ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La Corte edu interviene sul diritto della persona offesa a un equo processo nelle ipotesi di irragionevole durata delle indagini preliminari (Corte edu, Petrella c. Italia)
di Alessandro Centonze
Sommario: 1. Premessa: la tutela dei diritti della persona offesa e la ragionevole durata del processo penale – 2. Il contesto sistematico nel quale si inserisce l’affaire “Petrella contro Italia” – 3. La vicenda giurisdizionale da cui trae origine la pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo – 4. Le decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sull’affaire “Petrella contro Italia” – 4.1. Le statuizioni relative alla violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU – 4.1.2. La violazione dell’art. 6 CEDU, l’imputabilità dell’inerzia processuale all’autorità giudiziaria procedente e l’omessa tutela della persona offesa – 5. L’art. 13 CEDU e l’inapplicabilità dei rimedi giurisdizionali previsti dalla legge 24 marzo 2011, n. 89 – 6. Le opinioni parzialmente dissenzienti dei giudici Raffaele Sabato e Krzysztof Wojtyczek – 7. La decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nell’affaire “Petrella contro Italia” e la sentenza della Corte costituzionale 29 gennaio 2016, n. 12.
1. Premessa: la tutela dei diritti della persona offesa e la ragionevole durata del processo penale
Il tema di cui mi occuperò in questo intervento riguarda la decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso “Petrella contro Italia”[1], con cui sono stati precisati i contorni del diritto della persona offesa a un equo processo “entro un termine ragionevole”[2], così come prefigurato dall’art. 6, par. 1, CEDU, nelle ipotesi in cui le sue pretese risarcitorie vengono frustrate dall’eccessiva durata delle indagini preliminari.
In conseguenza di tale pronuncia e della rivisitazione del diritto a un processo equo della persona offesa dal reato che ne conseguiva – che traeva origine dal ricorso proposto davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo da Vincenzo Petrella –, lo Stato italiano, con una decisione emessa all’unanimità dei componenti del collegio, veniva condannato per la violazione degli artt. 6 e 13 CEDU. Tale violazione derivava dall’eccessiva durata del procedimento penale instaurato dal ricorrente quale persona offesa del reato di diffamazione, che si concludeva con la declaratoria di prescrizione pronunciata dal giudice per le indagini preliminari il 17 gennaio 2007.
Lo Stato italiano, inoltre, veniva condannato, con il dissenso di due dei componenti del collegio giudicante, per l’ulteriore violazione dell’art. 6 CEDU, relativa al pregiudizio subito dal ricorrente per il mancato accesso a un’autorità giudiziaria, collegato all’esito del procedimento penale che lo riguardava.
Si tratta, come si dirà, di una pronuncia le cui conseguenze sistematiche non sono facilmente preventivabili, pur collocandosi tale decisione in un contesto interpretativo consolidato, atteso che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo è costante nell’affermare che il riconoscimento delle pretese risarcitorie della vittima del reato deriva dalla previsione dell’art. 6, par. 1, CEDU; riconoscimento da cui discendono le garanzie a un processo equo, rispetto alle quali, come affermato dalla stessa Corte[3], la persona offesa del reato deve ritenersi una parte processuale a tutti gli effetti, godendo del diritto a un processo che sia celebrato “entro termine ragionevole”.
2. Il contesto sistematico nel quale si inserisce l’affaire “Petrella contro Italia”
Come si è detto, la decisione del caso “Petrella contro Italia” affronta il tema della ragionevole durata delle indagini preliminari svolte nell’ambito di un procedimento penale instaurato da una, presunta, vittima del reato di diffamazione. Questo tema viene esaminato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in correlazione alla questione dei rimedi riconosciuti nel nostro ordinamento alla persona offesa per tutelare le sue pretese risarcitorie nelle ipotesi di decorso dei termini prescrizionali.
In questa cornice, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo muoveva da un dato cronologico, osservando che le indagini preliminari conseguenti alla querela presentata dalla persona offesa erano durate cinque anni e sei mesi e che, in conseguenza di tale decorso, erano spirati i termini di prescrizione del reato di diffamazione denunciato dalla vittima, Vincenzo Petrella.
Ne era derivata la mancata soddisfazione delle pretese risarcitorie della persona offesa, esclusivamente dovuta all’eccessiva durata dei tempi del procedimento penale, che risultavano incongrui rispetto ai parametri di ragionevolezza prescritti dall’art. 6, par. 1, CEDU[4]. Tale irragionevole durata delle indagini preliminari, dunque, aveva determinato la violazione delle garanzie di equità processuale collegate alla celebrazione del procedimento penale, recepite nel nostro ordinamento dalla previsione dell’art. 111, comma secondo, Cost., assicurate tanto al soggetto attivo quanto al soggetto passivo del reato.
La Corte di Strasburgo, al contempo, evidenziava che il pregiudizio subito dal ricorrente era dovuto al ritardo ingiustificato dell’autorità giudiziaria nazionale presso la quale era transitata la querela presentata dal ricorrente nei confronti dei soggetti che lo avevano diffamato su un quotidiano. Era, infatti, incontroverso che il decorso di cinque anni e sei mesi dalla presentazione della querela di Petrella, senza il compimento di atti d’indagine, aveva determinato lo spirare dei termini di prescrizione del reato, asseritamente, commesso nei suoi confronti, impedendogli di tutelare le sue prerogative risarcitorie[5].
Ne discendeva che il comportamento inerte dell’autorità giudiziaria aveva privato il ricorrente della possibilità di tutelare le sue pretese risarcitorie, che non potevano essere altrimenti garantite, nell’ambito della giurisdizione penale, sulla base delle regole vigenti. Né assumeva alcun rilievo giustificativo del comportamento inerte dell’autorità giudiziaria nazionale la circostanza che la persona offesa avrebbe potuto tutelare la sua posizione davanti al giudice civile, atteso che tale opzione – a prescindere dalla sua astratta praticabilità – non poteva incidere negativamente sulle prerogative di cui la, presunta, vittima disponeva nel processo penale, alle quali doveva essere riconosciuta una tutela autonoma rispetto ai rimedi processuali extra-penali[6].
A tali considerazioni, occorreva aggiungere che il ricorrente non poteva nemmeno avvantaggiarsi dei benefici previsti dalla legge 24 marzo 2001, n. 89, convenzionalmente nota come “legge Pinto”, la cui applicazione postulava che il danneggiato si fosse costituito parte civile nel processo penale. Tutto questo rendeva ulteriormente evidente la carenza di adeguati strumenti di tutela della persona offesa, alla quale, nell’ordinamento italiano, non erano riconosciuti idonei poteri di sollecitazione della trattazione della sua vicenda giurisdizionale entro un “tempo ragionevole”[7].
3. La vicenda giurisdizionale da cui trae origine la pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo
Occorre, a questo punto, occuparsi della vicenda giurisdizionale da cui traeva origine la decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, evidenziando che il ricorrente, Vicenzo Petrella, è un professionista italiano residente a Caserta, che, all’epoca dei fatti di cui si discute, presiedeva la squadra di calcio cittadina, denominata “Casertana”.
Tra il 22 e il 25 luglio 2001, un quotidiano locale, il “Corriere di Caserta”, pubblicava alcuni articoli corredati da riproduzioni fotografiche di Vincenzo Petrella, accusandolo di frode e corruzione finanziaria.
Il ricorrente, pertanto, il 28 luglio 2011, ritenendo che gli articoli pubblicati sul “Corriere di Caserta” costituivano un’offesa per il suo onore e per la sua reputazione, presentava una denuncia all’autorità giudiziaria per diffamazione aggravata, effettuata mediante comunicazioni sulla stampa periodica. Nella sua denuncia, la persona offesa precisava che, nell’eventuale procedimento penale instaurato a seguito della sua querela, intendeva costituirsi parte civile, richiedendo la condanna dei soggetti denunciati al risarcimento dei danni che le erano stati provocati, quantificati in dieci miliardi di lire dell’epoca.
A seguito della querela presentata da Vincenzo Petrella, il 10 settembre 2001, il procedimento veniva incardinato davanti all’ufficio requirente competente, dove rimaneva pendente nella fase delle indagini preliminari fino alla data del 9 novembre 2006, quando il pubblico ministero assegnatario del fascicolo processuale ne chiedeva l’archiviazione per l’intervenuta prescrizione del reato. In conformità della richiesta presentata, il 17 gennaio 2007, il giudice delle indagini preliminari disponeva l’archiviazione del procedimento incardinato da Petrella.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, infine, evidenziava che l’archiviazione del procedimento lasciava il denunciante sprovvisto di tutela, atteso il disposto dell’art. 79 cod. proc. pen., a tenore del quale la costituzione di parte civile può avvenire fino all’udienza preliminare e, dopo la sua celebrazione, fino al compimento degli adempimenti previsti dall’art. 484 cod. proc. pen.[8]
4. Le decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sull’affaire “Petrella contro Italia”
Nella cornice descritta nei paragrafi precedenti, allo scopo di inquadrare le linee ermeneutiche del percorso argomentativo seguito dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, si ritiene indispensabile distinguere i vari segmenti della decisione oggetto di vaglio, che riguardano le previsioni degli artt. 6, par. 1, e 13 CEDU.
4.1. Le statuizioni relative alla violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU
Cominciamo, allora, con l’osservare che la valutazione delle censure difensive postulava l’individuazione della data da cui fare decorrere il termine per verificare l’eventuale inerzia dell’autorità giudiziaria italiana, che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo individuava in quella del 28 luglio 2001.
Questo termine, a sua volta, doveva essere correlato alla data di emissione del decreto di archiviazione, pronunciato dal Giudice per le indagini preliminari il 17 gennaio 2007, in conseguenza del quale si ritenevano irrimediabilmente pregiudicate le prerogative processuali di Vincenzo Petrella[9].
L’arco temporale al quale occorreva fare riferimento per valutare le pretese di Petrella, dunque, riguardava una frazione cronologica di cinque anni e sei mesi, durante i quali il procedimento instaurato a seguito della denuncia della persona offesa era rimasto fermo nella fase delle indagini preliminari, senza il compimento di atti d’indagine, fino a quando non era intervenuto il decreto di archiviazione che concludeva la vicenda processuale, pronunciato, come detto, il 17 gennaio 2007.
Si consideri, ulteriormente, che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo non si limitava a valutare acriticamente i dati cronologici richiamati, atteso che effettuava un esame del merito della vicenda giurisdizionale, evidenziando che il caso sottoposto all’attenzione dell’autorità requirente non era “particolarmente complesso”[10] e, tuttavia, nonostante l’assenza di connotazioni di complessità, non era stata compiuta alcuna attività processuale nel corso delle indagini preliminari.
Né tantomeno il Governo italiano, nel giudizio celebrato davanti alla Corte di Strasburgo, aveva fornito indicazioni utili a giustificare la notevole durata delle indagini preliminari e il mancato compimento di atti processuali dell’ufficio requirente durante tale frazione temporale pluriennale[11].
Sulla scorta di tale ricostruzione della vicenda processuale, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo affermava che, nel caso di specie, si era concretizzata una violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU, ritenendo pacifico che l’eccessiva durata delle indagini preliminari aveva determinato l’elusione dei parametri di ragionevolezza prescritti da tale disposizione, che impone la celebrazione di un processo “entro un termine ragionevole”[12].
4.1.2. La violazione dell’art. 6 CEDU, l’imputabilità dell’inerzia processuale all’autorità giudiziaria procedente e l’omessa tutela della persona offesa
Deve, al contempo, rilevarsi che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo inseriva le sue statuizioni sulla violazione dell’art. 6 CEDU in un più ampio contesto ermeneutico, relativo alla ricorrenza di condizioni che imponevano di ritenere imputabile all’autorità giudiziaria italiana l’inerzia che aveva determinato la lesione delle prerogative processuali di Vincenzo Petrella, quale persona offesa dal reato[13].
Si evidenziava, in proposito, che era incontroverso che il pregiudizio patito dal ricorrente conseguiva al decorso dei termini di prescrizione del reato di diffamazione denunciato dalla persona offesa; ed era parimenti incontroverso che allo spirare dei termini prescrizionali non si era accompagnata alcuna attività d’indagine che consentisse di ritenere giustificato l’atteggiamento di inerzia assunto dall’ufficio requirente procedente.
Da tali dati, come detto, incontroversi, doveva farsi discendere l’ulteriore conseguenza dell’imputabilità dell’inerzia giurisdizionale all’autorità giudiziaria italiana, che aveva vanificato la denuncia presentata da Vincenzo Petrella. Infatti, in conseguenza dell’atteggiamento inerte dell’ufficio requirente correttamente attivato, al ricorrente era stata preclusa la possibilità di richiedere al giudice penale il risarcimento dei danni civili patiti per effetto delle, presunte, condotte diffamatorie di cui si doleva.
Si ribadiva, pertanto, che il comportamento illegittimo da parte dell’autorità giudiziaria italiana aveva concretizzato una violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU, producendo l’effetto di privare la persona offesa del diritto di soddisfare le sue pretese risarcitorie, a garanzia delle quali aveva attivato rimedi processuali legittimamente previsti dall’ordinamento interno.
Né si riteneva possibile giustificare l’inerzia dell’autorità giudiziaria nazionale richiamando la possibilità di attivare un percorso parallelo di tutela davanti al giudice civile dopo la declaratoria di prescrizione. Infatti, l’instaurazione del procedimento civile, inevitabilmente, implicava la necessità di acquisire nuove prove, della cui produzione era onerato il ricorrente, comportando l’aggravamento delle condizioni di tutela della sua posizione, rese ulteriormente problematiche dal lasso di tempo trascorso dalla verificazione degli accadimenti.
Veniva, in questo modo, definitivamente ribadita la giurisprudenza sovranazionale consolidata in tema di tutela delle pretese risarcitorie della persona offesa nel processo penale, come conseguenza diretta del riconoscimento a tale soggetto dei diritti riconosciuti alle parti processuali dall’art. 6, par. 1, CEDU[14].
5. L’art. 13 CEDU e l’inapplicabilità dei rimedi giurisdizionali previsti dalla legge 24 marzo 2011, n. 89
Occorre, infine, evidenziare che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo rilevava che i pregiudizi subiti da Vincenzo Petrella, in conseguenza dell’inerzia dell’autorità giudiziaria italiana, erano aggravati dall’inapplicabilità dei parametri normativi della legge 24 marzo 2001, n. 89, recante «Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile», ritenuti inutilizzabili nei confronti della persona offesa che non ha assunto la qualità di parte civile in un procedimento penale.
Secondo la Corte di Strasburgo, l’inapplicabilità delle previsioni della legge 24 marzo 2001, n. 89 – definita «loi Pinto» – finiva per determinare l’esistenza di un vuoto di tutela normativa della persona offesa, censurata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ex art. 13 CEDU, non sussistendo nell’ordinamento giuridico italiano – nelle ipotesi di procedimenti penali instaurati da un soggetto passivo del reato – uno strumento idoneo a sollecitare l’intervento del giudice italiano “entro un termine ragionevole”, compatibile con la previsione dell’art. 6, par. 1, CEDU.
6. Le opinioni parzialmente dissenzienti dei giudici Raffaele Sabato e Krzysztof Wojtyczek
Restano da considerare, per una completa disamina della sentenza relativa all’affaire “Petrella contro Italia”, le ragioni che inducevano i giudici Krzysztof Wojtyczek e Raffaele Sabato a esprimere opinioni parzialmente dissenzienti rispetto alla maggioranza dei componenti del collegio.
Di queste opinioni parzialmente dissenzienti occorre occuparsi separatamente.
Quanto, in particolare, all’opinione parzialmente dissenziente del giudice Krzysztof Wojtyczek, le ragioni del suo dissenso si fondavano su due ordini di argomenti, che venivano esposti con esemplare chiarezza.
Si evidenziava, innanzitutto, che non era condivisibile l’assunto ermeneutico della decisione in esame secondo cui costituiva una limitazione alle prerogative processuali della persona offesa, rilevante ex art. 6, par. 1, CEDU, la possibilità di ricorrere al solo giudice civile nelle ipotesi in cui il procedimento attivato dalla vittima si concludeva per l’intervenuta prescrizione del reato.
Si evidenziava, al contempo, che la decisione adottata, coinvolgendo contestualmente le esigenze di tutela della reputazione del soggetto passivo del reato e la libertà di espressione dei giornalisti, finiva per incentivare, quantomeno implicitamente, l’accesso alla giurisdizione penale per tutelare le vittime di condotte diffamatorie, esprimendo un approccio ermeneutico problematico, sotto il profilo delle conseguenze ipertrofiche che ne potevano derivare.
Quanto, invece, all’opinione parzialmente dissenziente del giudice Raffaele Sabato, il suo dissenso si fondava sulla ritenuta sovrapposizione dei due piani valutativi esaminati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, tra loro, non del tutto armonici: il primo era quello della violazione del diritto di accesso all’autorità giudiziaria, rilevante ex art. 13 CEDU, che postulava una questione di esistenza della giurisdizione, alla quale la vittima poteva ricorrere; il secondo era quello del diritto a una durata ragionevole del procedimento penale, rilevante ex art. 6, par. 1, CEDU, che postulava una questione, differente, di efficienza della giurisdizione.
Secondo il giudice dissenziente, questa sovrapposizione dei piani valutativi, relativi all’esistenza e all’efficienza della giurisdizione penale, nelle ipotesi in cui il procedimento attivato dalla vittima si concludeva per l’intervenuta prescrizione del reato, se consentiva di assicurare alla vittima una protezione dei diritti umani più ampia ed efficace di quella attuale, non soddisfaceva le esigenze di chiarificazione ermeneutica proprie della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, determinando un problematico overruling giurisprudenziale.
Tale eterogeneità, al contempo, finiva per attenuare l’efficienza complessiva dei sistemi di compensazione nazionale relativi alla durata eccessiva dei procedimenti penali, atteso che richiedeva ai ricorrenti verifiche particolarmente complesse – afferenti ai due piani valutativi sopra richiamati – prima di attivare gli strumenti di tutela giurisdizionale riconosciuti dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
7. La decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nell’affaire “Petrella contro Italia” e la sentenza della Corte costituzionale 29 gennaio 2016, n. 12
Nell’avviarci a concludere queste brevi riflessioni sulla decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nell’affaire “Petrella contro Italia”, non ci si può esimere dal rilevare come tale pronuncia comporti la necessità di rielaborare la linea ermeneutica prefigurata in tema di tutela della persona offesa dalla giurisprudenza costituzionale nostrana, soprattutto rappresentata dalla sentenza della Corte costituzionale 12 gennaio 2016, n. 12.
Com’è noto, con tale sentenza veniva dichiarata infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 538 cod. proc. pen., sollevata in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost.
Con questa pronunzia costituzionale, in particolare, si ribadiva che la violazione del principio di ragionevole durata del processo consacrato nell’art. 111, comma secondo, Cost., si concretizzava in quelle sole ipotesi in cui si determinava un pregiudizio nei confronti delle parti processuali per effetto di «una dilatazione dei tempi del processo non sorretta da alcuna logica esigenza»[15].
La Corte costituzionale, dunque, si occupava della tutela della persona offesa nelle ipotesi di durata del processo penale incompatibile con i tempi ragionevoli prefigurati dall’art. 6, par. 1, CEDU e dell’art. 111, comma secondo, Cost., evidenziando che non poteva ipotizzarsi un pregiudizio nei suoi confronti quando la tutela degli interessi civili veniva procrastinata per l’introduzione di legittime varianti procedimentali. Secondo il Giudice delle leggi, infatti, la «preclusione della decisione sulle questioni civili, nel caso di proscioglimento dell’imputato per qualsiasi causa […] se pure procrastina la pronuncia definitiva sulla domanda risarcitoria del danneggiato, costringendolo ad instaurare un autonomo giudizio civile, trova però giustificazione, come già rimarcato, nel carattere accessorio e subordinato dell’azione civile proposta nell’ambito del processo penale rispetto alle finalità di quest’ultimo, e segnatamente nel preminente interesse pubblico […] alla sollecita definizione del processo penale che non si concluda con un accertamento di responsabilità, riportando nella sede naturale le istanze di natura civile fatte valere nei suoi confronti […]»[16].
Né potrebbe essere diversamente, costituendo espressione di un orientamento ermeneutico consolidato il principio secondo cui non assume rilievo, in quanto tale, l’omesso vaglio delle pretese risarcitorie della parte civile, laddove il procedimento penale si chiude con un provvedimento diverso dalla condanna dell’imputato, quanto, piuttosto, il mancato soddisfacimento di tali istanze, dovuto all’inerzia dell’autorità giudiziaria. La mancata soddisfazione delle pretese della persona offesa, quindi, di per sé stessa, non è contrastante con le garanzie convenzionali, assumendo rilievo solo quando la vittima del reato non fruisca di altri rimedi, accessibili ed efficaci, per fare valere le sue pretese e quando – analogamente a quanto riscontrabile per la posizione di Vincenzo Petrella – il concreto «funzionamento del meccanismo frustri indebitamente le legittime aspettative del danneggiato, come nel caso in cui la prescrizione della responsabilità penale dell’autore del reato, impeditiva dell’esame della domanda civile, sia imputabile a ingiustificati ritardi delle autorità giudiziarie nella conduzione del procedimento penale»[17].
Tale approdo ermeneutico, del resto, appare confermato dalla successiva sentenza della Corte costituzionale 4 novembre 2020, n. 249[18], in cui si evidenziava che il sistema processuale, nelle ipotesi in cui il procedimento penale segua un percorso fisiologico, prevede che le prerogative della persona offesa vengano garantite da una pluralità di strumenti processuali, tra cui la facoltà di proporre querela; la possibilità di indicare elementi di prova a sostegno delle sue accuse; il potere di interloquire sulla proroga delle indagini o sulla richiesta di archiviazione[19].
A differenti conclusioni, invece, deve giungersi nelle ipotesi in cui la frustrazione delle pretese risarcitorie della persona offesa discenda dall’inerzia dell’autorità giudiziaria, che costituisce un’anomalia del processo penale – ancorché riferita dalla Corte costituzionale a un’area estranea all’alveo applicativo dell’art. 6, par. 1, CEDU, a differenza di quanto affermato nella decisione nel caso “Petrella contro Italia” –, che trova «appropriata ed effettiva risposta mediante ricorso ad altre azioni e in altre sedi, i profili attinenti all’accertamento di una qualche responsabilità correlata ai ritardi o alle inerzie nell’adozione o nella richiesta dei provvedimenti necessari a prevenire o reprimere comportamenti penalmente rilevanti»[20].
In questa cornice, resta aperta la questione della violazione dell’art. 13 CEDU, relativamente alla preclusione applicativa prefigurata dalla legge 24 marzo 2001, n. 89, su cui non sono possibili previsioni ragionevoli sugli sviluppi ermeneutici imposti dalla decisione della Corte di Strasburgo, che sancisce l’esistenza di un vuoto normativo, che sembra colmabile solo con un intervento legislativo, peraltro di non facile realizzazione.
Né è agevole esprimersi sulle possibili soluzioni ermeneutiche di tale questione, attese il non del tutto esaustivo passaggio dedicato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo al tema dell’applicazione dell’art. 13 CEDU alla legge 24 marzo 2001, n. 89, nonostante la notevole rilevanza di tale passaggio della decisione per il nostro ordinamento giuridico.
[1] Si veda Corte EDU, 18 marzo 2021, Petrella contro Italia.
[2] Il riferimento all’espressione “entro un termine ragionevole, utilizzata nel testo e in alcune parti di questo intervento, è espressamente prevista dall’art. 6, par. 1, CEDU, che stabilisce: «Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti. La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l’accesso alla sala d’udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o, nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità possa portare pregiudizio agli interessi della giustizia».
[3] Si veda Corte EDU, Grande Camera, 12 febbraio 2004, Perez contro Francia.
[4] Vedi supra, nota 2.
[5] Si veda Corte EDU, 18 marzo 2021, Petrella contro Italia, cit., che non lascia spazio per dubitare della responsabilità dell’autorità giudiziaria italiana, tra l’altro, affermata nel passaggio decisionale in cui si afferma «c’est exclusivement en raison du retard des autorités de poursuite […]».
[6] Su questo punto, si veda anche, infra, il paragrafo 6.
[7] L’uso delle virgolette impiegato nel testo, a mio parere, dà fedelmente conto della volontà decisoria della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che, utilizza l’espressione “délai raisonnable”.
[8] Si veda Corte EDU, 18 marzo 2021, Petrella contro Italia, cit.
[9] Si veda Corte EDU, 18 marzo 2021, Petrella contro Italia, cit.
[10] L’uso delle virgolette impiegato nel testo, a mio parere, dà fedelmente conto della volontà decisoria della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che, utilizza l’espressione “spécialement complexe”.
[11] Occorre precisare che il riferimento all’inerzia del Governo italiano viene espressamente menzionato nella pronuncia in esame, che così riporta l’atteggiamento dei rappresentanti istituzionali del nostro Paese: «Le Gouvernement n’a pas fourni d’arguments pour justifier la nécessité d’une telle durée pour des investigations préliminaires».
[12] Si veda Corte EDU, Grande Camera, sentenza 12 febbraio 2004, Perez contro Francia, cit.
[13] Si veda Corte EDU, 18 marzo 2021, Petrella contro Italia, cit.
[14] Si muovono in questa direzione, tra le altre, le pronunzie Corte EDU, 25 giugno 2013, Associazione delle persone vittime del sistema e altri contro Romania; Corte EDU, Grande Camera, 20 marzo 2009, Gorou contro Grecia.
[15] Si veda C. cost., 29 gennaio 2016, n. 12.
[16] Si veda C. cost., 29 gennaio 2016, n. 12, cit., dove, in linea con quanto affermato nel testo, si affermava ulteriormente che «l’eventuale impossibilità, per il danneggiato, di partecipare al processo penale non incide in modo apprezzabile sul suo diritto di difesa e, prima ancora, sul suo diritto di agire in giudizio, poiché resta intatta la possibilità di esercitare l’azione di risarcimento del danno nella sede civile […]».
[17] Si veda C. cost., 29 gennaio 2016, n. 12, cit.
[18] Si veda C. cost., 4 novembre 2020, n. 249.
[19]Si veda Grande Camera, 2 ottobre 2008, Atanasova contro Bulgaria.
[20] Si veda C. cost., 4 novembre 2020, n. 249, cit.
La proposta di Direttiva COM(2020) 314: i nuovi obblighi di comunicazione in capo ai gestori delle piattaforme digitali
di Valentina Di Marcantonio
Sommario: 1. Introduzione: le questioni fiscali connesse alla digital economy - 2. La cooperazione amministrativa nel settore fiscale: la Direttiva 2011/16/UE - 3. La proposta di Direttiva COM(2020) 314 final della Commissione europea - 4. Conclusioni.
1. Introduzione: le questioni fiscali connesse della digital economy
L’avvento della c.d. digital economy ha comportato una serie di problematiche di carattere fiscale dovute alla difficoltà di applicare regole e criteri impositivi elaborati in un contesto di c.d. old economy e, pertanto, plasmati su una concezione dell’attività di impresa che ne postula indefettibilmente lo svolgimento mediante una presenza “fisica” nel territorio dello Stato[1].
Invero, le principali caratteristiche dell’economia digitale - quali l’utilizzo di intangibles, l’uso massiccio di dati e l’adozione di modelli di business c.d. multilaterali - consentono alle imprese che operano nel settore del digitale di smaterializzare la propria attività e di destrutturare le proprie funzioni, che un tempo venivano considerate principali, in attività meramente ausiliarie e, pertanto, inidonee a configurare una presenza fiscalmente rilevante sub specie di “stabile organizzazione”.
Secondo le regole “tradizionali”, uno Stato è legittimato ad esercitare la propria potestà impositiva nei confronti dei contribuenti che presentino un collegamento con il territorio dello Stato di tipo “personale” o di tipo “reale” se si tratta di soggetti non residenti nel territorio dello Stato; ove si tratti di imprese non residenti, il criterio di collegamento reale è rappresentato dall’esistenza di una di presenza nel territorio tale da configurare una stabile organizzazione materiale o personale.
La capacità delle imprese del digitale di operare a distanza senza disporre di una presenza fisica nel c.d. market jurisdiction determina, spesso, una divergenza tra lo Stato in cui è sostanzialmente localizzato il business dell’impresa ed il luogo in cui il reddito generato da tale business viene formalmente conseguito ed assoggettato ad imposizione, stante l’inoperatività tanto del criterio di connessione personale, non essendo i soggetti fiscalmente residenti nello Stato, quanto di quello reale, non disponendo l’impresa di una soglia di presenza tale da integrare una stabile organizzazione.
Tale circostanza ha reso necessario l’intervento sia delle Istituzioni sovranazionali - tra le quali, ma non solo[2], l’OCSE[3] e l’Unione Europea - sia dei singoli Stati, volto a realizzare un’imposizione più equa attraverso tanto un ripensamento dei criteri di collegamento con il territorio del c.d. Stato della fonte, quanto il rafforzamento dei meccanismi di cooperazione e assistenza tra gli Stati.
Sotto il primo profilo, le soluzioni finora prospettate si muovono lungo due grandi linee direttrici: la creazione di nuovi criteri volti ad istituire un nexus con lo Stato nel quale l’impresa opera e produce reddito[4] e la revisione dell’attuale criterio della stabile organizzazione con l’introduzione di concetti come quelli di “presenza digitale significativa” o di “presenza economica significativa”.
Peraltro, stante la difficoltà di raggiungere una soluzione condivisa a livello internazionale in ordine alle soluzioni appena prospettate, numerosi Stati hanno provveduto ad “autotutelare” la base imponibile di propria spettanza attraverso l’introduzione in via unilaterale di fattispecie impositive o antielusive destinate ad operare finché non intervenga un accordo a livello sovranazionale. Alcune di queste fattispecie riguardano specificamente le imprese che operano nel settore del digitale (si pensi alla c.d. digital service tax o alla c.d. equalisation levy), mentre altre hanno un ambito applicativo più esteso, tale da ricomprendere le multinazionali in generale (si pensi alla c.d. diverted profits tax).
Anche l’Unione Europea, prendendo atto della difficoltà di raggiungere una soluzione condivisa in ambito OCSE, ha avvertito l’esigenza di intervenire per scongiurare le ripercussioni negative che l’assunzione di iniziative unilaterali da parte degli Stati membri ha sul mercato unico.
In particolare, le proposte elaborate finora dall’Unione Europea sono destinate ad operare tanto sul piano del diritto sostanziale, mediante l’introduzione di una digital service tax comune agli Stati Membri[5] e della nozione di “presenza digitale significativa” quale ulteriore ipotesi di stabile organizzazione[6], quanto sul piano procedimentale, mediante il rafforzamento dei meccanismi di cooperazione tra gli Stati membri e l’imposizione di obblighi di trasparenza in capo agli operatori.
2. La cooperazione amministrativa nel settore fiscale: la Direttiva 2011/16/UE
Prima di esaminare la proposta di Direttiva sulla trasparenza per le piattaforme digitali, giova soffermarsi brevemente sul contesto nel quale essa è destinata ad inserirsi in caso di approvazione.
La globalizzazione dell’economia, con il conseguente avvento di contribuenti multinazionali ed il proliferare di operazioni transfrontaliere, ha reso sempre più necessari gli interventi che già da diversi decenni le Istituzioni sovranazionali hanno cominciato ad attuare per rafforzare la cooperazione tra le amministrazioni degli Stati, stante la difficoltà che le autorità fiscali nazionali incontrano nell’accertare l’ammontare delle imposte dovute senza disporre di adeguate informazioni.
Nel corso del tempo, la suddetta esigenza di assicurare efficaci meccanismi di collaborazione e di assistenza è stata avvertita sia in ambito OCSE sia a livello convenzionale sia a livello europeo[7].
Per quanto concerne in particolare l’Unione Europea, il quadro normativo di riferimento è rappresentato da una serie di atti normativi che disciplinano lo scambio di informazioni tra le amministrazioni finanziarie degli Stati membri e l’attività di assistenza che ciascuno Stato Membro è tenuto a prestare al fine di agevolare il recupero dei crediti tributari vantati da altro Stato Membro.
Per quanto riguarda l’IVA, le dogane e le accise (ossia i tributi c.d. armonizzati), gli atti normativi di riferimento sono rappresentati, rispettivamente, dal Regolamento (UE) 7 ottobre 2010 n. 904 del Consiglio in materia di cooperazione amministrativa e lotta contro la frode IVA, dal Regolamento 515/1997/CE e dal Regolamento (UE) n. 389 del 2 maggio 2012.
Al di fuori delle suddette fattispecie impositive, la materia della cooperazione tra gli Stati Membri è disciplinata dalla Direttiva 2011/16/UE, relativa alla cooperazione amministrativa nel settore fiscale, che abroga la precedente Direttiva 77/799/CE e si allinea agli standard informativi delineati dall’OCSE; tale Direttiva è stata attuata in Italia con il Dlgs. n. 29 del 2014.
In particolare, per quanto riguarda l’ambito oggettivo di operatività, tale Direttiva si applica “alle imposte di qualsiasi tipo riscosse da o per conto di uno Stato Membro o delle ripartizioni territoriali o amministrative di uno Stato Membro, comprese le autorità locali”, ad eccezione delle fattispecie espressamente menzionate dal secondo paragrafo dell’art. 2 della Direttiva stessa[8].
Per quanto concerne le modalità di scambio delle informazioni tra le amministrazioni finanziarie degli Stati Membri, la Direttiva riprende la tradizionale tripartizione tra: a) lo scambio su richiesta, che opera quando l’autorità di uno Stato Membro richiede all’autorità di un altro Stato Membro informazioni che siano “prevedibilmente pertinenti per l’amministrazione e l’applicazione della legge nazionale”; b) lo scambio automatico obbligatorio, previsto in relazione ad una serie di categorie reddituali e progressivamente esteso ai ruling preventivi transfrontalieri, agli accordi preventivi in materia di prezzi di trasferimento ed al country-by-country reporting e sul quale incide la proposta di Direttiva COM(2020) 341 final della Commissione europea (v. infra); c) lo scambio spontaneo tra le autorità delle informazioni che siano “prevedibilmente pertinenti per l’amministrazione e l’applicazione della legge nazionale” al ricorrere di talune situazioni.
3. La proposta di Direttiva COM(2020) 314 final della Commissione europea
Facendo seguito alle indicazioni del Consiglio del 29 maggio 2020, nel luglio 2020 la Commissione ha presentato la proposta di Direttiva COM(2020) 314 final volta ad apportare ulteriori emendamenti alla Direttiva 2011/16/UE con effetto a partire dal 1° gennaio 2023; tale proposta è stata in seguito modificata ed integrata ad opera del Consiglio Ecofin del 25 novembre 2020.
In particolare, la suddetta proposta mira, da un lato, a migliorare le disposizioni già esistenti in materia di cooperazione tra le amministrazioni nazionali e, dall’altro, ad estendere l’ambito di operatività dello scambio automatico a talune informazioni fornite dai gestori di piattaforme digitali, nel rispetto del principio di sussidiarietà sancito dall’art. 5 TFUE e del principio di proporzionalità.
Sotto il primo profilo, essa contempla: l’introduzione di un nuovo art. 5 bis, volto a definire meglio il concetto di “prevedibile rilevanza” delle informazioni richieste dalle autorità; l’introduzione di un apposito paragrafo del predetto art. 5 bis, dedicato alle richieste collettive concernenti gruppi di contribuenti; l’integrazione degli art. 8 e 8 bis della Direttiva 2011/16/UE, mediante l’estensione dello scambio automatico di informazioni ai canoni e l’ampliamento del novero delle informazioni da trasmettere; infine, il rafforzamento della cooperazione amministrativa tra le autorità degli Stati Membri mediante la previsione di audit congiunti disciplinati dal nuovo art. 12 bis.
Sotto il secondo profilo, la proposta prevede che i “gestori di piattaforme con obbligo di comunicazione”[9] raccolgano una pluralità di informazioni concernenti i “venditori oggetto di comunicazione”, che sono definiti come “gli utenti registrati di una piattaforma che durante il periodo oggetto di comunicazione svolgono una delle “attività pertinenti”[10] e soddisfano talune condizioni”[11].
In particolare, i suddetti gestori, dopo aver raccolto le informazioni indicate dall’Allegato V, le devono verificare avvalendosi di tutte le informazioni e i documenti a loro disposizioni presenti nei loro registri, nonché in qualsiasi interfaccia elettronica messa a disposizione da uno Stato Membro o dall’Unione a titolo gratuito per accertare la validità del NIF o del numero di partita IVA.
I gestori delle piattaforme devono completare le procedure di due diligence previste dalla Sezione II del suddetto Allegato V entro il 31 dicembre del periodo di riferimento.
Da ultimo, i gestori devono comunicare le suddette informazioni non oltre il 31 gennaio dell’anno successivo all’anno solare in cui il venditore è stato identificato come “venditore oggetto di comunicazione”. Per alleviare gli oneri amministrativi gravanti sui gestori, la proposta stabilisce che tale comunicazione vada effettuata nel solo Stato Membro in cui il gestore soddisfa le condizioni di cui al paragrafo A (4) della Sezione I dell’Allegato V; se il gestore soddisfa tali condizioni in più Stati Membri, la comunicazione va effettuata nello Stato Membro scelto dal gestore stesso.
Una volta adempiuti gli obblighi di comunicazione posti a carico dei gestori delle piattaforme. si prevede l’operatività del meccanismo dello scambio automatico di informazioni tra gli Stati membri interessati. In particolare, le informazioni comunicate dal gestore di cui al paragrafo 2 dell’art. 8 bis quater devono essere trasmesse dalle autorità fiscali dello Stato Membro in cui è avvenuta la comunicazione agli Stati membri in cui il venditore oggetto di comunicazione si considera residente in base alla Sezione II dell’Allegato V e/o dello Stato Membro in cui è localizzato il bene immobile locato dal venditore. Tale trasmissione deve avvenire entro i due mesi successivi alla fine del periodo oggetto di comunicazione a cui si riferiscono gli obblighi di comunicazione del gestore.
Nel quadro così delineato dalla normativa UE spetterebbe ai singoli Stai membri stabilire le misure necessarie per imporre ai gestori delle piattaforme con obbligo di comunicazione di adempiere gli obblighi di due diligence in materia fiscale e gli obblighi di comunicazione, nonché la definizione delle norme in base alle quali i gestori possono scegliere di registrarsi presso le autorità competenti.
L’obiettivo delle descritte innovazioni è quello di contrastare l’evasione e l’elusione fiscale consentendo alle amministrazioni nazionali di conseguire le informazioni necessarie per accertare correttamente i redditi prodotti nel territorio dello Stato Membro attraverso l’esercizio di talune attività che si avvalgono dell’intermediazione di piattaforme digitali; tali informazioni dovrebbero essere fornite alle autorità competenti prima che queste diano inizio alle attività di accertamento.
Al contempo, la proposta mira anche a semplificare gli oneri amministrativi gravanti sui gestori delle piattaforme, i quali, in assenza di uno standard comune di reporting obligation, sono chiamati a fornire informazioni alle singole autorità accertatrici e/o a conformarsi gli obblighi di comunicazione previsti da una moltitudine di legislazioni nazionali differenti.
Un profilo interessante attiene al rapporto tra la raccolta delle informazioni e la normativa in materia di protezione dei dati personali di fonte unionale. Tale rapporto ha formato oggetto della Opinion n. 6 del 28 ottobre 2020, con la quale il Garante Europeo per la Protezione dei Dati Personali ha formulato talune raccomandazioni volte a bilanciare l’esigenza di garantire il rispetto degli obblighi fiscali con l’interesse degli operatori alla privacy ed alla protezione dei dati personali[12].
4. Conclusioni
Come già rilevato, le novità attinenti agli obblighi informativi posti a carico dei gestori delle piattaforme digitali si inseriscono nell’ambito della politica in materia di imposizione della digital economy già da tempo intrapresa dall’Unione Europea, essendo le regole auspicate dalla Commissione europea destinate a completare - sul versante procedimentale - gli interventi già intrapresi dalla stessa Commissione - sul piano del diritto sostanziale - con la proposta di una digital service tax comune e della “presenza digitale significativa” quale forma di stabile organizzazione.
Sul punto, occorre peraltro rilevare che la necessità di realizzare un’imposizione fiscale più equa con l’introduzione di nuove regole impositive e quella di rafforzare gli strumenti di cooperazione tra le amministrazioni finanziarie sono state rese ancora più stringenti dalla recente emergenza epidemiologica. Quest’ultima, infatti, da un lato ha favorito il business delle piattaforme digitali rispetto a quello delle imprese “tradizionali” e, dall’altro, ha incrementato il bisogno degli Stati di reperire risorse finanziarie per contenere l’impatto economico negativo della pandemia di Covid-19[13].
Perciò, l’assunzione di iniziative legislative da parte della Commissione europea nell’attesa che si giunga ad una soluzione condivisa in ambito OCSE è certamente da guardare con favore.
Tuttavia, anche le proposte avanzate a livello unionale scontano difficoltà e lungaggini dovute alla regola dell’unanimità richiesta dagli artt. 113 e 115 TFUE nei processi decisionali attinenti ad alcuni settori della politica fiscale; di tali criticità hanno fortunatamente preso atto le Istituzioni europee, che da tempo auspicano il passaggio alla regola della maggioranza qualificata in diversi ambiti, tra i quali quello della imposizione sull’economia digitale e della cooperazione tra gli Stati[14].
[1] Per un’analisi sistematica dell’impatto della digital economy sulle regole impositive v. R. Succio, Digital economy, digital enterprise e imposizione tributarie: alcune considerazioni sistematiche, in Dir. Prat. Trib. n. 6 del 2020 pag. 2363.
[2] Anche altre organizzazioni internazionali sono intervenute sul tema della tassazione della digital economy (si veda, ad esempio, la proposta avanzata dall’ONU, consultabile al seguente link: https://news.bloombergtax.com/daily-tax-report-international/insight-united-nations-proposal-on-taxing-the-digital-economy).
[3] In ambito OCSE, le iniziative in materia di imposizione della digital economy si inseriscono nell’ambito del c.d. progetto BEPS (“Base Erosion and Profit Shifting”), la cui Action 1 è denominata “Tax Challenges arising from digitalisation”.
[4] V. il documento “Statement by the OECD/G20 Inclusive Framework on BEPS on the Two-Pillar Approach to Address the Tax Challenges Arising from the Digitalisation of the Economy”, OCSE, gennaio 2020, consultabile al seguente indirizzo: https://www.oecd.org/tax/beps/statement-by-the-oecd-g20-inclusive-framework-on-beps-january-2020.pdf.
[5] V. la proposta di Direttiva n. n. 2018/0073 (COM (2018) 148 final).
[6] V. la proposta di Direttiva n. 2018/072 (COM(2018) 147 final).
[7] Per una ricostruzione dell’evoluzione registratasi in materia di cooperazione e scambio di informazioni v. G. Melis, Manuale di diritto tributario, 1° ed., Torino, Giappichelli, 2020, pp. 120 e ss.
[8] Ai sensi dell’art. 2, par. 2, della Dir. 2011/16/UE “(…) la direttiva non si applica all’imposta sul valore aggiunto e ai dazi doganali o alle accise contemplate da altre normative dell’Unione in materia di cooperazione amministrativa fra Stati membri. La presente direttiva non si applica inoltre ai contributi previdenziali obbligatori dovuti allo Stato Membro o a una ripartizione dello stesso o agli organismi di previdenza sociale di diritto pubblico”.
[9] Con il termine “piattaforma” si intende ogni software, inclusi i siti web e le applicazioni mobili, accessibile agli utenti e anche consenta ai venditori di connettersi agli altri utenti al fine di svolgere in modo diretto o indiretto una “attività pertinente” (v. infra) destinata a tali utenti, mentre l’espressione “gestore della piattaforma” indica l’entità che stipula un contratto con i venditori per mettere loro a disposizione l’intera piattaforma o parte di essa. Tali gestori sono gravati dagli obblighi di comunicazione previsti dalla Direttiva se hanno la residenza fiscale in uno Stato Membro o sono costituiti secondo le leggi di uno Stato Membro o hanno la propria sede di gestione o una stabile organizzazione in uno Stato Membro. L’ambito soggettivo di applicazione della Direttiva comprenderebbe, peraltro, anche i gestori di piattaforme che pur non soddisfando alcuna di queste condizioni facilitano lo svolgimento di determinate attività (c.d. attività pertinenti) da parte dei venditori oggetto di comunicazione che sono residenti ai fini della Direttiva in uno Stato Membro.
[10] La nozione di “attività pertinente” comprende le attività svolte a titolo oneroso e che consistono nella locazione di un bene immobile, in un servizio personale, nella vendita di beni e nel noleggio di qualsiasi mezzo di trasporto.
[11] Si considerano oggetto di comunicazione i venditori, diversi da quelli esclusi, che durante il periodo oggetto della comunicazione svolgono un’attività pertinente (o conseguono una remunerazione in considerazione dello svolgimento di un’attività pertinente) e sono residenti in uno Stato Membro o hanno in affitto un immobile situato in uno Stato Membro.
[12] L’Opinion del Garante Europeo per la Protezione dei Dati Personali è consultabile al seguente indirizzo: https://edps.europa.eu/sites/default/files/publication/20-10-29_opinion_proposal_amendment_council_directive_2011-16-eu_signed_en.pdf. Sul tema v. M. Manca, DAC 7; pronta una nuova proposta per rafforzare la cooperazione amministrativa tra le autorità fiscali UE, in Riv. Dir. Trib. supplemento online, del 22 febbraio 2021.
[13] Sull’impatto del Covid-19 sulla fiscalità della digital economy v. F. Roccatagliata, Crisi da COVID-19: con la tassazione dell’economia digitale la spinta giusta verso una vera “fiscalità europea”?, Fisco n. 38 del 2020, pag. 1-3607; anche F. Gallo, Quali interventi postpandemia attuare in materia fiscale e riparto di competenze fra Stato e Regioni?, in Rass. Trib. n. 3 del 2020, pag. 595, propende per una “robusta lotta all’evasione e all’economia sommersa fondata sull’uso dello strumento digitale con l’alleggerimento della pressione tributaria sulle famiglie, sui lavoratori e sulle imprese”, essendo questi ultimi i soggetti più pregiudicati dalla crisi di liquidità e dall’incertezza prodotta dalla pandemia.
[14] V. la Comunicazione consultabile al seguente link: https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/IP_19_225.
Dante e il diritto
Giustizia Insieme, nel settecentesimo anniversario della morte di Dante Alighieri, ha chiesto al prof. Justin Steinberg, professore di Letteratura italiana alla University of Chicago, direttore della rivista "Dante Studies” ed esponente di spicco, a livello internazionale, della letteratura dantesca, di dedicarci alcuni suoi approfondimenti già editi sul tema “Dante e il diritto”.
Nel ringraziarLo di cuore, iniziamo a pubblicare il primo intervento dedicato a “Dante e l’eccezione”, la cui traduzione è stata gentilmente curata da Sara Menzinger.
1. Dante e l’eccezione
di Justin Steinberg*
L’opera e il pensiero di Dante poggiano su un’impalcatura di matrice legale.[1] La centralità del diritto si avverte soprattutto nella Commedia: Dante immagina l’aldilà come una struttura amministrativa fortemente regolata, dotata di una complessa rete di leggi locali, giurisdizioni gerarchiche, punizioni e ricompense ben calcolate. La costruzione normativa dell’oltremondo dantesco continua a suggestionare l’immaginario collettivo, tanto che se oggi si pensa alla dannazione non basta più alludere semplicemente all’Inferno, bisogna anche definire lo specifico girone.
A differenza del suo contemporaneo Cino da Pistoia, che fu poeta e giurista, Dante probabilmente non ebbe una vera e propria formazione nel campo del diritto civile e canonico. È raro che faccia riferimento a specifici testi legali – e in ogni caso questo accade soprattutto in opere dottrinali come il Convivio e la Monarchia -. È anche vero però che Dante, prima come funzionario pubblico e poi come condannato, fu immerso nella cultura giuridica del suo tempo, e la Commedia è permeata di rituali giuridici che regolavano la vita quotidiana: privilegi speciali, concessioni, immunità, amnistie e assoluzioni, giuramenti e patti. Più che le citazioni dei testi legali, sono queste forme del diritto a esprimere la posizione del poeta nei confronti della legge e della giustizia.[2]
Nella concezione dantesca della giustizia divina i casi limite svolgono un ruolo centrale. Può sembrare paradossale, ma se Dante crea un’elaborata geografia normativa è proprio perché vuole esplorarne le eccezioni. Le regole del gioco vengono velocemente assimilate dai lettori, per essere poi altrettanto velocemente infrante: i pagani sono salvati, i dannati compatiti, i giuramenti infranti, le condanne ridefinite. Lo stesso racconto del viaggio può essere considerato un’eccezione, il privilegio personale accordato a Dante di attraversare l’altro mondo, rimanendo tuttavia immune dalle leggi che egli stesso ha ideato.
Così come oggi analizziamo le opere d’arte del passato tenendo in considerazione l’immaginario estetico del tempo, allo stesso modo dovremmo storicizzare anche i riflessi condizionati che l’opera di Dante provocava nei lettori della sua epoca, soprattutto in materia di norme ed eccezioni. Prima che l’autorità legislativa venisse concentrata nel moderno Stato centralizzato, la possibilità di sospendere una certa norma, o meglio di derogarvi, era considerata organica al sistema giuridico. Anche quando i rescritti imperiali o le dispense papali erano contra ius – violavano cioè il diritto positivo – si presupponeva che rispettassero comunque un sistema superiore di norme, cioè i principi fondanti, “costituzionali”, dello ius commune e i precetti del diritto naturale. Queste eccezioni regolate servivano a bilanciare le necessità della giustizia con l’autorità della legge, rendendo adattabile il sistema giuridico e assicurandogli una portata universale. In questa prospettiva, l’eccezione garantiva al diritto una continuità applicativa, sottraendolo al rischio di sclerotizzarsi in lettera morta davanti a casi non previsti.[3]
La principale differenza tra il moderno concetto di eccezione e quello medievale è che il primo ha carattere politico, mentre il secondo giurisprudenziale. Se lo Stato sovrano è minacciato, le istituzioni possono oggi invocare l’eccezione e sospendere l’ordine legale. Nel sistema giuridico medievale, che era governato da un corpo di giuristi professionisti, l’eccezione esprimeva invece la persistenza dell’ordine legale. Per questi giuristi – che si consideravano “oracoli” della legge e il cui status e sostentamento dipendevano dalla legittimità dell’ordine giuridico – sarebbe stato inconcepibile sospendere quell’ordine per andare incontro a una necessità politica. Non si trattava di uno “stato di eccezione”,[4] ma di un sistema di singole eccezioni che permettevano di conciliare la validità del corpus normativo con le contingenze del quotidiano.
In linea con la prospettiva giuridica medievale, Dante inserisce volutamente alcuni elementi incongrui all’interno del suo sistema di premi e punizioni, proprio per mettere in rilievo quei “sistemi di eccezione”.[5] Secoli di commenti hanno però finito per indebolire la vitalità di simili sfide interpretative. Quando gli studiosi si imbattono in anomalie che cozzano con le leggi dell’opera letteraria dantesca – per esempio l’assoluzione di un pagano suicida come Catone – tendono a cercare giustificazioni dottrinarie che salvaguardino e riconfermino la coerenza del testo. Appellandosi a un documento storico, a un precedente letterario o a un principio teologico, spiegano – o meglio neutralizzano – ogni apparente contraddizione. L’anomalia viene così riassorbita all’interno di leggi razionali e onnicomprensive. Questo atteggiamento di chiusura nei confronti delle eccezioni deriva in ultima analisi da una concezione post-illuministica del diritto. Secondo questa prospettiva, il diritto è sinonimo di legislazione, e così è ritenuto illecito qualsiasi fenomeno che contrasti con un determinato codice di leggi. Inconsciamente guidata da un simile approccio legalistico, la moderna critica letteraria si affanna a rintracciare dei precedenti per i casi problematici, cercando di renderli familiari e di addomesticarli.
Di fronte a un nodo interpretativo, i moderni commenti della Commedia offrono così due sole possibilità a chi legge: ricondurre l’apparente anomalia alle regole dell’aldilà, oppure chiamare in causa l’onnipotenza divina. Riducendo l’interpretazione a una scelta tra procedura ordinaria o stato di eccezione, questo approccio critico riduce al minimo la libertà di giudizio del lettore. Eppure Dante è un profondo sostenitore dell’importanza del giudizio, sia nella sfera del diritto che in quella dell’arte. Per lui il potere divino non è del tutto svincolato dalle leggi dell’ordine costituito: l’eccezione può essere ancorata a un sistema di regole e il diritto può tollerare l’eccezione. Confidando nella capacità di valutazione soggettiva, il poema incoraggia i lettori a riflettere su queste singole eccezioni che, anziché essere delegate a un’amorfa decisione sovrana, vengono affidate a un’esplorazione collettiva condivisa.
Prendiamo come esempio il caso dei diavoli che sbarrano le porte di Dite e che impediscono a Dante e Virgilio di accedere alla città infernale. I commenti moderni ci informano che si tratta di un contrattempo momentaneo (utile tra l’altro per mostrare un cedimento della fede nel personaggio di Dante) e ci dicono subito che l’impasse avrà una soluzione – e su quella noi ci concentriamo. Ma se Dante si dilunga per ben due canti (Inf. VIII-IX) sullo sbarramento delle porte di Dite, lo fa per attirare la nostra attenzione sulla serietà del problema. Abituati alle ambiguità derivanti da giurisdizioni multiple e in concorrenza tra loro, i lettori medievali avrebbero senz’altro riconosciuto la drammaticità di una scena in cui veniva messa in discussione l’autorità di un salvacondotto per un viaggio extraterritoriale. Tensioni di questo genere, trattate in forma narrativa, possono ancora contribuire alla vitalità estetica dell’opera, ma solo se distogliamo lo sguardo dalle note e rivendichiamo la nostra libertà di giudizio.
Ci sono molti modi di intendere i confini del diritto. Innanzitutto, il diritto impone dei limiti alle azioni umane e punisce chi non li rispetta: così è per il «folle volo» di Ulisse (Inf. XXVI, 108) e per il «trapassar del segno» di Adamo ed Eva (Par. XXVI, 117). Ma cosa accade se a violare i limiti sono proprio quelle autorità pubbliche che dovrebbero farli rispettare? Nel descrivere la mercificazione dei sacramenti da parte di Bonifacio VIII e il mancato rispetto del diritto naturale da parte di Filippo il Bello di Francia, Dante mostra la vulnerabilità che affligge un sistema di vincoli quando le cariche deputate a farli rispettare non vengono più trattate, dai rispettivi detentori, come sacrosante.
Ma anche queste manifestazioni di illegittimità tirannica rappresentavano per Dante il sintomo di un problema, e non la sua causa. Dante collocava altrove la minaccia principale all’ordine legale: nella disintegrazione del tessuto culturale che aveva a lungo sostenuto il diritto. I conflitti giurisdizionali tra Chiesa e Impero e le guerre che flagellavano la penisola italiana avevano gravemente compromesso la fiducia dei cittadini. L’opinione pubblica era stata contaminata dalla politica di fazione, gli ufficiali corrotti avevano eroso la fiducia collettiva, i privilegi del clero e della nobiltà erano stati mercificati, e tradizionali modelli di comportamento economico avevano smesso di essere rispettati: il corso ordinario del diritto positivo aveva così finito per diventare solo un’altra forma di violenza legittimata.
Separato da un’etica politico-culturale condivisa, il diritto rivelava tutti i suoi limiti. Quando, nel VI canto del Purgatorio, Dante paragona Firenze a una donna malata disposta a cambiare «legge, moneta, officio e costume» (Purg. VI, 146) ogni volta che si rigira nel letto, non punta il dito contro la sospensione arbitraria della legge, ma contro l’arbitrarietà delle leggi stesse.[6]
Con la Commedia Dante cerca di restaurare quei valori comuni, quei racconti esemplari e quei modelli educativi situati ai confini del diritto. Il poema si prefigge di occupare gli interstizi tra diritto e vita, di fornire le precondizioni morali ed estetiche necessarie al diritto per prosperare. Questa «poetica dell’emergenza» costituisce il tessuto culturale dispiegato al di sotto, al di là, al di sopra e a lato del diritto. Vuole incoraggiare un sentimento di attaccamento alla legge, che resiste anche dove la legge non viene concretamente applicata. In un’ottica simile, liquidare – come fanno i critici moderni – la fedeltà di Dante al Sacro Romano Impero come nostalgica e avulsa dalla realtà storica non fa altro che rivelare i nostri limiti. Per Dante, infatti, la conformità al diritto non dipendeva tanto da un’effettiva coercizione, quanto dalla fedeltà verso l’ideale di un imperatore universale che «in tutte parti impera» (Inf. I, 127).
La nostra comprensione dell’intreccio tra finzione letteraria e giuridica deve ancora molto ai brillanti studi di Ernst Kantorowicz su questo tema. In particolare, la ripresa di interesse per la teologia politica ha spinto alcuni studiosi a un fruttuoso riesame del suo fondamentale lavoro I due corpi del Re.[7] I nuovi studi si sono principalmente concentrati sull’analisi condotta da Kantorowicz su Shakespeare,[8] ma era in realtà con un capitolo su Dante che l’autore concludeva la sua dimostrazione dell’importanza delle fonti teologiche e giuridiche medievali per le idee astratte di Stato. Per Kantorowicz, l’importanza di Dante come teorico della teologia politica eguaglia quella di Shakespeare; a suo parere, la concezione dantesca della «regalità antropocentrica» anticipa l’attrazione esercitata dalla «dignità di Uomo» sugli intellettuali del Rinascimento, come si avverte in particolare nel XXVII canto del Purgatorio, quando il poeta è incoronato da Virgilio signore di sé stesso, acquisendo così uno «status sovrano».[9]
È eloquente il fatto che gli studiosi contemporanei si siano concentrati più sulla lettura di Shakespeare da parte di Kantorowicz, che su quella di Dante. Benché Kantorowicz cerchi di trasformare quest’ultimo in un precursore dell’età moderna, sovvertendo la cronologia letteraria, Dante ostinatamente resiste a tale caratterizzazione. Come i medievisti sostengono da tempo,[10] la principale debolezza della tesi di Kantorowicz sulle origini teologiche dello Stato moderno sta nel suo concentrarsi in modo anacronistico sulla sovranità, incluso il ricorso alla modernità shakespeariana per interpretare Dante e il diritto medievale. Che si appuntino sull’opzione assolutista o costituzionalista della teologia politica di Kantorowicz, i critici letterari tendono di fatto a riprodurre questa prospettiva genealogica tendenziosa.[11]
A prescindere della questione delle origini, le rappresentazioni della giustizia in Dante vanno esaminate per cercare di capire il ruolo svolto dalle personificazioni del potere prima della nascita dello Stato moderno. Insistendo sulla validità dello ius commune in assenza di un imperatore o di un sovrano nazionale, Dante e i giuristi crearono finzioni che da molti punti di vista rappresentavano l’unico corpo del re. Mentre Kantorowicz vede in quelle finzioni giuridiche un modo per legittimare la figura regia della prima età moderna, all’epoca di Dante era la finzione del sovrano in quanto lex animata a legittimare la creatività del diritto. Non sorprende, dunque, che Dante immagini il poeta non come un sovrano al di sopra della legge,[12] ma come un giudice militante che ingegnosamente si sforza di adattare il diritto per mantenerlo in vita.
Come Kantorowicz, anche Carl Schmitt, interpreta l’influenza della teologia sulla politica moderna come un processo di secolarizzazione, in cui sia il pensiero che la pratica religiosi vengono trasformati nel fondamento metafisico del governo. Per esempio, quando Schmitt vede nel miracolo divino un modello per il diritto del sovrano di sospendere la legge, si sposta dalla prima età moderna all’Illuminismo, dal teismo al deismo, dalla monarchia alla democrazia liberale, dal decisionismo al proceduralismo, dalla religione alla politica.[13] Questa prospettiva genealogica presume che le convinzioni teologiche rimangano stabili e lineari tra il medioevo e la prima età moderna.
In realtà, più che agire da modello per la politica, è la stessa metafora del miracolo a essere sempre stata politicizzata. Come vedremo meglio in un prossimo intervento per questa stessa rivista, la visione monarchica del miracolo, per cui Dio interviene sulle leggi da lui stesso create, rappresenta uno sviluppo tardo del pensiero medievale. Nata dal volontarismo teologico, la prospettiva “assolutista” del miracolo si scontrava con una più comune interpretazione “costituzionalista”, condivisa da teologi come Tommaso d’Aquino. Secondo questa visione, benché fosse indubbiamente un evento straordinario, il miracolo restava imbrigliato dai principi di un universo ordinato dalla natura e dalla grazia. Le diverse letture dell’intervento divino avevano implicazioni concrete per la legittimazione della plentitudo potestatis pontificia, soprattutto nel caso in cui il papa concedeva “miracolosamente” privilegi contra ius. Assumendo una prospettiva del genere, non basta evocare l’onnipotenza divina per spiegare la discesa miracolosa dell’angelo che viene in aiuto di Dante e Virgilio alle porte della città di Dite. Dobbiamo capire precisamente quale tipo di potere divino si concretizza nell’intervento angelico; solo così saremo in grado di svelare le implicazioni di ciò che Dante vedeva come il rapporto tra un governante (divino o secolare) e le sue leggi.[14]
Nella Commedia, politica e teologia si trovano così in un rapporto di interdipendenza dinamica. Prima di cominciare a esplorare il legame tra Dante e il diritto, desidero però fare una precisazione: non intendo “umanizzare” l’aldilà dantesco, rappresentandolo come fallace o eterodosso. È necessario tenere a mente che esiste sempre una differenza tra la giustizia divina e quella umana. Allo stesso tempo, come spiega Beatrice nel IV canto del Paradiso, le cose divine non possono essere comunicate all’intelletto umano se non per analogia. Dante non può che ispirarsi alla giustizia terrena per modellare il suo aldilà, né può svincolare la sua creazione dalle ambiguità giuridiche presenti nelle strutture che prende a prestito. La natura dialettica del poema e la sua funzione di quaestio letteraria derivano proprio da questa negoziazione tra punti di vista differenti. È naturale, d’altronde, che un viaggio attraverso il territorio giuridico generi una serie di quesiti sui fondamenti del diritto e sull’autorità politica. In altre parole, la suprema ortodossia teologica del poema non esclude la presenza di una serie di ambiguità giuridiche nel testo narrativo. La mia tesi poggia pertanto sulla convinzione che la giustizia riservata alle anime debba essere intesa in senso dialettico, o persino critico, e che comunichi con manifestazioni concrete della giustizia terrena. Vorrei essere chiaro soprattutto su un punto: non è corretto liquidare semplicemente come spietato l’atteggiamento nei confronti dei dannati, magari ascrivendolo ai caratteri della giustizia medievale o dantesca, come fanno alcuni critici moderni. Una concezione del genere potrebbe essere adeguata per il realismo sardonico dei diavoli, ma non certo per la giustizia tesa e inquisitrice della Commedia nel suo complesso. In fin dei conti è ampiamente condivisa l’idea che la topografia e la struttura amministrativa dell’Inferno restituiscano una visione perversa e surreale di una città italiana corrotta. Perché mai questa città infernale non dovrebbe essere governata da un ordine giuridico altrettanto infernale? È la «rigida giustizia» (Inf. XXX, 70), ovvero l’interpretazione inflessibile della legge e l’incapacità di concepire l’eccezione, che rendono terribile e paurosa la giustizia infernale. Sfidando il lettore a confrontarsi con una serie di casi spinosi, Dante ci invita ad affiancarlo nel ruolo di giudice – e nessuno può sottrarsi alla responsabilità di giudicare.
*Professore di Letteratura italiana presso il Department of Romance Languages and Literatures della University of Chicago e Editor-in-chief della rivista Dante Studies.
[1] Per il testo della Divina Commedia: La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. Petrocchi, Firenze, Le Lettere, 1994. Per le citazioni del Digesto: Digesta Iustiniani Augusti, a cura di Th. Mommsen, rev. di P. Krüger, Berolini, apud Weidmannos, 1870.
[2] Non esiste uno studio complessivo sul rapporto tra Dante e il diritto. Su Dante e la giustizia si vedano tuttavia, tra i contributi di maggiore interesse, A.K. Cassell, Dante’s Fearful Art of Justice, Toronto-Buffalo, University of Toronto Press, 1984; A.H. Gilbert, Dante’s Conception of Justice, Durham (NC), Duke University Press, 1925; G. Mazzotta, Metaphor and Justice, in Dante’s Vision and the Circle of Knowledge, Princeton (NJ), Princeton University Press, 1993, pp. 75-95. Per gli interventi di Dante nei conflitti giuridici tra Chiesa e Impero, cfr. Ch. Till Davis, Dante and the Idea of Rome, Oxford, Clarendon Press, 1957; M. Maccarrone, Teologia e diritto canonico nella Monarchia III, 3, in «Rivista di storia della Chiesa», 5 (1951), pp. 7-42, e l’introduzione di B. Nardi a Dante Alighieri, Opere minori, Milano-Napoli, Ricciardi, 1979, vol. 2, pp. 241-269. Sul rapporto tra Dante e il diritto sembra tuttavia registrarsi un’inversione di tendenza; si vedano, per es., i seguenti contributi recenti: C. Di Fonzo, Dante tra diritto, letteratura e politica, in «Forum Italicum», 41, 1 (2007), pp. 5-22; S. Ferrara, Tra pena giuridica e diritto morale: l’esilio di Dante nelle Epistole, in «L’Alighieri», 40 (2012), pp. 45-65; S. Grossvogel, Justinian’s Jus and Justificatio in Paradiso 6.10-27, in «Modern Language Notes», 127 (2012), supplemento, pp. 130-137; L.M. Valterza, Infernal Retainers: Dante and the Juridical Tradition, PhD Dissertation, Rutgers University, 2011.
[3] Sul pluralismo dell’ordine giuridico medievale, cfr. P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Roma-Bari, Laterza, 1991.
[4] Sullo stato d’eccezione, cfr. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 1995; Id., Stato di eccezione, Torino, Bollati Boringhieri, 2003; C. Schmitt, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Id., Le categorie del “politico”. Saggi di teoria politica, Bologna, il Mulino, 1972.
[5] Per il diritto medievale come sistema di eccezioni, cfr. i saggi raccolti da M. Vallerani, Sistemi di eccezione, in «Quaderni storici», 131 (2009), con particolare riferimento ai saggi di M. Meccarelli, Paradigma dell’eccezione nella parabola della modernità penale: una prospettiva storico-giuridica, pp. 493-521; S. Menzinger, Pareri eccezionali: procedure decisionali ordinarie e straordinarie nella politica comunale del XIII secolo, pp. 399-410; G. Milani, Legge ed eccezione nei comuni di Popolo del XIII secolo (Bologna, Perugia, Pisa), pp. 377-398; M. Vallerani, Premessa, pp. 299-312. Cfr. anche M. Vallerani, Paradigmi dell’eccezione nel tardo medioevo, in «Storia del pensiero politico», 2 (2012), pp. 3-30. Parzialmente in contraddizione con la sua descrizione del bando medievale in Homo sacer, Agamben dichiara, in Stato di eccezione (p. 37), che «l’idea che una sospensione del diritto possa essere necessaria al bene comune è estranea al mondo medievale».
[6] La condanna di Dante si configura, dopo tutto, perfettamente legale da un punto di vista procedurale.
[7] E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale, Torino, Einaudi, 1989.
[8] Cfr., recentemente, S. Greenblatt, Shakespeare’s Freedom, Chicago, University of Chicago Press, 2010; L. Hutson, The Invention of Suspicion: Law and Mimesis in Shakespeare and Renaissance Drama, Oxford, Oxford University Press, 2007; Ead., Imagining Justice: Kantorowicz and Shakespeare, in «Representations», 106 (2009), pp. 118-142; V. Kahn, Political Theology and Fiction in The King’s Two Bodies, in «Representations», 106 (2009), pp. 77-101; J.R. Lupton, Citizen-Saints: Shakespeare and Political Theology, Chicago, University of Chicago Press, 2005; E.L. Santner, The Royal Remains: The People’s Two Bodies and the Endgames of Sovereignty, Chicago, University of Chicago Press, 2011.
[9] Cfr., in particolare, Kantorowicz, I due corpi del Re, pp. 423-424.
[10] Cfr. la disamina delle diverse prospettive critiche recensite da B. Jussen, The King’s Two Bodies Today, in «Representations», 106 (2009), pp. 102-117.
[11] Per il secondo orientamento, cfr. in particolare Kahn, Political Theology and Fiction, e J. Rust, Political Theologies of the Corpus Mysticum: Schmitt, Kantorowicz, and de Lubac, in Political Theology and Early Modernity, a cura di G. Hammill e J.R. Lupton, Chicago, University of Chicago Press, 2012, pp. 102-123.
[12] E.H. Kantorowicz, La sovranità dell’artista. Mito e immagine tra Medioevo e Rinascimento, Venezia, Marsilio, 1995, pp. 17-38.
[13] Cfr., in particolare, Schmitt, Le categorie del politico, p. 61: «Infatti l’idea del moderno Stato di diritto si realizza con il deismo, con una teologia e una metafisica che esclude il miracolo dal mondo e che elimina la violazione delle leggi di natura, contenuta nel concetto di miracolo e produttiva, attraverso un intervento diretto, di una eccezione, allo stesso modo in cui esclude l’intervento diretto del sovrano sull’ordinamento giuridico vigente. Il razionalismo dell’illuminismo ripudiò il caso di eccezione in ogni sua forma».
[14] Per un esempio moderno di politicizzazione del miracolo, cfr. B. Honig, Emergency Politics: Paradox, Law, Democracy, Princeton (NJ), Princeton University Press, 2009, pp. 87-111.
Giudizio cautelare e principio di sinteticità degli atti processuali (nota a CGARS ord.36/2021 e decr. 31/2021)
di Fortunato Gambardella
Sommario: 1. Due decisioni cautelari sul principio di sinteticità- 2. Introduzione al principio di sinteticità degli atti del processo amministrativo- 3. L’ordinanza 15 gennaio 2021, n. 36 di C.G.A.R.S.: l’inutilizzabilità delle note di udienza prolisse- 4. L’autorizzazione al superamento dei limiti dimensionali nel decreto presidenziale n. 31/2021 del Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana.
1. Due decisioni cautelari sul principio di sinteticità.
Due recenti decisioni cautelari del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana stimolano la riflessione intorno ad estensione e portata del principio di sinteticità degli atti del processo amministrativo, oggetto di attenzione normativa ed ermeneutica crescente a partire dalla sua considerazione nel Codice del processo amministrativo.
L’ordinanza cautelare n. 36 del 2021 del giudice siciliano mette infatti in risalto, quantomeno a prima vista, il tema dell’estensione dell’ambito di applicazione del principio, che arriva a coinvolgere le cd. note di udienza, depositate dalla parte avvalendosi della facoltà concessa dall’articolo 4 del decreto legge n. 28 del 2020. La stessa, al contempo, sembra però parlarci anche della portata del principio di sinteticità, laddove approfondisce il tema delle conseguenze giuridiche della violazione del canone, affermando l’inammissibilità e conseguente inutilizzabilità delle note eccezionalmente prolisse.
Sotto altro ma connesso profilo, il decreto presidenziale n. 31 del 2021 stimola l’attenzione intorno agli strumenti predisposti dall’ordinamento a garanzia dell’effettività del principio di sinteticità, specie laddove respinge l’istanza di autorizzazione al superamento di limiti dimensionali avanzata dalla parte appellata in relazione ad una memoria di costituzione e risposta depositata per la fase cautelare del giudizio, in quanto atto inidoneo ad ospitare la riproposizione di motivi non esaminati dall’ordinanza cautelare appellata che ha accolto la domanda di sospensione in primo grado.
2. Introduzione al principio di sinteticità degli atti del processo amministrativo
Il canone di sinteticità degli atti caratterizza il processo amministrativo a partire dal decreto legislativo 20 marzo 2010, n. 53 (“Attuazione della direttiva 2007/66/CE che modifica le direttive 89/665/CEE e 92/13/CEE per quanto riguarda il miglioramento dell'efficacia delle procedure di ricorso in materia d’aggiudicazione degli appalti pubblici”). Il testo, nel definire un regime speciale per le controversie in tema di appalti pubblici, prevedeva infatti (articolo 2-undecies) che “tutti gli atti di parte devono essere sintetici e la sentenza che decide il ricorso è redatta ordinariamente in forma semplificata”.
Da regola peculiare del contenzioso sull’evidenza pubblica, la vocazione alla sintesi, nel breve volgere di qualche mese, è assurta tuttavia al “rango di vero e proprio principio generale del processo amministrativo”[1]. Esplicita, in questo senso, la previsione del secondo comma dell’articolo 3 del Codice del processo amministrativo[2], a tenore della quale: “il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica”. Rispetto alla disposizione del diritto processuale delle commesse pubbliche, la norma di generalizzazione peraltro evidenziava un salto di qualità, accompagnando al canone della sinteticità quello della chiarezza degli atti, nell’ambito di un processo di emersione di un complessivo modo di essere dell’intera produzione documentale processuale, che oggi vede i due principi sovente quanto atecnicamente intesi quasi in termini di endiadi.
La vocazione alla sintesi degli atti di causa, nel nostro ordinamento processuale amministrativo, è rimasta nondimeno affermazione generale, di evidente rilevanza simbolica ed ermeneutica, ma sprovvista di strumenti sanzionatori all’uopo dedicati fino al 2012, allorché il secondo correttivo al Codice del processo amministrativo (d.lgs. 14 settembre 2012, n. 160), non ha modificato l’art. 26 del testo, inserendo (al comma 1) un ultimo periodo inteso a stabilire che la decisione sulle spese di giudizio debba tener conto anche della accertata violazione dei principi di chiarezza e sinteticità di cui dall’art. 3, comma 2, dello stesso Codice. In questi termini, la previsione, recepiva l’orientamento che la giurisprudenza era venuta maturando successivamente all’entrata in vigore del Codice e proiettato verso la necessaria non sottovalutazione dei precetti di chiarezza e sinteticità degli atti processuali ai fini della costruzione di un efficace ed efficiente sistema di giustizia[3].
Restava sul tavolo, in ogni caso, il problema della definizione dei parametri dimensionali degli atti processuali rispettosi del canone della sintesi, compito che il legislatore, con due successivi interventi normativi[4], ha affidato ad uno specifico decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Attualmente in vigore è pertanto il Decreto del Presidente del Consiglio di Stato n. 167 del 22 dicembre 2016[5], il quale definisce i criteri di redazione degli atti processuali di parte e i relativi limiti dimensionali, restituendo al canone di sinteticità strumenti di misurazione che pure corrono sul filo della possibile confusione dell’istanza della sintesi con la diversa regola della brevità[6].
Il decreto, peraltro, completa il sistema disciplinando l’istituto dell’autorizzazione del Presidente dell’organo giurisdizionale adito (Consiglio di Stato o Tribunale amministrativo regionale) al superamento dei limiti dimensionali fissati nel decreto, da richiedersi con apposita istanza.
Il quadro normativo che si è venuto strutturando nello scorso decennio ha restituito dunque al principio di sinteticità una duplice dimensione: di affermazione generale e di effettività. Come principio generale del processo amministrativo, la sinteticità è dalla giurisprudenza connessa strumentalmente all’istanza della ragionevole durata del processo, a sua volta corollario del canone costituzionale del giusto processo[7]. Sul piano dell’effettività, la garanzia del principio passa invece per l’enunciazione delle regole dimensionali definite dal richiamato decreto del Consiglio di Stato e, in chiave sanzionatoria, per l’operatività della previsione dell’articolo 26 del Codice del processo amministrativo, che rende la violazione dei canoni di sinteticità e chiarezza degli atti di causa parametro ulteriore cui possa attingere il giudice ai fini della determinazione sulle spese di giudizio[8].
Ma vi è di più, perché ulteriore presidio dell’effettività del principio di sinteticità è sicuramente rintracciabile nella previsione contenuta nel comma 5 dell’art. 13-ter dell’allegato 2 del c.p.a, laddove delimita lo spazio della cognizione per così dire “obbligatoria” del giudice amministrativo a “tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti” nei limiti dimensionali definiti nel decreto del Presidente del Consiglio di Stato e, al contempo, chiarisce che “l'omesso esame delle questioni contenute nelle pagine successive al limite massimo non è motivo di impugnazione”. Una traccia che la giurisprudenza sviluppa comunemente nel senso del ritenere il superamento dei limiti dimensionali del ricorso circostanza che determini “il degradare della parte eccedentaria a contenuto che il giudice ha la mera facoltà di esaminare”[9].
Fin qui i dati espressi dalla normazione, rispetto ai quali tuttavia alcuni settori della giurisprudenza da tempo sembrano evidenziare altresì indirizzi tesi a ricavare dal principio di sinteticità conseguenze giuridiche non codificate ma più stringenti. Sono percorsi ermeneutici che alcuni giudici coltivano sin dalla prima applicazione del Codice del processo amministrativo e nell’ambito dei quali, pur con accenti e sfumature diversi[10], sembra fare eco l’ipotesi di una declaratoria di inammissibilità dei ricorsi prolissi, ovvero eccedenti i riferiti limiti dimensionali.
Si tratta, a dire il vero, di indirizzi nei quali il valore della sinteticità non sembra mai isolatamente considerato nella sua portata escludente la cognizione del giudice amministrativo. Lo stesso è piuttosto evocato in combinazione con il canone della chiarezza, richiamato nel medesimo contesto normativo di cui all’articolo 3, comma 2, c.p.a., esponendo ad esempio l’appellante alla declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione, non già come conseguenza dell’irragionevole estensione del ricorso (la quale non è normativamente sanzionata), ma in quanto rischia di pregiudicare l’intellegibilità delle questioni, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata[11].
Su di un piano generale, a rendere dunque inammissibile il ricorso non è il difetto di sinteticità che lo stesso reca, quanto piuttosto il difetto di intellegibilità che possa caratterizzarlo, eventualmente come mera scaturigine della mancanza di sintesi. In quest’ottica, il vulnus nei confronti del canone della sinteticità, in termini di travalicamento dei confini dimensionali normativamente imposti all’atto, può rappresentare tuttalpiù una spia della sua capacità di determinare una condizione di incertezza della domanda, lungi pertanto dal configurare l’onere di sintesi “un requisito formale indispensabile per il raggiungimento dello scopo dell’atto processuale”[12], tale da assurgere ad autonoma rilevanza nella prospettiva della declaratoria di inammissibilità del ricorso.
3. L’ordinanza 15 gennaio 2021, n. 36 di C.G.A.R.S.: l’inutilizzabilità delle note di udienza prolisse
In questo quadro si colloca, con elementi di singolarità, la decisione maturata dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia che, con l’ordinanza 15 gennaio 2021, n. 36, come anticipato in apertura, ha dichiarato l’inammissibilità e conseguente inutilizzabilità delle cd. note di udienza, depositate dalla parte avvalendosi della facoltà concessa dall’articolo 4 del decreto legge n. 28 del 2020, quando le stesse non rispettino il principio di sinteticità espressamente enunciato al comma 2 dell’articolo 3 del c.p.a. laddove sottolinea che “il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica”.
Il decreto legge 30 aprile 2020 n. 28, come è noto, ha dettato tra l’altro una serie di norme in materia di organizzazione ed erogazione del servizio di giustizia amministrativa nell’attuale contesto pandemico-emergenziale e l’articolo 4 dello stesso, nel testo modificato dalla legge di conversione (n. 70 del 2020), riconosce la facoltà delle parti di chiedere la discussione orale in modalità di videoconferenza, ovvero, in alternativa, l’opportunità di depositare note di udienza fino alle ore 12 del giorno antecedente ovvero richiesta di passaggio in decisione, precisando che il difensore che deposita tale richiesta è “considerato presente a ogni effetto in udienza”.
Le note di udienza intervengono dunque a ridosso dell’udienza e, insieme all’atto introduttivo del giudizio e alle memorie, completano il ventaglio dei documenti concessi alla parte per l’esercizio giudiziale del diritto di difesa. Di esse si occupano, in particolare, Linee guida del Presidente del Consiglio di Stato sull’applicazione dell’art. 4 D.L. 28/2020 e sulla discussione da remoto (del 25 maggio 2020), che le descrive come “un’ulteriore chance di trattazione cartolare, anche al fine di disincentivare radicali opposizioni alla discussione orale destinate a “scaricarsi” sulla economicità e celerità del processo”. Il documento ospita peraltro alcune indicazioni minime contenutistico-dimensionali, stabilendo “che le note: a) debbano essere “brevi”, ponendosi quale facoltà succedanea all’esposizione orale; b) debbono auspicabilmente essere depositate con anticipo rispetto al giorno dell’udienza, in modo da consentire alle controparti una replica informata; c) a mezzo di esse possano essere svolte tutte le considerazioni generalmente ammesse in udienza (ad esempio, dedurre un profilo in rito non soggetto a termini perché rilevabile d’ufficio)”.
Il tratto della brevità sembra dunque precipuamente caratterizzare l’istituto. Pur nel difetto di un’espressa presa di posizione del legislatore in ordine a contenuto e dimensioni delle note, è stato autorevolmente e opportunamente osservato che, ponendo l’attenzione “sulla collocazione delle note, è evidente che alle medesime va attribuito il significato non di nuovi scritti difensivi ma, invece, di trascrizione di quanto altrimenti la parte avrebbe dedotto in udienza”[13]. La tesi, in particolare, fa perno sul carattere “articolato”[14] del contraddittorio scritto per come disciplinato dal Codice del processo amministrativo e che si sostanzia nella dialettica tra memorie e repliche, con le ultime che “debbono contenere soltanto la risposta alle argomentazioni sviluppate da controparte nella memoria e non possono introdurre elementi nuovi”[15]. Si tratta di uno schema nel quale, dunque, le note di udienza possono accogliere una “estrema sintesi degli argomenti già dibattuti oppure una contestazione di quanto controparte abbia illustrato in modo non corretto nella replica”[16].
Se questo è lo spazio vitale che l’interpretazione sistematica delle norme del processo amministrativo sembra riservare alle note di udienza, non sorprende allora la soluzione adottata dal Consiglio di Giustizia Amministrativa della Sicilia con l’ordinanza in commento, laddove rileva l’inammissibilità e la conseguente inutilizzabilità delle c.d. “note di udienza” di parte appellante, depositate, avvalendosi della facoltà concessa alla parte dall’art. 4 del d.l. n. 28 del 2020 “perché estese 42 pagine” e sull’assunto che le stesse non possano “assolvere alla funzione sostanziale della memoriacon una elusione del termine di deposito di quest’ultima, pena la violazione del contraddittorio e un vulnus quanto all’approfondimento collegiale della causa”.
Né sorprende che il giudice ritenga che le note, per quanto non utilizzabili in punto di contenuti, assumano rilevanza “come istanza di passaggio della causa in decisione al fine della fictio iuris della presenza del difensore in udienza”. Il modello che la normativa emergenziale descrive passa, infatti, per il riconoscimento di tre opzioni che danno accesso alla fase decisoria del giudizio: la discussione in videoconferenza; il deposito delle note di udienza; oppure, in alternativa a quest’ultima modalità, la presentazione di una richiesta di passaggio in decisione. Come spiegano le già richiamate Linee guida del Presidente del Consiglio di Stato sull’applicazione dell’art. 4 del d.l. 28/2020, la norma che contempla la richiesta di passaggio in decisione “rispecchia, com’è ragionevole che sia, la dinamica delle ordinarie udienze “in presenza”, in cui le parti si accordano, in via preliminare, per non discutere la causa non ravvisando profili che rendano utile o opportuna l’ulteriore trattazione orale, rispetto a quanto già dedotto e argomentato negli scritti. Trattasi di una facoltà (quello di richiedere senz’altro il passaggio in decisione) che dunque permane anche nel nuovo regime della fase emergenziale, ma che a differenza del regime ordinario può essere manifestata anche per iscritto”. In questo quadro, la considerazione delle note prolisse in termini di istanza di passaggio in decisione serve ad attribuire alle stesse una valenza funzionale minima, coerente con l’impianto descritto, che consente il passaggio della causa in decisione e, allo stesso tempo, la garantistica considerazione del difensore come “presente a ogni effetto in udienza” (articolo 4, decreto legge n. 28/2020).
Se dunque il dispositivo dell’ordinanza non sembra destare perplessità, qualche dubbio è lecito semmai insinuare proprio laddove il giudice connette la declaratoria di inammissibilità delle note di udienza all’asserita violazione del principio di sinteticità degli atti processuali. Quel principio, per quanto chiarito nel paragrafo precedente, ha ormai guadagnato una connotazione strutturata, che lo qualifica in termini di affermazione generale ma anche in punto di effettività. La dimensione di effettività, in particolare, come visto, passa per l’operatività dei limiti dimensionali di cui al riferito Decreto del Presidente del Consiglio di Stato e approda alle già evidenziate conseguenze giuridiche codificate: considerazione della violazione del canone della sintesi ai fini della decisione sulle spese di giudizio; facoltà per il giudice di omettere di pronunciarsi sulla parte del ricorso eccedente i citati limiti di dimensione.
Lo spazio per una rilevanza autonoma della violazione della regola della sintesi ai fini della dichiarazione di inammissibilità di specifici atti processuali, allo stato della legislazione, non sembra esserci e, peraltro, con specifico riguardo alla vicenda processuale evocata dall’ordinanza che ci occupa, anche volendo forzatamente spingersi oltre i riferiti dati normativi, non residuerebbe in ogni caso neppure lo spazio per la verifica della supposta condizione operativa che, in certo qual modo, certifichi la violazione del principio di sinteticità: il superamento dei limiti dimensionali. Per ovvie ragioni di successione cronologica, infatti, il decreto del Presidente del Consiglio di Stato che fissa quei limiti non contempla il recente istituto delle note di udienza, non consentendo l’individuazione di una misura che, rispetto alle stesse, possa eventualmente permettere di circostanziare una concreta lesione del canone della sintesi.
4. L’autorizzazione al superamento dei limiti dimensionali nel decreto n. 31/2021 del Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana
Il consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia, con il decreto presidenziale n. 31 del 2021 ha respinto l’istanza di autorizzazione al superamento di limiti dimensionali avanzata dalla parte appellata in relazione ad una memoria di costituzione e risposta depositata per la fase cautelare del giudizio.
In questo caso, il principio di sinteticità non è evocato in modo esplicito dalla decisione del giudice che, tuttavia, impatta sul funzionamento di un istituto (l’autorizzazione al superamento di limiti dimensionali) che abbiamo descritto quale strumento inteso a garantire l’effettività del canone medesimo.
La disciplina dell’istituto emerge dal combinato disposto degli articoli 5 e 6 del cd. decreto sinteticità (decreto del presidente del Consiglio di Stato n. 167 del 2016, per come modificato dal decreto n. 127 del 2017), il primo dei quali individua le deroghe ammissibili rispetto ai limiti dimensionali ivi sanciti, laddove il secondo descrive il funzionamento del relativo procedimento autorizzatorio.
L’autorizzazione, in particolare, interviene con decreto del Presidente del tribunale o di un magistrato delegato, il quale valuta in ordine alla sussistenza dei presupposti di deroga di cui all’articolo 5 del richiamato decreto sinteticità. A tal fine, è previsto che il ricorrente, principale o incidentale, formuli un’istanza motivata, allegando, ove possibile, lo schema del ricorso e sulla quale l’organo competente si pronunci entro i successivi tre giorni. Le modalità di presentazione dell’istanza sono diverse da quelle previste dalla formulazione originaria della norma, secondo la quale l’istanza motivata dovesse essere presentata in calce al ricorso. Peraltro, tale previgente modalità resta valida, nel nuovo regime, esclusivamente per l’ipotesi di istanza formulata da una parte diversa dal ricorrente principale e limitatamente alla memoria di costituzione.
Nel caso di specie, in sede di appello proposto dal Ministero dell’interno avverso un’ordinanza cautelare di accoglimento della domanda di sospensione in primo grado relativa ad una interdittiva antimafia, il decreto presidenziale in commento ha respinto l’istanza di autorizzazione al superamento di limiti dimensionali depositata dalla parte appellata in relazione alla memoria di costituzione e risposta.
La decisione muove dal considerare “già di per sé molto ampi” i limiti dimensionali ordinari[17], tali da consentire “una difesa estesa e articolata” e giunge a ritenere che la memoria di costituzione della parte appellata per la fase cautelare, in caso di appello su ordinanza, possa limitarsi ad un sintetico richiamo del ricorso di primo grado. Infatti, la valutazione compiuta dal giudice dell’appello su ordinanza cautelare “è necessariamente sintetica e complessiva e, da un lato, non esige l’esame puntuale di tutti i motivi del ricorso di primo grado, mentre, dall’altro lato, va compiuta esaminando direttamente il fumus boni iuris e il periculum in mora in relazione al ricorso di primo grado valutato sinteticamente e complessivamente … a prescindere da una analitica riproposizione di tutti i motivi mediante memoria ai sensi dell’art. 101 comma 2 c.p.a”.
Nel ragionamento del giudice siciliano, l’ultimo aspetto è peraltro decisivo ai fini della reiezione dell’istanza di superamento dei limiti dimensionali, essendo la stessa per l’appunto motivata dall’asserita necessità di riproporre motivi non esaminati dall’ordinanza cautelare. Eppure, come chiarisce il decreto, “l’onere di riproposizione espressa di domande ed eccezioni di primo grado, da parte dell’appellato vittorioso in primo grado, ai sensi dell’art. 101 comma 2 c.p.a. riguarda il solo caso di appello su sentenza e non si estende al caso di appello su ordinanza cautelare, dove, proseguendo il giudizio in primo grado, nessuna decadenza consegue alla omessa riproposizione in appello con memoria di tutti i motivi del primo grado”.
La motivazione addotta nella decisione consente peraltro di inquadrare il potere di valutazione in concreto esercitato, in questa vicenda processuale, nel solco descritto dal più volte richiamato decreto sinteticità. Dalla lettura del testo emerge infatti un sistema di autorizzazione che fa perno sull’ampio potere del decisore “chiamato sia a valutare la sussistenza dei presupposti derogatori, sia a quantificare lo spazio aggiuntivo che può essere concesso per l’estrinsecazione dell’attività difensiva”[18].
Tale ambito di valutazione incontra nell’articolo 5 del decreto un vasto catalogo di parametri cui il giudice possa attingere ai fini della scelta autorizzatoria[19]. Un catalogo la cui valenza è espressamente definita come esemplificativa e nel quale, in ogni caso, si colloca quel riferimento alla “esigenza di riproposizione di motivi dichiarati assorbiti ovvero di domande od eccezioni non esaminate” che trova eco nella decisione in commento e che offre prova del margine di responsabilità sotteso alle decisioni assunte nell’ambito dei riferiti procedimenti di autorizzazione al superamento dei limiti dimensionali, nei quali il canone di sinteticità postula evidentemente la continua e costante ricerca di un punto di equilibrio con le prioritarie esigenze del diritto di difesa[20].
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[1] F. Francario, Principio di sinteticità e processo amministrativo. Il superamento dei limiti dimensionali dell’atto di parte, in Diritto processuale amministrativo, 2018, 1, 133.
[2] Allegato 1 al d.lgs. 2 luglio 2012 n. 104.
[3] G. Ferrari, Sinteticità degli atti nel giudizio amministrativo, in Libro dell’anno del Diritto www.treccani.it, 2013, che rinvia a C.G.A.R.S. 19 aprile 2012, n. 395 e Cass., S.U., 11 aprile 2012, n. 5698.
[4] Dapprima l’art. 40, comma 1, lett. A), del d.l. 24 giugno 2014, n. 90 a modifica dell’art. 120, comma 6 del c.p.a.; successivamente l’articolo 7-bis del d.l. 31 agosto 2016, n. 168 (convertito, con modificazioni, dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197), che ha abrogato il riferito comma 6 dell’art. 120 del c.p.a, introducendo a sua volta l’art. 13-ter nell’allegato 2 del c.p.a.. Tale ultima disposizione stabilisce quanto segue: 1. Al fine di consentire lo spedito svolgimento del giudizio in coerenza con i princìpi di sinteticità e chiarezza di cui all'articolo 3, comma 2, del codice, le parti redigono il ricorso e gli altri atti difensivi secondo i criteri e nei limiti dimensionali stabiliti con decreto del presidente del Consiglio di Stato, da adottare entro il 31 dicembre 2016, sentiti il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, il Consiglio nazionale forense e l'Avvocato generale dello Stato, nonché le associazioni di categoria degli avvocati amministrativisti. 2. Nella fissazione dei limiti dimensionali del ricorso e degli atti difensivi si tiene conto del valore effettivo della controversia, della sua natura tecnica e del valore dei diversi interessi sostanzialmente perseguiti dalle parti. Dai suddetti limiti sono escluse le intestazioni e le altre indicazioni formali dell'atto. 3. Con il decreto di cui al comma 1 sono stabiliti i casi per i quali, per specifiche ragioni, può essere consentito superare i relativi limiti. 4. Il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, anche mediante audizione degli organi e delle associazioni di cui al comma 1, effettua un monitoraggio annuale al fine di verificare l'impatto e lo stato di attuazione del decreto di cui al comma 1 e di formulare eventuali proposte di modifica. Il decreto è soggetto ad aggiornamento con cadenza almeno biennale, con il medesimo procedimento di cui al comma 1. 5. Il giudice è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti. L'omesso esame delle questioni contenute nelle pagine successive al limite massimo non è motivo di impugnazione”.
[5] modificato dal decreto n. 127 del 16 ottobre 2017. La fonte attualmente in vigore, a sua volta, ha sostituito il previo decreto n. 40 del 25 maggio 2015, adottato in attuazione dell’articolo 120 del c.p.a., per come formulato anteriormente alla riferita riforma del 2016.
[6] Come sottolinea F. Francario, Principio di sinteticità e processo amministrativo, cit., 161: “Ciò che si deve evitare è di contrabbandare la regola della brevità come una declinazione necessaria del principio di sinteticità; il quale … non può ridursi al mero rispetto di un limite numerico di pagine, spazi e battute, ma fa necessariamente riferimento alla (giusta) proporzione tra questioni da trattare e le argomentazioni selezionate a tal fine”.
[7] Cons. Stato, sez. V, 11 giugno 2013, n. 6002, in Giurisprudenza italiana, 2014, 148, con nota di A. Giusti, Principio di sinteticità e abuso del processo amministrativo.
[8] T.A.R. Lombardia – Milano, sez. II, 4 giugno 2019, n.1279: “il dovere di sinteticità sancito dall’art. 3, comma 2, c.p.a., strumentalmente connesso al principio della ragionevole durata del processo, è a sua volta corollario del giusto processo, ed assume esso una valenza peculiare nel giudizio amministrativo caratterizzato dal rilievo dell’interesse pubblico in occasione del controllo sull’esercizio della funzione pubblica; tale impostazione è conforme alla considerazione della giurisdizione come risorsa a disposizione della collettività, che proprio per tale ragione deve essere impiegata in misura razionale, sì da preservare la possibilità di consentirne l’utilizzo anche alle parti nelle altre cause pendenti e agli utenti che in futuro indirizzeranno le loro controversie alla cognizione del giudice statale. La violazione di tale dovere, se, da un lato, non si traduce in inammissibilità del ricorso, dall’altro, incide, certamente, sulla regolazione delle spese di giudizio”.
[9] T.A.R. Calabria - Catanzaro, sez. II, 8 luglio 2020, n. 1249, in Il Foro Amministrativo, 2020, 7-8, 1564.
[10] Singolare in questi termini la posizione di C.G.A.R.S, 15 settembre 2014, n. 536: “in presenza di un atto d’appello di centoventisette pagine (con circa ventotto/trenta righi per pagina), palesemente non proporzionato al livello di complessità della causa e con evidente abuso della funzione c.d. “copia e incolla”, alla luce del principio di chiarezza e sinteticità degli atti sancito dagli art. 3 e 26 c. proc. amm., l’appellante dovrà depositare, almeno quaranta giorni prima dell’udienza fissata per la decisione del merito della causa, una memoria riepilogativa orientativamente di non oltre venti pagine per un massimo di venticinque righi per pagina, su formato A4, facilmente leggibile e redatta solo su una faccia della pagina (recto e non recto verso), con testo scritto in caratteri di tipo corrente con interlinee e margini adeguati”.
[11] Cons. Stato, sez. IV, 1 dicembre 2020, n.7622.
[12] F. Francario, Principio di sinteticità e processo amministrativo, cit., 163.
[13] C.E. Gallo, La discussione scritta della causa nel processo amministrativo, in www.giustiziainsieme.it, 2020.
[14] C.E. Gallo, La discussione scritta, cit.
[15] C.E. Gallo, La discussione scritta, cit.
[16] C.E. Gallo, La discussione scritta, cit.
[17] 70.000 caratteri con esclusione di epigrafe, conclusioni e sintesi dei motivi, come chiarisce il decreto.
[18] M. Nunziata, La sinteticità degli atti processuali di parte nel processo amministrativo: fra valore retorico e regola processuale, in Diritto processuale amministrativo, 2015, 1327.
[19] Si legge nell’articolo 5: “con il decreto di cui all’art. 6 possono essere autorizzati limiti dimensionali non superiori, nel massimo, a caratteri 50.000 (corrispondenti a circa 25 pagine nel formato di cui all’art. 8), e 100.000 (corrispondenti a circa 50 pagine nel formato di cui all’art. 8), per gli atti indicati all’art. 3, comma 1, e rispettivamente nei riti di cui all’art. 3, comma 1, lettere a) e b) e a caratteri 16.000 (corrispondenti a circa 8 pagine nel formato di cui all’art. 8) e 30.000 (corrispondenti a circa 15 pagine nel formato di cui all’art. 8), per gli atti indicati all’art. 3, commi 2 e 3, e rispettivamente nei riti di cui all’art. 3, comma 1, lettere a) e b), qualora la controversia presenti questioni tecniche, giuridiche o di fatto particolarmente complesse ovvero attenga ad interessi sostanziali perseguiti di particolare rilievo anche economico, politico e sociale, o alla tutela di diritti civili, sociali e politici; a tal fine vengono valutati, esemplificativamente, il valore della causa, ove comunque non inferiore a 50 milioni di euro nel rito appalti, determinato secondo i criteri relativi al contributo unificato; il numero e l'ampiezza degli atti e provvedimenti effettivamente impugnati, la dimensione della sentenza gravata, l'esigenza di riproposizione di motivi dichiarati assorbiti ovvero di domande od eccezioni non esaminate, la necessità di dedurre distintamente motivi rescindenti e motivi rescissori, l'avvenuto riconoscimento della presenza dei presupposti di cui al presente articolo nel precedente grado del giudizio, la rilevanza della controversia in relazione allo stato economico dell'impresa; l'attinenza della causa, nel rito appalti, a taluna delle opere di cui all'art. 125 del codice del processo amministrativo”.
[20] A. Cassatella, L’inammissibilità dell’appello manifestamente prolisso, in Giornale di diritto amministrativo, 2017, 2, 241, sottolinea “un’intima contraddizione fra il riconoscimento costituzionale del diritto di difesa ed il contingentamento degli atti difensivi”. Analoghi accenti critici anche in E. Barbieri, L’abuso del “copia ed incolla” nel ricorso giurisdizionale amministrativo, in Rivista di diritto processuale, 2016, 1570.
Il fine vita e il legislatore pensante
4. Il punto di vista dei civilisti
Considerazioni di Gilda Ferrando, Teresa Pasquino e Stefano Troiano
Introduzione di Mirzia Bianca
[v. Il fine vita e il legislatore pensante. Editoriale - Il fine vita e il legislatore pensante. 1. Il punto di vista dei penalisti (di Vincenzo Militello, Beatrice Magro e Stefano Canestrari) - Il fine vita e il legislatore pensante. 2. Il punto di vista dei comparatisti - Parte I (di Mario Serio, Giuseppe Giaimo, Rosario Petruso e Rosalba Potenzano) - Il fine vita e il legislatore pensante. 2. Il punto di vista dei comparatisti - Parte II (di Mario Serio, Nicoletta Patti e Giancarlo Geraci) - Il fine vita e il legislatore pensante. 3. Il punto di vista dei filosofi del diritto (di Angelo Costanzo, Lorenzo d'Avack, Salvatore Amato, Carla Faralli)]
Introduzione
Mirzia Bianca
L'iniziativa di Giustizia insieme, volta a raccogliere il coro delle posizioni della dottrina di varie estrazioni disciplinari, indica, in temi delicati come quello del fine vita, un percorso metodologico di dialogo con il legislatore che restituisce all'interprete una funzione attiva nella costruzione di un diritto più giusto, perchè modellato sui diritti fondamentali dell'uomo, fine ultimo dell'ordinamento. Nella consapevolezza della indispensabilità di una visione interdisciplinare di insieme, il gruppo dei civilisti che ho avuto il piacere di coordinare, ha cercato di evidenziare i punti nevralgici di un dibattito che faticosamente cerca di trovare un equilibrio tra il valore supremo della vita umana e il valore della dignità e dell'autodeterminazione. In questo che sembra essere un ossimoro assiologico, le domande del gruppo dei civilisti riguardano sia questioni di metodo, come quella relativa a se e come immaginare un futuro intervento del legislatore, fuori o entro il perimetro indicato dalla Corte costituzionale nella decisione n. 242 del 2019, sia questioni di contenuto, di più sicuro interesse civilistico, come quelle relative alle condizioni e alla individuazione dei soggetti che potrebbero essere abilitati dal legislatore ad esprimere il consenso, nonché il contenuto e la forma che deve rivestire tale consenso. In particolare si è posto il problema, alla luce del principio di uguaglianza e di ragionevolezza, della estensione ai malati oncologici e ai soggetti non autonomi, ipotesi quest'ultima che porterebbe a sconfinare nella fattispecie penalistica dell'omicidio del consenziente. Uno spazio particolare è stato riservato al problema del consenso del soggetto minore di età. Altro spazio è stato dedicato ad individuare soggetti e procedure che possano rendere effettiva questa scelta, anche nel caso di obiezione di coscienza del medico. La risposta a questi quesiti individua due possibili strade da percorrere: una prima scelta minimalista che si limita a tradurre in norma la soluzione indicata dalla Corte costituzionale per il caso Cappato. Una soluzione più ampia che, partendo dal caso Cappato, cerchi di individuare le linee di confine di una eccezionale ipotesi di interruzione della vita umana. L'individuazione dei paletti e quindi della distinzione tra un suicidio assistito medicalizzato, dettato dalla situazione di intollerabilità della sofferenza e della irreversibilità della malattia e scelte eutanasiche è la sfida che si pone all'interprete in una scelta che è doveroso includere tra quelle “tragiche”.
Il gruppo è composto da:
Professoressa Gilda Ferrando, già Professore Ordinario di Diritto Privato, presso l'Università degli Studi di Genova, esperta da tempo di diritto delle persone vulnerabili e autrice di un recente commento alla decisione della Corte costituzionale
Professoressa Teresa Pasquino, Professore Ordinario di Diritto Privato presso l'Università degli Studi di Trento, che al tema del fine vita ha dedicato vari scritti, tra cui un'opera monografica.
Professore Stefano Troiano, Ordinario di Diritto Privato e Direttore del Dipartimento di Scienze giuridiche dell'Università degli Studi di Verona, esperto dei diritti della persona e del tema della vulnerabilità.
Gilda Ferrando circoscrive l'intervento del legislatore ad una legge ad hoc la quale, sempre nel rispetto del dettato costituzionale, dovrebbe avere un perimetro più ampio di quello indicato dalla Corte Costituzionale nella decisione n. 242 del 2019, ma entro i limiti di una situazione medicalizzata. In particolare Gilda Ferrando propone di estendere la fattispecie del suicidio assistito anche ai malati oncologici e ai malati che non siano in grado autonomamente di attivare una procedura di interruzione della vita, sottolineando che quest'ultima ipotesi dovrebbe essere inquadrata nell'ambito della fattispecie dell'omicidio del consenziente. Sul consenso, Gilda Ferrando rileva che il problema non attiene tanto alla forma ma alla natura dell'atto del consenso. Sul presupposto della considerazione di questa scelta quale una scelta personalissima che non può essere delegata ad altre persone, si è evidenziato il profilo di libertà e di revocabilità del consenso, circoscrivendo l'intervento di soggetti terzi, soprattutto dei comitati etici territoriali, i quali allo stato attuale sarebbero privi di una competenza specifica. In un'ottica volta ad evitare la burocratizzazione della procedura, Gilda Ferrando propone che la richiesta possa essere rivolta anche al medico di fiducia, sia in forma scritta che nella forma videoregistrata e inserita poi nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico. Medesima soluzione personalistica è stata prospettata per il soggetto minore di età, restringendo le ipotesi di intervento da parte dei genitori o da parte di rappresentanti legali. Inoltre, alla tradizionale regola della maggiore età si è scelta la più moderna regola della consapevolezza e della capacità di discernimento. Si propone che i medici coinvolti in questa delicata procedura non siano unicamente quelli di una struttura pubblica, ma anche di una struttura privata, come hospices e anche il medico di fiducia. Alla classe medica è stato riservato esclusivamente il ruolo di stabilire le condizioni soggettive ed oggettive per dar corso alla volontà del paziente, attraverso una commissione interdisciplinare.
Teresa Pasquino circoscrive l'intervento del legislatore ad una legge ad hoc che si coordini con la legge n. 219 del 2017 sulle Dat e sul consenso informato, pur mantenendo una sua autonomia. Il suo perimetro dovrebbe essere più ampio delle ipotesi indicate dalla Corte costituzionale nella citata decisione ma circoscritto alla situazione di patologia medicalizzata, ivi compresa l'ipotesi di soggetto affetto da malattia irreversibile e incapace di attivare personalmente la procedura di interruzione della vita, ipotesi non più inquadrabile nell'ambito del suicidio assistito ma dell'omicidio del consenziente. Per la procedura di prestazione del consenso, Teresa Pasquino assegna alla classe medica un ruolo importante di supporto della volontà, ma limitatamente ai medici appartenenti ad una struttura pubblica, sia al fine di evitare situazioni di abuso, sia al fine di consentire un trattamento uniforme in tutto il territorio nazionale. Ai familiari viene attribuito una ruolo meramente consultivo. Ai comitati etici territoriali si guarda con un certo scetticismo. Quanto alla forma del consenso, si suggerisce di adottare la forma dell'atto pubblico o della scrittura privata autenticata, secondo quanto previsto dalla legge n. 219 del 2017 sulle Dat e il consenso informato, ferma restando la garanzia della revocabilità fino all'ultimo istante dell'avvio della procedura. Con riferimento ai soggetti minori, al tradizionale concetto della capacità di agire si preferisce il moderno concetto di capacità di discernimento, prevedendosi, in caso di mancanza di discernimento, un intervento dei genitori in qualità di rappresentanti legali, e in caso di confitto, l'intervento del giudice. Si propone una regolamentazione dell'obiezione di coscienza sul modello della legge sull'aborto. Alle cure palliative si affida una particolare funzione di garanzia di cura affidata ai medici, al fine di prevenire la scelta di interrompere la vita.
Stefano Troiano propone un intervento del legislatore attraverso una legge ad hoc la quale dovrebbe avere un perimetro più ampio di quello indicato dalla già citata decisione della Corte costituzionale ma circoscritto alle situazioni di patologia irreversibile medicalizzata, includendovi, in conformità al principio di uguaglianza e di ragionevolezza, sia i malati oncologici che i malati che, a causa di una patologia, non sono più autonomi e non possono provvedere personalmente alla interruzione della vita. Particolarmente interessante è l'indicazione di scegliere un lessico che eviti la parola “eutanasia”, proprio al fine di evidenziare la delimitazione dell'intervento del legislatore. La scelta di una legge ad hoc, anziché un'opera di intervento e di modifica della legge n. 219 del 2017, che astrattamente sarebbe più idonea a collocare la fattispecie nell'ambito della della relazione medico-paziente, viene giustificata dall'esigenza di non sovrapporre l'ipotesi del suicidio medicalizzato, volto ad accelerare il processo letale in caso di malattia irreversibile rispetto al rifiuto di trattamenti di supporto vitale, volto ad assecondare il processo naturale della malattia terminale secondo dignità, ipotesi regolata dalla legge n. 219 del 2017. Per le stesse ragioni, Stefano Troiano ritiene che l'ipotesi del suicidio assistito non possa essere oggetto di DAT, data la rilevata distinzione tra le due fattispecie e la necessità che il consenso al primo sia attuale, rinnovato e sempre revocabile. Con riferimento al contenuto e alla forma del consenso, proprio in ragione della delicatezza della scelta e della solitudine di chi deve prenderla, si evidenzia la necessità di attuare una procedimentalizzazione che coinvolga un'équipe di medici e di psicologi che possa controllare i presupposti e verificare la libertà e l'attualità del consenso, proponendo che il consenso sia nuovamente rinnovato in prossimità dell'interruzione della vita. Con riferimento al soggetto minore di età, viene rilevata l'inadeguatezza di coinvolgerlo in una scelta che presuppone la consapevolezza della morte e che quindi non è comparabile ad altre scelte che riguardano la sua crescita. La scelta di non coinvolgere il minore viene confermata dall'esperienza comparatistica e in particolare dalle recenti leggi spagnola e portoghese. Quanto all'intervento di soggetti terzi, pur rilevando l'incompetenza attuale dei comitati etici territoriali, si segnala l'esperienza virtuosa di alcuni Comuni e la sfida per estenderla in tutto il territorio nazionale.
1. Si reputa necessario un intervento del legislatore e in quale forma? Una legge ad hoc o una modifica della legge n. 219 del 2017 sul consenso informato e le DAT?
Prof.ssa Gilda Ferrando
L’intervento del legislatore sul tema del fine vita costituisce un atto dovuto in risposta alle richieste che la Corte costituzionale gli ha rivolto sia nell’ordinanza 207/2018, sia nella sentenza 242/2019. Quest’ultima si chiude ribadendo “con vigore l’auspicio che la materia formi oggetto di sollecita e compiuta disciplina da parte del legislatore conformemente ai principi precedentemente enunciati”. Quindi, sì: reputo necessario l’intervento del legislatore.
Le considerazioni svolte nel rispondere alla prima domanda rendono più agevole individuare i modi di tale intervento.
Intanto dobbiamo escludere che sia sufficiente una modifica degli artt. 579, 580 c.p., perché il legislatore non può limitarsi a escludere la punibilità di un certo tipo di condotta ma deve disciplinare le condizioni che giustificano l’aiuto prestato dal medico e la procedura da seguire. Questo non esclude che una modifica del codice penale possa essere necessaria. Ad esempio, per distinguere l’aiuto al suicidio dall’istigazione, o per chiarire che in ogni caso non costituisce aiuto al suicidio una condotta “neutra”, che non abbia concorso direttamente a provocare la morte.
Poiché la fattispecie che stiamo considerando non corrisponde al suicidio vero e proprio e all’aiuto al suicidio tradizionale, mi pare opportuno sottolineare questa differenza anche con l’uso di una terminologia appropriata, esigenza avvertita dalla stessa Corte costituzionale quando fa riferimento alla “decisione di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri” o di “modalità di congedarsi dalla vita”. La questione su cui il Parlamento è chiamato a legiferare è infatti quella dell’“Aiuto medico a morire”. Potrebbe essere questo il titolo della nuova legge, in analogia con la “Legge sulla morte medicalmente assistita” di recente approvata dal Parlamento portoghese (e in attesa di essere promulgata).
Ritengo preferibile una nuova legge piuttosto che una modifica della legge n. 219/2017. Si tratterebbe, infatti, di una legge che disciplina un aspetto della relazione medico-paziente distinto rispetto a quelli considerati dal legislatore del 2017, riguardo al quale sussistono specifiche esigenze di protezione del malato (e più in generale dei soggetti deboli), e quindi occorre individuare specifiche condizioni oggettive e soggettive e specifiche procedure di verifica della loro esistenza. La legge 219 volutamente non contempla l’assistenza del medico al morire, né nella forma dell’eutanasia vera e propria né in quella dell’aiuto a porre termine alla propria vita. Con la legge attesa, il legislatore, sollecitato dalla Corte costituzionale, fa un passo ulteriore prevedendo una specifica disciplina. Anche la disciplina delle cure palliative (l. n. 38/2010), è autonoma rispetto alla l. 219, per quanto ispirata ad analoghi principi. Avremo dunque una costellazione di leggi distinte ma coordinate tra di loro e tutte ispirate ai medesimi principi costituzionali.
Dal punto di vista operativo, poi, la presentazione di una legge autonoma eviterebbe il pericolo di rimettere in discussione la l. 219, limitandone la portata (come fa, ad esempio, la proposta Pagano a proposito di nutrizione e idratazione artificiali). Senza contare che si finirebbe in tal modo per dilatare di molto i tempi della discussione parlamentare.
In definitiva sarei favorevole ad una legge ad hoc, avente come oggetto l’aiuto medico a morire.
Prof.ssa Teresa Pasquino
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 242 del 22 novembre 2019, ha dovuto ovviare al mancato accoglimento da parte del Legislatore dell’invito a provvedere nella materia del c.d. aiuto a morire, invito già presente, peraltro, anche nell’ordinanza della Consulta n. 207 del 16 novembre 2018.
Com’è noto, con la sentenza sopra citata la Consulta, dichiarando la parziale incostituzionalità dell’art. 580 c.p. nella parte in cui «non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione –, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente», ha esplicitamente suggerito i parametri entro i quali Legislatore dovrà muoversi per evitare che una materia così delicata come quella dell’aiuto a morire venga disciplinata senza la giusta ponderazione di tutti i principi fondamentali coinvolti, primo fra tutti quello della dignità della persona.
Conviene subito mettere in evidenza che un intervento normativo che si limitasse solo a circoscrivere l’area applicativa dei reati di cui all’art. 580 c.p., introducendo in esso una causa di non punibilità, lascerebbe la materia per molti aspetti affidata ad una “terra di nessuno”, priva di regole e norme di legge; una materia dove il contemperamento di interessi essenziali, tutti connessi alla vita delle persone, verrebbe a pesare esclusivamente sull’attività di valutazione dei giudici e sarebbe amministrata solo sulla base delle norme di deontologia professionale.
Sarebbe, invece, preferibile elaborare una disciplina speciale ad hoc che contempli in tutte le sue variegate sfaccettature il delicato fenomeno dell’aiuto a morire, mantenendo integri sia il contenuto dell’attuale art. 580 c.p. per le fattispecie diverse da quella giunta all’attenzione della Consulta, sia l’impianto complessivo della legge n. 219 del 22 dicembre 2017, dettata in materia di consenso informato ai trattamenti sanitari e di decisioni anticipate sui trattamenti, in cui si era ipotizzato come auspicabile un intervento anche dalla stessa Corte costituzionale. E’ presente, infatti, nella l. n. 219 del 2017 il principio per cui, per il combinato disposto degli artt. 1 e 2, il paziente ha il diritto al pieno rispetto della sua dignità nella fase finale della sua vita, diritto cui corrisponde il dovere del medico di garantirgli tutte le terapie adeguate ad alleviare le sue sofferenze.
E, tuttavia, un tale intervento potrebbe essere alquanto rischioso dal momento che potrebbe, da un lato, indebolire l’impianto generale della legge n. 219 del 2017 - la quale deve, invece, essere in toto salvaguardata essendo essa la sede in cui è stato sancito e ben disciplinato il diritto all’autodeterminazione del paziente sui trattamenti sanitari in generale, persino su quei trattamenti di sostentamento vitale quali l’idratazione e la nutrizione artificiali - e, dall’altro, creare una commistione tra trattamenti diversi, tutti compatibili con la fase del fine vita ma diversi l’uno dall’altro (ad es. sedazione palliativa, da una parte e suicidio medicalmente assistito o eutanasia, dall’altra).
Dovrebbe trattarsi, in buona sostanza, di una legge interamente dedicata alla materia dell’aiuto medico a morire, fondata sul già esistente inquadramento nel sistema del tema de quo nel contesto del concetto di “tempo di cura”, ormai recepito come contenuto essenziale del rapporto medico-paziente inteso come
“alleanza terapeutica”. Una novella disciplina che, lasciando la l. n. 219 del 2017 totalmente integra nel suo impianto, fosse coordinata ed integrata con essa, prendendola come punto di riferimento e sede privilegiata del giusto contemperamento tra il principio di autodeterminazione del paziente e il ruolo del medico quale garante in alleanza terapeutica e specificando le necessarie differenziazioni tra le speciali fattispecie che si possono concepire come aiuto medico a morire.
Il coordinamento della novella sarebbe, altresì necessario anche con la disciplina penalistica, laddove la tipicità delle fattispecie è imposta dal sistema e dove le norme di cui agli artt. 579 e 580 andrebbero opportunamente adeguate con la contemplazione di un sostanziale esonero da responsabilità di chi supporta il malato nel processo medicalizzato della morte.
Prof. Stefano Troiano
L’intervento del legislatore in questa materia non soltanto è necessario ma è anche non ulteriormente procrastinabile. Già con l’ord. n. 207 del 2018 la Corte costituzionale aveva formulato un invito al legislatore a regolare la materia in conformità alle esigenze di tutela dalla stessa individuate, fissando una nuova discussione delle questioni ad una successiva udienza proprio al fine di consentirgli di assumere le necessarie decisioni rimesse alla sua discrezionalità. Con la sent. n. 242 del 2019 la Corte, preso atto della mancata sopravvenienza di una legge regolatrice (essendo rimasti privi di seguito i numerosi d.d.l. presentati in argomento), si è risolta per un intervento teso a “ricavare dalle coordinate del sistema vigente i criteri di riempimento costituzionalmente necessari, ancorché non a contenuto costituzionalmente vincolato”, e quindi delineando essa stessa i tratti essenziali di una disciplina immediatamente applicabile. Anche la sentenza si conclude, però con una pressante sollecitazione al legislatore, al quale si rinnova “con vigore” l’invito a regolamentare la materia provvedendo ad una “sollecita e compiuta disciplina”, esercitando la propria discrezionalità conformemente ai principi enunciati dalla Corte.
Questo invito non può essere disatteso.
È indubbio, infatti, che i principi e le regole enunciati in termini generali dalla Corte, pur immediatamente applicabili, esigono una risposta del legislatore, che deve offrire il quadro normativo analitico indispensabile a dare certezza nell’applicazione di una materia altamente sensibile, che investe diritti personalissimi. L’assenza di un intervento legislativo perpetuerebbe le non trascurabili incertezze applicative che si nascondono nella trama a maglie molto larghe intessuta dalla Corte e rischierebbe di lasciare in tutto o in parte privo di tutela il diritto fondamentale così enucleato. Vi sono, infatti, alcuni aspetti specifici dell’aiuto a morire, come la previsione analitica dei requisiti di accesso, i ruoli di medici e strutture sanitarie nella procedura e i tempi della stessa, i confini dell’obiezione di coscienza, che lasciano numerose aree d’ombra, le quali non possono essere lasciate prive di regolamentazione. Solo il legislatore può inoltre valutare appieno l’inserimento armonico di una disciplina dell’aiuto a morire nel sistema, verificandone l’esatto ambito di applicazione e ponderandone l’opportunità di estensione a fattispecie analoghe, in ossequio ai principi di eguaglianza e di ragionevolezza, nonché individuando le norme applicabili ai fatti pregressi rispetto all’entrata in vigore della legge.
Da queste premesse discende anche che l’intervento del legislatore, oltre che necessario, non potrà essere minimale, ma dovrà avere un’ampiezza di dettaglio tale da rimuovere ogni possibile “zona grigia”. Insufficiente sarebbe, in particolare, un intervento limitato soltanto all’introduzione, nell’art. 580 c.p., di una specifica causa di non punibilità, in linea con quanto stabilito al riguardo dalla Corte costituzionale.
Ferma la necessità di un intervento non minimale, le modalità concrete di questo rientrano, però, nella discrezionalità del legislatore, al quale si aprono due strade: l’inserimento della disciplina relativa all’aiuto a morire nel contesto di una legge già esistente oppure l’approvazione di una legge ad hoc, esclusivamente dedicata all’aiuto a morire.
Con riguardo alla prima ipotesi, la principale candidata è la legge n. 219 del 2017. Si tratterebbe di una soluzione coerente con l’impianto motivazionale della pronuncia della Corte, la quale, al fine di affermare un diritto fondamentale del malato terminale a ricevere assistenza nel realizzare il proposito di anticipare la morte per garantire che essa avvenga con dignità, ha individuato proprio nella legge n. 219 del 2017 il “punto di riferimento già presente nel sistema” utilizzabile al fine di colmare il vuoto legislativo, nelle more dell’intervento del Parlamento. La Corte ha infatti tratto principalmente argomento dal diritto sancito nella l. n. 219 del 2017 a rifiutare il consenso al trattamento sanitario, ancorché necessario alla sopravvivenza del paziente (v. art. 1, comma 5, che espressamente considera quali trattamenti sanitari rifiutabili anche la nutrizione artificiale e l'idratazione artificiale). Il successivo art. 2 menziona, d’altronde, in modo espresso il diritto del paziente alla “dignità nella fase finale della vita”, collegandolo alla alleviazione delle sofferenze, e ponendo a carico del medico il dovere di adoperarsi in tal senso, garantendo “un’appropriata terapia del dolore, con il coinvolgimento del medico di medicina generale e l'erogazione delle cure palliative di cui alla legge 15 marzo 2010, n. 38”.
L’inserimento della nuova disciplina nella legge n. 219 del 2017 sarebbe, inoltre, coerente con la finalità della nuova normativa, in quanto porterebbe a collocare la fattispecie nel contesto della disciplina della relazione medico-paziente, evidenziando come anche l’aiuto al morire possa concepirsi solo nel quadro delle regole generali che governano i trattamenti sanitari (e il relativo consenso), nel contesto della c.d. alleanza medico-paziente e con le garanzie proprie di un procedimento medicalizzato, in cui il medico, ai sensi dell’art. 1, comma 5, l. n. 219 del 2017, deve, “qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza”, prospettare “al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove[re] ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica”. Questi aspetti erano, peraltro, evidenziati già nell’ord. n. 207 del 2018, lì dove si evocava espressamente (in luogo di “una mera modifica della disposizione penale di cui all’art. 580 cod. pen.”) l’ipotesi di inserire “la disciplina stessa nel contesto della legge n. 219 del 2017 e del suo spirito, in modo da inscrivere anche questa opzione nel quadro della “relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico”, opportunamente valorizzata dall’art. 1 della legge medesima”.
La soluzione della novellazione della legge n. 219 del 2017, pur coerente con le sollecitazioni della Corte costituzionale e senz’altro legittimamente percorribile dal legislatore (si tratta, peraltro, dell’opzione preferita da ben tre delle sei proposte di legge attualmente in discussione in Parlamento; si tratta, in particolare, dei d.d.l. C. 1586 Cecconi, C. 1655 Rostan e C. 1888 Pagano), non è, però, priva di insidie.
Essa presuppone, infatti, che il legislatore sia effettivamente capace di inserire la nuova disciplina in modo armonico all’interno dell’impianto della legge n. 219 del 2017. Ciò significa, da un lato, che l’intervento non si potrebbe limitare ad aggiungere una o più disposizioni a quella legge, ma dovrebbe anche preoccuparsi di coordinare in modo coerente le nuove disposizioni con le altre, evitando contraddizioni interne o di snaturare quelle che già vi sono. È necessario, dunque, un intervento molto ben ponderato, sorvegliato e, anche, prudente, che non introduca elementi spuri né ponga nel nulla le acquisizioni contenute nella legge n. 219 del 2017 (nel complesso espressione di un intervento legislativo più che equilibrato).
Vi è, infine, un terzo aspetto da considerare, che è, però, decisivo.
Sebbene sia corretto ricostruire l’aiuto a morire come uno sviluppo ulteriore del diritto di rifiutare i trattamenti sanitari, quando i trattamenti oggetto del rifiuto si risolvano in strumenti di supporto vitale necessario, ciò non deve portare ad ignorare le differenze che intercorrono tra le due ipotesi: la prima consiste in una scelta che, al fine di garantire la dignità del fine vita, asseconda il processo naturale della malattia terminale verso il suo inevitabile esito letale, senza incidere però sui tempi del processo (che potrebbero anche essere molto lunghi); la seconda si risolve invece in una decisione che, pur rispondendo alla stessa esigenza, tronca anticipatamente questo processo, portando alla morte immediata. La natura drastica, radicale e irreversibile di questa seconda scelta impone di accompagnarne la previsione normativa ad una somma di cautele che nel primo caso non sono invece necessarie, e impone altresì di delimitarne accuratamente l’ambito di applicazione, al fine di evitare pericolose fughe in avanti in sede di interpretazione.
In particolare, mi pare opportuno che la normativa sull’aiuto a morire: delinei con grande cura, e con indicazioni precise, le fattispecie in cui tale diritto è riconosciuto, differenziandole da quelle contemplate nella legge n. 219 del 2017; di massima non includa i minori di età tra i soggetti legittimati a ricevere l’aiuto a morire o, in alternativa, preveda limiti molto stringenti al riguardo (mentre, com’è noto, la legge 219 del 2017, contempla la possibilità che il rifiuto dei trattamenti salvavita sia espresso dagli esercenti la responsabilità genitoriale, però “tenendo conto della volontà della persona minore, in relazione alla sua età e al suo grado di maturità”); dia adeguato valore all’esigenza di attualità e immediatezza del consenso dell’avente diritto, escludendo, dunque, che il relativo consenso sia prestato anticipatamente nella forma di DAT o in altra forma.
La semplice novellazione della legge n. 219 del 2017 espone, pertanto, ad un’acritica estensione del suo impianto normativo alla nuova fattispecie dell’aiuto a morire, con il rischio di annullare le differenze e creare indebite sovrapposizioni tra le due.
Per tutte queste ragioni, si ritiene preferibile l’adozione di un provvedimento dedicato, che, oltre al vantaggio della maggiore semplicità di intervento, presenta minori rischi per quanto riguarda il pericolo di alterare l’impianto normativo della l. n. 219/2017 e consente di adeguare la disciplina alle peculiarità della nuova fattispecie. La previsione di una legge ad hoc non esimerebbe in ogni caso il legislatore dalla necessità di operare un adeguato coordinamento con le norme della l. n. 219 del 2017 e, si può aggiungere, anche con quelle della precedente legge del 2010 sulla terapia del dolore e le cure palliative. È in ogni caso indispensabile che la legge incida anche sul codice penale, e in particolare sugli artt. 579 e 580 c.p., chiarendo senza equivoci la qualificazione penale delle fattispecie coperte dalla nuova legge (causa di non punibilità o esclusione dal reato) e l’assenza di conseguenze sul piano della responsabilità civile.
Si può aggiungere, a tutto questo, un quesito di tipo terminologico, riguardo a come potrà essere denominato, sul piano lessicale, l’istituto regolato (e quindi quale intitolazione dovrebbe avere una eventuale legge ad hoc in materia).
Andrebbe preferibilmente evitato il riferimento al concetto di “eutanasia” (buona morte), che, oltre ad attribuire inopportunamente alla morte (anche nel modo in cui potrebbe essere percepita nell’immaginario collettivo) una connotazione positiva, non consente di mettere in evidenza i connotati fondamentali della fattispecie che il legislatore è chiamato a regolare, e che ne evidenziano la peculiarità, ossia che si tratti di un aiuto prestato da soggetti terzi (in un contesto di assistenza sanitaria) rispetto all’esecuzione di un proposito di accelerazione del naturale esito letale, proposito liberamente e consapevolmente maturato dalla persona affetta da una malattia terminale che gli arreca gravissime e intollerabili sofferenze e che, in assenza di trattamenti sanitari di supporto vitale, lo porterebbe comunque alla morte. Per riassumere tutti questi aspetti in una formula di sintesi, ci pare più efficace il ricorso al concetto di “aiuto a morire in dignità” oppure, semplicemente, “aiuto a morire” o anche “aiuto all’anticipazione della morte” (opportunamente sottolineando, perlomeno nell’articolato, che l’aiuto avviene mediante il ricorso a procedure medicalmente assistite di anticipazione volontaria dell’esito letale di una malattia irreversibile), ovvero, in alternativa, l’uso di una terminologia simile a quella che si ritrova nella recentissima legge portoghese sulla antecipação da morte medicamente assistida [approvata a fine gennaio e in attesa di promulgazione], ossia discorrere di “anticipazione volontaria e medicalmente assistita della morte”.
2. Si reputano le condizioni indicate dalla Corte Costituzionale tassative o è possibile ipotizzare una estensione ai malati affetti da malattia irreversibile e affetti da sofferenze non sopportabili che tuttavia non rientrano nella fattispecie del caso Cappato?
Prof.ssa Gilda Ferrando
Per dare una risposta a questa domanda occorre mettere a fuoco la portata della decisione della Corte costituzionale e l’ambito di applicazione delle regole che ne risultano.La Corte d’Assise di Milano aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. “nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione … a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio”.
Contrariamente a quanto sostenuto dal remittente, la Corte “ha escluso che … l’incriminazione dell’aiuto al suicidio, ancorché non rafforzativo del proposito della vittima sia, di per sé incompatibile con la Costituzione”.
Pur ritenendo non incostituzionale l’incriminazione dell’aiuto al suicidio in quanto tale (art. 580 c.p.), la Corte ha poi individuato un’area circoscritta di non conformità costituzionale della fattispecie criminosa delimitata dalla presenza di quattro circostanze: che si tratti di una persona «(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli».
Una pronuncia meramente ablativa avrebbe, infatti, generato il pericolo di lesione di altri valori costituzionalmente protetti, lasciando «del tutto priva di disciplina legale la prestazione di aiuto materiale ai pazienti in tali condizioni, in un ambito ad altissima sensibilità etico-sociale e rispetto al quale vanno con fermezza preclusi tutti i possibili abusi».
La decisione della nostra Corte costituzionale si distingue nettamente da quella della Corte costituzionale federale tedesca 26 febbraio 2020, 2 BvR 2347/15 la quale ha dichiarato incostituzionale il § 217 del StGB che punisce la c.d. “agevolazione commerciale del suicidio”. La Corte tedesca, muovendo dal diritto costituzionale al libero sviluppo della propria personalità, ha configurato un “diritto alla morte autodeterminata” esercitabile sia per mano propria, sia con l’intervento di altri, riconoscendo un pieno diritto di autodeterminazione non sindacabile da terzi. Secondo la Corte tedesca, “la decisione autoresponsabile circa la fine della propria vita non necessita di alcun ulteriore fondamento o giustificazione” e, quindi, “non resta limitata al sussistere di condizioni di malattia grave o insanabili né a determinate fasi della vita o della malattia”. Su questi presupposti, la persona ha “anche la libertà di ricercare aiuto, per tale fine, presso terzi, come pure di recepire simile aiuto, ove sia stato offerto”.
La nostra Corte costituzionale, invece, in modo più prudente, si è mossa sul piano dell’autodeterminazione terapeutica, cioè dell’autodeterminazione del malato nella gestione del decorso della malattia. E’ solo il malato affetto da una patologia irreversibile che gli provoca sofferenze intollerabili, e sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, a poter chiedere l’aiuto a terminare la vita.
La necessità di sottrarre i casi che ricadono entro quest’area all’incriminazione prevista dall’art. 580 c.p. deriva dal fatto che si tratta di situazioni diverse da quelle considerate dal legislatore del 1930, «situazioni inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta», rese possibili «dagli sviluppi della scienza medica e della tecnologia, spesso capaci di strappare alla morte pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali». Quando la Corte parla di “modalità in cui congedarsi dalla vita” per indicare la scelta del malato di por fine alle proprie sofferenze si comprende come sia distante la “circoscritta area” individuata dalla Corte dal suicidio a cui guardava il codice penale, quello motivato, ad esempio, da ragioni economiche, affettive, esistenziali (mi tolgo la vita perché sono rovinato, ho perso la persona che amo, la mia vita è priva di significato).
Se dal punto di vista naturalistico la vita del malato si spegne in seguito all’assunzione del farmaco letale preparato dal medico, la causa effettiva della morte è la malattia, essendo ormai in moto un processo irreversibile del morire che l’assunzione del farmaco anticipa nella sua fine ma non determina nelle sue cause prime. Nella medicina tecnologica la morte sempre più raramente costituisce un evento istantaneo, e sempre più di frequente giunge al termine di un processo di cui le tecniche consentono di dilatare i tempi, e rendere indefiniti gli esiti.
Di questo dato di fatto aveva già tenuto conto il legislatore quando, nella l. n. 219/2017, aveva riconosciuto il diritto del malato di rifiutare le cure e di chiedere la sospensione o interruzione dei trattamenti che lo tengono in vita.
Con la sentenza n. 242 la Corte sviluppa ulteriormente questi principi. “Se, infatti” - fa notare la Corte - “il fondamentale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari – anche quando ciò richieda una condotta attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di terzi (quale il distacco o lo spegnimento di un macchinario, accompagnato dalla somministrazione di una sedazione profonda continua e di una terapia del dolore) – non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale”.
Viene in tal modo riconosciuto al malato un diritto costituzionale a “dire basta” che deve essere rispettato dalla legge e dalle strutture sanitarie.
La sentenza della Corte è motivata in stretta aderenza con il caso di Fabiano Antoniani e Marco Cappato. Essa si articola in due momenti, una pars destruens, con cui dichiara l’illegittimità costituzionale di una “parte ideale” dell’art. 580 c.p., e una pars construens con cui individua i criteri di liceità della condotta, necessari per evitare pericolosi vuoti normativi.
In assenza dell’intervento del legislatore invocato dall’ordinanza n. 207, nella sentenza n. 242 la Corte provvede ad elaborare condizioni e procedure “ricavando dalle coordinate del sistema vigente i criteri di riempimento costituzionalmente necessari, ancorché non a contenuto costituzionalmente vincolato, fin tanto che sulla materia non intervenga il Parlamento”.
Nella cornice dei principi costituzionali vi sono spazi di discrezionalità entro cui il Parlamento potrà esercitare i suoi poteri normativi che la Corte non intende vincolare, consapevole che la tutela delle persone in situazione di vulnerabilità “è suscettibile …di investire plurimi profili, ciascuno dei quali, a sua volta, variamente declinabile sulla base di scelte discrezionali”.
Se ne deduce quindi che: 1) criteri di riempimento sono “costituzionalmente necessari”; 2) il loro contenuto, così come individuato dalla Corte, non è “costituzionalmente vincolato”; 3) i criteri fissati dalla Corte valgono fino a quando il Parlamento non intervenga in modo eventualmente anche non coincidente con quanto stabilito in motivazione; 4) la legge, in ogni caso, deve inscriversi nel quadro dei principi costituzionali di eguaglianza, rispetto dell’autodeterminazione, diritto alla salute (artt. 2, 3,13, 32 Cost.), così come interpretati dalla giurisprudenza ed attuati dal legislatore (l. n. 219/2017).
Chiarito, dunque, che la disciplina della materia è affidata alla discrezionalità del legislatore, ritengo che in aderenza con i principi costituzionali di eguaglianza, di autodeterminazione, di solidarietà (declinata anche nel senso della “compassione”) la richiesta del malato vada accolta non solo nel caso in cui la sua sopravvivenza dipenda dall’utilizzo di dispositivi di sostegno vitale ma ogni volta in cui sia mantenuto in vita da trattamenti medici di qualsiasi tipo, anche farmacologici. Si pensi al malato oncologico terminale o ad altre situazioni, come quella in cui versava Davide Trentini, affetto da sclerosi multipla terminale che gli provocava dolori insopportabili. Proprio con riguardo a questo caso, va appena precisato che l’esito del procedimento in corso nei confronti di Marco Cappato e Mina Welby – assolti dalla Corte d’Assise di Massa con sentenza 20 luglio 2020, impugnata in appello – non è influente sulla scelta legislativa, dovendo il giudice interpretare e applicare il diritto vigente al momento della decisione ed il legislatore scrivere una nuova legge.
In secondo luogo, ritengo che il malato possa chiedere l’aiuto del medico per terminare la vita anche in quei casi, ancora più disperati, in cui non sia in grado di assumere personalmente il farmaco letale e sia il medico a dover somministrare direttamente i farmaci per porre termine alla vita del paziente. A favore di questa soluzione depone la considerazione che, in caso contrario, verrebbero esclusi dalla possibilità di porre fine a sofferenze non più tollerabili proprio i malati più gravi o sfortunati. A ciò si aggiunga il fatto che il malato terminale che non possa contare sull’aiuto eutanasico potrebbe essere indotto ad anticipare il momento della fine nel timore di arrivare ad un punto in cui venga meno la propria capacità materiale di assumere direttamente il farmaco ed in tal modo gli sia impedita quella morte dignitosa che lui desidera. Anche in questo caso si tratterebbe, per usare le parole della Corte, di una richiesta di “concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri”. E la Corte non definisce il tipo di “aiuto” necessario.
Va tenuto presente che in questi casi la condotta del medico è attualmente imputabile sulla base non dell’art. 580 c.p. (“Istigazione o aiuto al suicidio”), ma dell’art. 579 c.p. (“Omicidio del consenziente”). Con la nuova legge l’art. 579 c.p. non sarebbe più applicabile nel caso di richiesta proveniente da persona capace di determinarsi in modo libero e consapevole, affetta da patologia irreversibile, fonte di sofferenze intollerabili. Riterrei peraltro opportuno che la legge espressamente escluda la responsabilità penale e civile del medico che soddisfi la richiesta del malato.
Prof.ssa Teresa Pasquino
Con riguardo a questo argomento, occorre considerare che, per i principi fondamentali di uguaglianza e di ragionevolezza delle norme, non si potrebbe fare a meno di mettere sullo stesso piano sia le persone che, seppur malate, hanno la possibilità di realizzare in totale autonomia il processo che le conduce alla morte, sia le persone che non possono farlo autonomamente e devono ricorrere all’aiuto di terzi.
Violerebbe il principio della parità di trattamento la disciplina che escludesse talune categorie di persone che, seppure affette da malattie irreversibili e sottoposte a sofferenze insopportabili, venissero escluse da questa possibilità per il fatto di non rientrare nella fattispecie sottoposta alla Consulta, la quale – è bene ricordarlo – non si è occupata della fattispecie del c.d. omicidio del consenziente (ex art. 579 c.p.) che presuppone un aiuto da parte di un terzo al momento dell’atto finale della morte.
Naturalmente, per questi casi, la legge dovrebbe prevedere e contemplare anzitutto una nozione ben chiara e definita di “malattia irreversibile”, ovviamente, con il supporto di un comitato scientifico ad hoc; in secondo luogo, dovrebbe individuare percorsi sanitari ed assistenziali ben definiti, delineati da precise linee guida, che garantiscano un controllo ed una valutazione costanti, posto che lo stesso concetto di “malattia irreversibile” è senza dubbio per sua stessa natura in costante evoluzione, dunque, suscettibile di aprire diversi scenari magari ignoti al momento dell’assunzione della fatale decisione. A tal fine, potrebbero svolgere una funzione essenziale i luoghi in cui si somministrano le cure palliative e si gestiscono le terapie del dolore; luoghi in cui, seppure assunta la tragica decisione da parte del paziente, questi, volendo, abbia la possibilità di trascorrere buona parte del “tempo di cura”, con la somministrazione delle terapie conosciute e dedicate alla malattia che lo ha colpito, e dove, all’esito o all’andamento delle stesse, poter verificare la ineluttabilità della sua decisione in maniera più consapevole ed informata, attualizzando così costantemente la sua volontà.
Prof. Stefano Troiano
La Corte Costituzionale si è occupata unicamente del caso di persona affetta da malattia irreversibile e colpita da sofferenze non sopportabili che sia però in condizione di avviare autonomamente il processo che lo condurrà alla morte prima del tempo. È solo rispetto a questa ipotesi che si è posto il problema di individuare una condizione di non punibilità rispetto alla fattispecie di reato dell’aiuto al suicidio. L’atto ultimo che interrompe la vita è infatti, tecnicamente, compiuto dall’interessato, sebbene con l’assistenza di terzi che lo agevolano nell’attuare il suo proposito. Ove l’atto finale interruttivo del processo vitale fosse invece compiuto da un terzo, si verrebbe a configurare il reato di omicidio del consenziente (art. 579 c.p.), di cui la Corte costituzionale non si è invero occupata.
È indubbio che vi sono, però, casi in cui la stessa malattia irreversibile che affligge la persona è tale, per la sua gravità, da impedire a quest’ultima qualsiasi, anche minima, facoltà di movimento, ponendola dunque nella impossibilità fisica di portare a compimento, seppur con l’aiuto di altri, il proposito di concludere anticipatamente la propria vita.
Non sembra, tuttavia, possibile scorgere alcuna ragione che possa giustificare per questa ipotesi un trattamento diverso da quello riservato dalla Corte costituzionale all’ipotesi dalla stessa trattata. La ratio che rende non punibile l’aiuto a morire rispetto alle altre ipotesi di assistenza al suicidio – ovvero l’esigenza di tutelare il diritto fondamentale ad un fine vita degno in presenza di circostanze di fatto (la malattia irreversibile che comporta sofferenze insopportabili) che azzerano tale condizione di dignità – ricorre, infatti, in identico modo anche nella ipotesi in cui la morte anticipata della persona che si trovi in queste stesse condizioni di fatto possa essere procurata solo con la partecipazione di un terzo (il medico) al compimento dell’atto finale interruttivo. Rimane peraltro fermo che il medico interverrebbe solo al fine di attivare fisicamente il processo che porta alla morte, come mero esecutore materiale del proposito liberamente e consapevolmente maturato dal paziente.
Data l’identità di ratio, l’eventuale mancata previsione di tale causa di non punibilità nella disciplina dell’omicidio del consenziente rappresenterebbe un possibile motivo di illegittimità costituzionale, per violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza, della disposizione di cui all’art. 579 c.p. in ipotesi non riformata.
La soluzione estensiva si impone a più forte ragione se si considera che nelle ipotesi ora esemplificate il paziente si trova in una situazione ancora più grave di quella espressamente contemplata dalla Corte costituzionale, sicché sarebbe del tutto irragionevole un trattamento più severo proprio per il caso in cui il paziente evidenzia una condizione di massima vulnerabilità e sofferenza, e reclama dunque il massimo di tutela.
Oltre a quella appena indicata, vi è una seconda fattispecie a cui può essere opportuno che il legislatore estenda espressamente la tutela prevista.
L’ipotesi considerata dalla Corte costituzionale è, occorre ricordarlo, quella di persona affetta da una malattia irreversibile, che è tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale ed è esposta a sofferenze insopportabili. Nel caso di specie, si trattava di dispositivi meccanici che consentivano il mantenimento del paziente in vita (permettendone la costante idratazione ed alimentazione) e la cui disattivazione lo avrebbe inesorabilmente portato alla morte. Ciò premesso, non si vedono ostacoli ad ammettere l’estensione dell’aiuto a morire anche al caso in cui il trattamento di sostegno vitale necessario non abbia natura meccanica ma puramente farmacologica, come nel diverso caso che ha formato oggetto di attenzione in una successiva pronuncia della Corte d’Assise di Massa del 20 luglio 2020, se le altre condizioni sono comunque soddisfatte.
Altre estensioni non sembrano invece possibili né opportune.
In particolare, ritengo che non sia possibile estendere l’aiuto al morire a pazienti che siano affetti da patologie che, pur gravissime e tali da comportare sofferenze insopportabili, siano ancora reversibili, essendo evidente che la reversibilità, anche remota, della malattia impone di dare la precedenza al diritto alla vita e di esplorare ogni strada per interrompere l’incedere della patologia, lasciando semmai massimo spazio a cure palliative e a terapie dirette ad alleviare il dolore.
Il concetto di “malattia irreversibile” deve inoltre essere accuratamente delimitato dal legislatore, esplicitando ciò che nella sentenza della Corte costituzionale è tra le righe, ossia che l’aiuto a morire deve riferirsi ai soli casi di malattia il cui esito non arrestabile è la morte, che abbia quindi carattere letale e sia ad uno stadio terminale di avanzamento. La ratio della decisione della Corte non sta infatti nel consentire al paziente di morire, semplicemente per evitare gravi sofferenze, ma di accelerare e rendere immediato un processo letale che, proprio per effetto della malattia da cui il paziente è affetto, si verificherebbe comunque anche se in tempi più lunghi (una volta interrotto, beninteso, il trattamento di sostegno vitale), ridando quindi alla persona il diritto decidere il momento in cui morire con dignità. Non sembra invece opportuna l’estensione (pur prospettata in alcuni d.d.l.) dell’aiuto a morire anche ai pazienti affetti da una malattia inguaribile (e, quindi, in questo senso irreversibile) ma, di per sé, non letale; in questo caso, aiutare il paziente a morire significherebbe non già anticipare compassionevolmente un esito letale comunque riferibile alla malattia, bensì procurare la morte al solo scopo di annullare le sofferenze. Impossibile sarebbe, in questo caso, riscontrare quella continuità con il diritto di rifiutare trattamenti salvavita che costituisce la base per fondare un autonomo diritto ad essere assistito nella realizzazione del proposito di terminare in via anticipata la propria esistenza.
È semmai da chiedersi se il legislatore debba ulteriormente precisare questi presupposti, ad esempio selezionando tra i malati che versano in uno stato terminale solo quelli per i quali sia stata formulata una prognosi infausta con una proiezione temporale determinata e particolarmente breve, come si suggerisce in alcuni dei disegni di legge sin qui presentati al Parlamento (ad es., nei d.d.l. C. 1586 Cecconi e C. 1655 Rostan si richiede una prognosi infausta inferiore a diciotto mesi). Una indicazione temporale rigida rischia, tuttavia, di essere eccessivamente limitativa e dare luogo a ingiustificate disparità di trattamento rispetto a situazioni sostanzialmente assimilabili.
3. Quali sono gli attori che devono essere coinvolti nella procedura? Solo il malato che decide, il singolo medico o una equipe medica? Anche i familiari e soggetti terzi (es. comitati etici territoriali)? Quale è la forma che deve essere adottata per raccogliere la volontà del soggetto? E chi sono i soggetti legittimati a raccogliere tale volontà?
Prof.ssa Gilda Ferrando
Solo il malato può decidere di porre fine alla propria vita, trattandosi di decisione personalissima che ha a che fare con il significato ultimo dell’esistenza.
Per quanto riguarda la forma, la questione andrebbe, a mio parere impostata tenendo conto della natura del consenso. Non siamo qui in presenza di un atto a contenuto patrimoniale che trasferisce un diritto o genera un’obbligazione. Si tratta invece dell’esercizio di un diritto personalissimo, di un consenso che costituisce il perdurante sostegno della relazione terapeutica. Il problema non è la forma come requisito di validità dell’atto, è invece quello di accertare, nell’interesse del malato e del medico, che si sia formato un consenso libero, consapevole, informato, che perdura fino al termine della procedura. Il che si ottiene attraverso un procedimento appropriato e adeguatamente documentato.
La richiesta del malato dovrebbe essere rivolta al medico curante (medico di medicina generale, medico ospedaliero, medico dell’hospice o qualunque altro medico di fiducia). Come nel caso di rifiuto di trattamento medico (art., 1, c. 4, l. 219), ritengo che la richiesta vada formulata nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente e vada documentata in forma scritta, o attraverso videoregistrazione o attraverso altri strumenti che consentono alla persona disabile di comunicare. La richiesta, in qualunque forma espressa, viene inserita, a cura del medico curante che la ha ricevuta, nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico. La richiesta può essere revocata in qualsiasi momento ed in qualsiasi forma.
Il medico ha l’obbligo di dare tutte le informazioni necessarie perché il malato possa esprimere un consenso informato e consapevole, prospettandogli la prevedibile evoluzione della patologia, le conseguenze della sua scelta, le alternative possibili, con particolare riguardo alle cure palliative, fino alla sedazione terminale profonda. Può essere opportuno assegnare al malato un periodo di riflessione, decorso il quale rinnovare la richiesta. Ove richiesto dal paziente, il medico informerà anche i familiari o le altre persone di riferimento che potranno essere coinvolte nella procedura su richiesta dell’interessato.
Può essere opportuna la valutazione da parte di una commissione medica interdisciplinare, specie ove sorgano dubbi sulla determinazione della volontà. La commissione, che dovrà pronunciarsi con la sollecitudine richiesta dalla gravità delle circostanze, ha il compito di verificare - avvalendosi delle competenze degli specialisti che la compongono, in particolare un medico specialista nella patologia da cui è affetto il malato e, se occorre, un neuropsichiatra - la sussistenza di tutte le condizioni soggettive ed oggettive necessarie per dare corso alla richiesta con particolare riguardo alla libertà e consapevolezza del consenso.
Esprimo molti dubbi sull’opportunità dell’intervento di “Comitati etici” sia perché finirebbero per essere un duplicato della commissione medica interdisciplinare, sia perché al momento i Comitati etici previsti dal d.l. n. 158/2012, e relativo regolamento ministeriale, sono quelli per la sperimentazione clinica dei farmaci e dei dispositivi medici, mentre manca una compiuta disciplina dei Comitati etici per la pratica clinica istituiti in alcune Regioni ma non in tutte.
Prof.ssa Teresa Pasquino
È, questo, un profilo assai delicato ed estremamente importante.
Non vi è alcun dubbio che l’aiuto a morire debba essere concepito solo ed esclusivamente con la presenza, assistenza e supervisione di un medico, il quale deve seguire tutta la fase in cui può articolarsi il percorso decisionale : dal momento dell’assunzione della decisione da parte del paziente al momento della somministrazione del farmaco e dell’accertamento della morte.
La funzione del medico può e forse dovrebbe essere rappresentata anche da una équipe di medici, in taluni casi determinante per evitare, ad esempio, grazie alle diversificate professionalità che entrerebbero in giuoco, sofferenze psico-fisiche del paziente e per condividere la pratica attuazione della procedura di accompagnamento verso la morte con maggior garanzia del rispetto della persona.
In questo ambito della materia de qua, potrebbero comunque porsi problemi e questioni di raccordo con la disciplina generale del Servizio sanitario nazionale, dovendosi stabilire sia il luogo dove tali procedure dovrebbero attuarsi, sia a carico di chi dovrebbe cadere il costo della terapia farmacologica da somministrare.
Una questione di non poco conto è quella che pone il problema di stabilire se tali procedure possano essere eseguite a domicilio oppure debbano, invece, essere affidate a strutture pubbliche o private convenzionate. Inoltre, per rispettare la parità di trattamento e non creare situazioni diversificate sul territorio nazionale, occorrerebbe, altresì, stabilire che tali procedure dovrebbero essere assicurate in modo uniforme proprio dal Servizio sanitario pubblico.
In ordine alla prima questione, qualora si optasse nel senso di prevedere la somministrazione a domicilio dell’aiuto medico a morire, proprio per maggiore garanzia del paziente, non si potrebbe fare a meno di approntare strumenti di tutela della persona del malato per prevenire possibili abusi nel ricorso a tali pratiche. E’ la ragione per cui più consono e garantista sarebbe affidare il percorso decisionale ed operativo in seno alle strutture pubbliche o convenzionate (e in tale affermazione è contenuta anche la risposta in ordine alla necessità che le procedure venissero assicurate in modo uniforme dal Servizio sanitario pubblico); in tale direzione, ritengo che le strutture già concepite per la somministrazione delle cure palliative e delle terapie del dolore ben si presterebbero allo scopo.
Circa la partecipazione di familiari o soggetti terzi nella decisione e nell’attuazione della procedura, ferma restando che la volontà è quella del paziente capace di discernimento, tuttavia, pare possibile contemplare una loro partecipazione in funzione meramente consultiva; mentre, in ordine al coinvolgimento di comitati etici, diversi da quelli eventualmente previsti all’interno delle strutture sanitarie che si occupano delle procedure, guarderei alla loro partecipazione con un po' di scetticismo per l’eccessiva burocratizzazione della procedura che potrebbe derivarne.
Quanto alla forma che dovrebbe rivestire l’atto con cui il paziente dovesse decidere per l’aiuto medico a morire, in considerazione della rilevanza che ha una simile decisione, prenderei come riferimento quanto disposto dall’art. 4 della l. n. 219 del 2017 il quale prescrive per le DAT la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata ovvero consegnata personalmente dal disponente presso l'ufficio dello stato civile del comune di residenza del disponente medesimo, che provvede all'annotazione in apposito registro, ove istituito, oppure presso le strutture sanitarie. Deve, comunque, sempre essere garantita la possibilità di attualizzare e/o revocare la decisione in ogni momento, anche fino all’ultimo istante prima dell’avvio della procedura, e, in tal caso, senza alcun vincolo di forma.
Prof. Stefano Troiano
La delicatezza estrema della scelta del malato in questa materia e la necessità che la decisione medesima sia compiuta da persona che sia in possesso della piena capacità di discernimento in merito alle conseguenze della propria scelta, impongono di accompagnare la maturazione della decisione di ricorrere all’aiuto a morire da un massimo livello di cautele, anche sul piano procedimentale. Occorre in aggiunta considerare che il malato che si trova nelle condizioni per l’accesso all’aiuto a morire versa, di regola, in uno stato di forte solitudine, quanto meno psicologica, non avendo la possibilità fisica di condurre una normale vita di relazione. Per questa ragione, è da evitare una disciplina che accentui la solitudine del malato, lasciandolo solo nel compiere e nel realizzare l’intento di porre fine alla propria vita. È da ritenere dunque indispensabile in ogni momento l’assistenza medica, che deve accompagnare l’intero procedimento dalla fase di verifica dei presupposti al momento dell’assunzione della decisione fino a quello conclusivo di attuazione materiale della stessa.
Data la complessità della decisione, ma anche della sua realizzazione, nonché l’indefettibilità di un supporto anche psicologico, è preferibile il coinvolgimento non di un singolo medico ma di una équipe più ampia, che possa raccogliere e coordinare le esperienze di più professionisti, inclusi psicologi, e provvedere alla consultazione dei familiari più stretti.
È opportuno, inoltre, che la decisione, una volta assunta dal paziente e recepita dall’équipe medica, sia sottoposta al vaglio di una commissione che dovrebbe comprendere al suo interno anche competenze giuridiche ed etiche.
La Corte costituzionale richiama, al riguardo, la necessità del coinvolgimento dei comitati etici regionali. Si tratta di una indicazione che ha sollevato qualche legittima perplessità, posto che i comitati etici sono essenzialmente preposti, almeno fino ad oggi, alla valutazione sul piano etico delle pratiche di sperimentazione clinica, ed operano pertanto con esperienza in un ambito molto diverso da quello del controllo sulla somministrazione dell’aiuto a morire. Va tuttavia evidenziato che esistono, sul territorio nazionale, pure esperienze diverse, di Regioni e Province che hanno ampliato la competenza dei comitati etici anche nella direzione della consulenza relativa alla pratica clinica, ovvero hanno costituito appositi comitati etici dedicati esclusivamente alla pratica o all’etica clinica (ad es., Veneto, Friuli Venezia Giulia). Normalmente questi comitati comprendono al loro interno anche psicologi e giuristi. Lo stesso DM 8 febbraio 2013, che definisce i criteri per la composizione e il funzionamento dei comitati etici, prevede che i Comitati etici possano svolgere «[...] anche funzioni consultive in relazione a questioni etiche connesse con le attività scientifiche e assistenziali, allo scopo di proteggere e promuovere i valori della persona».
Una nuova disciplina dell’aiuto a morire potrebbe, dunque, costituire l’occasione per riformare i comitati etici ampliandone e consolidandone le funzioni di consulenza per la pratica e l’etica clinica.
Data la necessità di ricorrere ad un procedimento medicalizzato, assistito da idonee garanzie, la sede preferibile per la somministrazione dell’aiuto a morire dovrebbero essere le strutture del servizio sanitario nazionale, pubbliche o private convenzionate. La possibilità che queste procedure possano essere seguite a domicilio dovrebbe essere invece esclusa o vagliata con grande cautela.
Il consenso del paziente alla procedura dovrebbe essere espresso in una forma particolarmente rigorosa che consenta sia di sensibilizzare il dichiarante rispetto all’importanza dell’atto che sta compiendo sia permettere a chi la riceve o a chi successivamente dovesse controllarla di accertare senza margine di incertezza il contenuto e la serietà dell’espressione di volontà, nonché il fatto che essa sia stata preceduta dalla necessaria informazione. Ritengo che il requisito di forma debba essere più severo di quello normalmente previsto per il consenso o il rifiuto del consenso ad un trattamento sanitario (anche salvavita) dall’art. 1, comma 4, della legge n. 219 del 2017 (“Il consenso informato, acquisito nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente, è documentato in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare. Il consenso informato, in qualunque forma espresso, è inserito nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico”). I requisiti di forma prescritti, ad esempio, dal d.d.l. n. 1875 Sarli sembrano nel complesso adeguati, così come appropriate risultano essere le garanzie procedurali che questo d.d.l. introduce al fine di verificare che il consenso del paziente perduri per tutta la durata del procedimento e fino all’ultimo momento. Potrebbe, però, essere opportuno prevedere che la volontà debba essere rinnovata immediatamente prima della somministrazione dei farmaci letali.
Ferma la revocabilità in ogni momento della volontà già manifestata, è opportuno che la revoca possa essere effettuata senza alcun vincolo di forma e con ogni mezzo.
4. Quale ruolo deve essere assegnato alle sofferenze psicologiche? Sono integrative di quelle fisiche o alternative?
Prof.ssa Gilda Ferrando
Al riguardo, va ricordato che le “sofferenze fisiche o psicologiche, che (il malato) trova assolutamente intollerabili” costituiscono una delle condizioni perché possa essere richiesto l’aiuto del medico a porre termine alla vita in aggiunta (e non in sostituzione) rispetto alla esistenza di “una patologia irreversibile”.
La valutazione delle sofferenze non può che essere rimessa al soggettivo apprezzamento del malato (come lascia intendere anche la Corte quando parla di “sofferenze che” (il malato) “trova assolutamente intollerabili”).
Esiste un limite alla propria personale capacità di sopportazione del dolore, il limite oltre il quale insistere nelle cure non è più accettabile, che solo l’interessato può stabilire e riguardo la quale non mi sembra possa aver rilievo la distinzione tra sofferenze fisiche o psicologiche. Concordo con Gabriella Luccioli: “Nessuna autorità può erigersi a giudice della quantità e qualità delle sofferenze che un soggetto malato e inguaribile può essere disposto a tollerare”.
Prof.ssa Teresa Pasquino
Vi è da sottolineare sul punto che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 290 del 2019, ha espressamente qualificato le sofferenze che possono essere intollerabili per il malato, precisando che sono tali anche quelle psicologiche oltre che quelle fisiche; del resto, che lo stato psichico della persona sofferente debba ritenersi entrato a far parte del concetto di “salute” lo si era già stabilito ed accolto da tempo anche in sede giurisprudenziale.
Dal punto di vista del medico curante, non vi è dubbio che lo stesso medico sa quanto sia necessario considerare come passaggio essenziale nelle valutazioni da compiere anche lo stato psicologico del suo paziente; tanto soprattutto quando, dovendo soppesare l’efficacia di un determinato trattamento in ordine alle sofferenze patite con i risultati che si ambisce raggiungere, si dovesse rischiare di superare il limite dell’accanimento terapeutico a tutto svantaggio del paziente. In tali circostanze, le sofferenze psicologiche – che solo il paziente può misurare di fronte a sé stesso – assumono grande rilevanza al fine di decidere se accogliere la sua eventuale richiesta di interrompere il trattamento rivelatosi inefficace, refrattario e, dunque, inutile.
Diversamente, al di fuori di casi di accanimento terapeutico, la sofferenza psicologica in sé, non accompagnata da uno stato fisico intollerabile ed irreversibile, per la difficoltà di una valutazione oggettiva, stabile e immutabile, mal si presta ad essere ridotta a “malattia irreversibile”; sfugge ad una qualificazione fissa e muta col mutare dello stato d’animo del paziente. In queste condizioni, sarebbe inadeguato assecondare la richiesta di un aiuto a morire legalizzata.
Prof. Stefano Troiano
La sentenza n. 290 del 2019 della Corte costituzionale dà pari rilievo alle sofferenze fisiche e alle sofferenze psicologiche del malato, purché raggiungano la soglia della intollerabilità (soggettivamente percepita dal malato): le due tipologie di sofferenze si possono dunque cumulare tra loro, ma possono anche assumere rilievo autonomo (v. l’impiego della disgiuntiva “o”).
La soluzione è condivisibile, posto che l’incidenza della sofferenza intollerabile sulla percezione della propria dignità umana è un dato che deve comprendere la totalità della sfera personale del soggetto, inclusiva anche del profilo puramente psichico dell’esistenza.
D’altronde, entra qui in gioco anche lo spazio che deve essere riservato alle cure palliative. Alleviare il dolore arrecato dalla malattia potrebbe portare, in ipotesi, anche ad azzerare le sofferenze fisiche, ma senza incidere su quelle psicologiche, ad esempio perché queste siano legate alla stessa irreversibilità della malattia, e quindi alla certezza dell’approssimarsi della morte.
Naturalmente, non si deve confondere la natura (fisica o psichica) della sofferenza con la natura della malattia che la determina: la malattia deve essere caratterizzata dalla irreversibilità sul piano naturalistico, ossia dal fatto che si tratti di malattia che porterà inesorabilmente alla morte.
Un altro aspetto da considerare con attenzione è quanto la sofferenza, in particolare psicologica, sia in grado di incidere sulla capacità di discernimento del malato, compromettendola o azzerandola. Pur dovendosi riconoscere che una grave sofferenza psicologica è più facilmente in grado di tradursi a sua volta in una patologia psichica capace di onnubilare le facoltà di discernimento dell’interessato, sta ad una valutazione attenta del medico verificare se ciò accada in concreto.
5. Si reputa opportuno lasciare una decisione così tragica al soggetto minore di età? Quali soluzioni occorre prendere in caso di conflitto tra i genitori e in caso di conflitto tra il minore e i genitori, quali rappresentanti legali?
Prof.ssa Gilda Ferrando
Per quanto riguarda la salute, la legislazione vigente in diverse occasioni riconosce al minore autonomia nelle relative decisioni. Si pensi alle leggi sull’aborto, sulle tossicodipendenze, sui consultori che ammettono il minore ad accedere direttamente ai servizi socio-sanitari. Alla capacità di discernimento del minore viene inoltre attribuita rilevanza quando si tratta di prendere decisioni di tipo familiare (adozione, riconoscimento, ecc.). Anche la legge n. 219 all’art. 3 stabilisce obblighi di informazione nei confronti del minore la cui volontà deve essere tenuta in considerazione dai genitori, ai quali tuttavia è riservato il potere di esprimere o rifiutare il consenso al trattamento medico.
La decisione di porre termine alla vita è troppo personale perché possa essere lasciata a soggetti diversi dall’interessato (genitori o altre figure di rappresentanti legali). Personalmente ritengo che in questo campo il discrimine non debba essere tra maggiore o minore età, ma tra capacità /incapacità di discernimento. La malattia e la sofferenza spesso rendono un ragazzo molto più maturo e più adulto di chi ha superato la maggiore età senza dover affrontare nessuna difficoltà od ostacolo. E potrebbe sembrare ingiustificato privare un giovane – solo perché minore di 18 anni - della possibilità di porre fine a sofferenze che reputa intollerabili.
Ritengo perciò che la richiesta di aiuto medico a terminare la vita possa provenire anche da un minore capace di discernimento. Tale capacità deve essere accertata dalla commissione medica che deve verificare anche la libertà del consenso - per evitare influenze indebite da parte dei genitori o di terzi - e la piena consapevolezza della portata e delle conseguenze della decisione.
Ritengo tuttavia che i genitori non debbano essere esclusi dal processo decisionale privando il figlio del sostegno che sono in grado di offrirgli. In caso di contrasto può essere utile l’intervento del giudice, non tanto per decidere al posto del minore, ma per verificare, tenuto conto del parere espresso dalla commissione medica, la sussistenza delle condizioni di legge, la capacità di intendere e di volere, la libertà e consapevolezza del consenso.
Prof.ssa Teresa Pasquino
Sul punto, già con l’ordinanza n. 207 del 2018, la Corte costituzionale, aveva ribadito la centralità e l’indisponibilità del diritto alla vita, e, tra le altre circostanze che devono concorrere per il riconoscimento di un diritto a porre fine alla propria esistenza, la Consulta aveva precisato che «il soggetto agevolato si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Si tratta, infatti, di ipotesi nelle quali l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare»; e che «il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce, quindi, per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost.».
È piuttosto evidente come la mancanza di capacità, cui si riferisce la Corte, non dovrebbe avere nulla a che fare con le forme di incapacità tradizionali conosciute dal codice civile; e come essa, semmai si avvicini piuttosto al modello di capacità naturale, la quale meglio si presta ad essere declinata alla luce delle nuove esigenze di specificazione della capacità di intendere e di volere. Ciò accade già in alcuni luoghi dello stesso codice civile, dove, ad esempio, nella disciplina dettata in materia di amministrazione di sostegno si precisa che il beneficiario mantiene la sua capacità per l’esercizio dei suoi diritti personalissimi; o nei casi di risoluzione delle crisi coniugali, laddove è previsto un diritto del minore ad essere ascoltato così che il giudice possa eventualmente assumere la sua decisione anche sulla base delle dichiarazioni del minore, valutata la sua capacità di discernimento; in tutti quei casi in cui, secondo quanto previsto anche dalle Convenzioni internazionali, il minore è parte in giudizio per la tutela dei diritti afferenti alla sua sfera personalissima.
In relazione alle decisioni pro futuro sul proprio stato di salute, infatti, rispetto al tradizionale concetto di legale capacità di agire, si è sempre più accreditato quello di capacità di discernimento ovvero di stato di consapevolezza : in tal modo, si potrebbe sempre più dare rilievo ad una forma di capacità che, basandosi sulla verifica caso per caso e con la cura ed il supporto professionale di una équipe medica del reale stato di consapevolezza e di maturità della persona, prescinda dal concetto di capacità legale ed includa, dunque, tra le persone aventi diritto all’autodeterminazione eventualmente anche gli incapaci legali.
Quanto al profilo inerente alla eventuale necessità di intervento di un rappresentante legale (genitori; curatore speciale; amministrazione di sostegno) nell’assunzione della decisione di aiuto a morire, essa può e deve essere contemplata a supporto dell’incapace, dovendosi distinguere il ruolo dei genitori – che devono essere comunque sempre partecipi in qualunque forma di assistenza sia concepibile - e quello degli altri rappresentanti che non abbiano tale status, i quali potrebbero prendere parte alla decisione qualora nel minore non si sia riconosciuta la giusta capacità di “discernimento”; peraltro, sempre avendo cura di dover opportunamente distinguere la fattispecie da quella contemplata nell’art. 579 c.p. (Omicidio del consenziente) che, per il caso di minori ed incapaci, prevede l’assimilazione del reato all’omicidio.
In caso di conflitto tra rappresentanti ed incapace, sarà il giudice, opportunamente consigliato da una equipe medica, che dovrà valutare il miglior interesse della persona bilanciando i diversi diritti che entrano in giuoco in simili circostanze.
Prof. Stefano Troiano
Non v’è dubbio che, nel richiedere che il paziente che decide di ricorrere all’aiuto a morire debba essere capace di prendere decisioni libere e consapevoli, la Corte costituzionale intenda riferirsi innanzitutto alla concreta capacità di discernimento, e non alla capacità legale. Dovrebbe infatti, essere, di regola, la capacità di discernimento a governare le decisioni relative all’esercizio di diritti fondamentali della persona, indipendentemente dallo stato di capacità legale di chi le compie. Questo porta a ritenere che, in linea generale, l’accesso all’aiuto a morire in dignità possa essere riconosciuto anche a persone legalmente incapaci, purché ne sia accertata la concreta capacità di discernimento.
Si deve però ricordare che l’accertamento della capacità di discernimento presuppone una valutazione complessa che rapporta la pienezza ed intensità della consapevolezza richiesta anche all’importanza della scelta da compiere e alla portata delle sue conseguenze sulla sfera di esistenza della persona che la compie.
In questa valutazione non può allora non rilevarsi come, rispetto alla posizione di un adulto legalmente incapace ma capace di discernimento, in posizione affatto diversa si ponga il minore di età chiamato ad una decisione, qual è quella di cui qui si tratta, che porta a porre fine alla propria vita sulla base di una soggettiva valutazione della definitiva compromissione della propria dignità.
La peculiarità è duplice.
È, innanzitutto, da considerare che la scelta di cui si tratta riguarda la più difficile ed angosciosa tra tutte le decisioni personali che si possano ipotizzare, ed implica una percezione attenta da parte del soggetto del senso intimo della vita, dall’altro, e delle implicazioni profonde della morte. L’esperienza dimostra come sia difficile convincersi del fatto che un soggetto ancora in formazione possa avere già acquisito una adeguata consapevolezza del significato della morte. Numerosi sono gli studi psicologici che attestano la difficoltà, soprattutto in età adolescenziale, quindi con riguardo proprio a quei c.d. grandi minori a cui più facilmente si è disposti a riconoscere la capacità di discernimento nel compimento di scelte esistenziali, ad accettare la morte e a percepirne (ed elaborarne correttamente) il significato. Non si deve poi trascurare l’attrazione o il fascino che talora la morte esercita su alcuni adolescenti, che la vivono come una sfida ovvero, all’opposto, come una facile soluzione al proprio comune disagio adolescenziale. È un dato che il suicidio costituisca una delle principali cause di morte negli adolescenti.
In secondo luogo, l’anticipazione rispetto alla maggiore età della capacità di assumere decisioni personalissime – anche di grande importanza e portata (ad esempio, in tema di riconoscimento del figlio, adozione, trattamento dei dati personali, ecc.) – si giustifica in ragione del fatto che precludere al minore di assumere personalmente simili decisioni si tradurrebbe non solo in una compressione della sua personalità ma anche, e soprattutto, in un impedimento alla sua crescita personale, che passa anche attraverso l’assunzione di scelte personali di questa natura. In altre parole, essa è strettamente funzionale alla maturazione progressiva della personalità del minore fino al suo consolidamento nell’età adulta. È tuttavia paradossale che si consenta al minore di compiere una scelta che è invece, tutt’all’opposto, diretta a troncare la futura ulteriore crescita della sua persona, avendo l’effetto di interromperne irreversibilmente lo stesso percorso vitale. È da chiedersi fino a che punto un soggetto in formazione possa decidere consapevolmente della interruzione dello stesso processo di formazione che sta vivendo, quando è solo il compiuto perfezionamento di questo che potrà offrirgli la possibilità di conoscere fino in fondo quel bene a cui sta per rinunciare – la vita (residua) – e apprezzarne in modo pieno la (residua) dignità.
Per le ragioni indicate, ritengo preferibile che il legislatore si orienti per limitare l’accesso all’aiuto a morire al raggiungimento della maggiore età e non opti per una semplice estensione, a questa fattispecie, delle previsioni della legge n. 219 del 2017 che riguardano il minore di età (v. art. 3, comma 2 e 5), posta anche la differenza che, come si è già evidenziata, intercorre tra l’aiuto a morire e il rifiuto del consenso al trattamento sanitario (anche di supporto vitale). Solo in subordine si potrebbe valutare di stabilire un limite di età più basso, comunque non inferiore a sedici anni, ferma, in entrambi i casi, la verifica in concreto della capacità di discernimento.
Merita al riguardo evidenziare che la gran parte delle proposte di legge in discussione in Parlamento che regolano l’aiuto a morire escludono il minore di età dall’accesso alle pratiche di suicidio assistito o di trattamento eutanasico, prevedendolo solo per le persone maggiorenni. È il caso delle proposte C 1418 Zan, C. 1586 Cecconi, C. 1655 Rostan, C. 1875 Sarli.
Analoghe indicazioni si possono trarre anche dalla comparazione con altri ordinamenti, in particolare con le realtà più vicine, per sensibilità e per cultura, a quella italiana. Più precisamente, la recente normativa spagnola in corso di approvazione ammette esclusivamente i maggiori di età e lo stesso è a dirsi per la legge portoghese, approvata a fine gennaio del 2021 e in attesa di promulgazione.
6. Quale soluzione occorre prendere per contemperare l'obiezione di coscienza del medico con l'attuazione della volontà del paziente?
Prof.ssa Gilda Ferrando
In attesa dell’intervento del legislatore, la Corte affida l’accertamento dei presupposti che legittimano l’aiuto del medico a terminare la vita al servizio sanitario nazionale (v. già, per le diagnosi preimpianto Corte cost. n. 96/2015; n. 229/2015). Al SSN viene affidato anche il compito di “verificare le relative modalità di esecuzione, le quali dovranno essere evidentemente tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze”.
Per quanto riguarda l’obiezione di coscienza è stata la Corte a precisare che la sentenza si limita ad escludere la punibilità della condotta, ma non impone alcun obbligo. La Corte aggiunge che, nel rispetto dei principi fondamentali di salvaguardia della dignità e dell’autodeterminazione terapeutica del malato, la disciplina della materia è affidata alla discrezionalità del legislatore.
Questi aspetti – ruolo del SSN e obiezione di coscienza – sono molto delicati. A me pare che sia opportuno riservare al SSN l’accertamento delle condizioni oggettive e soggettive. Questo al fine di “evitare abusi a danno di persone vulnerabili”, di “garantire la dignità del paziente” ed “evitare al medesimo sofferenze”. Riterrei, invece, che l’esecuzione della procedura non debba necessariamente avvenire in una struttura pubblica. Il malato può infatti essere ricoverato in una struttura ospedaliera, ma il più delle volte è assistito a casa, in un hospice, o altrove. L’importante è garantire l’assenza di qualsiasi scopo di lucro da parte del professionista e/o della struttura che aiutano il malato a realizzare il proprio intento. Potrebbe essere utile redigere elenchi di strutture non lucrative convenzionate che possiedano i requisiti di idoneità necessari.
Al personale sanitario deve essere garantita l’obiezione di coscienza. A mio parere l’obiezione può riguardare l’esecuzione materiale della procedura, non invece la partecipazione alla commissione medica chiamata a valutare l’esistenza delle condizioni soggettive e oggettive del malato. In questo caso, infatti, la commissione (ed il personale sanitario che la compone) si limita a verificare la genuinità della volontà del malato, a formulare una diagnosi sulla gravità della malattia e delle sofferenze che provoca e una prognosi sul suo decorso, senza partecipare in alcun modo alla scelta che resta un atto personalissimo del malato. Mi pare utile richiamare in proposito la decisione della Corte costituzionale sulla legittimità della mancata previsione dell’obiezione di coscienza del giudice tutelare in caso di aborto della minorenne (Corte cost. 15 marzo 1996, n. 76).
In caso di obiezione di coscienza del personale sanitario, il SSN deve comunque garantire che il malato possa essere assistito da personale non obiettore, eventualmente anche in convenzione.
Prof.ssa Teresa Pasquino
Appare auspicabile che de iure condendo venga prevista espressamente la tutela dell’obiezione di coscienza del personale sanitario che voglia sottrarsi alla pratica della procedura di aiuto a morire.
In tale materia, il Legislatore dovrebbe, tuttavia, provvedere in modo tale che il diritto all’obiezione di coscienza non diventi un modo per aggirare l’applicazione della eventuale normativa che dovesse essere dettata per l’aiuto a morire e che al paziente venga comunque assicurata l’attuazione della richiesta di aiuto medico a terminare la sua esistenza.
Analoga previsione esiste già nella legge n. 194 del 22 maggio 1978, in materia di interruzione volontaria della gravidanza, e potrebbe essere mutuata anche in una nuova disciplina sull’aiuto medico a morire.
Prof. Stefano Troiano
Analogamente a quanto previsto dalla l. 22 maggio 1978, n. 194 in materia di interruzione volontaria della gravidanza, l’obiezione di coscienza dovrebbe essere consentita ma regolata in modo tale da consentire al paziente di vedere comunque attuata la propria volontà.
Le modalità per contemperare l’obiezione di coscienza del medico con l’attuazione della volontà del paziente potrebbero essere, dunque, mutuate dalla legge n. 194 del 1978, in particolare per quanto attiene all’art. 9, commi 3 e 4, ai sensi dei quali “l’obiezione di coscienza esonera il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, e non dall’assistenza antecedente e conseguente all'intervento” e “gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare l’espletamento delle procedure previste dall'articolo 7 e l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti secondo le modalità previste dagli articoli 5, 7 e 8”, altresì imponendosi alla Regione il compito di controllarne e garantirne l’attuazione “anche attraverso la mobilità del personale”.
È necessario che questo si traduca in una organizzazione degli enti ospedalieri tale da consentire l’attuazione delle richieste di aiuto a morire anche in presenza di medici obiettori.
7. Si ritiene che le cure palliative debbano essere una scelta vincolante al fine di indirizzare o eventualmente evitare una scelta così tragica?
Prof.ssa Gilda Ferrando
La terapia del dolore e le cure palliative costituiscono una pratica clinica cui il paziente ha diritto quando siano necessarie per alleviare le sue sofferenze. Sono disciplinate dalla l. 15 marzo 2010, n. 38 e richiamate dall’art. 2 della l. n. 219/2017 il quale comprende tra i doveri del medico quello di alleviare le sofferenze del paziente, anche nel caso di rifiuto o revoca del consenso al trattamento sanitario, garantendo un’appropriata terapia del dolore e l’erogazione di cure palliative. I compiti di cura del paziente, infatti, non si esauriscono quando la cura della malattia risulti impossibile ma comprendono ogni trattamento idoneo a favorire una migliore qualità della vita residua e in situazioni estreme anche l’eliminazione del dolore terminale mediante la sedazione palliativa profonda (art. 2, c. 2,3, l. n. 219).
Purtroppo, la loro diffusione non è omogenea su tutto il territorio nazionale, cosicché si assiste a disparità di trattamento che dovranno essere eliminate quanto prima anche favorendo una cultura ispirata ad una più attuale concezione dei doveri di cura.
Al paziente, dunque, devono essere offerte le cure palliative, spiegando significato e conseguenze di quelle appropriate al caso specifico. Ovviamente la loro applicazione presuppone il consenso del paziente che potrebbe avere le sue ragioni per rifiutarle (si pensi, ed esempio, al padre che voglia essere pienamente vigile alla nascita del figlio, anche se questo gli costerà sofferenze che la medicina potrebbe alleviare).
Si può anche supporre che il ricorso alle cure palliative possa talvolta distogliere dal proposito di anticipare la fine della propria vita, ma non è sempre così ed il caso di Fabiano Antoniani ne è un esempio, dato che il rifiuto della sedazione terminale profonda e la scelta del “suicidio assistito” in Svizzera sono stati motivati anche con il desiderio di evitare ai suoi cari la sofferenza di assisterlo nel periodo di tempo intercorrente tra sedazione profonda e morte.
In definitiva, solo il malato può prendere la decisione che ritiene buona per sé dopo aver valutato le diverse alternative ed essere stato accompagnato nel decorso della malattia e nelle fasi finali della sua esistenza.
Prof.ssa Teresa Pasquino
Da qualche tempo, occupandomi della materia delle cure palliative, vado sempre più convincendomi che essa sia stata trascurata ed alquanto sminuita nelle sue potenzialità; tanto non solo in termini di effetti che tali cure potrebbero produrre sulle decisioni, a volte drammatiche, dei pazienti ma anche per i risvolti che esse potrebbero avere sull’assetto familiare che costituisce il contesto in cui molte scelte tragiche vengono assunte.
Com’è noto, la materia delle cure palliative è disciplinata dalla l. n. 38 del 15 marzo 2010; non è di poco rilievo il fatto che tale disciplina sia sta richiamata espressamente sia dal Legislatore della l. n. 219 del 2017 sia dalla Corte costituzionale nella materia che ci occupa.
Per attuare il diritto alle cure palliative ed alla terapia del dolore previsto in questa legge l’operatore medico-sanitario che si prende cura del malato terminale, oltre alla professionalità che gli è propria, deve aver acquisito particolari competenze, passando attraverso un percorso di formazione personale, espressamente prescritto dalla l. n. 38 del 2010. Infatti, a norma del 2° co., art. 8, l. n. 38 del 2010, sono previsti programmi obbligatori di formazione in medicina, riguardo ai quali una Commissione nazionale per la formazione continua, costituita ex art. 2, co. 357, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, prevede che l'aggiornamento periodico del personale medico, sanitario e socio-sanitario, impegnato nella terapia del dolore connesso alle malattie neoplastiche e a patologie croniche e degenerative e nell'assistenza nel settore delle cure palliative, (in particolare, medici ospedalieri, medici specialisti ambulatoriali territoriali, medici di medicina generale e di continuità assistenziale e pediatri di libera scelta), si realizzi attraverso il conseguimento di una formazione volta a perfezionare i livelli assistenziali su percorsi multidisciplinari e multi-professionali; tanto, avendo, altresì, cura di individuare i contenuti dei percorsi formativi obbligatori ai fini dello svolgimento di attività professionale presso le strutture sanitarie pubbliche e private e nelle organizzazioni senza scopo di lucro operanti proprio nell'ambito delle due reti per le cure palliative e per la terapia del dolore, con periodi di tirocinio obbligatorio presso le strutture in esse presenti.
Alla luce di tali possibilità, anche l’eventuale decisione - assunta dal malato avviato verso il ricorso ad una procedura di aiuto a morire magari per un senso di angoscia per l’irreversibilità della sofferenza o di abbandono terapeutico o per non rappresentare un fardello sulla famiglia - potrebbe mutare proprio ad opera del contesto medico nel quale la percezione della cura, dell’attenzione e della somministrazione di terapie più adeguate, potrebbero generare nel paziente decisioni diverse o valutazioni più adeguate perché più informate ed idonee a metterlo in condizione anche di cambiare decisione prima di assumere scelte più tragiche sull’ultimo segmento della sua vita .
In questa ottica, in alternativa, deve essere meglio precisata quella funzione di garanzia che sembra dover connotare l’attività del medico e gli operatori sanitari in questo settore e che implicherebbe che questi si adoperino per garantire ed alleviare gli ultimi istanti di vita e non già per agevolare la morte; si tratta di un vero e proprio obbligo di garanzia, che non può né deve essere garanzia di vita, quanto piuttosto garanzia di cura, intesa come alleviazione della sofferenza, e di adeguata informazione sullo stato di salute; sulle terapie farmacologiche e sull’uso delle tecnologie che si pensa di adoperare, per lenire il dolore ed evitare sofferenze inutili.
Della volontà del paziente conseguentemente espressa non si potrebbe non tener conto in termini di vincolatività magari mutando persino la richiesta di azione finalizzata alla morte.
Prof. Stefano Troiano
Com’è noto, le cure palliative sono regolate dalla l. 15 marzo 2010, n. 38 e richiamate dall’art. 2 della l. n. 219/2017, secondo il quale il medico deve adoperarsi per alleviare le sofferenze del paziente, anche nel caso di rifiuto o revoca del consenso al trattamento sanitario, e deve essere garantita un’appropriata terapia del dolore e l’erogazione delle cure palliative di cui alla legge n. 38, ossia cure, non solo farmacologiche, volte a migliorare il più possibile la qualità della vita del malato in fase terminale (e dei suoi familiari).
È indubbio che la terapia del dolore e il miglioramento della qualità della vita del paziente tramite cure palliative possono talora essere fondamentali anche nel distogliere il malato dal proposito di porre termine anticipatamente alla propria esistenza. Le cure palliative devono dunque essere un passaggio necessario per l’accesso alla procedura di aiuto a morire. Già l’ordinanza n. 207 del 2018, richiamata dalla successiva sentenza del 2019, osservava che il coinvolgimento in un percorso di cure palliative deve costituire “un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente”.
A tal fine, il legislatore potrebbe limitarsi a richiamare le norme della l. n. 38 del 2010 e della l. n. 219/2017. Preferibilmente, però, la nuova disciplina dell’aiuto a morire potrebbe anche rappresentare l’occasione per rendere pienamente operativa la l. n. 38 del 2010, che ha enormi potenzialità ma ha trovato sino ad oggi un’attuazione del tutto imperfetta.
Ferma dunque la necessità che il medico offra e renda concretamente accessibile la terapia del dolore e le cure palliative al paziente, la scelta di avvalersene è, però, una decisione insindacabile del paziente. Al riguardo non si può tuttavia non considerare che le sofferenze, soprattutto quando siano estreme e insopportabili, possono essere esse stesse un motivo di compromissione della capacità di discernimento. Non si può pertanto escludere che il rifiuto di sottoporsi a cure palliative e alla terapia del dolore possa incidere, nei casi più estremi, sul riconoscimento della piena capacità decisionale che è richiesta per l’esercizio del diritto all’aiuto a morire.
Va in ogni caso raccolto con forza l’invito espresso dal Comitato nazionale per la bioetica nel parere del 18 luglio 2019, lì dove ha sottolineato all’unanimità che la necessaria offerta effettiva di cure palliative e di terapia del dolore – che oggi sconta “molti ostacoli e difficoltà, specie nella disomogeneità territoriale dell’offerta del SSN, e nella mancanza di una formazione specifica nell’ambito delle professioni sanitarie” – dovrebbe rappresentare, invece, “una priorità assoluta per le politiche della sanità”.
8. A quale domanda, diversa da quelle formulate, avrebbe voluto rispondere sul tema caleidoscopico qui esaminato?
Prof.ssa Teresa Pasquino
Alla domanda sulla solitudine di chi soffre. Credo che, in fatto di decisione verso l’aiuto medico a morire, tutto parta da questo stato esistenziale : solitudine perché mancano le persone che possano stare vicine al paziente; solitudine che, pur essendoci le persone vicine, si percepisce ugualmente a livello più interiore; solitudine generata dall’impotenza di sottrarsi a quello stato di disagio che si può provare nel sentirsi dipendenti da altri.
Ma questa è una domanda che implicherebbe una risposta assai complessa, che ci costringerebbe ineludibilmente a domandarci, infine, quale sia il senso della vita : domanda troppo unisoggettiva per essere svolta in termini astratti e generali, la cui risposta non può certo essere affidata alla Legge.
Prof. Stefano Troiano
Alla domanda se il legislatore debba prevedere che il diritto di ricevere l’aiuto a morire possa essere esercitato, e la relativa volontà essere espressa, anche in forma anticipata, ossia con disposizioni assunte dall’interessato in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi, in particolare mediante lo strumento delle Disposizioni anticipate di trattamento di cui all’art. 5 della l. n. 219 del 2017, che al riguardo consente anche la nomina di un fiduciario.
La sentenza della Corte costituzionale del 2019 non si occupa di questa ipotesi, innanzitutto perché non pertinente rispetto al caso concreto sottoposto alla sua attenzione. Alcuni dei d.d.l. in discussione in Parlamento aprono a questa possibilità.
Ritengo, però, che l’importanza massima della decisione sull’anticipazione della morte, che si presenta in termini non del tutto sovrapponibili a quella consistente nel rifiuto del consenso al trattamento sanitario, anche salvavita (la quale si limita ad assecondare il decorso naturale di una malattia letale), richieda un consenso necessariamente attuale, revocabile fino all’ultimo momento e, di massima, da rinnovare nel momento immediatamente antecedente a quello in cui si dà inizio al processo di assunzione o somministrazione dei farmaci che condurranno il paziente, in conformità al suo proposito, alla morte.
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