Prosegue la riflessione di Giustizia insieme sul programma di gestione per l'anno 2021 della Corte di Cassazione. Agli interventi di Renato Rordorf - Commento al punto 11: “La motivazione dei provvedimenti” - e di Bruno Capponi - Lampeggi sulle motivazioni - segue, oggi, il contributo dell'Avv. David Cerri su chiarezza e concisione nel linguaggio del giudice (e delle parti).
Riflessioni sulla Relazione illustrativa del programma di gestione della Corte di Cassazione per l’anno 2021.
2. Chiarezza e concisione nel linguaggio del giudice (e delle parti) di David Cerri
Nei primi giorni di maggio è venuto alla luce il programma di gestione per l’anno 2021 dei procedimenti civili e penali della Corte di Cassazione; documento oltre modo interessante, non solo per i suoi aspetti amministrativi ed (appunto) più strettamente gestionali, ma per alcuni profili che confermano indicazioni che sempre più chiaramente vengono offerte ai giuristi pratici ormai da diversi anni. Il riferimento è evidentemente al linguaggio giuridico, ed in specie a quello del processo. È quindi possibile formulare qualche breve osservazione per quanto concerne il processo civile, leggendo con attenzione la relazione del Primo Presidente Pietro Curzio. Parafrasando una celebre serie retorica riferita ad avvenimenti di tutt'altro genere e ben più tragici [1], e limitandoci soltanto agli ultimi mesi e settimane, potremmo iniziare dicendo... Vennero prima le linee programmatiche della ministra Cartabia; vennero poi il PRRN, ed insieme i lavori della commissione Luiso, infine venne l’ emendamento al disegno di legge Bonafede AS 1662, frutto delle scelte sui suggerimenti della Commissione [2]. Stavolta, però, è rimasto qualcuno a dire qualcosa, e cerco di dargli voce solo per uno specifico aspetto: quello dei riferimenti ad un linguaggio chiaro e conciso.
Per spiegare i concetti di chiarezza e concisione, e soprattutto per applicarli alle concrete scelte del giudice o dell'avvocato, si corre il rischio di violarli in radice, con illustrazioni fumose e prolisse; cerco allora di dare dei riferimenti che siano invece in linea con il tema.
In primo luogo, allora, mi piace far riferimento al processo culturale che ha portato a far sì che di tali concetti e più in generale del linguaggio giuridico dapprima si facesse uno studio, e poi un'applicazione normativa nel campo della formazione: questo risultato (che rivendico agli anni della Scuola Superiore dell'Avvocatura diretta da Alarico Mariani Marini [3]) è divenuto realtà già con la legge di riforma ordinamentale forense (L.247/2012, art.43,c.2 lett.b), e 46, c.6, lett.a), e quindi col D.M. 17/2018 sui corsi di formazione per l'accesso, che all’art.3, c.2 fa espresso riferimento alle “tecniche di redazione degli atti giudiziari in conformità al principio di sinteticità”, ed alla “teoria e pratica del linguaggio giuridico”. Quanto simili considerazioni si possano fare anche a proposito della formazione dei magistrati è reso evidente anche soltanto e da ultimo dalle indicazioni del D.L. 44/ 2021 sul concorso per magistrato ordinario, laddove si prescrive che la prova scritta (mantenuta, a differenza che per gli avvocati, dove è stata sostituita per l’emergenza pandemica con una specifica nuova prova orale) consista nello “svolgimento di sintetici elaborati teorici”, e dove si sottolinea che tra i criteri per la valutazione si dovrà tener conto della “capacità di sintesi nello svolgimento degli elaborati “.
Sono partito dalla formazione, ritenendola il campo che meriti il maggiore sforzo, dovendo contribuire anche il linguaggio e la scrittura alla tutela dei valori costituzionali portati dall'articolo 111; ma avrei invece potuto iniziare riferendomi a quelle che sono già realtà di diritto positivo. In particolare mi riferisco alle novelle del 2016 per l'art.3 del codice del processo amministrativo, con la (pur controversa) previsione del potere regolamentare del Presidente del Consiglio di Stato sui limiti dimensionali degli atti (art.13 ter disp.att.), oppure alla norma sul processo civile telematico (art.16 bis, c.9 octies, D.L. 179/2012) che sancisce la sinteticità come carattere principale degli atti di parte e del giudice.
Vi è quindi da tempo un movimento generale per l'affermazione dei due concetti con cui ho esordito, la cui origine non è misteriosa: sono gli stessi strumenti di lavoro concordati tra avvocatura e magistratura, tanto a livello nazionale (come il Protocollo tra S.C. e C.N.F. del 2015 sulla redazione dei ricorsi in Cassazione in materia civile e tributaria, o le Linee Guida del 2017 redatte dall’Assemblea Nazionale degli Osservatori sulla Giustizia Civile [4]), quanto a livello territoriale (dove in numerosi Fori si sono approvati Protocolli d’intesa) a dar conto dell'importanza dell'esperienza delle corti europee, che nella loro impostazione - di ispirazione anglosassone - hanno sempre tenuto in gran conto gli aspetti “pratici” del processo, spingendosi ad indicazioni sulla lunghezza degli atti, sulla loro struttura, sulla forma grafica, di cui anche da noi si è fatto tesoro. Senza peraltro dimenticare che tale esperienza era stata preceduta da quella statunitense: se mi è consentita una battuta, spesso in Italia arriviamo tardi, ma quando arriviamo talvolta superiamo i maestri; il trasparente riferimento è alle previsioni del processo amministrativo, dove la lunghezza degli atti è misurata in termini di caratteri, così oltrepassandosi non solo il richiamo al numero delle pagine, ma addirittura quello al numero delle parole, criterio tuttora seguito negli U.S.A., per esempio a proposito dei processi di fronte delle Corti d'appello federali (Rule 32, Federal Rules of appellate Procedure: 13.000 parole per i principal briefs).
Torniamo quindi alla sequenza ricordata.
Con le sue Linee Programmatiche la ministra Cartabia – premesso assai saggiamente che non era il caso di “coltivare illusorie ambizioni di riforme di sistema non praticabili nelle condizioni date” – a marzo preannunciava la valorizzazione di “alcuni aspetti” dei disegni di legge già presenti in Parlamento, “quali ad esempio il principio di sinteticità degli atti, mediante una sua chiara affermazione e l’introduzione di specifiche disposizioni volte a renderlo effettivo”. A metterci il carico da 11 provvedeva poi il Piano Nazionale di Resistenza e Resilienza – ed il Recovery Fund è sempre ben presente alla ministra – dove per gli interventi sul processo civile si legge che “Dal punto di vista generale si rendono effettivi il principio di sinteticità degli atti e il principio di leale collaborazione tra il giudice e le parti (e i loro difensori) mediante strumenti premiali e l’individuazione di apposite sanzioni per l’ipotesi di non osservanza”; carico da 11, dicevo, reso evidente dal riferimento a premi e sanzioni…
La Commissione ministeriale presieduta da Francesco P.Luiso, e che ha visto come Vicepresidente Filippo Danovi, vice capo dell’ufficio legislativo del ministero, ha fornito all’esecutivo una serie di soluzioni, tradotte poi (con scelte doverosamente politiche su alcune delle alternative proposte) nell’emendamento al d.d.l. AS 1662 di recentissima diffusione.
Sul punto le proposte della Commissione parlano scarnamente dell’ “introduzione nel codice di procedura civile e con portata generale del principio di chiarezza e sinteticità degli atti processuali di parte e dei provvedimenti giudiziali”.
Ebbene, è nella proposta governativa che appaiono - e per la prima volta nel codice di rito – riferimenti espressi a chiarezza e concisione, per tutte le parti del processo; dal 1940 fino a tempi più recenti le indicazioni erano sempre state date ai giudici, non anche alle parti private. La musica ora dovrebbe cambiare. Andando in ordine: a proposito degli atti introduttivi, si propone di sostituire all’art.3, c.1 del d.d.l. Bonafede le lett. b) e c) , in modo tale che i fatti e gli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, così come le difese del convenuto, siano esposti “in modo chiaro e specifico”[5]; analogamente, per il giudizio di appello (art.6) si indica che “le circostanze da cui deriva la violazione di legge e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata di cui all’articolo 342, comma primo, n.2), del codice di procedura civile siano esposte in modo chiaro e specifico”; ed in Cassazione (art.6 bis) che “il ricorso debba contenere la chiara ed essenziale esposizione dei fatti della causa e la chiara e sintetica esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione”[6]. Ancor più esplicitamente, all’art.12 si prevede che il criterio cardine sia il rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità. Una scelta importante è infine effettuata in merito alle conseguenze in termini di validità degli atti, della violazione delle “specifiche tecniche sulla forma, sui limiti e sullo schema informatico dell’atto, quando questo abbia comunque raggiunto lo scopo”: non potranno esserci sanzioni di invalidità o inammissibilità; ma, ove ad esser violate siano “le specifiche tecniche, o dei criteri e limiti redazionali” se ne potrà tener conto nella disciplina delle spese. Al riguardo osserverei soltanto, dal punto di vista testuale, che non mi è chiaro il perchè della diversa formulazione adottata (solo nel secondo riferimento si precisa che si tratta di limiti redazionali: il che esplicita la possibilità di seguire la strada del C.P.A. – magari ed auspicabilmente con indicazioni del legislatore e non di un organo amministrativo); per il contenuto, che si è scelta una via intermedia tra le indicazioni del Protocollo Cassazione/C.N.F. del 2015 (rilevanza delle violazioni ai – soli - fini delle spese [7]) e quelle di altra Commissione ministeriale più risalente (Mura: si trattava per la precisione del Gruppo di lavoro sulla sinteticità degli atti processuali, 2016/2017) secondo i cui lavori, facenti esplicito riferimento nel proposto nuovo art.140 disp att. c.p.c. ai Protocolli stipulati tra gli organi apicali di magistratura ed avvocatura, “Il solo mancato rispetto delle previsioni dei protocolli non è motivo di inammissibilità dell’atto o di altra conseguenza a carico delle parti” [8]. La Commissione Luiso da parte sua ricorda che “anche alla luce della giurisprudenza sovranazionale e costituzionale interna” è parso opportuno inserire nella legge delega la previsione secondo cui, per quanto riguarda gli atti di parte, la violazione di tali principi non potesse comportare sanzioni di invalidità o di inammissibilità dell’atto, bensì rilevare ai fini della liquidazione delle spese.
Il requisito del “raggiungimento dello scopo” di cui all’emendamento presentato pare allora l’elemento differenziale, col richiamo di un’espressione consolidata. A voler essere pessimisti, si potrebbe però anche ipotizzare che possibili equivoci interpretativi potranno nascere proprio sulla definizione di raggiungimento dello scopo… quando un richiamo secco a) a riferimenti determinati e univoci (per es.: “specifiche tecniche e limiti redazionali”) e b) a conseguenze obbligate (“rilievo ai fini della liquidazione delle spese”) li avrebbe eliminati alla radice. Quale sarebbe infatti l’atto che “ha raggiunto lo scopo” benchè non redatto secondo le indicazioni del caso ? quello che ha invertito per errore materiale/informatico il contenuto di campi predisposti nello schema ? l’atto troppo lungo ma alla fine comprensibile ? Avrei seguito piuttosto una regola aurea della Formula Uno di parecchi anni fa (quando contava la meccanica, e non l’elettronica): “quel che non c’è non si rompe”.
Fatto sta che chiarezza e concisione dovrebbero così entrare ufficialmente nel codice, incidendo in buona misura sulle abitudini di avvocati e giudici.
Se questo è il contesto, come si colloca allora il Programma di Gestione ?
Trovo che si possa constatare un notevole allineamento con il movimento culturale delineato.
Ci si può subito dichiarare d’accordo con la premessa della parte dedicata alla motivazione dei provvedimenti (§ 11.1) : “L’impegno di tutti i protagonisti della giurisdizione per realizzare i principi costituzionali in tema di giusto processo richiede, anche nel prossimo triennio, una rinnovata attenzione al tema della motivazione dei provvedimenti e del linguaggio”, e con l’immediato riferimento all’art.111 Cost.. Ma dove chi scrive sente una consonanza assoluta è quando legge (§ 11.2) che “Il giusto processo è, quindi, anche un giudizio ben comprensibile, posto che il controllo sull’esercizio della giurisdizione non si attua soltanto in via endo-processuale, attraverso i rimedi apprestati dai codici di rito civile e penale rispetto alle decisioni del giudice, ma si realizza anche attraverso la comprensione della giurisdizione da parte del cittadino, nel cui nome la giustizia viene amministrata.”
Qual è infatti lo scopo di chiarezza e concisione ? la comprensibilità. E si poteva già concludere che, per l’avvocato nel processo, la comprensibilità si declina in due modi: come strumento di persuasione, e come strumento di trasparenza; nella seconda accezione intendendosi come trasparenza anche l’obbligo deontologico di una corretta informazione dapprima verso il cliente, e poi verso il giudice, se è vero ciò che leggiamo nella legge 247/2012 e nel Codice deontologico. E cioè che uno degli scopi primari dell’ordinamento forense è la tutela dell’affidamento della collettività; ciò che anche meglio si apprezza nel riferimento della Carta dei principi fondamentali dell’avvocato europeo (e nel Codice degli avvocati europei, entrambi adottati dal C.C.B.E.) al “rispetto dello Stato di Diritto e contributo alla buona amministrazione della giustizia”. Che questa esigenza sia affermata a chiare lettere nell’invito del Primo Presidente ai giudici di Cassazione non può quindi che consolidare l’opinione che all’interno del sistema giustizia i valori essenziali siano condivisi, o debbano esserlo, da tutti gli operatori. Da notare che anche l’altro profilo (la persuasione) è ben presente nel documento, e forse ovviamente, quando richiama l’accresciuto valore del “precedente” nella logica nomofilattica della S.C.: il tema è chiaramente e sinteticamente (evviva!) così riassunto: “Nell’attuale assetto costituzionale, la certezza del diritto oggettivo e la parità di trattamento dei cittadini sono gli obiettivi assegnati alla Corte di cassazione le cui decisioni, mediante l’autorevolezza e la persuasività del discorso giustificativo, possono assicurare l’uniformità della giurisprudenza, valore fondamentale per l’ordinamento”. Direbbe il padre Dante: Parole non ci appulcro. L’esposizione del tema è svolta soprattutto a proposito della motivazione dei provvedimenti, come naturale, e si esprime con robuste conclusioni: “La chiarezza può e deve favorire la qualità della risposta giudiziaria, obiettivo cui il giusto processo deve tendere non meno di quanto miri alla celerità. La sintesi è il mezzo per assicurare la chiarezza… La corretta e sintetica struttura della motivazione aiuta la progressione logica del ragionamento, evita inutili ripetizioni, favorisce un confronto costruttivo tra le parti e tra queste e il giudice.
La redazione di atti e provvedimenti improntati a sinteticità e chiarezza e contenenti una solida argomentazione deve costituire il parametro per una nuova modalità di scrittura che contribuisca a dare attuazione ad alcuni principi costituzionali”.
Non solo ai colleghi giudici di legittimità si rivolge però il Primo Presidente: ricorda infatti anche agli avvocati che “la chiarezza e la sinteticità degli atti contribuiscono ad assicurare una più sollecita risposta da parte del giudice: è indubbio, infatti, che l’eccessiva lunghezza degli atti processuali danneggia, in primo luogo, proprio la parte che ha ragione e che, nel ritardo, vede leso il proprio diritto di difesa…”, e a chiusura del cerchio, con perfetta congruità con quanto sinora ho tentato di tratteggiare, sottolinea che quel vizio “Può danneggiare anche, indirettamente, la collettività, poiché la giurisdizione è una risorsa limitata della quale occorre razionalizzare l’impiego”. Verrebbe voglia di dire: Quod erat demonstrandum.
Può rimanere, in conclusione, solo una incertezza: parliamo tanto di chiarezza e concisione, ma le definizioni ? Se rimangono clausole generali, la loro efficacia precettiva ne risentirà alquanto. D’altro canto, ci vuole coraggio a tentare una definizione teorica (non fosse altro che per la mole di studi su tali argomenti e la necessità di una valutazione comparata con altri ordinamenti) mentre è più facile immaginare una serie di norme che – incidendo su struttura (ricordiamoci anche che nel P.C.T. la “forma” influenza direttamente il “contenuto”), limiti dimensionali, “leggibilità” grafica dell’atto – ne agevoli l’applicazione pratica. Per applicare un principio, un criterio, però, non si può fare del tutto a meno di un chiarimento in linea astratta. Quel coraggio, allora, l’hanno avuto gli Osservatori sulla Giustizia civile nel documento del 2017 ricordato, quando in esergo ai 12 Principi delle Linee Guida per la redazione di atti e provvedimenti in maniera chiara e sintetica hanno pur cercato di darle, quelle definizioni, che qui pertanto voglio ripetere anche per cercare di diminuire lo scetticismo di chi – giustamente – non crede più a parole vuote:
“CHIAREZZA
La chiarezza degli atti processuali, di parte e del giudice, attiene all’agevole comprensione del testo, che deve seguire un lineare ordine argomentativo, evitando ripetizioni, espressioni gergali, termini desueti, periodi e frasi lunghe, punteggiatura approssimativa, forme verbali passive.
E’ preferibile impiegare nessi di coordinazione, anziché di dipendenza, fra due o più proposizioni.
SINTETICITA’
La sinteticità degli atti, di parte e del giudice, è un concetto di relazione, che esprime una corretta proporzione tra la mole delle questioni da esaminare e la consistenza dell’atto chiamato ad esaminarle”.
Come si ricordava nelle Note esplicative alle Linee Guida, “La stringata definizione della CHIAREZZA è il portato delle ricerche linguistiche in ambito giuridico degli ultimi vent’anni, in ambito non solo italiano; mentre la definizione di SINTETICITÀ è tratta da C. Stato, sez. III, 12.6.2015, n. 2900, secondo la quale più precisamente “L’essenza della sinteticità, prescritta dal codice di rito [c.p.a.], non risiede nel numero delle pagine o delle righe in ogni pagina, ma nella proporzione tra la molteplicità e la complessità delle questioni dibattute e l’ampiezza dell’atto che le veicola”.
Alla fine, qualsiasi esito finale abbia il maxi emendamento (proprio Francesco Luiso ricordava di recente in un webinar come la regola aurea sarebbe quella di studiare le leggi solo dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale…) resto nella ferma convinzione che quello che ho definito come il movimento culturale verso chiarezza e concisione nella scrittura giuridica, in specie processuale, sia inarrestabile; ma dovrà esser governato – oltre che dalla Costituzione - dal buon senso, per non cadere in una tentazione a due facce: da quella dei giudici, di strumentalizzare novità normative come “trappole” formali, e, da quella degli avvocati, di gridare alla compressione del diritto di difesa, quando (riprendo ancora la relazione del Primo Presidente) “La richiesta di atti difensivi di lunghezza contenuta, quindi, non va a detrimento del diritto di difesa né preclude l’esposizione esauriente dei fatti e delle argomentazioni. Al contrario, è la trattazione prolissa a indebolire l’efficacia dell’atto: adottare una dimensione adeguata significa rendere effettivo il diritto di difesa, eliminando tutto ciò che è superfluo e, soprattutto, poco chiaro”. Buon senso e duro lavoro[9]: non ci sono scorciatoie, nel processo.
[1] Si tratta ovviamente di quanto scrisse Martin Niemöller sull’avvento del nazismo, spesso attribuite a Brecht.
[2] in questa Rivista un primo commento a cura di B.CAPPONI, Prime note sul maxi-emendamento al d.d.l. n.1662/S/XVIII, incidentalmente scettico sui temi qui in esame; seguito da quelli dello stesso B.CAPPONI e A.PANZAROLA, Questioni e dubbi sulle novità del giudizio di legittimità secondo gli emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S/XVIII, e di G.SCARSELLI, Osservazioni al maxi-emendamento 1662/s/XVIII di riforma del processo civile.
[3] Sia consentito il rinvio, ad es., a “Efficienza e comprensibilità come obiettivi deontologici nel linguaggio del civilista” di chi scrive, in “Lingua e diritto. Scritto e parlato nelle professioni legali” a cura di A. Mariani Marini e F. Bambi, Pisa University Press, 2013, 69 ss.
[4] Si leggono in https://www.questionegiustizia.it/doc/doc_4_atti_e_provvedimenti.pdf (consult.23.5.2021); v, il mio “Le Linee Guida 2017 degli Osservatori sulla Giustizia Civile sulla redazione degli atti in maniera chiara e sintetica”, in www.judicium.it.
[5] Sia consentito però notare che nel nuovo articolato proposto, nell’art.163 c.p.c. l’indicazione non è riportata, a differenza che nell’art.167, dove lo è, ma chiaramente ai fini del principio di non contestazione. In compenso (…) l’attore deve indicare specificamente mezzi di prova e documenti, mentre al convenuto simile ingiunzione non è rivolta. Come diceva Totò, peraltro, queste son quisquilie, bazzecole, pinzillacchere, sciocchezzuole.
[6] Al riguardo le sfiduciate note di B.CAPPONI e A.PANZAROLA, Questioni e dubbi cit., a mio parere eccessivamente negativi sull’esperienza dei Protocolli.
[7] Nuova licenza richiesta per il rinvio del lettore a “La scrittura degli atti processuali ed il Protocollo d’intesa C.N.F. / Cassazione sulla redazione dei ricorsi”, in www.judicium.it.
[8] Si leggono tra l’altro in https://www.lanuovaproceduracivile.com/wp-content/uploads/2017/01/decretosinteticitaATTIprocessuali.pdf (consult.23.5.2021); ma quegli stessi lavori della Comm.Mura prevedevano poi per il giudizio di Cassazione l’introduzione di un ultimo comma all’art.385 c.p.c., secondo il quale “la corte può ridurne o aumentarne l’importo fino ad massimo del 20% se le parti non si sono attenute, nella redazione degli atti difensivi, a criteri di chiarezza e sinteticità”. Del resto, non contiene l’art.4 del D.M. 55/2014, tra i vari criteri per la liquidazione delle spese, quello del “pregio difensivo” ? e non si è data un’indicazione in tal senso con la modifica dello stesso articolo (D.M. N.37/2018) con l’aumento premiale per gli atti telematici “navigabili” ?
[9] Tutti conoscono, tanto che ho ritrosia a rinnovare la citazione, quanto scriveva Pascal nella 16a delle Lettere provinciali: "Mi scuso per la lunghezza della mia lettera, ma non ho avuto il tempo di scriverne una più breve".
Scrivere meno e meglio, cioè in modo chiaro e conciso, richiede più tempo e fatica: non il contrario.