla nostra umanità, e con essa dalla nostra finitezza: esprimiamo, dietro l’uno e l’altro atteggiamento, la medesima paura di conoscere.[33]
La formula del diritto naturale, con tutta la sua antica vocazione di argine all’ingiustizia, rischia più che mai nel mondo attuale di risuonare come un’abiura al pensiero critico, parola d’ordine delle divisioni culturali e religiose, grido di intolleranza, invito alla chiusura, alla discriminazione, perfino alle armi.[34]
Ma ancora una volta, come un vertiginoso nuovo capovolgimento, il sentimento del nostro darci con il mondo, dell’appartenenza a quello sfondo mobile cui di natura diamo il nome, la progettazione del dover essere in base all’essere (alle regolarità e ai nessi causali che si riscontrano nei nostri rapporti reciproci nel contesto in cui hanno luogo) sembrano tornare a offrirci le condizioni necessarie perché il diritto, mantenendo la propria struttura ambigua, non cessi di manifestarsi come tale, transustanziando in cieco scontro di forze.[35]
In questa enigmatica ambiguità, la suggestione dell’ordine naturale delle cose “ha un che di simile al meccanismo della rimozione, che combattiamo con profitto, ma dal quale non possiamo uscire senza negare noi stessi. Difficilmente rifiuteremmo alla sequenza delle sue innumeri sconfitte il senso generale di un progresso. La fantasia del suo superamento, nondimeno, è fantasia di un mondo regredito, impoverito: di un universo dal quale è assente ciò che chiamiamo scienza giuridica, e molto altro”.[36]
Come in un’ideale trasposizione di letture “leviane”[37], la coltivazione degli studi giuridici ci insegna a muoverci verso un “futuro dal cuore antico”; a progettare l’idea dell’“allontanamento” e, dunque, a disegnare con precisione il punto dal quale, sempre, ogni cammino ha da partire.
7. Per una lettura del “programma”
Dietro l’invito (o il proponimento) sollecitato dal documento programmatico da cui hanno preso le mosse le brevi riflessioni che si propongono al lettore, sembrano dunque profilarsi le linee di un habitus professionale e intellettuale che al giudice è chiesto di affidare, oltre al tempo della meditazione, allo stile formale della propria pagina: la coltivazione, incessante, del dubbio metodico; il riferimento, saldo, all’incedere del pensiero critico; il coraggio di mettere in gioco il valore identitario delle proprie memorie culturali; e, infine, il recupero, umile ma ineludibile, del senso originale della vita che a ciascuno spetta di scoprire per sé.
Si tratta di un appello che richiama il giurista (e il giudice in primo luogo) al compito di restituire alla parola, e alla scrittura che pubblicamente la diffonde, il “peso culturale” del tempo e la sua antica vocazione, che è propria anche del diritto, alla causa dell’uomo.
[1] Si tratta della Relazione illustrativa del Presidente della Corte di Cassazione, Pietro Curzio, sul programma di gestione per l’anno 2021 dei procedimenti civili e penali ex art. 37 D.L. 6.7.2011 n. 98, convertito in L. 15.7.2011, n. 111.
[2] Sul punto, possono ricordarsi: la Magna Carta dei giudici europei del 17/11/2010 (par. 16) e la Raccomandazione 12/2010 del 17/11/2010 Com. Min. CE (par. 63), per cui la motivazione dei provvedimenti va redatta in un “linguaggio semplice, chiaro e comprensibile”; le delibere del CSM del 5/7/2017 e del 20/6/2018 sulle modalità stilistiche di redazione dei provvedimenti; i decreti del primo Presidente della Corte di cassazione n. 84 e n. 136/2016, sulla motivazione semplificata o sintetica dei provvedimenti; i Protocolli d’intesa fra la Corte di cassazione, il CSM e il CNF, in merito alle regole redazionali degli atti, ispirate a criteri di chiarezza, sinteticità e comprensibilità. Lo stesso codice del processo amministrativo, art. 3 comma 2, stabilisce che “Il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica”, mentre, secondo la Corte di cassazione (Sez. un. civ., n. 642/2015 e n. 964/2017; Sez. un. pen., n. 40516/2016, par. 9), i doveri di specificità, chiarezza e sinteticità degli atti costituiscono “un principio generale del diritto processuale”.
[3] Il concetto di “stereotype”, nel suo moderno significato socio-psicologico, venne introdotto da Lippmann nel 1922, nella sua opera W. Lippmann, Public Opinion, (New York, 1922). L’opera di riferimento nel campo giuridico, invece, è quella più recente di Rebecca Cook e Simone Cusack, Gender Stereotyping: Transnational Legal Perspectives (Philadelphia, 2010). Le autrici di questa monografia definiscono come gender stereotypes tutte le costruzioni sociali e culturali che distinguono uomini e donne sulla base di criteri fisici, biologici, sessuali e delle loro funzioni sociali.
Sul piano normativo, varrà ricordare, nell’ambito delle attività delle Nazioni Unite, gli artt. 5, lett. a), e 10, lett. c), della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, approvata il 18 dicembre 1979 dall'Assemblea generale dell'ONU (Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination Against Women, CEDAW), secondo cui “Gli Stati parte prendono ogni misura adeguata: a) al fine di modificare gli schemi e i modelli di comportamento socio-culturale degli uomini e delle donne e giungere ad una eliminazione dei pregiudizi e delle pratiche consuetudinarie o di altro genere, che siano basate sulla convinzione dell’inferiorità o della superiorità dell’uno o dell’altro sesso o sull’idea di ruoli stereotipati degli uomini e delle donne” (art. 5), nonché “Gli Stati parte prendono tutte le misure adeguate per eliminare la discriminazione nei confronti delle donne al fine di assicurare loro gli stessi diritti degli uomini per quanto concerne l’educazione e, in particolare, per garantire, su basi uguali tra l’uomo e la donna: […] c)l’eliminazione di ogni concezione stereotipata dei ruoli dell’uomo e della donna a tutti i livelli ed in ogni forma di insegnamento, incoraggiando l’educazione mista e altri tipi di educazione che tendano a realizzare tale obiettivo e, in particolare, rivedendo i testi ed i programmi scolastici ed adattando i metodi pedagogici in conformità” (art. 10).
[4] M. Dell’Utri, Lessico di genere, intervista a S. Governatori, M.R. Marella, E. Resta, C. Robustelli, J. Visconti, v. https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/844-lessico-di-genere.
[5] Su cui v., tra gli altri, i testi raccolti in M. Heidegger, In cammino verso il Linguaggio, a cura di A. Caracciolo, Milano, Mursia, 2019.
[6] Di cui v. M. Foucault, L’ordine del discorso, Torino, Einaudi, 2004 [ma v. 1972] e J. Derrida, La scrittura e la differenza, Torino, Einaudi, 2002 [ma v. 1971].
[7] Sul tema del ruolo dello stereotipo nell’analisi giuridica, v. il lungo saggio di M.R. Marella, G. Marini, La costruzione sociale del danno, ovvero l’importanza degli stereotipi nell’analisi giuridica, in Riv. crit. dir. priv., 1999, pp. 3 ss.; v. altresì, sul terreno giuridico-sociologico, A. Lollini, La rilevanza degli stereotipi sociali nella giurisprudenza minorile sullo stato di abbandono, in Riv. crit. dir. priv., 1999, 525 ss.; V. Mazzarelli, Diritti umani, convinzioni imposte e stereotipi, in I diritti dell’uomo, 2002, 89 ss.; U. Santina, Scienze sociali, mafia e crimine organizzato, tra stereotipi e paradigmi, in Studi sulla questione criminale, 2006, pp. 99 ss.; G. Borelli, Massime di esperienza e stereotipi socioculturali nei processi di mafia. La rilevanza penale della contiguità mafiosa, in Cass. pen., 2007, pp. 1074 ss.; E. Larrauri, Cinque stereotipi sulle donne vittime di violenza. Alcune risposte del femminismo ufficiale, in Studi sulla questione criminale, 2008, pp. 65 ss.; X. Lacroix, La famiglia oltre gli stereotipi, in Aggiornamenti sociali, 2013, pp. 466 ss.; O. Giolo, Norme, prassi e stereotipi nel diritto sessuato dell’immigrazione, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2014, pp. 34 ss.; M. Di Masi, Danno patrimoniale da perdita del lavoro domestico maschile: la Cassazione contro gli stereotipi di genere in famiglia, in Danno e resp., 2015, pp. 814 ss.; M. Möschel, La tutela giuridica contro gli stereotipi di genere, in Riv. crit. dir. priv., 2015, pp. 443 ss.; F. Colombo, La vecchiaia non è un destino. Stereotipi e ideologie dell’età avanzata, in Problemi dell’informazione, 2017, pp. 57 ss.; G. Ramaccioni, Faccia da casalinga. Il lavoro domestico e gli stereotipi sociali, in Riv. crit. dir. priv., 2017, pp. 151 ss.; (2017) M.C. Giorda, A. Cuciniello, M. Santagati, Nuove generazioni e radicalismo violento. Stereotipi e antidoti, in Rass. ital. di criminologia, 2017, pp. 228 ss.; S. Viciani, Il riconoscimento del danno non patrimoniale alla salute sessuale della persona, libero dagli stereotipi di genere, in Nuova giur. civ. comm., 2017, pp. 1646 ss.; M. Caruso L. Cerbara A. Tintori, Stereotipi, bullismo e devianza a scuola. Identikit degli studenti italiani, in MinoriGiustizia, 2019, pp. 133 ss.; A. Arace, Stereotipi e disuguaglianze di genere nell’istruzione scolastica, in MinoriGiustizia, 2020, pp. 23 ss.; I. Acocella, Giovani donne musulmane in Italia oltre gli stereotipi, in Aggiornamenti sociali, 2020, pp. 849 ss.; M.L. Piga, Erving Goffman gli stereotipi di genere nella pubblicità commerciale italiana (1982-2017), in Studi di sociologia, 2020, pp. 325 ss..
[8] Si tratta della lezione svolta da N. Bobbio nel quadro del corso La natura del pregiudizio, tenuto all’Istituto tecnico industriale Amedeo Avogadro di Torino dal 5 novembre al 17 dicembre 1979. Il corso era parte del programma Torino Enciclopedia - Le culture della città, organizzato dalla Città di Torino e dalla Regione Piemonte. Il testo fu raccolto nel volume La natura del pregiudizio, Torino, Città di Torino, Regione Piemonte, s.d., pp. 2-15, riprodotto nel volume Elogio della mitezza e altri scritti morali, Milano, Linea d’ombra, 1994, pp. 123-139, e infine in Elogio della mitezza e altri scritti morali, Milano, Nuova Pratiche Editrice, 1998, pp. 107-122 (da cui sono tratti i riferimenti delle citazioni richiamate nel testo).
[9] N. Bobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali, Milano, Nuova Pratiche Editrice, 1998, p. 107.
[10] Op. ult. cit., p. 108.
[11] Loc. ult. cit.
[12] N. Bobbio, Elogio della mitezza, cit., pp. 116-118.
[13] Op. ult. cit., pp. 118-119.
[14] Corte Cost., sentenza n. 64/1961, richiamata anche da M. Möschel, La tutela giuridica contro gli stereotipi di genere, cit., p. 443.
[15] Corte cost., sentenza n. 126/1968.
[16] M. Möschel, La tutela giuridica contro gli stereotipi di genere, cit., p. 444.
[17] V. Cass. civile, Sez. 3, 18 novembre 2014, n. 24471, in Danno e resp., 2015, pp. 812 ss., su cui M. Di Masi, Danno patrimoniale da perdita del lavoro domestico maschile: la Cassazione contro gli stereotipi di genere in famiglia, cit., pp. 814 ss.
[18] Corsivo mio.
[19] V. M. Di Masi, Danno patrimoniale, cit., p. 814.
[20] Affidato a un triplice ordine di considerazioni, rispettivamente, di tipo filosofico-culturale, giuridico e pragmatico. Scrive la Corte: “Tale motivazione è illogica per tre ragioni. La prima ragione di illogicità è che (a prescindere da qualsiasi considerazione circa l’esistenza o meno d’un ordine ‘naturale’ delle cose: felix qui potuit rerum cognoscere causas) non è certo madre natura a stabilire i criteri di riparto delle incombenze domestiche tra i coniugi. Tale riparto è ovviamente frutto di scelte soggettive e di costumi sociali, le une e gli altri nemmeno presi in considerazione dalla Corte d’appello. La seconda ragione di illogicità consiste nel fatto che l’affermazione della Corte d’appello è contraria al fondamentale principio giuridico di parità e pari contribuzione dei coniugi ai bisogni della famiglia, sancito dall’art. 143 c.c., commi 1 e 3: ed in mancanza di prove contrarie, che sarebbe stato onere dei convenuti addurre e che non furono addotte, è ragionevole presumere che i cittadini conformino la propria vita familiare ai precetti normativi, piuttosto che il contrario. La terza ragione di illogicità della motivazione della Corte d’appello consiste nel fatto che secondo l’id quod plerumque accidit qualunque persona non può fare a meno di occuparsi di una certa aliquota del lavoro domestico: non foss’altro per quanto attiene le proprie personali esigenze. Pertanto dal fatto noto che una persona sia rimasta vittima di lesioni che l’abbiano costretta ad un lungo periodo di rilevante invalidità, è possibile risalire al fatto ignorato che a causa dell’invalidità non abbia potuto attendere al menage familiare. La Corte d’appello, invece, ha capovolto tale deduzione logica, assumendo che dal fatto noto del sesso (maschile) dell’infortunato fosse possibile risalire al fatto ignorato che egli si disinteressasse completamente di qualsiasi attività domestica”.
[21] Il GREVIO è un organismo indipendente di controllo dei diritti umani avente il compito di monitorare l’attuazione della Convenzione di Istanbul da parte degli Stati membri che l’hanno sottoscritta. Il gruppo si compone di 15 tra esperti ed esperte indipendenti e imparziali, nominati sulla base delle loro competenze nel campo dei diritti umani, dell’uguaglianza di genere, della violenza nei confronti delle donne e/o del supporto e della protezione alle vittime. Le attività istituzionali del GREVIO comprendono un monitoraggio Paese per Paese della Convenzione di Istanbul (procedura di valutazione), l’avvio di indagini su una delle parti contraenti della convenzione (procedura d’indagine) e l’adozione di raccomandazioni generali sugli argomenti ed i concetti espressi dalla convenzione.
[22] Il testo della “Relazione” è stato adottato il 15 novembre 2019 e pubblicato il 13 gennaio 2020.
[23] Con la tendenza a “ridurre la violenza nelle relazioni intime a un conflitto: a considerare a priori entrambe le parti responsabili della violenza, ignorando lo squilibrio di potere generato dall’uso della violenza stessa, [con] una tendenza a dare credito agli stereotipi ed ai luoghi comuni che vedono la relazione intima intrinsecamente basata sulla sottomissione/dominio, la possessività; secondo cui automaticamente una moglie/partner che si avvia verso la separazione è una donna che vuole vendicarsi, che cerca di danneggiare e punire il partner” (pag. 14).
[24] “Nelle sue Osservazioni conclusive nel settimo rapporto periodico sull’Italia, il Comitato CEDAW, a tal riguardo, ha posto l’accento sui “consolidati stereotipi relativi al ruolo e alle responsabilità delle donne e degli uomini all’interno della famiglia e della società, che perpetuano la visione tradizionale delle donne come madri e casalinghe, pregiudicando la loro posizione sociale e le loro prospettive educative e di carriera”, ma anche sulla “crescente influenza delle organizzazioni maschili all’interno dei mass-media, che rappresentano le donne con stereotipi negativi”.
[25] Si tratta dell’affaire J.L. c. Italie (Requête no. 5671/16) deciso a Strasburgo il 27 maggio 2021 (reperibile su https://hudoc.echr.coe.int/fre#{%22itemid%22:[%22001-210299%22]})
[26] Sul punto, la Corte di Cassazione italiana ha già da tempo sottolineato come “gli specifici e riconoscibili elementi atti a rendere fondato il sospetto che la vittima di reati sessuali dichiari il falso non possono consistere nelle sue abitudini sessuali, nel suo modo di vivere la propria corporeità, di concepire il sesso e la vita sessuale in generale, in una parola: nei suoi costumi sessuali. Si tratta di regola di giudizio espressamente vietata in quanto tale. È vero che la vita privata e la sessualità della persona offesa rilevano se/e quando ciò sia necessario alla ricostruzione del fatto (art. 472, comma 3-bis, cod. proc. pen.) ma su questo punto bisogna evitare equivoci: nella ricostruzione del fatto, la vita sessuale della persona offesa non può mai essere utilizzata quale argomento di prova dell’esistenza, reale o putativa, del consenso. Il consenso all’atto deve essere reale, non può essere presunto, deve permanere per tutta la durata dell’atto stesso e le modalità della sua espressione non possono essere modulabili in base ai costumi sessuali della vittima (Cass. pen., Sez. 3, Sentenza n. 46464 del 09/06/2017).
Altrove, la nostra Corte Suprema ha sottolineato come, ai fini della valutazione della credibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa che denuncia atti di violenza, il giudice non può dar rilievo al suo aspetto fisico, trattandosi di elemento del tutto irrilevante e non decisivo per vagliarne l’attendibilità (Cass. pen., Sez. 3, n. 15683 del 05/03/2019), finendo col ricondursi al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui deve ritenersi affetta da vizio di motivazione la decisione del giudice di merito che, fondandosi apparentemente su una massima di esperienza, in realtà valorizza un mero convincimento soggettivo (cfr. Cass., pen., Sez. 4, n. 23093 del 02/02/2017).
[27] Non sarà inutile ricordare come, in calce alla sentenza della Corte di Strasburgo, sia stata riprodotta la dissenting opinion dell’unico giudice (su sette) contrario alla decisione di condanna dell’Italia (il giudice Krzysztof Wojtyczek). Nel suo testo, il giudice Wojtyczek ha rilevato una contraddittorietà logica nella decisione della corte europea (l’affermazione che le autorità nazionali “non hanno protetto la ricorrente dalla vittimizzazione secondaria nel corso del procedimento, è in contraddizione logica con la […] frase, che afferma che le autorità nazionali hanno assicurato in questo caso che l'indagine e il procedimento sono stati condotti nel rispetto degli obblighi positivi derivanti dall'articolo 8 della Convenzione”); e ha evidenziato come “i giudici nazionali hanno dovuto stabilire circostanze di fatto di grande complessità, che per loro natura erano di natura privata, e valutare la questione del consenso della presunta vittima. Dovevano anche definire, prima di tutto, il perimetro delle circostanze rilevanti del caso. Esercitando il suo potere in questo senso, la Corte d'Appello di Firenze ha ritenuto che per esaminare la causa penale era essenziale stabilire alcuni elementi di fatto appartenenti a un contesto più ampio, comprendente eventi precedenti o successivi agli atti in questione, come indicato nelle accuse. Inoltre, la Corte d’appello ha dovuto valutare i fatti del caso nel loro specifico contesto culturale, quello della società italiana contemporanea. […] L’approccio del giudice nazionale non sembra essere viziato da arbitrarietà. Le osservazioni lamentate devono essere lette nel contesto dell'insieme degli argomenti su cui si basano le motivazioni della sentenza di assoluzione. L’approccio adottato dalla maggioranza può portare a mettere in discussione i diritti della difesa, che può avere un interesse legittimo, in vista di una decisione giudiziaria favorevole, a stabilire nel corso del procedimento alcuni elementi di fatto molto sensibili relativi alla vita privata e a farli confermare nella motivazione della sentenza pronunciata. […] La maggioranza ha criticato i giudici italiani (paragrafo 140 della sentenza) per il linguaggio e gli argomenti usati dalla Corte d'appello che trasmettono i pregiudizi sul ruolo delle donne che esistono nella società italiana. Tuttavia, questa critica non è supportata da alcun argomento. In particolare, non si spiega quali pregiudizi sul ruolo delle donne siano trasmessi dalla Corte d’appello. Noto, inoltre, che nel caso in questione la Corte d'appello di Firenze si è pronunciata in un collegio di tre giudici che soddisfano i criteri di equilibrio di genere (due donne, compreso il giudice relatore, e un uomo). […] Nel paragrafo 141, la maggioranza critica le affermazioni colpevolizzanti e moraleggianti che possono scoraggiare la fiducia delle vittime nel sistema giudiziario. Questa critica dà luogo a due osservazioni. In primo luogo, le dichiarazioni lamentate (citate nel paragrafo 136, ma prese fuori contesto) sono proposizioni di fatto e non giudizi di valore. La maggioranza non spiega perché queste affermazioni fattuali sono descritte come colpevolizzanti e moraleggianti. In secondo luogo, le espressioni usate dalla Corte sono di per sé dichiarazioni colpevolizzanti e moralizzatrici, questa volta rivolte ai giudici italiani. Inoltre, non favoriscono la fiducia nella giustizia”. Polemicamente, il giudice Wojtyczek conclude: “la Corte continua ad esprimere la sua scelta a favore della cultura della pena come strumento principale per combattere varie violazioni dei diritti umani (si confronti anche il paragrafo 20 dell’opinione in parte dissenziente e in parte concurring del giudice Koskelo, unita ai giudici Wojtyczek e Sabato, allegata alla sentenza Penati c. Italia, n. 44166/15, 11 maggio 2021). L’approccio adottato amplifica il vento illiberale che soffia a Strasburgo, brillantemente denunciato dal giudice Pinto de Albuquerque nel suo parere separato allegato alla sentenza Chernega e altri c. Ucraina, n. 74768/10, 18 giugno 2019”.
[28] Su cui v. Cass. civ., sez. 1, 20 luglio 2015, n. 15138, in Giur. It., 2016, 1, pp. 63 ss., con nota di L. Attademo, La rettificazione del sesso non presuppone l'adeguamento dei caratteri sessuali primari. Sulla medesima pronuncia v. i commenti di G. Casaburi, La Cassazione sulla rettifica di sesso senza intervento chirurgico "radicale". Rivive il mito dell’ermafroditismo? in Foro It., 2015, 1, pp. 3138 ss.; P. Cavana, Mutamento di sesso o di genere? Gli equivoci di una sentenza, in Dir. fam, pers., 2015, 1, pp. 1279 ss.; F. Bartolini, Per la rettificazione anagrafica del sesso l’intervento chirurgico non è più necessario, in Dir. civ. contemporaneo, 2015, fasc. 3; D. Amram, Cade l'obbligo di intervento chirurgico per la rettificazione anagrafica del sesso, in Nuova giur. civ. comm., 2015, 1, pp. 1068 ss.; F. Bartolini, Rettificazione del sesso e intervento chirurgico: la soluzione in un'interpretazione ‘costituzionalmente orientata’, in Corr. Giur., 2015, pp. 1349 ss.; E. Marmocchi, Identità di genere, identità personale e identificabilità, in Notariato, 2016, pp. 129 ss.
[29] D. Carusi, L’ordine naturale delle cose, Torino, Giappichelli, 2011.
[30] Op. ult. cit., pag. 127.
[31] Op. ult. cit., pp. 127 ss. I passaggi in corsivo sono tratti da U. Scarpelli, Bioetica laica, Milano, Baldini e Castoldi, 1998, pp. 44 s.
[32] G. Zagrebelsky, Il diritto di Antigone e la legge di Creonte, in M. Cacciari - L. Canfora - G. Ravasi - G. Zagrebelsky, La legge sovrana, Milano, Rizzoli, pp. 36 s.
[33] D. Carusi, op. cit., p. 130. Nel testo si richiama il titolo del saggio di P.A. Boghossian, Fear of knowledge. Against relativism and constructivism, Oxford, Oxford University Press, 2006, trad it. A. Coliva, Paura di conoscere. Contro il relativismo e il costruttivismo, Roma, Carocci, 2006.
[34] D. Carusi, loc. ult. cit.
[35] Loc. ult. cit.
[36] Op. ult. cit., pp. 132-133.
[37] Carlo Levi, Il futuro ha un cuore antico, Torino, Einaudi, 1956.
Violenza di genere e maltrattanti: il progetto “Il messaggio corretto”
di Giada Li Calzi* e Eva Lo Iacono**
* Direttore Fondazione Progetto Legalità onlus
** Sociologa e ricercatrice per la Fondazione Progetto Legalità onlus
[In calce al testo, la brochure informativa della Fondazione Progetto Legalità onlus su come riconoscere la violenza e a chi rivolgersi]
Sommario: 1. Uno sguardo altro, uno sguardo oltre - 2. Ricevere/dare il messaggio sbagliato - 3. Rendere possibile correggere il messaggio - 4. Da un approccio multi-agency per un apprendimento collettivo... - 5. ...A un approccio di agency per la prevenzione della violenza a scuola - 6. Le lezioni apprese dal progetto a scuola - 7. I messaggi corretti dai ragazzi.
1. Uno sguardo altro, uno sguardo oltre
Human è un film documentario realizzato da Yann Arthus Bertrand - fotografo, giornalista e ambientalista – che attraverso le sue foto aeree racconta il nostro pianeta sia dal punto di vista della bellezza e della biodiversità, sia rispetto all’impatto antropico. Attraverso il suo sguardo dall’alto ci mette nelle condizioni di poter vedere tutto quello che ci è ignoto in quanto immersi nella realtà e nella cultura in cui viviamo. Esplorando il mondo, Bertrand ce lo racconta in termini di diversità anziché di differenze, facendoci così percepire la ricchezza della varietà.
Nel 2016, Bertrand scende di scala e atterra. Metaforicamente e letteralmente. Avviene per caso: l’elicottero con cui faceva le sue foto aeree in Mali ha un guasto e lui ed i suoi collaboratori sono costretti a passare qualche giorno in una zona rurale, in attesa dei pezzi di ricambio. Per la prima volta, così, intervistando a lungo un contadino locale e si trova a confrontarsi “davvero con la vita e le esperienze di una persona”. Da questa esperienza, si avvia il progetto Human che arriva raccogliere una serie di oltre 2.000 interviste, realizzate sulla base di alcune scelte stilistiche tra cui quella di usare uno sfondo nero: tutti gli intervistati sono messi sullo stesso piano.
2. Ricevere/dare il messaggio sbagliato
In una delle interviste raccolte, un uomo racconta la sua storia attraverso queste parole: «ricordo il mio patrigno, mi picchiava in molti modi, cavi di prolunga, grucce, pezzi di legno e un sacco di altre cose. E ogni volta che mi picchiava mi diceva: “fa male più a me di quanto io ne faccio a te. Lo faccio solo perché ti voglio bene”. Questo mi comunicava il messaggio sbagliato su cosa fosse l’amore. Così per molti anni ho pensato che l’amore dovesse fare male e ho fatto male a chiunque amassi. E ho misurato l’amore in base al dolore che gli altri ricevevano da me. E’ stato così finché non sono finito in prigione, un luogo privo d’amore, dove ho cominciato ad avere una comprensione di ciò che era o non era amore. Lì ho incontrato qualcuno: lei mi ha dato la prima intuizione di ciò che era l’amore. Lei ha guardato oltre la mia condizione e il fatto che io fossi in prigione con una sentenza all’ergastolo per il peggiore degli omicidi che un uomo possa commettere: uccidere una donna e il suo bambino. È stata lei: Agnes, la madre di Patricia e la nonna di Chris, che io avevo ucciso, a darmi la migliore lezione sull’amore perché aveva tutto il diritto di odiarmi, ma non l’ha fatto e con il tempo, lungo il viaggio che abbiamo intrapreso, lei è stata stupefacente. Mi ha dato amore e mi ha insegnato cosa fosse l’amore».
Riportando frasi come “e ogni volta che mi picchiava mi diceva: fa male più a me di quanto io ne faccio a te. Lo faccio solo perché ti voglio bene” e ancora “mi comunicava il messaggio sbagliato su cosa fosse l’amore” questa testimonianza, che Bertrand intitola «#13: amore dal più improbabile dei posti», mette a fuoco molti fattori: (i) il problema, vale a dire la violenza più che meramente il violento; (ii) la causa, rappresentata dal fatto che non c’era mai stato un altro messaggio su cosa fosse l’amore, né mai altra prospettiva o diverso punto di vista: il contesto di per sè definiva un destino; (iii) la soluzione: fare in modo di sperimentare un’alternativa per formulare un pensiero nuovo sulla relazione affettiva partendo dalla riflessione sul significato di una relazione se basata sul controllo, la dipendenza, la violenza, o, invece, sulla fiducia, la scelta e il sostegno.
Da qui la riflessione da cui scaturisce il progetto “Il messaggio corretto”: quale messaggio diamo sulla violenza di genere? A cosa non facciamo attenzione? Chi ha la responsabilità di offrire un messaggio alternativo? Come correggere il messaggio di un “voler bene” violento?
3. Rendere possibile correggere il messaggio
Tramite un finanziamento del 2018 a seguito di un bando del Dipartimento Pari Opportunità il progetto “il messaggio corretto” è nato da una condivisione metodologica che ha visto lavorare insieme: Ufficio interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna per la Sicilia, la Cooperativa Sociale Nuovi Sviluppi, la Fondazione Progetto Legalità Onlus, con il coinvolgimento dell’Ufficio Scolastico Regionale.
Il disegno del progetto, è partito proprio dalle domande soprariportate, e ha visto più livelli di intervento: quello interistituzionale con gli enti pubblici che si occupano del tema; quello operativo con il maltrattante e quello preventivo con gli adolescenti. La riflessione comune ha permesso di aggiungere anche una quarta dimensione, vale a dire, la collaborazione e la costruzione di una rete multilivello e dell’opportunità di modelli operativi co-disegnati.
Quando si parla di prevenzione di un crimine, lo si fa guardando diversi modelli di intervento sui quali gioca primariamente una componente di sicurezza. La novità con cui abbiamo scritto il progetto è stata, invece, quella di interrogarsi, ancora prima di intervenire, su un approccio sociale e sistemico che guardasse all’opportunità di fare crescere una cultura interagenzia, in modo tale che chi opera nel settore avesse la possibilità di riflettere su come e in cosa sia possibile svolgere con un approccio collaborativo. Agendo, cioè, nell’interesse della vittima, e non solo quella hic et nunc, ma anche della vittima potenziale che un sistema che si limita all’inerzia procedurale, o anche alla sola solerzia, può non arrivare a proteggere.
Lo stimolo quindi è stato quello di superare il lavoro a sé stante e individuale delle singole realtà ed operatori, per arrivare invece a percepirsi come parte di una learning organization, capace sia di far tesoro di ciò che funziona sia di apprendere da quanto bisogna migliorare. Il viaggio è ancora lungo, anche se alcuni punti sono stati messi in evidenza, tra cui il messaggio lanciato dai giovani della scuola nella quale si è fatta attività di prevenzione, che chiedono alla collettività, e alle istituzioni in primis, attenzione per il loro sviluppo e sostegno per adempiere al proprio futuro e ai propri sogni.
4. Da un approccio multi-agency per un apprendimento collettivo...
Il mondo del terzo settore ha una propensione a sviluppare un’intelligenza collettiva e, in tal senso, si muove anche l’azione della Fondazione Progetto Legalità, promossa dall’Associazione Nazionale Magistrati di Palermo e diventata Onlus già dal 2008 che cerca di operare secondo un principio di accountability, vale a dire: rendere conto di come si decide, di come si usano le risorse e dei risultati raggiunti. “PretenDIAMO il buon esempio” è il motto a cui si ispira la Fondazione cercando di lavorare per conoscere, comprendere e superare le “di-visioni” all’interno e tra i livelli istituzionali.
Ogni progetto della Fondazione parte dalla realtà di riferimento, per individuare una modalità d’intervento che sia generatrice di nuove relazioni di ‘senso’ e dunque di soluzioni che nascano in seno alle dinamiche relazionali, e non quali mere risposte ad un problema estemporaneo. È un gioco di squadra che allena a “com-prendere” e “con-correre” dove si tratta, innanzitutto di attivare interazioni: infatti, perché un progetto possa favorire una vera trasformazione, bisogna sviluppare una visione che vada oltre alla stessa vita progettuale. In sintesi, anziché cercare un posizionamento momentaneo è necessario puntare ad un impatto di sistema.
Questo gioco di squadra è ciò che ha saputo attivare l’UIEPE Sicilia - partner istituzionale del progetto “Il messaggio corretto” (referente scientifico: dott.ssa Rosanna Provenzano dell’UEPE di Caltanissetta) -, che ha accolto e stimolato collaborazioni diverse e parallele. In questo quadro, sono stati messi a fattor comune due progetti che avevano nell’UIEPE il partner istituzionale: il progetto “il messaggio corretto” con capofila la Coop Nuovi sviluppi (referente: dott.ssa Anna Amoroso) e il progetto “CIMA” con capofila il centro Padre Nostro di Brancaccio (referente: d.ssa Maria Pia Avara). Entrambi prevedevano azioni formative rivolte agli operatori UEPE e, raccordati, aumentavano la potenzialità di poter realizzare un percorso più solido e strutturato.
La progettazione congiunta dei moduli formativi, sostenuta dall’Anm Palermo (con la d.ssa Giovanna Nozzetti e il dott. Ennio Petrigni) a cui hanno collaborato attivamente, anche i magistrati del Direttivo della Fondazione tra cui il dott. Leonardo Agueci, attuale presidente della Fondazione e già Procuratore aggiunto a Palermo, e Giovanbattista Tona consigliere di Corte d’appello a Caltanissetta, ha coinvolto docenti, criminologi, magistrati con diverse esperienze e ruoli, e ancora, operatori sanitari, forze dell’ordine, e il Garante dei Detenuti. L’unione fra le due progettualità ha consentito di allargare il numero dei partecipanti, arrivando a coinvolgere operatori UEPE di tutta la Sicilia, nonché di estendere la formazione a più enti istituzionali. E’ stato possibile, così, fare formazione alle forze dell’ordine, oltre che agli assistenti sociali, psicologi ed esperti in mediazione dei conflitti. Un ideale prosieguo del dibattito, che attraverso le componenti istituzionali dialoghi anche con il tavolo attivato a livello regionale presso il Dipartimento delle politiche sociali, dovrebbe allargare la platea alla componente sanitaria territoriale (evitando di pensarsi come attori di un sistema che si limita a intervenire quando la violenza è consumata), nonchè alla Procura dei Minori e all’avvocatura poichè il tema dei maltrattanti è spesso fortemente collegato alla violenza assistita.
Un esempio di collaborazione, questo, che lancia un nuovo approccio ben descritto dalle parole della Dott.ssa Rosanna Provenzano, dirigente UEPE CL: “Dal mio punto di vista, il progetto “il messaggio corretto” è stato capace di ‘mettere a sistema’ a favore di un approccio multi-agency che spinge i singoli Enti e Soggetti che si occupano del tema ad uscire dalla propria specificità di settore, allo scopo di perseguire un obiettivo più ‘alto’. Bisogna abbandonare un approccio meramente burocratico e settoriale, mentre è importante - soprattutto in un periodo di crisi - valorizzare quanto abbiamo, favorire l’incontro e fare sistema”.
Approccio, questo, sostenuto anche dal capofila di progetto, nelle parole della Dott.ssa Anna Amoroso: “La novità di un progetto di questo tipo sta proprio nel creare una sinergia tra più Soggetti sia essi pubblici che privati (dalla Questura ai commissariati ai rappresentati del mondo del terzo settore), costituendo una rete molto ampia. In pratica abbiamo messo in ‘filiera’ le risorse presenti sul territorio favorendo una azione congiunta, piuttosto che settoriale e individuale”.
5. ...A un approccio di agency per la prevenzione della violenza a scuola
Oltre alla formazione, il progetto ha puntato fortemente sulla prevenzione. Per farlo si è deciso di coinvolgere i più giovani così da riflettere con loro sui rapporti di genere. La modalità è stata quella dell’ascolto reciproco, della comunicazione e del riconoscimento delle emozioni attraverso la tecnica della mediazione umanistica. l’obiettivo era quello di attivare un cambiamento culturale che scardinasse quegli stereotipi, spesso radicati, che generano relazioni squilibrate, prostrazione e umiliazione. L’approccio è quello dell’Agency dell’individuo, nel senso in cui lo intendono Amartya Sen e Martha Nussbaum, come “capacitazione” necessaria all’individuo per potersi realizzare come persona.
Nasce così l’intervento a scuola, realizzato dalla Fondazione Progetto Legalità Onlus presso l’Istituto di Istruzione Superiore F. Ferrara di Palermo, collocato nel quartiere della Cala, individuato con il supporto d.ssa Fiorella Palumbo, Dirigente Tecnico dell'USR - Ufficio scolastico regionale (referente per la materia). Si tratta di un Istituto che vive dentro un quartiere multietnico con la presenza di diverse comunità (bengalese, shrilankese, marocchina, ghanese e algerina). Nella scuola i giovani italiani e quelli appartenenti a comunità straniere trovano assieme la via per una convivenza interculturale. Molti degli studenti stranieri che frequentano il Ferrara hanno ancora fresca l’esperienza e la paura del viaggio affrontato, e le speranze legate a quel loro arrivo in Italia. Colpiscono, a questo riguardo, le riflessioni di uno studente extracomunitario, grato ai propri genitori per consentirgli di studiare nonostante il loro stato di povertà.
Nella maggioranza dei casi, però, i giovani che frequentano l’Istituto vivono in un contesto socio-culturale che li avvicina, pericolosamente, alla strada e alle sue attività, incrementandone l’evasione scolastica. Da quanto accennato, l’Istituto lavora con complessità tali da richiedere molte energie e risorse. La crisi pandemica ha ulteriormente esacerbato la fuga dal mondo della scuola.
In un contesto di questo tipo, il progetto “Il messaggio corretto” ha lavorato sulle “capacità” relazionali, consentendo di ritagliare uno “spazio protetto” di riflessione e condivisione di esperienze ed emozioni. A partire dal mese di gennaio 2020 fino a febbraio 2021, con dieci classi sono stati effettuati degli incontri periodici di mediazione dei conflitti con due esperte di mediazione con formazione complementare: psicologia (d.ssa Loredana Genovese) e assistente sociale (d.ssa Anita Russo), entrambe con esperienze di giudice onorario presso il Tribunale per i minori di Palermo. il lavoro di mediazione, condotto in assetto plenario e circle time, coadiuvato da un osservatore esterno (Marco Panebianco), ha permesso di fare emergere emozioni molto diverse e via via più intense, in un ambiente di ascolto e accompagnamento. Come descritto dalle esperte, il metodo di lavoro fa sì che l’attenzione non è mai volta sulla persona ma sulle sue emozioni, favorendo pertanto un approccio empatico e non giudicante: “Non si viene riconosciuti tramite un giudizio, ma sei riconosciuto rispetto a quello che stai provando (…) Finalmente c’è qualcuno che vede quello che stai provando e ti accompagna in quelle che sono le emozioni”.
Nelle parole dei ragazzi, sono diverse le tematiche emerse, connesse alla natura e alla qualità delle relazioni: il rapporto uomo/donna e la valutazione di un rapporto sano; i rapporti etero ed omosessuali e la possibilità di identificarsi oltre i pregiudizi; le caratteristiche della violenza di genere e i diversi tipi di violenza (assistita, economica, psicologica, sessuale e fisica); il conflitto e il riconoscimento delle proprie emozioni attraverso l’ascolto e la reciprocità. E ancora, i temi della solitudine adolescenziale e la difficoltà di piacersi e accettarsi, soprattutto quando l’altro diventa lo specchio della propria identità.
Da qui, anche le problematiche relative alla violenza di genere e/o il bullismo.
Le ragazze, in particolare, percepiscono tanti pregiudizi verso la figura femminile, relegata, ancora, a vecchi paradigmi e stereotipi come quello della donna-casalinga. Manifestano il bisogno di essere riconosciute fuori dai cliché. Alcune giovani appartenenti a comunità straniere affermano di non potersi autodeterminare nelle relazioni e di non essere libere nella scelta del proprio compagno/a di vita.
Si tratta di giovani donne che risentono di relazioni di genere dal carattere patriarcale dove la figura maschile deve esercitare un controllo verso quella femminile limitandone l’autonomia. Come racconta una operatrice, l’esercizio di questo controllo inizia già nelle prime esperienze di coppia: “rispetto alle relazioni di genere ci siamo scontrati con una idea piuttosto “comune”nel racconto uomo/donna: l’uomo “cacciatore” e la donna “preda”. Molte ragazzine italiane ci hanno raccontato del fatto che devono cancellare dalla rubrica tutti i nomi e i numeri di telefono di maschi, oppure che devono vestirsi in un certo modo - evitando la minigonna o maglie scollate - per non mancare di rispetto al proprio fidanzato”.
Il lockdown ha esacerbato quelle dinamiche domestiche e familiari già squilibrate e opprimenti. Per alcune giovani, di origine africana, all’isolamento del lockdown si è aggiunto il constante controllo esercitato, a più livelli, dalla propria comunità culturale: “Per tutto quello che faccio e mi succede nella vita devo condividerlo con la mia comunità e quello che mi pesa di più è il giudizio. Cioè: se faccio qualcosa che non va bene per la mia comunità sono giudicata. Sono punita”. Mentre altre ragazze, di origini bengalesi, raccontano di vivere relegate nell’ambito domestico e, una volta terminate le lezioni, di tornare a casa senza aver più la possibilità di uscirne. Nelle loro parole non poter frequentare la scuola “è stata una tortura, perché la scuola è libertà” , e ancora “la scuola rappresenta la massima espressione di libertà”.
Da queste testimonianze si evince il ruolo fondamentale che, oggi, può giocare la Scuola nel determinare una rivalsa dei giovani più fragili e di come il problema vada affrontato, in modo interistituzionale e con maggiori strumenti culturali.
In un ambiente carico di emozioni come quello descritto, gli operatori hanno raccolto tanti messaggi e provocazioni da parte di questi giovani. Tra le attività svolte, è stato chiesto ai ragazzi e alle ragazze di immaginarsi nell’altro genere: sono emersi modelli di uomo e donna estremi. In particolare nelle parole delle ragazze è emerso sia il messaggio da correggere (“se fossi uomo sarei violento”), ma anche riflessioni per arrivare a quello corretto: “se fossi uomo farei sorridere la mia donna”, che confermano la bontà dell’approccio adottato per raggiungere il cambiamento auspicato.
Il lavoro avviato con la scuola continua oltre il termine del progetto con un ciclo di incontri informativi promosso con la dott.ssa Patrizia Abate, Dirigente Scolastica e la docente Giuliana Spera, responsabile della funzione referente. Il primo di questi è con la Polizia di stato, per proseguire con un’associazione di protezione delle donne, una cooperativa che si occupa di maltrattanti e/o direttamente con referenti UIEPE, magistrati, proprio per consentire alla scuola di formare una rete interistituzionale di riferimento e, al contempo, mettere i discenti in condizione di comprendere il ruolo di ogni attore. L’approccio, in questa fase, è volto a supportare una prospettiva “multi-agency” in cui sia possibile, intanto, comprendere al meglio il contributo che ogni attore istituzionale è chiamato a dare.
6. Le lezioni apprese dal progetto a scuola
In relazione a tutto quello che è emerso durante le attività, si evincono alcuni aspetti che potrebbero essere rafforzati in modo da supportare la comunità educante, e la gestione delle problematiche che essa si trova ad affrontare.
6.1. Attivazione all’ascolto e propensione all’accoglienza.
L’attivazione all’ascolto reciproco consente agli alunni/e e alle loro famiglie di interagire meglio tra loro, e verso gli altri. Quindi di riconoscere nella scuola un posto in cui si apprendono anche soft skill, e non solo competenze di base legate alle discipline curriculari.
6.2. Attivazione di strumenti di comprensione culturale.
Gli stessi operatori attivati nell’ambito del progetto, per quanto esperti, sentono la necessità di comprendere i limiti della loro operatività rispetto a vincoli culturali e religiosi, onde poter mantenere il dialogo necessario al clima di fiducia che bisogna instaurare con l’alunno/a che decide di aprirsi agli adulti e raccontare il proprio disagio/problema. Il tema, come dimostrano le cronache più recenti, si fa urgente: non basta proteggere le giovani donne ma occorre comprendere e farsi comprendere dalle altre culture, guardando anche a un particolare contesto familiare dove rischia di consumarsi un particolare tipo di violenza di genere volta a soffocare anche con le misure più estreme ogni possibilità di una propria autorealizzazione dei figli.
6.3. Comunicazione aperta e riconoscimento delle emozioni.
La comunicazione più aperta da parte degli alunni/e consente ai docenti (e ai compagni di classe) di mettere in atto strategia di supporto, anziché rischiare di scambiare per indifferenza, o alterigia, l’isolamento attuato da parte di alcuni alunni/e. Inoltre, essere in grado di riconoscere gli effetti delle proprie azioni diminuisce il carico di reazioni aggressive e di rabbia e aiuta a esprimere in modo diverso il proprio disagio. Consente inoltre in presenza di un livello di disagio per una situazione che pur non configurando reato ne coltiva il rischio di degenerazione, di valutare l’eventuale opportunità di intervento in modo non meramente “burocratico”, predisponendo gli stessi ragazzi a trarre le informazioni necessarie attraverso incontri con la rete dei servizi per le donne, i centri per i maltrattanti, le forze dell’ordine, la magistratura, gli operatori dell’esecuzione penale esterna permettendo così di conoscere e comprendere la rete dei servizi e il modo in cui questi possono cooperare. Nonché introducendo ad altri temi relazionali come le dipendenze, il bullismo e il cyberbullismo.
Questa analisi è frutto di un lavoro di osservazione voluto all’interno del progetto: un momento di valutazione che non fosse solo quantitativo ma anche e soprattutto qualitativo e consentisse così di cogliere e restituire nuove ipotesi di lavoro sia in classe sia al gruppo di progetto, con l’obiettivo di potere raccogliere elementi per definire un modello di intervento per prevenire la formazione di comportamenti criminogeni in termini di violenza di genere e, soprattutto, per mettere i più giovani, già privati di due anni di socializzazione, in condizione di tornare a una qualità della relazione nell’ottica della promozione dell’uguaglianza di genere.
Ciò anche in una prospettiva di lavoro europea che prevede, tra le altre cose: una raccomandazione sulla prevenzione di pratiche dannose, il lancio di una rete europea sulla prevenzione della violenza di genere, il finanziamento di iniziative all’interno del programma Daphne.
7. I messaggi corretti dai ragazzi
Sono almeno tre i messaggi “corretti dai ragazzi/e” che un’azione di prevenzione con respiro ampio come in questo progetto ha consentito di fare emergere:
Se negli obiettivi generali di un programma il focus è sul prevenire la discriminazione dovremo fare attenzione anche al fatto che l’effetto del lockdown ha reso tutti uguali (cioè tutti a casa) solo nel senso peggiore: nessuno ha più potuto sviluppare la propria unicità imparando a metterla in relazione con gli altri. Un effetto sterilizzante che ha di fatto privato una generazione della possibilità e capacità di contaminazioni, nel senso positivo del termine, che dovremmo puntare a recuperare. Pensando alla lezione plasticamente appresa da Yann Arthus Bertrand sull’importanza di uno sguardo alto ma senza dimenticarci dell’importanza di atterrare, tra la gente, e costruire relazioni con cui dare un nuovo senso al nostro mondo.
Siamo entrati in classe pensando di dover mantenere la giusta distanza ma, questo progetto, ha messo in luce che dovremmo ri-apprendere/lavorare con la prospettiva della giusta vicinanza.
La libertà di scegliere e di poter realizzare se stessi è il dono simbolico che ragazzi e ragazze hanno formulato per i compagni/e che, a vario titolo, hanno raccontato il proprio disagio nelle relazioni di genere, non solo come coppia ma anche, da non sottovalutare, nel rapporto con i genitori.
Tutti i materiali di progetto (tra cui la brochure informativa per riconoscere la violenza e capire cosa fare, e un video che raccoglie le parole di chi lavora sul campo per illustrare il bisogno di investire sulla crescita di una cultura interistituzionale) sono sul sito www.progettolegalita.it a disposizione delle scuole e/o di chi vuole promuovere azioni sui maltrattanti.
Per ogni informazione, e/o per futuri progetti si può contattare la Fondazione: info@progettolegalita.it
La Cassazione sul “consenso algoritmico”. Ancora un tassello nella costruzione di uno statuto giuridico composito
di Marco Bassini e Oreste Pollicino
Sommario: 1. Introduzione - 2. L’ordinanza e il fulcro della decisione - 3. Lo statuto dell’algoritmo, a partire dalla protezione dei dati.
1. Introduzione
L’ordinanza n. 14381/2021 della Suprema Corte di Cassazione (sez. I civile) qui in commento si inserisce nell’ambito di un ormai partecipato corredo di decisioni giurisprudenziali che hanno iniziato, da pochi anni a questa parte, a tracciare un primo, embrionale, “statuto dell’algoritmo”. Si tratta di pronunce che svelano la complessità di uno scenario tecnologico di cui il diritto fatica a tenere il passo e in cui dunque acquisiscono evidenza le sollecitazioni che la c.d. “società algoritmica” produce rispetto a categorie giuridiche anche di recente conio, come quelle della protezione dei dati personali, così come recentemente declinate nel paradigma regolatorio del Regolamento generale sulla protezione dei dati personali (c.d. “GDPR”).
Tanto più si pretende, infatti, di sostituire o semplicemente supportare l’attività umana affidando funzioni anche rilevanti a processi di elaborazione automatizzata fondati su tecniche algoritmiche, quanto più si palesano le sfide che tali sistemi generano per i diritti e le libertà individuali, non riducibili al solo ambito della privacy e della protezione dei dati. Il rischio latente, infatti, è che mediante il ricorso a queste tecniche, soprattutto da parte di privati, si possano sottrarre attività che presentano un impatto assai significativo ai presìdi che normalmente assistono l’incisione di diritti per mano degli attori pubblici.
Si tratta di motivi, per vero, già timidamente presenti alla mente del legislatore europeo, che con l’art. 22 del GDPR ha tentato di porre un freno rispetto ai trattamenti di dati mediante processi interamente automatizzati, stabilendo il diritto degli individui a sottrarsi a una decisione siffatta e limitando a circostanze determinate le ipotesi eccezionali in cui sia possibile ricorrervi. La ricerca di un punto di equilibrio tra salvaguardia dell’innovazione e tutela dei diritti passa, tuttavia, da presìdi più robusti che potranno verosimilmente costruirsi nel tempo: non è un caso che la stessa Unione abbia formulato di recente una proposta di regolamento su un approccio europeo all’intelligenza artificiale, segno della necessità di “affinare” ulteriormente le “armi” a tutela dei diritti a fronte di un progresso tecnologico il cui incedere pare destinato a una costante accelerazione.
2. L’ordinanza e il fulcro della decisione
In questo scenario si inserisce l’ordinanza della Cassazione, che ha accolto il ricorso promosso dall’Autorità garante per la protezione dei dati personali avverso una pronuncia del Tribunale di Roma che ne aveva parzialmente annullato una decisione con cui si era vietato a una società privata di dare corso all’implementazione di un sistema di rating reputazionale.
Sebbene la vicenda si collochi a pieno titolo nel filone legato alla trasparenza algoritmica, la sentenza del Supremo Collego si appunta su un elemento assolutamente tradizionale e consolidato nel diritto (non solo europeo) alla protezione dei dati, ossia il consenso dell’interessato, quale base giuridica che legittima, e dunque giustifica, il trattamento di dati personali effettuato dai soggetti che assumono il ruolo di titolari (e che dunque costituiscono la “controparte” dell’interessato cui i dati personali appartengono).
I fatti di causa risalgono a un’epoca antecedente all’entrata in vigore del GDPR ma i principi di diritto enunciati dalla Cassazione risultano in piena armonia con il quadro giuridico che è andato così evolvendosi.
Nel 2016 l’Autorità garante aveva disposto, ai sensi dell’art. 154, comma 1, lett. d) del d.lgs. 196/2003 (Codice della privacy), il divieto di effettuare operazioni di trattamento da parte di una piattaforma web per l’elaborazione di profili reputazionali[1], avendone riscontrata la natura illecita, difforme dalle previsioni del Codice della privacy. L’Associazione cui era stato ingiunto il blocco dei trattamenti proponeva ricorso avanti al Tribunale di Roma, che annullava parzialmente il provvedimento, ritenendo non condivisibile l’impostazione del Garante, che aveva giudicato assente una idonea cornice normativa alla base del sistema di raccolta e trattamento dei dati previsto dal sistema in discorso. Vale la pena ricordare che l’applicativo al centro della vicenda era inteso a permettere la creazione di profili reputazionali riferiti sia a persone fisiche sia a persone giuridiche ed era nato con l’obiettivo di contrastare la diffusione di profili falsi, così favorendo la diffusione di informazioni accurate e imparziali sulla professionalità e credibilità dei soggetti interessati.
La decisione del Tribunale era incentrata sull’esaltazione dell’autonomia privata, che avrebbe potuto spingersi fino a edificare un sistema di accreditamento per la prestazione di servizi valutativi in vista del collocamento sul mercato dei soggetti interessati.
Secondo la Cassazione, però, l’interpretazione offerta del Tribunale di Roma, contro cui veniva interposto ricorso dal Garante, non ha colto il vero nodo critico indicato già nel provvedimento oggetto di gravame in prime cure, ossia l’individuazione di un adeguato fondamento giuridico. Il punto centrale, infatti, non è dato dall’assenza di una puntuale disciplina del rating reputazionale (carenza dalla quale del resto non è dato inferire alcunché sulla sorte delle operazioni di trattamento), bensì dalla necessità che a legittimare il trattamento di dati personali condotto nella fattispecie sia una valida base giuridica tra quelle indicate dal legislatore, e in particolare una idonea manifestazione di consenso.
Questo richiamo ha consentito al Supremo Collegio di esaminare le condizioni previste dalla normativa rilevante (all’epoca dei fatti rappresentata esclusivamente dalla disciplina interna di recepimento della direttiva 95/46/CE, ossia il d.lgs. 196/2003, “Codice della privacy”, e ora invece costituita dal GDPR in combinazione con alcune norme interne): ora come allora, un requisito indefettibile per considerare il consenso validamente prestato è la sussistenza di una previa opera informativa che illustri in dettaglio le attività di trattamento per le quali i dati dell’interessato sono raccolti. In altri termini, il trattamento di un dato personale deve essere chiaramente individuato: ciò consente di ritenere che la manifestazione volontaristica dell’interessato sia non soltanto informata, ma anche libera e specifica; solo così la sfera conoscitiva dell’interessato potrà ritenersi adeguata a motivare il suo comportamento adesivo. Secondo la Cassazione, una valutazione circa la serietà della manifestazione non può prescindere all’apprezzamento dell’adeguatezza del compendio di informazioni riferite, da ritenersi inclusive, nel caso di specie, deli elementi relativi al funzionamento dell’algoritmo utilizzato per il sistema di rating. Proprio la scarsa trasparenza dell’algoritmo impedisce di considerare valida la manifestazione del consenso: secondo i giudici della Cassazione, infatti, “non può logicamente affermarsi che l’adesione a una piattaforma da parte dei consociati comprenda anche l’accettazione di un sistema automatizzato, che si avvale di un algoritmo, per la valutazione oggettiva di dati personali, laddove non siano resi conoscibili lo schema esecutivo in cui l’algoritmo si esprime e gli elementi all’uopo considerati”.
3. Lo statuto dell’algoritmo, a partire dalla protezione dei dati
Le parole dell’ordinanza sembrano riecheggiare gli accenti utilizzati dal Consiglio di Stato, mesi addietro, per affermare con forza, seppure in un contesto giuridico assai differente, che una regola algoritmica rimane pur sempre una regola giuridica che come tale deve essere afferrabile, comprensibile e anche “valutabile”. Si tratta di un passaggio fondamentale da collocare come pilastro del processo di transizione dalla società digitale a quella algoritmica.
Come ha messo in evidenza anche il commissario dell’Autorità garante Guido Scorza, commentando la pronuncia della Cassazione[2], la protezione dei dati personali rappresenta il primo e più importante presidio rispetto all’avvento su larga scala dei sistemi di intelligenza artificiale e delle tecnologie algoritmiche: non è un caso che nella recente proposta di regolamento che definisce un quadro europeo all’intelligenza artificiale si ritrovino molti dei motivi ispiratori già al centro del GDPR, tra cui in primo luogo spicca il c.d. approccio basato sul rischio[3].
La linea argomentativa della Cassazione, incentrata sulla idoneità “in concreto” della base giuridica adoperata nel caso specifico (il consenso), si riconnette idealmente con il dibattito, nel cui merito era già entrato anche il Consiglio di Stato, sui requisiti di utilizzabilità dell’algoritmo, in particolare sulla conoscibilità e comprensibilità. Questo punto di saldatura tra disciplina sulla protezione dei dati e regolamentazione delle tecnologie algoritmiche, infatti, era già emerso in alcuni importanti passaggi della sentenza del 13 dicembre 2019, n. 8472, della VI sezione del Consiglio di Stato[4].
Al di là del dibattito sull’art. 22, incentrato sulla possibilità di riconoscere un diritto alla spiegazione come declinazione del diritto a non essere sottoposti a decisioni interamente automatizzate, il GDPR sembrerebbe dettare tre principi: il principio di conoscibilità, che si rafforza in principio di comprensibilità quanto si tratti di decisioni automatizzate adottate da soggetti pubblici; il principio di non esclusività della decisione algoritmica, che assicura un contributo umano in grado di controllare, validare o smentire la decisione automatica; il principio di non discriminazione algoritmica, che impegna il titolare dei trattamenti a mettere in atto quanto necessario a rettificare i fattori che comportano inesattezze, per minimizzare gli errori e impedire effetti discriminatori. In questo quadro, il diritto alla spiegazione sembrerebbe prodromico a garantire la conoscibilità dell’algoritmo e dunque il controllo sul suo funzionamento e operato. Sebbene il contenuto della pretesa alla spiegazione e la stessa autonomia di siffatto diritto siano largamente dibattuti, in dottrina, l’ordinanza della Cassazione in commento segna senz’altro un punto rilevante nella creazione di uno “statuto dell’algoritmo”, chiarendo che ove i dati personali siano destinati a subire un trattamento interamente automatizzato, la trasparenza dovrà essere garantita sin dalla fase “genetica”, quella del consenso, che rappresenta una delle possibili basi giuridiche previste dalla normativa. Giova peraltro ricordare che l’art. 22 GDPR, derogando al diritto a non esservi sottoposti, autorizza l’adozione di una decisione interamente automatizzata entro circostanze particolari, ossia quando questa sia necessaria per la conclusione o l’esecuzione di un contratto tra l’interessato e un titolare del trattamento; sia autorizzata dal diritto dell’Unione o dello Stato membro cui è soggetto il titolare del trattamento; si fondi sul consenso esplicito dell’interessato. Il principio di diritto stabilito dall’ordinanza della Cassazione sembrerebbe così saldarsi rispetto a queste limitazioni, per superare le quali il legislatore attribuisce rilevanza al consenso (esplicito) dell’interessato.
La presa di posizione del Supremo Collegio, così, oltre a confermare la bontà dell’impianto del GDPR, pur pensato in un’epoca antecedente l’esplosione dei moderni sistemi di intelligenza artificiale e di tecnologie altrettanto innovative come la blockchain, aggiunge un tassello ulteriore a quello “statuto dell’algoritmo” cui si accennava poc’anzi: un prodotto perlopiù giurisprudenziale che evidenzia l’esigenza di mantenere ferma una serie di presìdi essenziali a garanzia della fondamentalità del diritto alla protezione dei dati e della centralità dell’individuo nella società algoritmica. Una missione importante, in un’epoca storica in cui, complici forse le difficoltà ingenerate dalla pandemia, non sono mancati scivoloni e cadute di stile anche da parte di importanti esponenti con un passato istituzionale sull’importanza della privacy e degli attori che agiscono a sua tutela[5].
[1] Si v. il provv. 24 novembre 2016 – doc. web n. 5796783.
[2] G. Scorza, “L’algoritmo deve essere trasparente”, la Cassazione rilancia il GDPR, in Agenda Digitale, 26 maggio 2021
[3] Come evidenziato già in M. Bassini, Commissione Europea, proposta di regolamento sull'Intelligenza Artificiale, in Italia Oggi, 24 aprile 2021; cfr. anche G. De Gregorio-O. Pollicino, La Terza via europea per un capitalismo digitale ben temperato, in Il Sole 24 Ore, 23 aprile 2021.
[4] Ma v. anche le sentenze della sez. VI, 4 febbraio 2020, n. 881 e 8 aprile 2019, n. 2270.
[5] Cfr. il tweet del Garante per la protezione dei dati personali del 12 giugno 2021
La tutela delle pari opportunità: un primo (mezzo) importante passo in avanti
di Francesco Bordonali
L’esperienza della nascita di un figlio riguarda entrambi i genitori.
Dare attuazione a tale affermazione ha richiesto del tempo.
In un primo momento, l’evento nascita (o adozione) è stato affrontato esclusivamente mediante il riconoscimento di misure in favore della donna lavoratrice.
Successivamente, sono stati riconosciuti autonomi diritti anche al padre lavoratore.
Si è compreso che il raggiungimento delle pari opportunità tra uomini e donne richiede, tra le altre cose, un’equa ripartizione dei compiti all’interno della famiglia, che può essere efficacemente ottenuta solo attraverso un maggiore coinvolgimento del padre nell’accudimento della prole.
Il presente contributo intende richiamare l’attenzione sulle politiche a favore delle pari opportunità tra uomini e donne nel campo della tutela della maternità.
Sono state indicate le fonti normative dell’ordinamento europeo e di quello interno, con cui si è data concreta attuazione ai principi in materia, e illustrate le specifiche misure adottate dal nostro paese e da altri considerati “virtuosi”.
È stato segnalato che il congedo obbligatorio di paternità, misura particolarmente importante nell’ottica del percorso intrapreso, per ragioni formali, si applica esclusivamente ai lavori dipendenti del settore privato.
Sommario: 1. La disciplina di origine eurounitaria - 2. La disciplina interna - 3. I diritti legati alla maternità - 4. Il congedo obbligatorio di paternità.
1. La disciplina di origine eurounitaria
Mettere al mondo un figlio è una decisione che riguarda entrambi i genitori.
Nel corso degli anni si è cercato di ridurre gli effetti negativi che tale evento può determinare nella vita lavorativa della madre, concentrandosi su di essa.
Più recentemente, si è intuito che per riequilibrare i ruoli lavorativi e familiari dei genitori è necessario coinvolgere maggiormente i padri nella cura della prole.
Nella materia di cui si discute è indubbio che la normativa europea abbia avuto un ruolo particolarmente importante.
Nel diritto europeo la tutela della maternità si è affermata inizialmente attraverso il principio di parità di trattamento retributivo tra uomini e donne.
L'art. 141 del Trattato di Amsterdam (ex art. 119 del Trattato di Roma) sancisce che “ciascuno Stato membro assicura l'applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore”.
E, inoltre, che “allo scopo di assicurare l’effettiva e completa parità tra uomini e donne nella vita lavorativa, il principio della parità di trattamento non osta a che uno Stato membro mantenga o adotti misure che prevedono vantaggi specifici diretti a facilitare l’esercizio di una attività professionale da parte del sesso sottorappresentato ovvero a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali”.
Per dare applicazione pratica a questi principi, il Consiglio dei Ministri nel 1974 ha adottato una risoluzione finalizzata ad ottenere "la parità tra gli uomini e le donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro ed alla formazione e promozione professionali, nonché per quanto riguarda le condizioni di lavoro, comprese le retribuzioni”.
In attuazione di questa risoluzione sono state approvate le seguenti direttive:
- Direttiva 75/117 del 10 febbraio 1975, finalizzata al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in tema di parità retributiva tra lavoratori e lavoratrici;
- Direttiva 76/207 del 9 febbraio 1976, volta a dare attuazione al principio di parità di trattamento con specifico riferimento all'accesso al lavoro, alla formazione, alla promozione professionale e alle condizioni di lavoro;
- Direttiva 79/7 del 9 dicembre 1978, avente ad oggetto la parità di trattamento nel campo della sicurezza sociale.
La Carta Comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, adottata dal Parlamento Europeo il 9 dicembre 1989, all’art. 16 riafferma che “deve essere garantita la parità di trattamento tra uomini e donne. Deve essere sviluppata l’uguaglianza delle possibilità. A tal fine, occorre intensificare ovunque sia necessario le azioni volte a garantire l’attuazione dell’uguaglianza tra uomini e donne, in particolare in materia di accesso al lavoro, di retribuzioni, di condizioni di lavoro, di protezione sociale, di istruzione, di formazione professionale e di evoluzione delle carriere. È altresì opportuno sviluppare misure che consentano agli uomini e alle donne di conciliare meglio i loro obblighi professionali e familiari”.
Tali principi sono stati ribaditi dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea adottata a Nizza nel 2000. L'art. 21 vieta la discriminazione basata sul sesso. L'art. 23 stabilisce l’obbligo per gli Stati membri di garantire la parità di trattamento “in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione”, senza divieto di mantenere o adottare misure più favorevoli nei confronti delle persone appartenenti al sesso meno rappresentato. L'art. 33 proibisce il licenziamento per ragioni legate alla maternità e prevede il diritto al congedo di maternità retribuito e ad un congedo parentale dopo la nascita o l’adozione di un figlio “al fine di poter conciliare vita familiare e professionale”.
Al fine di garantire l'effettiva parità dei sessi nel mercato del lavoro, il Consiglio europeo nel corso delle ultime decadi ha approvato le seguenti direttive:
- Direttiva 86/378/CEE, relativa al settore dei regimi professionali di sicurezza sociale;
- Direttiva 86/613/CEE, relativa alle attività autonome, incuse quelle del settore agricolo;
- Direttiva 92/85/CEE, relativa al miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento;
- Direttiva 96/34/CE, relativa all'accordo quadro sul congedo parentale concluso dall'UNICE, dal CEEP e dalla CES;
- Direttiva 96/97/CE, con cui è stata modificata la direttiva 86/378/CEE;
- Direttiva 97/80/CE, relativa alla ripartizione dell'onere della prova nei casi di discriminazione basati sul sesso;
- Direttiva 97/81/CE, relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall'UNICE, dal CEEP e dalla CES;
- Direttiva 2002/73/CE, adottata insieme al Parlamento europeo, con cui è stata modifica alla direttiva 76/207/CEE (v. sopra);
- Direttiva 2003/88/CE, adottata insieme al Parlamento europeo, relativa all'organizzazione dell'orario di lavoro;
- Direttiva 2004/113/CE, relativa alla parità di trattamento tra uomini e donne nell’accesso a beni e servizi.
All'elaborazione e al riconoscimento dei diritti legati alla maternità ha contribuito anche la Corte di Giustizia, adeguandoli al mutare dei tempi. In particolare, la Corte ha stabilito che ogni trattamento sfavorevole riguardante una donna in gravidanza o maternità va considerato alla stregua di una discriminazione diretta basata sul sesso.
Al fine di semplificare la disciplina comunitaria in tema di parità di trattamento, è stata emanata la direttiva 2006/54, contenente importanti principi e definizioni.
In particolare, l'art. 1 chiarisce che la discriminazione è diretta, ossia consistente in qualsiasi “situazione nella quale una persona è trattata meno favorevolmente in base al sesso di quanto un'altra persona sia, sia stata o sarebbe trattata in una situazione analoga”, oppure indiretta, e cioè caratterizzata da ogni “situazione nella quale una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una situazione di particolare svantaggio le persone di un determinato sesso, rispetto a persone dell'altro sesso, a meno che detta disposizione, criterio o prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari”.
Mediante questa direttiva si è anche inteso rinnovare l’incoraggiamento ai padri a partecipare più attivamente alla vita della famiglia e, infatti, il Consiglio ha rimesso agli Stati membri la scelta di riconoscere a lavoratori il diritto al congedo di paternità sia in caso di nascita sia in caso di adozione.
2. La disciplina interna
I diritti legati alla maternità avevano già avuto riconoscimento nel diritto interno grazie ad alcune norme di rango costituzionale. L’art. 37 della Costituzione prevede che “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”.
Per dare attuazione alla previsione di cui all'art. 37 Cost. sono stati emanati i seguenti atti legislativi:
- Legge n. 1204 del 1971, in tema di “Tutela delle lavoratrici madri”;
- Legge n. 903 del 1977, in tema di “Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro”;
- Legge n. 863 del 1984, in tema di “Misure urgenti a sostegno e ad incremento dei livelli occupazionali”;
- Legge n. 125 del 1991, in tema di “Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro”;
- Decreto Legislativo n. 196 del 2000, in tema di “Disciplina dell'attività delle consigliere e dei consiglieri di parità e disposizioni in materia di azioni positive, a norma dell'articolo 47 della legge 17 maggio 1999, n. 144”;
- Legge n. 215 del 1992, in tema di “Azioni positive per l'imprenditoria femminile”;
- Decreto Legislativo n. 645 del 1996, in tema di “Tutela della salute e sicurezza sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento”;
- Legge n. 53 del 2000, in tema di “Disposizioni per il sostegno della maternità e paternità, per diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città”;
- Decreto Legislativo n. 61 del 2000, in tema di “Attuazione della Direttiva 97/81/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro”;
- Decreto Legislativo 100/2001 “Disposizioni integrative e correttive del D. Lgs. n. 61 del 2000”;
- Testo Unico n. 151 del 2001, in tema di “Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità”;
- Decreto Legislativo n. 115 del 2003, in tema di “Modifiche ed integrazioni al D.Lgs. n. 151 del 2001”;
- Decreto Legislativo n. 276 del 2003, in tema di “Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro”;
- Decreto Legislativo n. 80 del 2015, c.d. “Jobs Act".
3. I diritti legati alla maternità
Al fine di raccogliere tutte le norme vigenti in tema di pari opportunità nel 2006 è stato approvato il Decreto legislativo n. 198, denominato “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna". All’art. 25 sono state riportate le precedenti definizioni di discriminazione diretta e indiretta, a cui si sono stati aggiunti negli articoli successivi specifici divieti in materia di accesso al lavoro (art. 27), di retribuzione (art. 28), di prestazione lavorativa e di carriera (art. 29), di accesso alle prestazioni previdenziali (art. 30) e di accesso agli impieghi pubblici (art. 31).
In tema di diritti legati alla maternità, invece, l'atto normativo di riferimento è il citato Testo Unico n. 151 del 2001. Tali diritti consistono in congedi, riposi, permessi e sostegni economici alle madri e padri lavoratori sia per la nascita di un figlio sia per la sua adozione o affidamento (eventi sempre parificati alla nascita).
Tali diritti si applicano ai dipendenti, inclusi quelli in fase di apprendistato, di amministrazioni pubbliche, di datori di lavoro privati, ai soci lavoratori di cooperative, anche se a tempo parziale. Disposizioni particolari sono stabilite in favore lavoratori a termine nelle pubbliche amministrazioni, del personale militare, dei lavoratori stagionali, domestici, a domicilio, agricoli autonomi e liberi professionisti.
Oltre a ribadire il divieto di discriminazione, il Testo Unico tutela la sicurezza e la salute delle madri lavoratrici, vietando che vengano adibite a mansioni pericolose, faticose e insalubri, pur conservando il diritto a mantenere la retribuzione prevista per le mansioni svolte in precedenza.
Sono previsti permessi retribuiti per l'effettuazione di esami prenatali, accertamenti clinici oppure visite mediche specialistiche, nel caso in cui queste debbano essere eseguite durante l'orario di lavoro. È vietato il lavoro notturno durante la gravidanza e fino a sette mesi di età del figlio. Le madri di figli di età inferiore ai tre anni, nonché le lavoratrici o i lavoratori unici genitori di figli di età inferiore ai 12 anni possono rifiutarsi di prestare il lavoro notturno.
Sono previste le seguenti tipologie di congedo:
- congedo di maternità, definito come “l'astensione obbligatoria dal lavoro della lavoratrice”;
- congedo di paternità in sostituzione del congedo di maternità non fruito in tutto o in parte dalla madre, definito come “l'astensione dal lavoro del lavoratore, fruito in alternativa al congedo di maternità”;
- congedo parentale, definito come “l'astensione facoltativa della lavoratrice o del lavoratore”;
- congedo per la malattia del figlio, definito come “l'astensione facoltativa dal lavoro della lavoratrice o del lavoratore in dipendenza della malattia stessa”.
Il congedo di maternità consiste nel divieto di adibire al lavoro la lavoratrice i due mesi prima del parto e i tre mesi successivi. Su richiesta della lavoratrice e previa attestazione medica, è possibile ridurre il periodo di astensione prima del parto a un mese (e perfino escluderlo del tutto, v. art 16 co. 1.1 legge n. 151/2001, così come modificato dall'art. 1 co. 485 legge n. 145/2018) e aumentare quello successivo a quattro mesi. In caso di lavori particolarmente gravosi l’astensione dal lavoro decorre dal terzo mese antecedente al parto. Quando, invece, ricorrono ragioni cliniche o lavorative tali da mettere a rischio la salute della madre o del nascituro, si dispone l’interdizione dal lavoro fino all'inizio del periodo di congedo. Durante il congedo la lavoratrice ha diritto a ricevere l'80% dell'intera retribuzione.
Il riconoscimento del congedo di paternità in alternativa a quello non goduto, in tutto o in parte, dalla madre intende assicurare tutele crescenti alle pari opportunità tra uomini e donne, sul presupposto che gli istituti relativi alla maternità, previsti inizialmente per la donna, sono in realtà diretti ad assicurare gli interessi del figlio. Tali interessi non consistono solo in quelli strettamente fisiologici, ma anche quelli in relazionali e affettivi, al cui soddisfacimento contribuisce anche la figura paterna (Corte cost. n. 385 del 2005).
Tale congedo spetta al lavoratore in caso di morte o grave infermità della madre, abbandono del bambino da parte della madre, affidamento esclusivo al padre e rinuncia espressa della madre al congedo di maternità (la rinuncia è possibile solo in caso di adozione e di affidamento).
Il congedo parentale è un periodo di astensione facoltativo dal lavoro concesso ai genitori per prendersi cura del bambino nei suoi primi anni di vita e soddisfare i suoi bisogni affettivi e relazionali. Spetta ai genitori lavoratori fino ai 12 anni di vita del bambino (o di suo ingresso in famiglia in caso di adozione o affidamento e comunque non oltre il compimento dei 18 anni) per un periodo complessivo tra i due non superiore a dieci mesi. Il periodo è prorogabile a undici mesi nel caso in cui il padre si astiene dal lavoro per un periodo continuativo o frazionato di almeno tre mesi. Il congedo parentale può essere fruito dai genitori anche contemporaneamente.
Entro tale perimetro, il congedo parentale spetta:
- alla lavoratrice per un periodo continuativo o frazionato di massimo sei mesi;
- al lavoratore per un periodo continuativo o frazionato di massimo sei mesi, prorogabile a sette in caso di astensione dal lavoro per un periodo continuativo o frazionato di almeno tre mesi;
- al lavoratore anche durante 8l periodo di astensione obbligatoria della madre e anche se quest’ultima non lavora;
- al genitore solo (padre o madre) per un periodo continuativo o frazionato di massimo dieci mesi.
La legge n. 228 del 2012 ha previsto la possibilità di frazionare a ore il congedo parentale, rimandando alla contrattazione collettiva il compito di definire la disciplina di dettaglio.
Il decreto legislativo n. 80 del 2015 ha stabilito che i genitori lavoratori, anche in mancanza di contrattazione collettiva, possano usufruire del congedo parentale su base oraria per metà dell'orario giornaliero.
Il decreto legislativo n. 81 del 2015 ha previsto per il lavoratore di chiedere per una sola volta la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in tempo parziale al posto del congedo parentale o entro i limiti del congedo ancora spettante, purché la riduzione dell’orario di lavoro non superi il 50%.
Ai genitori spetta:
- un’identità pari al 30% della retribuzione entro i primi sei anni di età del figlio e per un periodo massimo complessivo (tra padre e madre) di sei mesi;
- un’identità pari al 30% della retribuzione dai sei anni e un giorno a otto anni del figlio, se il reddito individuale del genitore richiedente è inferiore a 2,5 volte l'importo annuo del trattamento minimo pensionistico ed entrambi i genitori non ne hanno usufruito nei primi sei anni di vita del figlio o per la parte non fruita anche eccedente il periodo massimo complessivo di sei mesi;
- nessuna indennità dagli otto anni e un giorno ai 12 anni di età del figlio.
Sono riconosciuti alternativamente ad entrambi i genitori periodi di congedo pari alla durata della malattia dei figli di età non superiore ai tre anni. Il periodo di congedo non può superare i cinque giorni all'anno in caso di malattie di figli di età dai tre agli otto anni.
Per rendere effettiva la tutela della maternità si è stabilito il divieto di licenziamento della lavoratrice dall'inizio della gravidanza fino al compimento di un anno di età da parte del figlio. La medesima tutela si estende al lavoratore che fruisce del congedo di paternità in alternativa alla madre.
Il licenziamento verificatosi in tale periodo è nullo, così come è nullo il licenziamento disposto a seguito di richiesta o godimento del congedo parentale o per la malattia del figlio.
Resta legittimo il licenziamento per colpa grave, per cessazione dell’attività aziendale, per ultimazione della prestazione per cui la lavoratrice era stata assunta, per risoluzione del rapporto di lavoro per scadenza del termine e per esito negativo della prova.
Tale protezione si estende anche alla disciplina relativa alle dimissioni volontarie presentate durante il periodo in cui vige il divieto di licenziamento, che per produrre effetti devono essere convalidate dal servizio ispettivo del Ministero del lavoro al fine di accertare la loro genuinità e spontaneità.
Alle lavoratrici e ai lavoratori che abbiano goduto del congedo di maternità e di paternità alternativo alla madre è garantito il diritto alla conservazione del posto di lavoro nella stessa unità produttiva o in un’altra sita nel medesimo comune e allo svolgimento delle medesime mansioni o di mansioni equivalenti.
Sono, inoltre, riconosciute alle lavoratrici durante il primo anno di vita del figlio due periodi di riposo di un’ora ciascuno al giorno di riposo, se l'orario lavorativo giornaliero è di almeno sei ore. È riconosciuto un periodo di riposo di un’ora, se, invece, l’orario lavorativo giornaliero non raggiunge le sei ore. I periodi di riposo sono di mezz’ora ciascuno nel caso in cui la lavoratrice usufruisce dell'asilo nido o di altra struttura idonea, realizzata dal datore di lavoro nell’unità produttiva in cui lavora o nelle sue immediate vicinanze.
La durata dei periodi di riposo si raddoppiano in caso di parto gemellare o plurimo o di adozione o affidamento di due o più bambini.
Di tali riposi può godere anche il lavoratore:
- se è l'affidatario esclusivo dei figli;
- in alternativa alla lavoratrice;
- se la madre non è lavoratrice dipendente;
- in caso di morte o di grave infermità della madre.
4. Il congedo obbligatorio di paternità
Da questa disamina emerge che i padri lavoratori, salvo che con riferimento al congedo parentale, possono godere dei diritti previsti dall'ordinamento in occasione della nascita di un figlio solo in caso di mancato godimento di essi da parte della madre lavoratrice.
Tale circostanza incide significativamente, oltre che sull’equilibrata suddivisione dei compiti all'interno della famiglia, sulla vita lavorativa della madre, che, di fatto, si trova costretta a farsi carico della maggior parte delle necessità del figlio.
Pertanto, “al fine di sostenere la genitorialità, promuovendo una cultura di maggiore condivisione dei compiti di cura dei figli all'interno della coppia e per favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro", il legislatore con la Legge n. 92 del 2012 (c.d. “Legge Fornero") ha previsto in via sperimentale e transitoria il “congedo obbligatorio di paternità” nella misura di un solo giorno per gli anni 2013-2015.
Durante il congedo il lavoratore ha diritto di ricevere in busta paga il 100% dell’intera retribuzione.
La misura è stata prorogata:
- per l’anno 2016, dalla legge di stabilità 2016 (Legge n. 208 del 2015), che lo ha elevato a 2 giorni;
- per il biennio 2017-2018, dalla legge di bilancio 2017 (Legge n. 232 del 2016), che per l’anno 2018 lo ha portato a 4 giorni;
- per l’anno 2019, dalla legge di bilancio 2019 (Legge n. 145 del 2018), che lo ha innalzato a 5 giorni;
- per l’anno 2020, dalla legge di bilancio 2020 (Legge n. 160del 2019), che lo ha elevato a 7 giorni;
- per l’anno 2021, dalla legge di bilancio 2021 (Legge n. 178 del 2020), che lo ha aumentato a 10 giorni, prevedendone la fruizione anche in caso di morte perinatale del figlio, in virtù di quanto previsto da ultimo dalla Direttiva del Parlamento e del Consiglio 2019/1158, che all'art. 4 ha stabilito che “gli Stati membri adottano le misure necessarie a garantire che il padre o, laddove e nella misura in cui il diritto nazionale lo riconosce, un secondo genitore equivalente abbia diritto a un congedo di paternità di dieci giorni lavorativi da fruire in occasione della nascita di un figlio del lavoratore”.
Purtroppo, tale misura allo stato può essere goduta esclusivamente dai padri lavoratori dipendenti del settore privato.
I dipendenti pubblici sono esclusi dal godimento del congedo obbligatorio di paternità, in quanto il Ministro per la Pubblica Amministrazione non ha ancora adottato il provvedimento attuativo previsto dall’art. 1 co. 8 della Legge 92 del 2012.
Sono venuto a conoscenza di questa vicenda, in quanto il 14 aprile 2021 sono diventato papà.
Sono rimasto particolarmente colpito dal fatto che un diritto di tale importanza non è ancora stato riconosciuto ai lavoratori dipendenti del pubblico impiego.
Il raggiungimento della pari opportunità per le lavoratrici di qualsiasi settore passa anche (e soprattutto) attraverso il riconoscimento del ruolo del padre all'interno della famiglia.
Va, infatti, superata la concezione per la quale la genitorialità è una esperienza e una esigenza che riguarda principalmente (se non esclusivamente) la madre.
Per garantire ad entrambi i genitori la possibilità di partecipare alla vita dei figli e allo stesso tempo di non rinunciare alle proprie esigenze lavorative è necessario che si apprestino misure idonee a consentire una reale ed equilibrata distribuzione dei compiti familiari.
Per comprendere quanta strada il nostro paese deve ancora fare in questo settore, è sufficiente osservare ciò che avviene in altri paesi europei.
In Spagna le lavoratrici e i lavoratori hanno diritto a 16 settimane di congedo ciascuno.
In Norvegia le lavoratrici e i lavoratori hanno diritto a 12 settimane di congedo ciascuno, a cui se ne aggiungono altre 22 o 32 da condividere tra i genitori.
In Svezia ciascun lavoratore ha diritto ad almeno 90 giorni di congedo, a cui se ne aggiungono altri 300 da condividere.
In Danimarca i genitori hanno diritto a 52 settimane di congedo in totale tra i due, di cui 2 spettano necessariamente al lavoratore e 18 spettano necessariamente alla lavoratrice.
In Germania ai genitori spettano 12 mesi di congedo in totale tra i due, che aumentano a 14 mesi se il lavoratore ne beneficia per almeno 2 mesi.
Nella speranza che il nostro paese si allinei al più presto a quelli più virtuosi, mi auguro che questo articolo possa contribuire a sollecitare il Ministro per la Pubblica Amministrazione ad adottare gli atti amministrativi necessari a permettere il godimento del congedo obbligatorio di paternità anche ai lavoratori del pubblico impiego e che ai magistrati venga riconosciuta anche l’indennità di cui all'art. 3 L. n. 27 del 1981, così come è stato fatto per le colleghe donne con riferimento al congedo obbligatorio di maternità (art. 1 co. 325 L. n. 311 del 2004).
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