ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La riforma della giustizia civile secondo il Piano nazionale di ripresa e resilienza e gli emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S/XVIII. Riflessioni sul metodo*
di Elena D’Alessandro
*Si rinvia all’editoriale del 27 maggio 2021 ed agli altri contributi sul tema di Giuliano Scarselli, Andrea Panzarola, Bruno Capponi e Giuseppe Rana pubblicati su questa Rivista.
Sommario: 1. Perché a livello europeo si auspica, per l’Italia, un sistema giurisdizionale civile più efficiente - 2. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza e la riforma della giustizia civile - 3. Gli emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S/XVIII - 4. “Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo”
1. Perché a livello europeo si auspica, per l’Italia, un sistema giurisdizionale civile più efficiente
Dal 2013, ossia da quando la Commissione europea ha pubblicato il “Quadro di valutazione UE della giustizia (EU Justice Scoreboard), che mette a confronto l’efficienza, la qualità e l’indipendenza dei sistemi giudiziari di tutti gli Stati membri dell’Unione europea, costantemente (ma, fino ad oggi, senza grande successo) si raccomanda all’Italia di porre in essere riforme volte a rendere più efficiente – ossia, in primis: più celere – il proprio sistema di tutela giurisdizionale civile.
Benché il diritto processuale sia materia di competenza nazionale, l’interesse dell’Unione europea per l’efficienza del sistema giurisdizionale civile italiano deriva da tre fattori.
Il primo: i giudici nazionali non applicano solo il diritto nazionale ma anche ed in primis il diritto dell’UE e, nel farlo, assicurano che i diritti e gli obblighi sanciti dal diritto dell'UE siano attuati correttamente (articolo 19 TUE). L’esistenza di sistemi giudiziari nazionali efficienti è fondamentale per attuare propriamente il diritto dell'UE e rendere effettivi i valori su cui si fonda l’UE[1].
Il secondo: lo spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia, su cui la cooperazione giudiziaria civile europea si basa, si fonda sul principio della fiducia reciproca ed equivalenza tra le giurisdizioni dei diversi Stati membri. Tali giurisdizioni, pertanto, debbono tendere al conseguimento del medesimo livello di efficacia e celerità.
Il terzo: studi scientifici[2] hanno dimostrato che l’efficienza (e la celerità) dei sistemi giudiziari civili ha un impatto benefico sull’economia. Sulla base di tali studi la Commissione europea ha fatto notare che “quando i sistemi giudiziari garantiscono il rispetto dei diritti (in tempi contenuti, n.d.a.), i creditori sono più inclini a concedere prestiti, le imprese sono dissuase dall’assumere comportamenti opportunistici, i costi delle operazioni si riducono e vi sono maggiori probabilità che le imprese innovative investano”[3]. In particolare, da uno studio condotto – ironia della sorte – da due italiani[4] “è emerso che una riduzione della durata dei procedimenti giudiziari dell'1 % (misurata in termini di tempi di trattazione) può aumentare la crescita delle imprese”.
Evidente, pertanto, la ragione per cui, nell’ambito del programma di finanziamento europeo “Next generation EU”, la riforma della giustizia civile assuma un ruolo chiave, tanto più che la Commissione europea aveva chiesto agli Stati membri di redigere il piano di ripresa e resilienza alla luce delle raccomandazioni rivolte negli anni 2019 e 2020 a ciascun Stato membro e rimaste inattuate (country specific recommendations).
2. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza e la riforma della giustizia civile
Nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (di seguito: il PNRR)[5], l’Italia si è impegnata – in maniera tanto ambiziosa quanto necessaria per la ripresa economica del paese – a ridurre la durata del “processo civile” (recte: del processo civile di cognizione[6]) di circa il cinquanta per cento[7]. Ovviamente, per non minare l’effettività del sistema, la riduzione della durata dei tempi del giudizio civile deve avvenire a garanzie del giusto processo invariate, conformemente all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali della UE nonché all’art. 6 CEDU. Si conta di raggiungere l’obiettivo percorrendo due strade: per un verso agendo sull’organizzazione della “macchina giudiziaria” e, per altro verso, mediante interventi riformatori sul rito civile di cognizione. Gli interventi contemplano anche l’incentivo all’utilizzo degli strumenti alternativi al processo (“ADR”, recte: negoziazione assistita, mediazione, arbitrato) per la soluzione di controversie concernenti diritti disponibili[8], nella consapevolezza che “solo a fronte di un processo (recte: di un processo di cognizione) efficace davanti all’autorità giudiziaria le misure alternative (recte: gli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie) possono essere in grado di funzionare proficuamente”[9].
Per rendere più celere la soddisfazione dei crediti e favorire così la competitività del sistema paese, sono altresì annunciati interventi sul processo esecutivo.
Ciascuno di questi tre settori del processo che si intendono riformare per perseguire l’obiettivo della riduzione dei tempi della giustizia civile e rendere così il nostro sistema giurisdizionale “efficiente” (1.”ADR”; 2.“processo civile” da intendersi come sinonimo di “processo civile di cognizione”; 3. “processo esecutivo”), è accompagnato da una descrizione delle linee di intervento da intraprendere per il raggiungimento della finalità che ci si prefigge.
In realtà, unitamente al processo esecutivo, il PNRR menziona un ulteriore settore di intervento, ossia quello dei procedimenti speciali, senza però indicare la ragione per cui tale intervento è considerato funzionale al raggiungimento dell’obiettivo primario del PNRR, che è quello dell’efficienza tramite la riduzione dei tempi del processo civile di cognizione (“il fattore tempo al centro” recita il PNRR). Peculiarmente, infatti, nel paragrafo del PNRR dedicato agli “Interventi sul processo esecutivo e sui procedimenti speciali” vengono illustrate solo la ratio e le linee di intervento riguardanti il processo esecutivo, salvo poi fare riferimento – non già in quel paragrafo ma, piuttosto, in quello che avrebbe dovuto essere dedicato alla sola esplicazione delle “modalità di attuazione delle azioni” precedentemente illustrate – ad “ulteriori interventi nel settore del contenzioso della famiglia”.
Si afferma che l’intervento nel settore del contenzioso della famiglia “intende sciogliere alcuni problemi legati alla compresenza di organi giudiziari diversi e individuare un rito unitario per i procedimenti di separazione, divorzio e per quelli relativi all’affidamento e al mantenimento dei figli nati al di fuori del matrimonio”. Si omette, però, di chiarire perché quello relativo al settore del contenzioso della famiglia è di un intervento necessario al raggiungimento dell’obiettivo del PNRR; obiettivo che, giova ribadirlo, non è quello di colmare le lacune normative di un settore della giustizia civile che indubbiamente necessita di interventi a livello legislativo per essere più efficiente quanto, piuttosto, quello della riduzione dei tempi del processo civile (di cognizione) e della rapidità del processo esecutivo.
Il PNRR, insomma, mira a garantire l’efficienza dei giudizi civili attraverso la riduzione della loro durata (“il fattore tempo al centro”).
Altrettanto curiosamente, almeno per chi abbia dimestichezza con la progettazione propedeutica alla richiesta di finanziamenti europei (categoria a cui pare ascrivibile anche il piano Next generation EU), il PNRR si limita ad indicare:
a) l’obiettivo di efficienza da raggiungere, i.e. riduzione di circa il 50 per cento dei tempi del giudizio civile di cognizione; maggiore celerità delle procedure esecutive;
b) le linee di intervento “riformatore” che si intendono adottare per raggiungerlo: c.d. riforma ADR; interventi sul processo civile – recte, sul giudizio civile di cognizione –; interventi sul processo di esecuzione e sui processi speciali;
c) i tempi di attuazione delle riforme.
Per contro, il PNRR non indica quali sono le osservazioni empiriche, i dati statistici e/o di analisi economica del diritto da cui si trae la ragionevole convinzione per cui, assieme alla riorganizzazione degli uffici giudiziari ovvero all’aumento del numero dei magistrati togati in organico[10], è necessario porre in essere ulteriori riforme del rito civile. Altresì il PNRR non indica perché le riforme che è necessario intraprendere per raggiungere l’obiettivo sono proprio quelle ivi indicate. E non spiega perché tali riforme consentiranno di raggiungere l’obiettivo di efficienza in termini di riduzione della durata dei giudizi senza fallire, in toto o in parte, come i precedenti tentativi, tra cui ci limitiamo a ricordare, senza pretesa di completezza:
- la legge 7 agosto 2012, n. 134 di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 contenenti misure urgenti (anche sulla giustizia civile, N. d.A.) per la crescita del Paese;
- la legge 10 novembre 2014, n. 162 di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132, recante misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell'arretrato in materia di processo civile;
- la legge 25 ottobre 2016, n. 197, di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 31 agosto 2016, n. 168, recante misure urgenti per la definizione del contenzioso presso la Corte di cassazione, per l'efficienza degli uffici giudiziari, nonché per la giustizia amministrativa;
- il decreto legislativo del 13 luglio 2017, n. 116 di riforma organica della magistratura onoraria e altre disposizioni sui giudici di pace, nonché contenente la disciplina transitoria relativa ai magistrati onorari in servizio, a norma della legge 28 aprile 2016, n. 57.
Manca, cioè, il c.d. added value assessment[11].
Un esempio per tutti: tra le linee di intervento concernenti il processo di cognizione si prevede il c.d. rinvio pregiudiziale in Cassazione, ossia la possibilità, per il giudice di merito, “di rivolgersi direttamente alla Corte di Cassazione per sottoporle la risoluzione di una questione nuova (non ancora affrontata dalla Corte), di puro diritto e di particolare importanza, che presenti gravi difficoltà interpretative e sia suscettibile di porsi in numerose controversie”. In questo modo – precisa il PNRR – è favorito il raccordo e il dialogo tra gli organi di merito e la Cassazione e valorizzata la sua funzione nomofilattica[12]. Il PNRR non indica, però, quali sono i dati statistici forniti dalla Suprema Corte da cui si ricava la ragionevole convinzione che questa innovazione avrà effetti significativi in termini di riduzione della durata dei giudizi civili di cognizione, così realizzando l’obiettivo che il PNRR si propone[13]. L’obiettivo dichiarato del PNRR, infatti, non è quello di valorizzare la nomofilachia.
Ancora: il PNRR indica una tempistica per la realizzazione delle riforme sul processo civile, ma non precisa quale è l’orizzonte temporale per cui, grazie alle realizzate riforme, sono attesi gli effetti benefici in termini di riduzione significativa della durata del processo civile di cognizione, nonché di accelerazione del processo esecutivo: si tratta di un orizzonte temporale di 5 anni che finisce nel 2026, in linea con la durata temporale del progetto Next generation EU? Non è dato saperlo.
Neppure si indica un obiettivo a medio termine, quale avrebbe potuto essere il monitoraggio intermedio (dopo due o tre anni dalla loro entrata in vigore), dell’impatto delle riforme – nonché della riorganizzazione degli uffici e della messa a regime dell’ufficio del processo – sulla durata dei giudizi civili di cognizione ed esecutivo. Vi sarebbe stato così il tempo di approntare misure correttive nel caso in cui gli effetti benefici fossero risultati inferiori a quelli attesi.
Non a caso il nostro PNRR, pur avendo la medesima struttura di quelli presentati da altri Stati membri (evidentemente imposta a livello europeo) è tra quelli più sintetici, specie quando lo si compari con la mole dei piani di resilienza belga, francese e tedesco.
3. Gli emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S/XVIII
Il compito gravante sulla nuova compagine governativa per il raggiungimento dell’obiettivo concernente la giustizia civile indicato nel PNRR è di quelli che fanno tremare i polsi: occorre realizzare le riforme della giustizia civile che l’Europa auspica dal 2013 e bisogna agire in tempi strettissimi, ossia quelli imposti dal cronoprogramma Next generation EU.
Mancando i tempi tecnici necessari per l’elaborazione e il confezionamento una proposta ex novo, si è scelto di percorrere la via, più celere, della presentazione di emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S/XVIII (Delega al Governo per l'efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie), anche per non disperdere il lavoro già posto in essere a livello parlamentare. Una via, questa, senza dubbio più celere ma ben più difficile da percorrere, perché si tratta di intervenire chirurgicamente su di un testo pensato ed elaborato da un’altra compagine governativa, di cui non è detto che si condividano tutte le linee e le modalità di intervento.
Questa essendo la situazione, non ci si poteva certamente attendere che in soli due mesi il Governo elaborasse degli emendamenti al d.d.l. n. 1662/S/XVIII anche solo equiparabili, dal punto di vista della loro organicità, alla riforma del 1990. Il massimo che si poteva realizzare era, appunto, un intervento chirurgico e d’emergenza che adattasse il testo del d.d.l. n. 1662/S/XVIII agli obiettivi indicati nel PNRR.
Delle circa 25 pagine di testo degli emendamenti governativi che vorrebbero riprendere ed attuare le linee di intervento indicate nel PNRR, ben 7 sono minuziosamente dedicate alla riforma ai procedimenti in materia di persone, minorenni e famiglia; settore, quest’ultimo, che indubbiamente necessita di un intervento del legislatore, ma che nel PNRR non sembrava essere il settore chiave per il conseguimento dell’obiettivo che l’Italia si pone per la giustizia civile, tant’è che, come precedentemente indicato, non ci si è neppure sforzati di dimostrare il suo “ruolo chiave” ai fini del conseguimento dell’obiettivo primario del PNRR, che poi coincide con quello degli emendamenti governativi, almeno stando alla Relazione esplicativa[14], i.e. quello di ridurre l’eccessiva durata dei giudizi civili, per conseguire la fiducia dei cittadini e degli eventuali investitori stranieri.
Con riferimento agli emendamenti al d.d.l. n. 1662/S/XVIII in questa sede ci limiteremo ad esprimere considerazioni di carattere generale sul metodo utilizzato per la loro formulazione, senza esprimerci sul contenuto; contenuto sul quale esiste già un vivace dibattito ospitato da questa Rivista.
4. “Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo” [15]
Gli emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S/XVIII, come del resto il PNRR, hanno fatto uso del consueto metodo per prova ed errori. Di fronte ad un malato grave, quale è la giustizia civile italiana, si provano varie cure confidando che una, tra quelle testate, sia quella risolutiva per ridurre i tempi del giudizio civile di cognizione e accelerare le procedure esecutive. Tale metodo era già stato impiegato, senza soverchio successo, nel caso:
i) della legge 7 agosto 2012, n. 134 di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 contenenti misure urgenti (anche sulla giustizia civile, N. d.A.) per la crescita del Paese;
ii) della legge 10 novembre 2014, n. 162 di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132, recante misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell'arretrato in materia di processo civile;
iii) della legge 25 ottobre 2016, n. 197, di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 31 agosto 2016, n. 168, recante misure urgenti per la definizione del contenzioso presso la Corte di cassazione, per l'efficienza degli uffici giudiziari, nonché per la giustizia amministrativa.
Diverso è invece il metodo che si suole utilizzare a livello europeo, dove ci si basa su added value assessments compiuti ex ante, ossia ci si avvale di studi che, con l’ausilio della matematica, e partendo da dati empirici, cercano di misurare se e quale sarà l’impatto benefico di un intervento normativo in un determinato settore dell’ordinamento nel breve, medio e lungo periodo. Il giurista, cioè, entra in campo solo dopo il matematico per proporre una o più soluzioni giuridiche alternative per ovviare alle difficoltà riscontrate all’esito della lettura del dato statistico. Dopodiché il giurista passa di nuovo il testimone al matematico/economista per l’elaborazione della valutazione di impatto delle varie proposte da lui formulate. Alla luce dei risultati della valutazione di impatto, il politico sceglie quale strumento giuridico introdurre nell’ordinamento, con la ragionevole probabilità che si tratterà di un rimedio efficiente.
Uno studio di tal fatta, finalizzato a misurare l’impatto delle riforme previste dagli emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S/XVIII sugli attuali tempi dei giudizi civili, a meno che non vi sia già una base di lavoro, avrebbe richiesto mesi, forse anni (molto più tempo di quello che aveva a disposizione il Governo per il confezionamento degli emendamenti) ma avrebbe consentito di valutare, prima di averle viste operare nella pratica, il grado di ragionevole probabilità che le suggerite riforme del rito civile riducano la tempistica del nostro sistema giurisdizionale nel rispetto delle garanzie del giusto processo.
In sua mancanza, il giurista-commentatore può solo presagirne l’esito infausto (sperando, per il bene del paese, di essere smentito)[16] e indicare quali, tra gli emendamenti proposti, appaiono a prima vista congeniali alla sua sensibilità (ad esempio, gli interventi proposti in tema di arbitrato ovvero le modifiche all’art. 614-bis c.p.c.) e quali meno (ad esempio, l’ampliamento delle ipotesi in cui la mediazione è condizione di procedibilità[17], per un asserito periodo transitorio di cinque anni, che in Italia è tendenzialmente destinato a durare assai di più).
Scorrendo gli emendamenti si ha la sensazione che, per compiere alcune (forse più di alcune) delle scelte fatte, si sia come di consueto partiti dal rimedio congeniale a chi lo ha proposto (“il farmaco”)[18] anziché prendere le mosse da un’analisi del dato empirico e statistico (“le analisi prescritte al malato”)[19], per poi trovare – non già la cura che più piace a chi la prescrive ma, piuttosto – la cura più efficace[20] per risolvere il cronico problema della tempistica della giustizia civile italiana.
Il metodo per prova ed errori ha un costo, che rischia di frustrare l’obiettivo che il PNRR si propone.
Per parte sua, il PNRR ambisce a potenziare l’efficienza del sistema “giustizia civile” per accrescere la fiducia che in tale sistema hanno i suoi fruitori, perché, come ricorda la relazione illustrativa degli emendamenti al d.d.l. n. 1662/S/XVIII[21], “l’eccessiva durata dei giudizi incide negativamente …..sulla percezione della qualità della giustizia resa nelle aule giudiziarie italiane, offuscandone il valore”. Tuttavia, quanto più si riforma il codice di procedura civile imponendo cambiamenti all’operatore pratico (tra gli altri: l’ampliamento, che si descrive come temporaneo, delle ipotesi di mediazione obbligatoria e la revisione della fase introduttiva del giudizio di cognizione dinanzi al tribunale in composizione monocratica), senza che a tale sforzo faccia seguito una significativa riduzione dei tempi del processo ovvero un significativo aumento dell’efficienza e della qualità della nostra giustizia civile, quanto più si fa decrescere la fiducia nei confronti del sistema giurisdizionale e verso le capacità di miglioramento del sistema.
Ci si gioca molto, in questo senso, con il d.d.l n. 1662/S/XVIII, a proposito della credibilità del sistema italiano di tutela giurisdizionale dei diritti all’interno dei confini nazionali nonché all’estero, dove la giustizia italiana è spesso associata alle sole torpedo actions. E potrebbe non esserci una seconda occasione.
Davvero la cura miracolosa per la riduzione della lunghezza dei giudizi civili consiste (anche) nell’ennesima riforma del rito civile elaborata con il metodo per prova ed errori?
Proprio gli insuccessi delle passate riforme del rito civile elaborate in base al metodo” per prova ed errori” ci dimostrano il contrario. O almeno così sembra a chi scrive.
Davvero la Commissione europea si accontenterà che siano approvate le ennesime riforme riguardanti il processo civile o non vorrà, piuttosto, per il bene dell’Italia, che tali riforme conseguano, nel breve periodo, l’obiettivo di ridurre effettivamente la durata dei nostri giudizi di cognizione ed esecutivi? Crediamo che si dovrà dare conto dell’efficacia delle misure intraprese, perché se solo bastasse dare prova di buona volontà nel legiferare sul processo civile, l’Europa non ci chiederebbe interventi dal lontano 2013, né il nostro legislatore avrebbe dato vita a quell’intensa quanto infelice attività normativa sopra richiamata.
Davvero non si poteva, per una volta, sperimentare (e negoziare con l’Europa) un cambio di metodologia elaborando un added value assessment?
Forse stavolta si poteva osare.
E già che ci siamo, perché non proviamo a rendere conoscibile all’estero la nostra normativa in tema di giustizia civile – anche su questo si costruisce la fiducia dell’investitore straniero – valorizzando le potenzialità del sito di “normattiva” e rendendo disponibile anche la versione ufficiale in lingua inglese del codice civile e di procedura civile italiana, come fa, ad esempio, il ministero della giustizia tedesco[22]?
Si tratta di un intervento di buon senso che non necessita di riforme legislative e che avrebbe potuto essere intrapreso da anni.
[1] COM (2020) 580 final, pag. 8; COM(2020) 306 final, quadro di valutazione UE della giustizia 2020, pag. 2.
[2] Vedili citati in COM (2020) 580 final, pag.5.
[3] Ivi, loc. ult.cit.
[4] V. Bove, L. Elia; "The judicial system and economic development across EU Member States",
Relazione tecnica del JRC, EUR 28440 EN, Ufficio delle pubblicazioni dell'Unione europea, Lussemburgo,
2017, consultabile al link http://publications.jrc.ec.europa.eu/repository/bitstream/JRC104594/jrc104594__2017_the_judicial_system_a
nd_economic_development_across_eu_member_states.pdf.
[5] I piani nazionali di ripresa e resilienza presentati dagli Stati membri, incluso quello inviato dall’Italia, sono consultabili al seguente link: https://ec.europa.eu/info/business-economy-euro/recovery-coronavirus/recovery-and-resilience-facility_it
[6] L’espressione sembra riferibile al processo di cognizione, sebbene il PNRR non lo specifichi, in considerazione del riferimento agli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie che, come noto, costituiscono una alternativa alla sola tutela dichiarativa.
[7] PNRR, pag. 51: “Si stima che una riduzione della durata dei procedimenti civili del 50 per cento possa accrescere la dimensione media delle imprese manifatturiere italiane di circa il 10 per cento”.
[8] In proposito, con particolare riferimento alla mediazione, il PNRR afferma che la riforma mira ad ampliare “l’ambito di applicazione della mediazione”, e a verificare “in particolare, se sia possibile estenderne la portata in ulteriori settori non precedentemente ricompresi nell’ambito di operatività”. Posto che la mediazione, quale alternativa alla tutela giurisdizionale può aversi unicamente per le controversie vertenti su diritti disponibili e che al momento nulla impedisce il suo utilizzo al di là dei casi in cui la mediazione è obbligatoria, l’affermazione pare riferibile alla volontà di estendere le fattispecie di mediazione obbligatoria, come infatti prevedono gli emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S/XVIII.
[9] PNRR, pagg. 52, 56.
[10] Strada, questa, la cui fruttuosa percorribilità, sulla base di dati statistici, è stata dimostrata da M. Modena, Giustizia civile. Le ragioni di una crisi, Roma, 2019.
[11] Redatto sul modello degli European impact and added value assessments che il Parlamento europeo regolarmente commissiona prima di avanzare una proposta normativa.
[12] Piano nazionale di ripresa e resilienza, pag. 57.
[13] Effetti in astratto ravvisabili, in quanto suo tramite è possibile l’ottenimento di una decisione di legittimità su una questione interpretativa controversa senza necessità di previo esperimento dei tre gradi di giudizio, non trattandosi di mezzo di impugnazione.
[14] Leggibile in calce al saggio di B. Capponi, Prime note sul maxi-emendamento al d.d.l. n. 1662/S/XVIII, pubblicato su questa Rivista, consultabile al seguente link: https://www.giustiziainsieme.it/it/news/121-main/processo-civile/1736-prime-note-sul-maxi-emendamento-al-d-d-l-n-1662-s-xviii-di-bruno-capponi.
[15] “Non domandarci la formula che mondi possa aprirti sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”: E. Montale, Non chiederci la parola, in Ossi di seppia, Torino, 1925.
[16] Perché stavolta l’esito dovrebbe essere diverso, visto che la metodologia impiegata è la medesima?
[17] In questo caso, come riportato nella relazione della apposita Commissione costituita dalla Ministra (leggibile al link.: https://www.giustiziainsieme.it/it/news/121-main/processo-civile/1754-le-proposte-di-interventi-in-materia-di-processo-civile-e-di-strumento-alternativi) pag. 21: “le statistiche provano che a otto anni dalla riforma del 2013, la stragrande maggioranza delle mediazioni viene avviata ancora solo nelle materie dove è previsto il primo incontro di mediazione come condizione di procedibilità”. Ciò significa che l’istituto, per una serie di ragioni che pare qui superfluo richiamare, non gode ancora di fiducia tra gli operatori pratici.
[18] Tant’è che G. Scarselli, Osservazioni al maxi-emendamento 1662/S/XVIII di riforma del processo civile, in questa Rivista, consultabile al link https://www.giustiziainsieme.it/it/news/121-main/processo-civile/1747-osservazioni-al-maxi-emendamento-1662-s-xviii-di-riforma-del-processo-civile, ritiene che questa non sia una riforma funzionale alla riduzione dei tempi del processo.
[19] Magari condotto in prospettiva comparatistica, guardando a come gli altri Stati membri che hanno avuto il medesimo problema lo hanno risolto efficacemente. La comparazione tra ordinamenti, in altri termini, può servire non solo a prendere a prestito singoli istituti giuridici (ad es. le astreintes) ma anche a prendere ispirazione dal modo in cui è stato complessivamente risolto il problema dell’efficienza della giustizia civile.
[20] Che può coincidere, come no, con il farmaco che più piace a chi lo deve prescrivere.
[21] V. nota 14.
[22] https://www.gesetze-im-internet.de/zpo/index.html.
Convegno organizzato da AreaDG Cassazione
Nel febbraio di quest’anno il Parlamento italiano ha ratificato il Protocollo n.15 annesso alla CEDU, stralciando dall’originario disegno di legge la ratifica del Protocollo n.16 alla CEDU che consente alle Alte Corti di una delle parti contraenti, dalla medesima designati, di richiedere pareri consultivi alla Corte europea dei diritti dell’uomo su questioni di principio riguardanti l’interpretazione o l’applicazione dei diritti e libertà definiti nella Convenzione o nei suoi Protocolli.
Area Cassazione, sulla scia di un fermento dottrinario suscitato dalla decisione di sospendere la ratifica del Prot.n.16, ha deciso di riaccendere i riflettori del mondo accademico e parlamentare sul tema, nella ferma convinzione che il Protocollo offra opportunità considerevoli di dialogo alle giurisdizioni nazionali per il consolidamento del loro ruolo di garanti della legalità e dei diritti fondamentali.
22 giugno 2021 - ore 15:00 - piattaforma Zucchetti Software giuridico al seguente link https://attendee.gotowebinar.com/register/3987987362967379467
COMITATO ORGANIZZATORE (AreaDG Cassazione): Roberto Giovanni Conti, Raffaello Magi, Gabriella Cappello, Marco Dell’Utri, Gaetano De Amicis, Francesca Fiecconi, Giuseppina Anna Rosaria Pacilli, Giacinto Bisogni, Franco De Stefano.
Di seguito alcuni contributi dottrinari sul tema
A. Ruggeri, Protocollo 16: funere mersit acerbo?, in Giustizia insieme
F. Buffa, Il parere consultivo nel Protocollo n.16, in Questione Giustizia
C. Pinelli, Il rinvio dell’autorizzazione alla ratifica del Protocollo n. 16 CEDU e le conseguenze inattese del sovranismo simbolico sull’interesse nazionale, in Giustizia insieme
E. Lamarque, La ratifica del Protocollo n. 16 alla CEDU: lasciata ma non persa, in Giustizia insieme
C. V. Giabardo, Il Protocollo 16 e l’ambizioso (ma accidentato) progetto di una global community of courts, in Giustizia insieme
E. Cannizzaro, La singolare vicenda della ratifica del Protocollo n.16 , in Giustizia insieme
P. Biavati, Giudici deresponsabilizzati ? Note minime sulla mancata ratifica del Protocollo 16, in Giustizia insieme
S. Bartole, Le opinabili paure di pur autorevoli dottrine a proposito della ratifica del protocollo n. 16 alla CEDU e i reali danni dell’inerzia parlamentare, in Giustizia insieme
B. Nascimbene, La mancata ratifica del Protocollo n. 16. Rinvio consultivo e rinvio pregiudiziale a confronto, in Giustizia insieme
M. Castellaneta, Ratificato il Protocollo n. 15...aspettando il Prot. 16. Al via le modifiche alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo , in Giustizia insieme
A. Esposito, La riflessività del Protocollo n. 16 alla Cedu-, in Giustizia insieme
R. Conti, Chi ha paura del protocollo n.16 -e perché?, in SistemaPenale, 27 dicembre 2020
R. Conti, La richiesta di “parere consultivo”alla Corte europea delle Alte Corti introdotto dal Protocollo n. 16annesso alla CEDUe il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE. Prove d’orchestra per una nomofilachia europea, in Consultaonline
M. Luciani, Note critiche sui disegni di legge per l’autorizzazione alla ratifica dei Protocolli n. 15 e n. 16 della CEDU, 26 novembre 2019, in www.SistemaPenale.it
R. Sabato, L’impatto del protocollo n. 15 sulla Convenzione europea dei diritti umani: riflessioni a valle della ratifica italiana (e della mancata ratifica del protocollo n. 16), in AIC
M. Lipari,Il rinvio pregiudiziale previsto dal Protocollo n.16 annesso alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU): il dialogo concreto tra le Corti e la nuova tutela dei dritti fondamentali davanti al giudice amministrativo, in Federalismi.it, 2019, n.3, 50
E. Albanesi, Un parere della Corte EDU ex Protocollo n.16 alla CEDU costituisce norma interposta per l’Italia, la quale non ha ratificato il Protocollo stesso?, in Consultaonline, 29 marzo 2021
B. Biancardi, Commento al Protocollo 16, in Commentario breve al codice del processo amministrativo, Padova, 2021, curato da Falcon, Marchetti, Cortese.
F. Vari, Sulla (eventuale) ratifica dei Protocolli n.15 e16 alla CEDU, in Dirittifondamentali.it,2019,6.
G. Cerrina Feroni, Il disegno di legge relativo alla ratifica dei Protocolli 15 e 16 alla CEDU, in Federalismi
Consumo di suolo e divieto di edificazione in area agricola (nota a Tar Lombardia, Brescia, sez. I, 12 marzo 2021, n. 240) di Giuseppe Andrea Primerano
Sommario: 1. Il principio del contenimento del “consumo di suolo” alla prova dei fatti: la sentenza del Tar Brescia n. 240/2021. - 2. Il ruolo dei Comuni tra sussidiarietà e leale cooperazione: la sentenza della Corte costituzionale n. 179/2019. - 3. Assenza di una disciplina organica sul consumo di suolo, suggerimenti e proposte.
1. Il principio del contenimento del “consumo di suolo” alla prova dei fatti: la sentenza del Tar Brescia n. 240/2021
Il consumo di suolo è divenuto uno dei temi di maggiore attualità e interesse in ragione delle sue implicazioni ambientali, economiche e sociali. L’esigenza di contenere lo sfruttamento di tale «risorsa limitata che si distrugge facilmente»[1] si collega a quella di promuovere il capitale naturale e il paesaggio, alla vicenda della rigenerazione di aree dismesse o degradate, alla valorizzazione delle aree rurali e, più in generale, intercetta profili atti a qualificare uno sviluppo volto a garantire, come richiesto dalla comunità internazionale[2], la sostenibilità in uno scenario di equità intergenerazionale improntato al rispetto del principio di solidarietà[3].
Si registra, tuttavia, l’assenza di una disciplina statale organica sul consumo di suolo foriera di incertezze, innanzitutto, sotto il profilo applicativo. Non che il legislatore abbia omesso di considerare il tema in questione, ma bisogna constatare sia l’insuccesso delle diverse proposte di legge successive al primo d.d.l. Catania (2012), dal nome dell’allora Ministro per le politiche agricole, donde una spiccata attenzione verso i profili legati alla tutela dei suoli agricoli[4], sia la frammentarietà della disciplina di settore[5], evidentemente inadeguata rispetto all’ambizioso obiettivo di raggiungere l’azzeramento del consumo di suolo entro il 2050 delineato in ambito europeo[6] e talvolta enunciato in sede legislativa regionale[7]. Le Regioni, in virtù del titolo di potestà legislativa concorrente «governo del territorio», si sono difatti rese promotrici in varie occasioni di disposizioni per la riduzione del consumo di suolo.
La dottrina ha incisivamente osservato che il passaggio imposto dalla filosofia del consumo di suolo zero comporterà un vero “cambio di libro” e non un semplice “voltar pagina”[8] e che la limitazione del consumo di territorio e la rigenerazione urbana rappresentano un’occasione di rinascita per l’urbanistica[9]. Occorre prenderne atto in ragione sia dell’attuale fase di transizione digitale, ecologica e di inclusione sociale cristallizzata nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), sia dell’evoluzione che dalla formulazione dell’art. 80 del d.P.R. 616/1977 – secondo cui «le funzioni amministrative relative alla materia urbanistica concernono la disciplina dell’uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell’ambiente» – ha condotto alla riforma del Titolo V della Costituzione e all’elaborazione giurisprudenziale successiva alla sentenza della Consulta n. 303/2003.
Il contributo della giurisprudenza amministrativa, in un simile contesto evolutivo, diviene centrale. Per rendersene conto è sufficiente riflettere su pronunce come quella sul PRG di Cortina[10] o sull’orientamento che, enfatizzando la matrice ecosistemica dei suoli non impermeabilizzati, ha riconosciuto che la destinazione a verde non implica necessariamente lo svolgimento di attività agricola sul fondo, ben potendo servire ad assicurare un migliore equilibrio tra aree libere e aree edificate[11].
La decisione del Tar Brescia n. 240/2021 è interessante perché sembra apparentemente rispondere a una logica diversa. Viene, infatti, censurata la decisione di rendere inedificabile un’area destinata all’agricoltura in base all’asserita necessità di minimizzare il consumo di territorio. Nello specifico, risulta impugnata una variante al PGT che, nel limitare la capacità edificatoria ai “presidi rurali”, preclude a un imprenditore agricolo la realizzazione di un intervento edilizio funzionale alla conduzione del fondo, pur ammissibile ai sensi della normativa regionale[12].
In realtà, secondo il Collegio, non è sufficiente invocare il principio del contenimento del consumo di suolo per giustificare la portata di una simile variante e derogare allo statuto della disciplina edificatoria nelle aree agricole. L’ente locale così introduce una disciplina ulteriore che trascura, da un lato, la legittima aspettativa dell’imprenditore agricolo allo sviluppo della propria attività e, dall’altro lato, oblitera la motivazione di una scelta carente sotto il profilo istruttorio nella misura in cui non approfondisce lo stato effettivo del consumo di suolo[13] e, più in generale, prescinde da una strategia preordinata ad azioni concrete finalizzate a limitare la perdita di green field. In tale prospettiva, non è superfluo osservare che una delle censure riguardava l’omessa sottoposizione della variante al PGT alla valutazione ambientale strategica e che il parere sul rapporto preliminare formulato dall’agenzia regionale per la protezione ambientale già rivelava l’esistenza di alcuni vizi alla base dell’accoglimento del ricorso[14].
2. Il ruolo dei Comuni tra sussidiarietà e leale cooperazione: la sentenza della Corte costituzionale n. 179/2019
La tutela del suolo, come risorsa naturale che produce servizi ecosistemici, è stata oggetto di una significativa sentenza della Corte costituzionale: la n. 179 del 31 luglio 2019 rispetto alla quale la pronuncia in nota, alla luce di quanto esposto, si pone solo in apparente contraddizione.
In quell’occasione, è stata dichiarata l’incostituzionalità dell’art. 5, comma 4, della l. reg. Lombardia n. 31/2014 che impediva ai comuni di apportare varianti per ridurre le previsioni e i programmi edificatori nel documento di piano nel periodo necessario all’integrazione dei contenuti del piano territoriale regionale e al successivo adeguamento dei piani territoriali di coordinamento provinciale e dei piani di governo del territorio[15]. È bene al riguardo svolgere uno sforzo di analisi per non appiattirsi sulla conclusione secondo cui sarebbe precluso, nei termini precisati, al legislatore regionale incidere sulla potestà comunale di pianificazione urbanistica.
In primo luogo, la Corte evidenzia l’essenza del suolo «quale risorsa naturale eco-sistemica non rinnovabile, essenziale ai fini dell’equilibrio ambientale, capace di esprimere una funzione sociale e di incorporare una pluralità di interessi e utilità collettive, anche di natura intergenerazionale». La prospettiva è quella, ben nota, dello sviluppo sostenibile e il riferimento alla funzione sociale del suolo evoca il tenore delle previsioni costituzionali sul diritto di proprietà (art. 42, comma 2)[16].
In secondo luogo, la Corte costituzionale si sofferma sul ruolo dei comuni quali enti più vicini alla cittadinanza cui risultano storicamente assegnate, fin dalla legge n. 2359/1865 sulle espropriazioni per causa di pubblica utilità, le funzioni di pianificazione urbanistica. In particolare, viene evidenziato che «tutta la complessa evoluzione che ha condotto allo sviluppo dell’ordinamento regionale ordinario, a una più ampia concezione di urbanistica e quindi alla consapevolezza della necessità di una pianificazione sovracomunale, non ha travolto questo presupposto di fondo».
Si tratta di passaggi significativi laddove si ponga mente alle linee evolutive del sistema di pianificazione territoriale e alla disciplina delle tutele differenziate volte alla protezione di interessi lato sensu ambientali, principalmente ascrivibile ai fallimenti indotti dal primo regionalismo e all’inidoneità allo scopo dei comuni, in quanto enti maggiormente esposti alle pressioni della rendita fondiaria e alle spinte delle imprese locali[17].
In disparte l’attrazione verso il “centro” di simili interessi – rispondenti a una logica gerarchica che rivela la prevalenza del piano paesaggistico[18] – cui si è sovente accompagnata l’istituzione di autorità con specifici poteri (come le autorità di bacino o gli enti parco), rimane imprescindibile il ruolo dei comuni ai sensi degli artt. 5, 117, comma 2, lett. p), e 118, commi 1 e 2, Cost. Il potere di pianificazione urbanistica, infatti, rientra in un nucleo di funzioni amministrative essenziali connesse al riconoscimento del principio dell’autonomia comunale.
Ciò, tuttavia, non significa che al legislatore regionale sia precluso disciplinare e, finanche, conformare detto potere in nome della tutela di interessi generali collegati a una più ampia valutazione delle esigenze diffuse sul territorio[19], come pure sottolineato dopo la riforma del Titolo V della Costituzione: il predetto riconoscimento «non implica una riserva intangibile di funzioni, né esclude che il legislatore competente possa modulare gli spazi dell’autonomia municipale a fronte di esigenze generali che giustifichino ragionevolmente la limitazione di funzioni già assegnate agli enti locali»[20]. A tale stregua è stato, altresì, escluso che «il sistema di pianificazione assurga a principio così assoluto e stringente da impedire alla legge regionale – fonte normativa primaria sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali – di prevedere interventi in deroga a tali strumenti»[21].
La declaratoria di incostituzionalità espressa dalla Corte costituzionale n. 179/2019, pertanto, si radica su altri presupposti.
La norma censurata dal giudice a quo[22] non prevedeva, in realtà, alcuna interlocuzione con il livello di governo superiore impedendo, quindi, all’ente locale di esercitare in anticipo la propria potestas variandi in conformità alle coordinate legislative regionali[23]. Ne è derivato un deficit di proporzionalità, suscettibile di infrangere il principio della leale collaborazione nella misura in cui i comuni divenivano meri esecutori di una valutazione compiuta in sede regionale in grado di condizionarne scelte discrezionali[24], che la Corte ha censurato per lesione delle norme costituzionali sopra menzionate.
Il giudizio della Consulta, a ben vedere, si pone al crocevia tra regionalismo e municipalismo nel rinnovato sistema costituzionale e non riguarda, di per sé, l’allocazione della funzione legislativa regionale quanto invece il relativo esercizio, che non supera il test di proporzionalità rispetto alla tipologia di interessi coinvolti. La sottrazione, sia pur temporanea, ai comuni della potestà pianificatoria, anziché apparire il “minimo mezzo” al fine di raggiungere gli obiettivi prefigurati a livello regionale – quello «strutturalmente più efficace a contrastare il fenomeno del consumo di suolo perché in grado di porre limiti ab externo e generali alla pianificazione urbanistica locale»[25] – si rivela, in concreto, contraddittoria agli stessi.
In definitiva, secondo la Corte, la rigidità della norma censurata si dimostra «tale da incidere in modo non proporzionato sull’autonomia dell’ente locale, non solo perché impedisce la rivalutazione delle esigenze urbanistiche in precedenza espresse (…), ma soprattutto perché, al tempo stesso, la preclude quando questa sia rivolta alla protezione degli stessi interessi generali sottostanti alle finalità della legge regionale e quindi coerenti con queste»[26].
3. Assenza di una disciplina organica sul consumo di suolo, suggerimenti e proposte
Il dovere delle amministrazioni di dotarsi di strumenti in grado di fronteggiare il problema del consumo di suolo costituisce una premessa logica per lo sviluppo sostenibile dei territori[27] e, come tale, è destinato a condizionare in modo significativo la discrezionalità di pianificazione urbanistica.
Le sentenze del Tar Brescia n. 240/2021 e della Corte costituzionale n. 179/2019 confermano la necessità di occuparsene a livello strategico, alzando l’asticella della sussidiarietà[28] e in ossequio alla leale cooperazione istituzionale. È vero che l’insostenibilità dei modelli di espansione urbana non può tradursi in uno slogan per giustificare, in ogni caso, scelte apparentemente finalizzate a tutelare gli areali agro-naturali[29], non potendosi prescindere dall’effettivo accertamento dello stato dei luoghi, ma il quadro regolatorio, in linea alle osservazioni espresse nei precedenti paragrafi, dovrebbe superare il limite dei confini comunali.
Data l’assenza di una disciplina organica sul consumo di suolo[30], occorre riflettere su quali strumenti, de iure condito, possano almeno arginarne l’avanzamento e su quali interventi, de iure condendo, siano configurabili.
Dal primo punto di vista, anche in considerazione delle prevedibili difficoltà per il PRG a occuparsi di un problema che ha contribuito a creare, andrebbe valorizzato il ruolo sussidiario di alcuni istituti giuridici, in particolare della pianificazione paesaggistica[31] e della VAS[32]. Inoltre, sarebbe necessario riflettere sulla rigenerazione urbana in termini di alternativa strategica alla impermeabilizzazione delle superfici o soil sealing[33] e accedere a una visione integrata della rigenerazione medesima idonea a intercettare non soltanto la dimensione ambientale della sostenibilità, ma pure quella economica e sociale, con ripercussioni positive nell’ottica della resilienza cittadina[34].
Dal secondo punto di vista, potrebbe immaginarsi una legislazione statale volta a un rilancio dell’urbanistica, in linea all’art. 80 del d.P.R. 616/1977, ovvero proiettata maggiormente alla protezione di una risorsa naturale produttiva di servizi ecosistemici in considerazione della traiettoria evolutiva che, nel nostro ordinamento, ha determinato lo spillover delle tutele di settore chiamate a sopperire alla crisi dell’urbanistica.
Una prospettiva, quest’ultima, che può definirsi “filoambientalista” e valorizza la funzione sociale della proprietà anche attraverso una rilettura del «razionale sfruttamento del suolo» di cui all’art. 44 Cost. in chiave non soltanto produttivistica. Ciò in linea alle previsioni dell’art. 191 TFUE che cristallizzano il principio dell’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali[35] e, nel complesso, agli indirizzi espressi dalle istituzioni europee, in primis dalla Commissione, sia pure mediante documenti e atti di soft law[36].
Accedere a una simile impostazione non consentirebbe comunque di prescindere dalla razionalità di provvedimenti simili a quello oggetto del giudizio instaurato davanti al Tar Brescia e definito con sentenza n. 240/2021, secondo cui la potestà pianificatoria comunale non è senza limiti, in particolare, quando disciplina l’attività agricola come produzione[37]. La tensione tra esigenze di sviluppo economico e di tutela ambientale, dopotutto, è un fattore che le istituzioni, a tutti i livelli, hanno sempre dovuto tenere presente anche in ragione del principio di integrazione[38].
Il punto è che in assenza di un quadro di regole chiaro si mina, in radice, la certezza del diritto e con essa l’effettività delle azioni da intraprendere a tutela del suolo naturale. Posto che la difesa di tale risorsa non costituisce una materia, ma un obiettivo da perseguire attraverso una complessa pianificazione dei settori coinvolti[39], da più parti è stata segnalata l’esigenza di un intervento statale idoneo a vincolare i legislatori regionali e, a cascata, gli enti locali tenuti al rispetto di invarianti da riportare nella parte strutturale dei piani urbanistici[40].
Dovrebbe risultare sufficientemente chiara la riconducibilità di un simile intervento alla materia ambientale (art. 117, comma 2, lett. s, Cost.), ferme restando le implicazioni con il governo del territorio (art. 117, comma 3, Cost.). Dovrebbero, inoltre, essere valorizzate le previsioni degli artt. 9 e 44 Cost. e non trascurati alcuni spunti derivanti dall’esperienza legislativa regionale[41]. Tutto ciò in nome del principio del razionale sfruttamento del suolo, della promozione del capitale naturale e del paesaggio, del riuso delle aree già urbanizzate e della rigenerazione delle stesse, in uno scenario proiettato al doveroso rispetto del principio di solidarietà.
[1] Si tratta della definizione di suolo offerta dalla Carta Europea del Suolo del 1972.
[2] Il riferimento è principalmente all’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile.
[3] Come si legge nella Lettera Enciclica Laudato Si’ del 24 maggio 2015 di Papa Francesco «ormai non si può parlare di sviluppo sostenibile senza una solidarietà fra le generazioni».
[4] I contenuti di tale iniziativa legislativa sono in ampia parte trasfusi nella proposta approvata in prima lettura dalla Camera dei Deputati il 12 maggio 2016 (AC-2039). Per approfondimenti ulteriori, fra i molti, L. De Lucia, Il contenimento del consumo di suolo nell’ordinamento italiano, in G.F. Cartei - L. De Lucia (a cura di), Contenere il consumo del suolo. Saperi ed esperienze a confronto, Napoli, 2014, 91 ss.; Id., Il contenimento del consumo di suolo e il futuro della pianificazione urbanistica e territoriale, in G. De Giorgi Cezzi - P.L. Portaluri (a cura di), La coesione politico-territoriale, in L. Ferrara - D. Sorace, A 150 anni dall’unificazione amministrativa italiana, vol. II, Firenze, 2016, 299 ss.
[5] Cfr. G.A. Primerano, Soil Consumption and public policies of territorial government, in E. Picozza - A. Police - G.A. Primerano - R. Rota - A. Spena, Le politiche di programmazione per la resilienza dei sistemi infrastrutturali. Economia circolare, governo del territorio e sostenibilità energetica, Torino, 2019, 73 ss.
[6] Commissione Europea, COM/2011/571 del 20 settembre 2011, Tabella di marcia verso un’Europa efficiente nell’impiego delle risorse. Il suddetto obiettivo inizia concretamente a delinearsi, in ambito europeo, grazie alla Strategia tematica per la protezione del suolo (COM/2006/231 del 22 settembre 2006) coeva alla Proposta di direttiva che istituisce un quadro per la protezione del suolo (COM/2006/232).
[7] Ai sensi dell’art. 1, comma 4, della l. reg. Lombardia 28 novembre 2014, n. 31, a titolo esemplificativo, il dichiarato scopo delle «disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato» è quello di «concretizzare sul territorio della Lombardia il traguardo previsto dalla Commissione europea di giungere entro il 2050 a una occupazione netta di terreno pari a zero».
[8] G. Pagliari, Governo del territorio e consumo di suolo. Riflessioni sulle prospettive della pianificazione urbanistica, in Scritti per Franco Gaetano Scoca, vol. IV, Napoli, 2020, 3803.
[9] P. Carpentieri, Il “consumo” del territorio e le sue limitazioni. La “rigenerazione urbana”, in www.giustizia-amministrativa.it, 2019.
[10] Cons. Stato, sez. IV, 10 maggio 2012, n. 2710, secondo cui la funzione di pianificazione urbanistica non appare solo strumentale a garantire una disciplina coordinata dell’edificazione dei suoli, ma è volta allo sviluppo complessivo e armonico del territorio, nonché a realizzare finalità economico-sociali della comunità locale, in attuazione di valori costituzionalmente tutelati. In senso analogo, si veda Cons. Stato, sez. IV, 22 febbraio 2017, n. 821.
[11] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 9 maggio 2018, n. 2780.
[12] Il riferimento è agli artt. 59 e 60 della l. 11 marzo 2005, n. 12, s.m.i., che definiscono gli interventi edificatori ammessi nelle aree destinate all’agricoltura mediante l’individuazione dei relativi presupposti soggettivi e oggettivi.
[13] La giurisprudenza amministrativa ha riconosciuto che eventuali preclusioni edificatorie in area agricola richiedono una specifica motivazione, in quanto suscettibili di ledere la legittima aspettativa dell’imprenditore agricolo allo sviluppo della propria attività (v. Cons. Stato, sez. IV, 18 novembre 2013, n. 5453). Nel caso di specie, era stata evidenziata la necessità di disporre di una struttura edilizia per il deposito di materiali e per il ricovero di mezzi agricoli, di un ufficio e di una piccola residenza.
[14] Tar Lombardia, Brescia, sez. I, 12 marzo 2021, n. 240: «come confermato anche dal parere formulato da ARPA sul Rapporto Preliminare (…), l’obiettivo di riduzione del consumo di suolo, richiamato a motivazione della reiezione dell’osservazione presentata dai ricorrenti, oltre che più in generale delle misure restrittive adottate per l’edificazione in zona agricola e in particolare dell’introduzione dei presidi rurali, non è supportato da adeguata istruttoria e non trova giustificazione né fondamento in una necessaria approfondita analisi sullo stato effettivo di consumo del suolo e nella conseguente individuazione delle azioni necessarie per il suo contenimento».
[15] Al riguardo è appena il caso di osservare che è proprio il documento di piano a contenere, ai sensi dell’art. 8 della l. reg. Lombardia n. 12/2005, le scelte più significative per la trasformazione del territorio.
[16] Per un inquadramento, cfr. V. Cerulli Irelli, Statuto costituzionale della proprietà privata e poteri pubblici di pianificazione, in P. Urbani (a cura di), Politiche urbanistiche e gestione del territorio. Tra esigenze del mercato e coesione sociale, Torino, 2015, 11 ss.; a livello monografico, A. Moscarini, Proprietà privata e tradizioni costituzionali comuni, Milano, 2006.
[17] In questi termini si esprime P. Carpentieri, Il “consumo” del territorio e le sue limitazioni, cit.
[18] Sul principio di prevalenza del piano paesaggistico, ex multis, Corte cost., 10 marzo 2017, n. 50; Id., 30 maggio 2008, n. 180; Cons. Stato, sez. VI, 12 gennaio 2011, n. 110; Tar Toscana, sez. I, 21 luglio 2017, n. 945; Tar Campania, Napoli, sez. VI, 2 aprile 2014, n. 1905; Tar Lazio, Roma, sez. II-quater, 6 dicembre 2010, n. 35381.
[19] Corte cost., 27 luglio 2000, n. 378.
[20] Corte cost., 7 luglio 2016, n. 160.
[21] Corte cost., 27 dicembre 2018, n. 245.
[22] Ci si riferisce a Cons. Stato, sez. IV, 4 dicembre 2017, n. 5711, e la norma cesurata, come anticipato, è l’art. 5, comma 4, della l. reg. Lombardia n. 31/2014 (prima delle modifiche apportate dalla l. reg. Lombardia 26 maggio 2017, n. 16). In particolare, valorizzata in premessa la ratio della citata legge per la riduzione del consumo di suolo e la riqualificazione del suolo degradato, il Consiglio di Stato si concentra sull’ultimo periodo della disposizione menzionata che, disciplinando la fase transitoria necessaria per l’integrazione e l’adeguamento dei piani in vista della riduzione del consumo di suolo, stabilisce che, in attesa di tale adeguamento, sono comunque «mantenute le previsioni e i programmi edificatori del documento di piano vigente». Esclusa la possibilità di interpretare le disposizioni nel senso indicato dall’ente locale, ossia come comportanti il solo limite a non disporre nuovo consumo di suolo, il Consiglio di Stato giudica rilevanti e non manifestamente infondate le q.l.c. prospettate dall’amministrazione comunale appellante.
[23] Il giudizio amministrativo aveva ad oggetto la variante generale al PGT adottata nel 2015 dal Comune di Brescia, poi approvata, impugnata dai proprietari di alcuni immobili poiché fortemente riduttiva delle possibilità edificatorie risultanti dalle precedenti previsioni urbanistiche.
[24] Le scelte urbanistiche, secondo un orientamento della giurisprudenza amministrativa costante, costituiscono «valutazioni di merito sottratte al sindacato giurisdizionale di legittimità, salvo che risultino inficiate da errori di fatto, abnormi illogicità, violazioni procedurali, ovvero che, per quanto riguarda la destinazione di specifiche aree, risultino confliggenti con particolari situazioni che abbiano ingenerato affidamenti e aspettative qualificate» (Cons. Stato, sez. IV, 18 agosto 2017, n. 4037; Id., 16 aprile 2014, n. 1871; Id., 15 novembre 2013, n. 5589).
[25] Corte cost. n. 179 del 2019.
[26] Così sempre Corte cost. n. 179 del 2019.
[27] G. Gardini, Alla ricerca della città “giusta”. La rigenerazione come metodo di pianificazione urbana, in www.federalismi.it, n. 24/2020, 52.
[28] G.F. Cartei, Il suolo tra tutela e consumo, in Riv. giur. urb., 4, 2016, 12.
[29] Cfr. E. Boscolo, Beni pubblici e beni comuni: appunti per una sistemazione teorica, in Scritti in onore di Eugenio Picozza, vol. I, Napoli, 2019, 215.
[30] In tema v. L. Giani - M. D’Orsogna, Diritto alla città e rigenerazione urbana. Esperimenti di resilienza, in Scritti in onore di Eugenio Picozza, cit., vol. III, 2014.
[31] Il principio di «uso consapevole del territorio» cui si riferisce l’art. 131 d.lgs. 42/2004 implica pure un «minor consumo di territorio» a norma del successivo art. 135, comma 4, lett. c). Sul piano paesaggistico, proiezione applicativa della riserva di potestà esclusiva statale in materia di tutela del paesaggio, A. Angiuli, Art. 135 (cui adde il commento agli artt. 143 ss.), in A. Angiuli - V. Caputi Jambrenghi (a cura di), Commentario al Codice dei beni culturali e del paesaggio, Torino, 2005, 352 ss.; più di recente, S. Amorosino, Artt. 143-145 (ivi anche il commento all’art. 135), in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dei beni culturali e del paesaggio, Milano, 2019, 1284 ss.
[32] Sulle “potenzialità” della valutazione ambientale strategica, E. Boscolo, Oltre il territorio: il suolo quale matrice ambientale e bene comune, in Urb. app., 2014, 146; a livello giurisprudenziale, ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 28 giugno 2016, n. 2921.
[33] Con l’espressione “soil sealing” la Commissione europea ha inteso riferirsi al «rivestimento del suolo per la costruzione di edifici, strade o altri usi» (COM/2002/179, Verso una strategia tematica per la protezione del suolo), ossia alla «copertura di una superficie e del relativo suolo con materiale impermeabile artificiale, come fondamenta di case, edifici industriali e commerciali, infrastrutture per il trasporto e altro» (Orientamenti in materia di buone pratiche per limitare, mitigare e compensare l’impermeabilizzazione del suolo, 2012).
[34] Sulla rigenerazione urbana, a livello monografico, A. Giusti, La rigenerazione urbana. Temi, questioni e approcci nell’urbanistica di nuova generazione, Napoli, 2018. Cfr., inoltre, i contributi contenuti in P. Chirulli - C. Iaione (a cura di), La co-città. Diritto urbano e politiche pubbliche per i beni comuni e la rigenerazione urbana, Napoli, 2018; F. Di Lascio - F. Giglioni (a cura di), La rigenerazione di beni e spazi pubblici. Contributo al diritto della città, Bologna, 2017; E. Fontanari - G. Piperata (a cura di), Agenda Re-Cycle. Proposte per reinventare la città, Bologna, 2017; M. Passalacqua - A. Fioritto - S. Rusci (a cura di), Ri-conoscere la rigenerazione. Strumenti giuridici e tecniche urbanistiche, Rimini, 2018.
[35] Cfr. G.F. Cartei, Il problema giuridico del consumo di suolo, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2014, 1285.
[36] Per un’esaustiva analisi, cfr. G. Guzzardo, La regolazione multilivello del consumo di suolo, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2018, 119 ss.
[37] Cfr. P. Urbani, A proposito della riduzione del consumo di suolo, in Riv. giur. edil., 2016, II, 238.
[38] Cfr. F. Fracchia, Sviluppo sostenibile e diritti delle generazioni future, in Riv. quadr. dir. amb., 2010, 21.
[39] In tal senso v. Corte cost., 26 febbraio 1990, n. 85.
[40] Cfr. P. Urbani, A proposito della riduzione del consumo di suolo, cit., 232.
[41] In particolare, per ciò che concerne la visione “integrata” della rigenerazione urbana: cfr. L. Giani - M. D’Orsogna, Diritto alla città e rigenerazione urbana, cit., 2018 s.; amplius, A. Giusti, La rigenerazione urbana, cit., 63 ss.
Piano di ripresa e resilienza, maxiemendamenti e nuove speranze
di Giuseppe Rana
Questa Rivista ha sollecitato l’attenzione di studiosi ed operatori sulla recente presentazione da parte dell’Ufficio Legislativo del Ministero della Giustizia di emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S/XVIII, presentato al Senato il 9 gennaio 2020 e recante Delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie ( v. contributi dei professori Giuliano Scarselli, Andrea Panzarola e Bruno Capponi).
Il lungo elenco delle novelle al codice processuale civile costituisce un vero monumento all’inutilità, almeno se si deve guardare alla questione della tempistica di tutela dei diritti.
In realtà, ragionando in termini molto generali ed aggregati, bisogna pur ammettere che nell’ultimo decennio si sono registrati dei progressi quanto al carico complessivo sul sistema, soprattutto se si guarda al dato nazionale della pendenza complessiva dei processi e della migliorata speditezza ed efficienza di certi settori come i procedimenti di esecuzione immobiliare: tuttavia, se guardiamo al contenzioso ordinario, i progressi sono legati pochissimo agli interventi sul rito, poco agli interventi sulla mediaconciliazione e negoziazione assistita e molto, alla nota diminuzione dei flussi in ingresso, oltre all’impegno di adeguamento organizzativo di molti uffici giudiziari ed agli sforzi dei giudici.
Né sembrano offrire serie prospettive certe scommesse imperniate su una draconiana politica dei costi di accesso, sulla sommarizzazione generalizzata del rito, su severissime sanzioni tese a scoraggiare condotte dilatorie o temerarie o sulla limitazione dell’accesso al giudizio di legittimità: oltretutto molto vi sarebbe da dire sul grado di civiltà e di compatibilità costituzionale di simili ricette. Come dice Giorgio Costantino: “se piove, si apre l’ombrello”, ovvero si cerca innanzitutto di correre ai ripari e di adeguare l’organizzazione alle condizioni date nell’economia e nella società, non di variare artificiosamente le stesse adottando politiche che non sono mai neutrali rispetto ai valori fondamentali in gioco. Diversamente, come ricorda Capponi, è come partire dall’assunto che i pronto soccorso siano pieni di malati immaginari e perditempo e ci si proponga allora di chiudere gli ospedali, irrogando pure sanzioni a chi insista a presentarsi in astanteria con la testa rotta, essendo fondato il sospetto che… se la sia rotta apposta o faccia finta. La domanda di giustizia civile in questo Paese è e sarà sempre elevata e questo fenomeno, più che essere represso e/o deviato verso (per lo più utopiche) sedi diverse di composizione, va rispettato, interpretato e riversato in un ambiente adeguato, ben organizzato e conformato ai valori di riferimento.
Che poi ci siano in generale pochi giudici per troppe cause è convinzione comune. In realtà ciò è vero in termini molto generali, ma bisognerebbe fare molte e molte distinzioni: la Giustizia civile è un campo vasto ed eterogeneo dove bisogni e diritti tra i più diversi incontrano formule giuridiche ed organizzative a loro volta le più diverse. Se dobbiamo concentrarci sulla macroarea più visibile e forse più critica, ossia quella del contenzioso ordinario, allora è certo che in Italia i giudici sono pochi dappertutto ma va tenuto ben presente che i carichi di lavoro (da intendersi grosso modo come rapporto tra numero di nuove cause nell’unità di tempo e giudici disponibili) variano molto da luogo a luogo e da regione a regione, come dimostrò agevolmente un’interessante indagine statistica del Ministero della Giustizia di qualche anno fa e come confermato dagli studi condotti dal CSM.
Questo è uno dei principali motivi, anche se non l’unico, per il quale tribunali e corti anche vicini tra loro vedono carichi molto eterogenei: da giudici con un “ruolo” individuale che va da quantità quasi fisiologiche ed ideali fino a portafogli spropositati ed ingestibili che si traducono quasi ineluttabilmente in tempistiche di lavorazione abnormi ed atteggiamenti burocratici e difensivi. Le recenti revisioni delle circoscrizioni giudiziarie, evidentemente, non hanno risolto queste disparità.
Ma non è questa l’unica distinzione che necessita se si vuol comprendere, almeno grossolanamente, il funzionamento reale della macchina sul territorio in rapporto alla disponibilità delle risorse di magistratura, al di là di luoghi comuni e programmi politici più o meno realistici.
Infatti, chiunque abbia studiato in modo scientifico il funzionamento degli uffici giudiziari italiani ha presto raggiunto la conclusione che non tutti i tribunali o corti, non tutte le loro sezioni e non tutti i loro magistrati si organizzano allo stesso modo a parità di risorse disponibili: anzi il contrario. In molti casi l’utilizzo delle risorse date è (in qualche caso parecchio) migliorabile, anche senza adottare formule e programmi esasperati e contrari alle nostre tradizioni.
Diciamolo: anche il termine “smaltimento”, se riferito alla vicende delle persone, delle famiglie e delle imprese è decisamente sgradevole e andrebbe eliminato dalla scena.
Studi scientifici di buon livello sull’organizzazione degli uffici giudiziari non ne mancano, anche condotti da estranei all’Amministrazione: basti pensare alla lunga analisi condotta dal Ministero in fase di avviamento del PCT a partire dagli anni 2000, all’esame condotto dalla Direzione generale di Statistica del Ministero dell’ultimo decennio (a cominciare dalla gestione di Fabio Bartolomeo), fino all’attività della Settima commissione CSM a partire dal 2010, data di insediamento della Struttura Tecnica per l’Organizzazione. Si tratta di un patrimonio inestimabile di conoscenze che però è rimasto nascosto non solo alla più vasta platea del Foro, dell’Accademia e dell’Amministrazione medesima, ma perfino a qualche attore di vertice, come sembra dimostrare il riferimento fatto alle buone prassi, nel recente e discusso decreto interministeriale.
Quello delle buone prassi, in particolare, è un fenomeno caratteristico della nostra Giustizia, che affonda le sue radici culturali nel più intimo modo di essere e di pensare dei giuristi e degli operatori professionali: se mi si passa l’espressione, nella giusdiversità del sistema. Eppure pochi conoscono i primi studi condotti dalla Struttura Tecnica dell’Organizzazione proprio tra il 2011 ed il 2012. Per non dire della banca dati che lo stesso CSM ha creato degli stessi anni, mettendo a disposizione degli uffici giudiziari e del loro dirigenti un piccolo tesoro di know-how e competenze nate dal confronto laboratoriale di svariate comunità di pratica, germinate spontaneamente sul territorio e composte spesso anche da professionisti e studiosi esterni oltre che da magistrati ed operatori amministrativi. Anzi, non tutti hanno avuto modo di apprezzare che lo stesso concetto di buona prassi nella Giustizia è ormai superato dal concetto più avanzato e significativo di modelli organizzativi. Per rendersi conto di ciò, basterebbe la delibera CSM del 7 luglio 2016, aggiornata poi in data 18 giugno 2018 (entrambe reperibili su https://www.csm.it/web/csm-internet/il-progetto-buone-prassi), alla cui istruttoria e stesura ho avuto la ventura di partecipare, nella quale si è proceduto ad impiantare una prima manualistica ricognitiva delle pratiche di organizzazione diffuse negli uffici giudiziari italiani.
Piuttosto istruttiva, tra l’altro, appare la ricca analisi statistica condotta dal competente ufficio del Consiglio ed allegata alle delibere citate, laddove la distribuzione delle prassi innovative (non solo civili) è censita per territorio, per tipologia di ufficio e per tipologia di attività: partendo dai dati aggregati, le buone prassi validate (ossia considerate utilmente da replicarsi) sono concentrate per il 42% presso gli uffici del Sud e delle Isole, per il 34% presso gli uffici del Nord e per il 24% presso gli uffici del Centro. Nel precedente studio che aveva preso in considerazione il totale delle buone prassi comunicate al CSM dagli uffici giudiziari alla data del 30 maggio 2016 ,il Nord rappresentava l’area geografica degli uffici con il maggior numero di buone prassi (38% del totale nazionale).
L’attenzione dell’organo di autogoverno a queste problematiche varia, fisiologicamente, a seconda del succedersi delle consiliature, ma si tratta di percorso che meriterebbe di essere portato avanti con più convinzione e consolidato.
Sta di fatto che lo studio condotto nell’occasione ha evidenziato non solo un opportuno rifiuto dell’efficientismo fine a sé stesso ma anche che un buon compromesso tra qualità e quantità della giurisdizione si può raggiungere mettendo assieme cultura e metodi operativi provenienti da due fondamentali direzioni: buona struttura di assistenza al giudice e buona programmazione individuale e collettiva del lavoro dei giudici e dei suoi tempi. Per dirla in breve, ufficio per il processo e programmazione per obiettivi. Non per tutti sarà una sorpresa sapere che questi due grandi modelli non sono che il frutto di due esperienze territoriali piuttosto note che si chiamano appunto Ufficio per il processo e Progetto Strasburgo: insomma di buone prassi ormai assurte a modelli organizzativi. Esperienze per certi versi controverse, specie la seconda, ma che certamente corrispondono a veri punti di svolta affermati i quali nulla ormai è più come prima. Infatti se ne è accorto anche il legislatore, per esempio quando ha introdotto le stratificate e frammentate normative che oggi costituiscono l’UPP come lo conosciamo e quando ha introdotto i piani annuali di gestione di cui l’art. 37 l. n. 111 del 2011. Ciò per non dire del Documento Organizzativo Generale che tutti gli uffici giudiziari debbono redigere, ai sensi delle circolari del CSM, ogni triennio: strumenti ancora precari perché frutto di interventi eterogenei e ancora poco coerenti tra loro. Anche per tal motivo hanno prodotto non poche reazioni di rigetto culturale, se non aperti tentativi di sostanziale liquidazione narrativa e burocratica.
Insomma, l’analisi della mole dei dati raccolti a suo tempo consente di concludere che l’intraprendenza delle comunità di pratica locali ha progressivamente condotto al naturale consolidamento (a risorse invariate o raccolte in sede locale) di queste semplici ma fondamentali linee di evoluzione:
a) creazione di strumenti statistici idonei a consentire una reale rilevazione dei flussi e la tipologia ed entità della domanda, nonché di programmazione e selezione delle priorità da trattare, anche nell’ottica dell’abbattimento dell’arretrato rilevante in base alla legge Pinto;
b) istituzione presso l’ufficio, la singola sezione e il singolo magistrato di nuove figure professionali ausiliarie peraltro variamente combinabili: gli assistenti per il processo nella attività di studio (ricerca dei materiali giurisprudenziali e catalogazione dei precedenti), di udienza (verbalizzazione, cura del fascicolo prima dell’udienza e scarico dell’udienza con tecniche avanzate) e amministrativa, anche attraverso l’ impiego appropriato della magistratura onoraria e dei giudici ausiliari per il recupero della funzione conciliativa e di supporto alle attività del magistrato togato; delega di specifiche attività processuali ed ausilio a progetti speciali di smaltimento dell’arretrato;
c) sviluppo del processo telematico specie sul versante delle capacità gestionali degli strumenti del giudice e dell’affidabilità quanto agli utenti esterni;
d) predisposizione di modelli integrati e centralizzati di trattazione di affari seriali e di organizzazione delle cancellerie, anche negli uffici requirenti.
La lezione culturale che proviene da queste esperienze dovrebbe essere chiara a tutti. Come ricordava Capponi (che quest’esperienza ha vissuto anni fa), il giudice solitario che combatte da solo contro pile di fascicoli, aggrappato solo al porto sicuro della sua competenza giuridica e della sua buona volontà, è un modello culturale superato, ormai inefficace di fronte alle nuove sfide. Per di più appare abbastanza distonico rispetto ai valori derivanti da una lettura aggiornata della carta costituzionale. Altrettanto superato è il modello di dirigente di ufficio giudiziario selezionato e legittimato in base alla sua bravura di giudice e non anche per la sua disponibilità a organizzare e dirigere realmente un tribunale o una corte: ma questa, come si dice, è un’altra storia.
Per dirla in breve, non è più ammissibile una cultura che mette al centro solo l’abilità del giudice a studiare, decidere e ben motivare il caso specifico (che pure deve essere sempre perseguita), senza preoccuparsi troppo di quanti casi nuovi arrivano, di quanti egli può deciderne e istruirne nell’unità di tempo, con quali livelli di approfondimento e con quali criteri di selezione delle priorità. Lo stesso vale quando si tratta di organizzare il proprio ruolo di cause, la propria sezione o il proprio tribunale.
Ma, come dicevamo, la questione delle risorse è reale ed attuale: perché l’ulteriore distinguo da fare in tema di rapporto tra giudici e cause sta proprio nel fatto che la proporzione va costruita coinvolgendo anche un terzo fattore: le risorse umane e materiali a disposizione di ciascuno tra i (comunque pochi) giudici in campo. Poche, ahimè, pure quelle, e mal distribuite sul territorio: così scarse che anche modelli organizzativi efficaci e potenzialmente decisivi non possono che raggiungere ad un certo punto, a risorse invariate, i loro limiti intrinseci.
Se dunque si vuole operare al di fuori di obiettivi di pura declamazione e di operazioni puramente narrative volte a perseguire semplici miti ambientali, le nuove risorse vanno indirizzate in queste direzioni: ufficio per il processo -comprensivo di assistenti qualificati al giudice e di personale amministrativo numeroso, nuovo e motivato)-, definitiva implementazione del PCT ed edilizia giudiziaria. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza sembra dunque andare nella giusta direzione, quando afferma che l’obiettivo di una giustizia più effettiva ed efficiente, oltre che più giusta, non possa essere raggiunto solo attraverso interventi riformatori sul rito del processo o dei processi. Occorre muoversi contestualmente seguendo tre direttrici tra loro inscindibili e complementari: sul piano organizzativo, nella dimensione extraprocessuale e nella dimensione endoprocessuale, che sono complementari fra loro. Dunque occorre intervenire, secondo il Governo su:
- Interventi sull’organizzazione: Ufficio del processo e potenziamento dell’amministrazione
- Riforma del processo civile e Alternative Dispute Resolution (ADR)
- Riforma della giustizia tributaria
- Riforma del processo penale
- Riforma dell’Ordinamento giudiziario.
Ebbene, mentre la più gran parte del “maxiemendamento” è dedicata alla riforma del rito processuale, in punto di organizzazione l’unico riferimento rilevante sembra quello all’Ufficio per il processo.
Oggi gli uffici per il processo sono di costituzione obbligatoria, grazie alle disposizioni contenute nelle circolari sulla formazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudiziari. Tuttavia avviene che, quando non ci si limiti a decreti-cornice puramente burocratici, privi di un piano esecutivo che attribuisca concrete mansioni sulla base di una specifica visione organizzativa, nella migliore delle ipotesi le risorse umane disponibili sono formate di fatto dai neolaureati tirocinanti previsti dal c.d. decreto del fare o dalla l. n. 111 del 2011 o da convenzioni locali: giovani spesso motivati e preparati ma che, grazie alla permanenza limitata a soli 18 mesi o meno, finiscono con il ricevere dall’ufficio giudiziario più di quello che sono in grado di dare. Le altre risorse (personale di cancelleria e giudici onorari) destinate per legge a comporre l’UPP continuano in gran parte a fare quel che facevano prima, con scarso coordinamento complessivo. In poche parole, anche le esperienze più avanzate e più compiute di Ufficio per il processo mostrano i limiti oggettivi rappresentati dalla inadeguatezza delle risorse umane.
In realtà, la proposta di legge delega, al di là della declamazione del proposito di ricorrere a “personale che ha determinati requisiti professionali anche prevedendo professionalità ulteriori rispetto a quelle previste dalla normativa vigente, da individuarsi, in relazione alla specializzazione degli Uffici, sulla base di progetti tabellari o convenzioni con enti ed istituzioni esterne, adottati dai dirigenti degli Uffici giudiziari”, appare fin troppo prudente. Più chiara e coraggiosa sembrava l’indicazione del PNRR, quando faceva riferimento a risorse, reclutate a tempo determinato con i fondi del PNRR, … impiegate dai Capi degli Uffici giudiziari secondo un mirato programma di gestione idoneo a misurare e controllare gli obiettivi di smaltimento individuati. Senonché secondo il Piano Nazionale, in un primo tempo l’UPP, rafforzato e finanziato dai fondi europei, dovrebbe servire per smaltire l’arretrato, dovendo assicurare un rapido miglioramento della performance degli uffici giudiziari per sostenere il sistema nell’obiettivo dell’abbattimento dell’arretrato e ridurre la durata dei procedimenti civili e penali. Invece a pag. 57 leggiamo che nel lungo periodo, al fine di non disperdere lo sforzo e i risultati conseguiti con lo straordinario reclutamento temporaneo di personale, laddove sia possibile, si intende verificare le condizioni per rendere operativa in via permanente la struttura organizzativa così costituita per mantenere inalterata la sua composizione e funzione: questa visione sembra poco convincente, prima di tutto perché esprime una visione riduttiva dell’UPP, legata solo all’esigenza di smaltire l’arretrato e non anche alla qualità delle decisioni; poi perché ha un orizzonte temporaneo esiguo in quanto si lascia intendere che una volta esauriti i fondi europei ci si dovrà… arrangiare di nuovo alla vecchia maniera.
Qualche parola, infine, sulla questione della dirigenza degli uffici giudiziari e della connessa querelle sulla gestione “aziendale” di corti e tribunali, posto che il PNRR si propone di intervenire anche nella direzione della selezione dei dirigenti.
Dico subito che si tratta di un dibattito superato quanto fuorviante. Superato perché ormai da tempo norme primarie e secondarie di varia origine attribuiscono compiti di programmazione gestione ai dirigenti degli uffici ed ai singoli magistrati. Fuorviante nella misura in cui allontana l’attenzione dal vero tema: non è più attuale una conduzione dei tribunali basata solo sulle abilità e culture tradizionali del giurista.
Non solo il mondo, giudiziario e non, è profondamente cambiato ma lo stesso art. 111 Cost., ed altre norme interne ed internazionali hanno imposto che dei tempi del processo si deve tenere conto unitamente agli altri principi che connotano la giurisdizione. Dunque non si tratta affatto di stabilire se i tribunali debbono essere gestiti a modo di impresa privata: piuttosto bisogna perseguire l’obiettivo dell’attuazione dei precetti costituzionali anche attraverso la comprensione e la trasparenza dei meccanismi organizzativi degli uffici giudiziari. Di poi occorre trarne le opportune conseguenze prendendo a prestito, solo se e quando serve, nozioni provenienti da scienze e culture diverse. Nozioni elementari di statistica e programmazione per obiettivi, ad esempio, sono alla portata delle nostre capacità ed intelligenze di giuristi e possono essere utili sia in funzione formativa e culturale sia in ottica di conformazione della giurisdizione ai moderni dettami costituzionali ed internazionali: nulla di più e nulla di meno che questo. E’ fondamentale, una volta conosciuti i flussi in ingresso (quelle che noi chiamiamo in gergo sopravvenienze), analizzare e conoscere a fondo quello che davvero succede a valle e quello che invece dovrebbe succedere, intervenendo sulle giuste leve. Insomma, aprire la black box che nasconde le modalità e di tempi di attraversamento: il tutto con criteri scientifici, certo, ma senza esasperazioni ed arricchendo la nostra cultura tradizionale di giuristi
Insomma, la giustizia civile si può salvare. Ma serve un progetto condiviso tra tutti i centri decisionali e attori, tale da attuare i precetti costituzionali ed assecondare e migliorare culture, tradizioni e logiche di azione del mondo giudiziario e della sua giusdiversità: debbono fare la propria parte Governo, Parlamento, CSM, SSM, Dirigenti, Foro, Accademia, fino ai semplici operatori di provincia. E serve assoluta comunanza di intenti e chiarezza di idee: solo in questo quadro organico possono servire aggiustamenti del rito e interventi sulle procedure di ADR. Affidarsi solo a queste ultime leve è un fallimento annunciato.
Intanto, in attesa di una vera svolta, un serio e strutturato Ufficio per il processo sarebbe piuttosto utile…
Per approfondire:
F.W TAYLOR, L’organizzazione scientifica del lavoro, trad. italiana 2004;
S. ZAN, Tecnologia, organizzazione e giustizia, 2004;
ID., Le organizzazioni complesse, 2011;
L. VERZELLONI, Dietro alla cattedra del Giudice – Pratiche, prassi e occasioni di apprendimento, 2009;
B. CAPPONI, Salviamo la giustizia civile, 2015;
G. PASCUZZI, La creatività del giurista. Tecniche e strategie dell'innovazione giuridica, 2015;
se si vuole, G. RANA, La governance della giustizia civile, 2014;
UFFICIO STATISTICO CSM, L’efficienza giudiziaria dei tribunali civili in Italia, 2018, in https://www.csm.it/documents/21768/137951/L%E2%80%99efficienza+giudiziaria+dei+Tribunali+civili+in+Italia+-+Anno+2018/ce36f18e-0476-3aef-df8f-478e13d670c9;
CSM, Progetto buone prassi, in https://www.csm.it/web/csm-internet/il-progetto-buone-prassi;
Le proposte di interventi in materia di processo civile e di strumenti alternativi
Giustizia Insieme vuole proseguire e sollecitare il dibattito sulle prossime riforme della giustizia civile pubblicando il testo finale della Commissione di studio presieduta dal prof. Francesco Paolo Luiso, testo che soltanto in parte è stato trasfuso nella proposta di emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S, sui quali hanno già scritto i professori Giuliano Scarselli, Andrea Panzarola e Bruno Capponi e stanno per essere pubblicati gli interventi dei consiglieri Giuseppe Rana e Raffaele Frasca.
In questo modo la Rivista intende offrire un fattivo contributo alla discussione sulle riforme, nella consapevolezza che soltanto un’ampia convergenza di contributi e condivisioni tra le categorie interessate potrà contribuire a individuare le soluzioni più adeguate per avviare a soluzione un problema che si trascina da troppo tempo, e che presenta infinite sfaccettature. Il testo varato dalla Commissione Luiso è di alto livello, e consente una discussione a tutto campo dei profili ordinamentali, organizzativi, strategici e strettamente processuali.
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