ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La proroga delle disposizioni emergenziali per i processi civili (d.l. 1° aprile 2021, n. 44). Una scheda
di Franco Caroleo
Il 1° aprile è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto-legge n. 44/2021 che, tra le altre cose, interviene a prorogare le norme per lo svolgimento dei giudizi in modalità alternative a quella in presenza.
La breve scheda che segue analizza le disposizioni del nuovo d.l. che riguardano il processo civile.
Titolo
Decreto-legge 1° aprile 2021, n. 44, “Misure urgenti per il contenimento dell’epidemia da COVID-19, in materia di vaccinazioni anti SARS-CoV-2, di giustizia e di concorsi pubblici”. (21G00056) (GU Serie Generale n. 79 del 1° aprile 2021).
La norma riguardante il processo civile
- art. 6, co.1, lett. a)
La proroga delle disposizioni processuali di cui agli artt. 23 d.l. 137/2020 e 221 d.l. n. 34/2020
L’art. 6, co.1, lett. a), del d.l. n. 44/2021 recita:
“Al decreto-legge 28 ottobre 2020 n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all’articolo 23, comma 1:
1) al primo periodo le parole «alla scadenza del termine di cui all’articolo 1 del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2020, n. 35» sono sostituite dalle seguenti: «al 31 luglio 2021»;
2) al secondo periodo dopo le parole «del medesimo termine» sono aggiunte le seguenti: «del 31 luglio 2021»”.
La vigenza delle norme processuali stabilite per il periodo pandemico viene così prorogata al 31 luglio 2021.
Questa volta, a differenza del precedente d.l. n. 2/2021, il legislatore ha scelto di non ancorare la proroga al termine dello stato di emergenza (di cui all’art. 1 d.l. 25 marzo 2020, n. 19, che al momento resta fermo al 30 aprile 2020), preferendo individuare un termine fisso.
Viene così novellato l’art. 23, co. 1, d.l. n. 137/2020, convertito con modifiche dalla legge di conversione n. 176/2020, nelle parti in cui stabilisce il termine ultimo per l’applicazione dei commi da 2 a 9 ter del medesimo art. 23 nonché delle disposizioni di cui all’art. 221 d.l. n. 34/2020.
Alla luce di questo intervento, il testo dell’art. 23, co. 1, risulta ora il seguente:
“Dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 31 luglio 2021, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2020, n. 35 si applicano le disposizioni di cui ai commi da 2 a 9-ter. Resta ferma fino alla scadenza del 31 luglio 2021 l’applicazione delle disposizioni di cui all'articolo 221 del decreto legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77 ove non espressamente derogate dalle disposizioni del presente articolo”).
Da qui deriva la proroga dell’operatività delle disposizioni emergenziali di cui agli artt. 23 d.l. n. 137/2020 e 221 d.l. n. 34/2020.
Devono quindi ritenersi prorogati al 31 luglio 2021:
- l’obbligo del deposito telematico di tutti gli atti (anche quelli introduttivi) e documenti, per come previsto dall’art. 221, co. 3, d.l. n. 34/2020;
- la celebrazione a porte chiuse che il giudice può disporre per le udienze pubbliche, per come previsto dall’art. 23, co. 3, d.l. n. 137/2020;
- la trattazione scritta che il giudice può disporre per le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti, per come previsto dall’art. 221, co. 4, d.l. n. 34/2020; tale modalità di trattazione può essere adottata anche per le udienze in materia di separazione consensuale e di divorzio congiunto, nel caso in cui tutte le parti che avrebbero diritto a partecipare all’udienza vi rinuncino espressamente, come ammesso dall’art. 23, co. 6, d.l. n. 137/2020;
- la celebrazione con collegamento da remoto che il giudice può disporre per le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti e dagli ausiliari del giudice, per come previsto dall’art. 221, co. 7, d.l. n. 34/2020; in questi casi, il giudice può essere collegato anche da un luogo diverso dall’ufficio giudiziario (art. 23, co. 7, d.l. n. 137/2020);
- il giuramento telematico del c.t.u., con dichiarazione sottoscritta con firma digitale da depositare nel fascicolo telematico (in luogo dell’udienza all’uopo fissata), per come previsto dall’art. 221, co. 8, d.l. n. 34/2020;
- la possibilità per gli organi collegiali di assumere le deliberazioni in camera di consiglio mediante collegamenti da remoto, per come previsto dall’art. 23, co. 9, d.l. n. 137/2020;
- la possibilità di deposito telematico degli atti e dei documenti da parte degli avvocati nei procedimenti civili innanzi alla Corte di Cassazione, per come previsto dall’art. 221, co. 5, d.l. n. 34/2020;
- la possibilità del cancelliere di rilasciare in forma di documento informatico la copia esecutiva delle sentenze e degli altri provvedimenti dell’autorità giudiziaria di cui all’art. 475 c.p.c., previa istanza telematica dell’interessato, per come previsto dall’art. 23, co. 9 bis, d.l. n. 137/2020.
Bruno Capponi intervista Modestino Acone
Modestino Acone (classe 1936) è stato allievo del prof. Virgilio Andrioli. Ha concluso la sua carriera di professore ordinario di diritto processuale civile nell’Università di Napoli “Federico II” dopo aver insegnato nelle Università di Bari, Teramo e Salerno. Nella X Legislatura è stato Senatore (PSI) occupandosi delle più importanti riforme della giustizia civile: i “provvedimenti urgenti” (legge n. 353/1990) e il giudice di pace (legge n. 374/1991). È stato anche relatore della legge sul procedimento amministrativo e sostenitore del principio della risarcibilità dei danni da lesioni di interessi legittimi. Esercita da sempre la professione di Avvocato.
1. Caro Modestino, sei uno dei più “anziani” – passami il termine – allievi del prof. Virgilio Andrioli, tra i massimi processualisti dello scorso secolo. Hai anche tu l’impressione che i giovani conoscano e richiamino poco gli scritti di questo grande Maestro?
L’insegnamento di Virgilio Andrioli – al pari di quello del Suo maestro Giuseppe Chiovenda – è, a mio avviso, tuttora attuale, caratterizzato come è dalla concretezza delle soluzioni cui perviene, mai indulgenti verso costruzioni teoriche fini a se stesse. I giovani processualcivilisti che, come tu ritieni, citano poco i suoi scritti, molte volte si accorgono solo alla fine del loro indagare che Andrioli, senza strepito e con parole semplici, era pervenuto al medesimo risultato. Andrea Proto Pisani, nel suo ultimo lavoro, ha messo bene in evidenza questa straordinaria qualità del Suo insegnamento.
2. Nella X Legislatura, Ti sei impegnato in prima fila, da Senatore, a favore delle “riforme urgenti” del processo civile (oltre che del giudice di pace). Cosa ti sembra sia rimasto di quelle novità, e cosa invece ti sembra sia mancato già da allora?
La X° legislatura fu molto importante per la giustizia civile. Conferì veste legislativa ai risultati di due iniziative culturali. Quella dell’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile e quella di Magistratura Democratica. La prima rivoluzionava il processo di cognizione, con l’introduzione di un rigido sistema di preclusioni nel giudizio di cognizione di primo grado e in quello di appello, non più novum iudicium, e con l’istituzione del “giudice unico in primo grado”, pomo della discordia tra i tre valorosi autori della proposta di riforma. La seconda riscriveva l’intera tutela cautelare introducendo una disciplina uniforme valida per tutte le misure cautelari.
Solo chi, come me, è sufficientemente “anziano” può comprendere oggi quanto siano state rivoluzionarie queste elaborazioni culturali della dottrina e della magistratura per rendere al cittadino una giustizia più efficiente. Mi toccò il solo compito di “assemblarle” e sono orgoglioso di avere contribuito a farle divenire leggi dello Stato, nonostante la caparbia ed ingiustificabile opposizione degli avvocati, miopemente conservatori, che ne fecero ritardare, per ben cinque anni, l’entrata in vigore.
3. La questione della magistratura onoraria sta esplodendo. Qualche anno fa, hai presieduto una commissione ministeriale che ha prodotto un testo che non ha poi avuto seguito. Come pensi possa essere risolto il problema dell’inquadramento degli onorari e della loro convivenza con i magistrati togati?
La X legislatura fu importante anche sul versante dell’ordinamento giudiziario perché introdusse una nuova figura di giudice onorario – il giudice di pace –, ostinatamente ostacolato, anche questa volta, dall’avvocatura che, ricordo, indisse uno sciopero di ben sei mesi, ritardando, senza alcuna reale giustificazione, l’entrata in vigore della riforma, non considerando che, ad un asfittico “conciliatore”, che oramai amministrava la giustizia per uno sparuto numero di controversie, veniva contrapposta la figura di un nuovo giudice onorario, cui si attribuiva una significativa competenza, oltre che per valore, per materia. Mi toccò anche per il “giudice di pace” il compito di condurre al traguardo quanto la scienza giuridica aveva elaborato. Oggi il giudice di pace decide oltre il 30% delle controversie civili!! E gli avvocati non storcono più il naso; anzi affollano le aule di questo giudice tanto da loro contrastato.
Ti ringrazio per il ricordo del lavoro della Commissione Ministeriale che ebbi l’onore di presiedere. Il lavoro si concretizzò in un testo che, come tu hai detto, non ha avuto alcun seguito; è rimasto abbandonato, sotto una pila di inutili carte, in qualche scaffale degli uffici del Ministero. Il lavoro della Commissione fu continuamente turbato da questioni sindacali o parasindacali, pretendendosi da taluni dei componenti la Commissione la collocazione dei giudici di pace nello status, se non giuridico, perché impedito dalla norma costituzionale, in quello previdenziale dei giudici nominati per concorso; come si sa la legge prevedeva, invece, la retribuzione a cottimo in base al numero delle decisioni.
Nonostante il tempo trascorso le posizioni contrapposte sono pressappoco le stesse.
4. Avremmo bisogno di una Corte Suprema che pronuncia principi di diritto effettivamente vincolanti? E, nella situazione attuale, che vincolo vedi possa nascere dalle altalenanti giurisprudenze della Corte?
È impossibile che una Corte di legittimità, che pronunzia ogni anno più di trentamila decisioni – tra sentenze ed ordinanze –, possa assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge (art.65, 1 comma, ord. giud.).
La selezione all’ingresso dei ricorsi non è stata in grado di evitare che non vengano segnalati casi di identità di questioni. Sono sotto gli occhi di tutti i contrasti, presenti anche tra le decisioni delle sezioni unite.
Insomma, se i ricorsi sono tanti, è impossibile pretendere l’uniformità delle decisioni e, di conseguenza, principi di diritto effettivamente vincolanti.
5. Si ha quasi l’impressione che la Corte di cassazione abbia litigato col diritto processuale civile: che ne pensi delle nullità processuali e dello “specifico pregiudizio” che la parte, che ha interesse a denunziarle, dovrebbe dimostrare?
Dici bene che si tratta di un vero e proprio litigio con il diritto processuale civile. Se la nullità esiste in iure, va dichiarata. Altrimenti ci affidiamo a valutazioni che possono essere del tutto arbitrarie. E tanto basta per essere scettici.
6. Si parla poco, se non tra gli addetti ai lavori, dei danni che il Coronavirus ha arrecato all’amministrazione della giustizia civile. Cosa pensi al riguardo? Come vedi le udienze da remoto e le cartolari? È diritto emergenziale, o resterà qualcosa anche in futuro?
Il Coronavirus ha soltanto accertato una situazione già divenuta irreversibile. Del resto il progresso tecnologico ha invaso, da tempo, non soltanto gli uffici giudiziari e gli studi professionali, quanto, soprattutto, l’intera vita delle persone. Non si tornerà indietro anche dopo la pandemia ed è un bene per tutti. Gli avvocati si sono consapevolmente accorti solo adesso della rivoluzione già avvenuta.
Sotto questo aspetto la riforma del 1990, eliminando le udienze di mero rinvio ed introducendo le memorie ex 183 c.p.c., ha previsto lo svolgimento di gran parte del processo di cognizione fuori della presenza in udienza, facendo salve, in sostanza, le sole udienze di assunzione delle prove.
Agli studiosi del processo civile compete il compito di spiegare in che modo l’ “oralità”, la “concentrazione” e l’ “immediatezza” di chiovendiana memoria sono presenti nel contesto del processo tecnologico, senza mettere in pericolo il principio di fondo che il processo “deve attribuire all’attore che ha ragione tutto quello e proprio quello che ha diritto di ottenere”. Sono convinto che il processo telematico è perfettamente compatibile con questi principi.
7. Hai da sempre esercitato la professione forense, e anche se ti piace scherzare su te stesso definendoti “avvocato di provincia”, pochi possono dire di avere la tua esperienza dei giudizi civili. Guardando a ritroso nella tua professione, quali considerazioni ti suggerisce la situazione attuale?
Caro Bruno, sono l’ultimo dei discepoli di un Maestro che non esitava a difendere le cause anche in pretura. Del resto sai meglio di me che per una questione controversa la difficoltà non si misura sul valore economico della stessa. L’esperienza del c.d. “avvocato di provincia” non è di importanza inferiore rispetto a quella di qualsiasi altro avvocato, come è testimoniato dai numerosi casi concreti che approdano in Cassazione.
Mi chiedi quali considerazioni la situazione attuale suggerisce.
Ebbene, ti dirò schiettamente quello che penso. Abbiamo consentito che non vi fosse un serio sbarramento per il conseguimento dei titoli necessari per essere abilitati all’esercizio della professione forense, favorendo indirettamente l’esplosione del numero delle controversie. Ma non è solo questo il motivo che ha condotto alla situazione attuale. Si è privilegiata esclusivamente la soluzione delle controversie per decisione del giudice. Non si è curata, invece, quella che in altri Paesi è la soluzione a cui si tende prioritariamente: la conciliazione della lite.
Tutti i tentativi del legislatore si sono rivelati vani perché la cultura della conciliazione deve soprattutto albergare nei difensori delle parti, prima ancora che nelle parti stesse. Si tratta, a mio avviso, di un problema culturale e morale che investe il fondamento stesso della professione di avvocato.
Siamo perciò giunti al punto che la Comunità Europea, visti vani gli ammonimenti delle Corti di Giustizia e considerata, nonostante gli interventi legislativi in tema di definizione alternativa delle controversie, “catastrofica” la condizione della giustizia civile in Italia (che, peraltro, incide su una non insignificante porzione del pil), ha condizionato l’erogazione di una notevole quota del recovery fund all’efficacia ed alla sostenibilità della “riforma” della giustizia civile.
8. Secondo Te, chi studia il processo civile può non conoscere la dimensione pratica del processo?
A domanda categorica rispondo altrettanto categoricamente: no, il processo è (anche) tecnica. Se non la si conosce, è impossibile praticarlo.
9. Secondo Te, che caratteristiche dovrebbe avere chi, ora, si vuole impegnare nello studio del diritto processuale civile?
Domanda difficilissima. Il profilo del processualcivilista moderno è quello di chi, oltre alla materia processuale, non può prescindere da una conoscenza ulteriore imposta anche dall’accresciuto numero dei diritti giustiziabili. La specializzazione diviene una vera e propria necessità.
10. Per concludere: cosa pensi si dovrebbe fare per migliorare l’attuale situazione? La tutela civile dei diritti ti sembra una realtà, o un’aspirazione che tende a entrare nel mito?
Abbiamo esaurito tutti gli escamotages per ridurre la durata delle controversie civili che è poi il primo ostacolo da superare per realizzare una giustizia “giusta”. Non conosco cosa proporrà il nostro governo alla Comunità Europea e rabbrividisco al solo pensiero che possa trattarsi dell’ennesima “variazione sul tema”.
Se l’Italia vuole incidere sull’attuale realtà, deve agire su vari fronti introducendo: a) un esame rigoroso per l’ammissione al corso di laurea in giurisprudenza; b) un esame, altrettanto rigoroso, per l’ammissione al patrocinio; c) il rafforzamento della conciliazione obbligatoria; d) l’ulteriore ampliamento della competenza dei giudici di pace.
Aggiungi, caro Bruno, una seria riforma delle circoscrizioni giudiziarie - riforma di difficile attuazione, sino ad ora ostacolata dagli interessi dei potentes locali -, con l’accentramento dei tribunali nei capoluoghi di provincia, visto che il nostro Paese è fornito ormai di un sistema articolato e moderno di strade e di mezzi di comunicazione e tenuto conto che si va verso un processo sempre più affidato, nel suo svolgimento, alle comunicazioni telematiche sia delle parti che del giudice.
Tutto questo potrà non bastare nell’immediato, ma in un tempo che non oso stabilire consentirà di allineare l’Italia agli altri Paesi della Comunità Europea.
Problemi e prospettive della Sezione tributaria della Cassazione: le possibili soluzioni*
di Biagio Virgilio
Sommario: 1. I ventuno anni della sezione tributaria: la storica sottovalutazione del problema dell’entità del contenzioso - 2. L’attuale organizzazione della sezione - 3. Necessità di una svolta di mentalità e un’occasione da non perdere.
1. I ventuno anni della sezione tributaria: la storica sottovalutazione del problema dell’entità del contenzioso
Il 14 novembre 2000, in apertura del convegno sulla sezione tributaria organizzato nell’Aula Magna della Corte di cassazione ad un anno dall’inizio della sua attività, il Primo Presidente della Corte Andrea Vela affermò che lo scopo essenziale del convegno era quello di “porre sul tappeto, in maniera chiara e oserei dire perentoria, le esigenze attuali della giurisdizione tributaria; le scarse risorse di cui essa dispone per farvi fronte; il grave danno che conseguentemente ne ricevono tanto l’esercizio della funzione nomofilattica, quanto gli interessi generali dello Stato e quelli correlati dei contribuenti”; e si voleva altresì verificare, “al cospetto dei responsabili del settore, se e come sia possibile trovare a tutto ciò qualche rimedio efficace, in tempi brevi. Perché di questo si tratta: di provvedere presto e bene”. E subito dopo il presidente titolare della sezione, Michele Cantillo, rilevato che il numero dei ricorsi pendenti era già arrivato a superare ampiamente le 14000 unità (di cui circa la metà iscritti nell’ultimo anno), osservò che “un aumento dell’organico della Corte (….) può essere la via concretamente praticabile e, se sorretta da adeguata volontà da parte di chi di dovere, rapidamente percorribile per evitare il formarsi nel giro di qualche anno di un arretrato non più razionalmente gestibile”.
Dopo oltre venti anni da quel convegno, le parole allora pronunciate, che dimostrano come la Corte avvertì immediatamente il problema e lanciò subito un allarme, mantengono sostanzialmente integra la loro attualità.
Il grave sbilanciamento del rapporto tra contenzioso pendente e organico della sezione tributaria si è, infatti, rivelato una caratteristica costante: è sufficiente rilevare, a grandi linee e senza appesantire il discorso con eccessivi dati statistici, che il numero dei magistrati effettivamente assegnati alla sezione, compresi i presidenti, si è mediamente attestato, almeno per un quindicennio, intorno a 30/35, pari al 20/22 per cento dei magistrati complessivamente addetti alle sezioni civili della Corte, a fronte di sopravvenienze annue pari invece a quasi il 40 per cento del totale dei nuovi procedimenti civili e di una pendenza in costante aumento, fino a raggiungere presto quasi la metà di quella totale della Cassazione civile.
È poi interessante notare che la Commissione flussi, nel dicembre 2017, riconobbe che, in base all’applicazione del dato numerico, alla sezione tributaria dovessero essere attribuiti 52 consiglieri, ma che ciò avrebbe comportato uno “sbilanciamento esorbitante delle competenze della Corte (per un terzo assegnata ad affari tributari)”, con “l’effetto distorcente di deviare le complessive competenze civilistiche”; propose, pertanto, per la sezione, un organico di 40 consiglieri.
A parte alcune misure organizzative interne (quale l’applicazione, per qualche udienza straordinaria e su base volontaria, di magistrati di altre sezioni), solo con la legge di bilancio 2018 (n. 205 del 2017) il legislatore si è attivato, prevedendo, per un verso, la nomina, in via straordinaria e non rinnovabile, di magistrati ausiliari nel numero massimo di 50, da reclutare tra i magistrati a riposo e da destinare per un triennio a comporre i collegi della sezione (con il limite di due per collegio), e, per altro verso, la possibilità di applicazione parziale (cioè per due udienze/adunanze mensili) e temporanea (anch’essi per tre anni) alla sola sezione tributaria di magistrati addetti all'Ufficio del Massimario (con il limite di uno per collegio).
Si è trattato sicuramente di una iniziativa positiva che ha prodotto buoni risultati (anche se la compagine dei magistrati ausiliari, originariamente composta di 21 unità, si è andata riducendo nel tempo in ragione di intervenute dimissioni, giungendo alle attuali 13 presenze): basti pensare che, nell’unico anno in cui la sezione ha potuto fruire a pieno regime dell’apporto dei magistrati del Massimario e degli ausiliari, cioè nel 2019, è stato raggiunto per la prima volta il risultato del superamento, pari a circa 2000 unità, dei ricorsi definiti – quasi 11500 - rispetto a quelli sopravvenuti. Ma sono misure che volgono al termine: tra poco tempo scadranno dalle funzioni sia gli applicati (il 31 maggio) che gli ausiliari (a cavallo dell’estate). Ciò comporterà inevitabilmente, in mancanza di proroghe, un drastico ridimensionamento della produttività della sezione, quantificabile in 4.500/5000 ricorsi per anno.
Attualmente, la sezione è composta dalla presidente titolare, da cinque presidenti non titolari, da 40 consiglieri (di cui 11 assegnati alla sottosezione presso la sesta sezione), oltre, come detto, da 25 magistrati del Massimario applicati e da 13 magistrati ausiliari (2 assegnati alla sottosezione).
Al 31 dicembre 2020, i ricorsi pendenti in materia tributaria ammontavano a 53482, pari al 44 per cento della pendenza civile totale.
Perdura, quindi, una situazione di estrema criticità che non può e non deve ulteriormente essere tollerata: ecco perché possiamo, e dobbiamo, ripetere oggi le parole dei presidenti Vela e Cantillo prima ricordate.
2. L’attuale organizzazione della sezione
a)Generalità
Prima di passare ad esprimere qualche valutazione in ordine a quanto detto fin qui e ad avanzare alcune proposte concrete di soluzione (o di avvio a soluzione) del problema “tributaria”, ritengo utile, anche per offrire spunti di riflessione per l’ulteriore corso del convegno (con particolare riferimento alla seconda tavola rotonda), descrivere sinteticamente l’attuale assetto organizzativo della sezione, cioè il suo concreto modus operandi, come si è stabilmente delineato negli ultimi anni.
L’intento è sempre stato di perseguire la finalità di incrementare la quantità delle decisioni (la cosiddetta “produttività”), ma, allo stesso tempo, di favorire nel miglior modo possibile la coerenza della giurisprudenza.
Il risultato di accrescere il numero delle decisioni, di eliminare l’arretrato e quindi di ridurre la durata del giudizio di legittimità in materia tributaria a tempi fisiologici e ragionevoli è indubbiamente fondamentale e ormai improcrastinabile, ma ciò, anche per le ragioni che dirò tra poco, non può andare a detrimento della nomofilachia, funzione essenziale attribuita alla Corte di cassazione dall’art. 65 dell’ordinamento giudiziario, quale espressione dell’art. 111 Cost.
b) La suddivisione della sezione in aree tematiche
Venendo al concreto, i magistrati della sezione sono suddivisi già da molti anni in tre gruppi che rispecchiano le tre aree tematiche in cui la sezione stessa è articolata, individuate per tributi o gruppi di tributi (imposte dirette; iva, diritti doganali e accise; imposta di registro e tributi locali); nella proposta di organizzazione tabellare per il triennio 2020/2022 approvata dalla sezione nel mese di novembre 2020, è stato previsto l’inserimento in tabella della detta organizzazione, la composizione delle aree e i criteri di assegnazione e di permanenza dei magistrati presso le stesse.
c) L'Ufficio "spoglio e formazione dei ruoli"
L'Ufficio "spoglio e formazione dei ruoli" svolge, com’è intuibile, una funzione centrale per la funzionalità della sezione.
Esso, coordinato in ultima istanza dal Presidente titolare, è diviso anch’esso in tre settori, corrispondenti alle aree tematiche in cui la sezione è, come detto, tradizionalmente ripartita. Ciascun settore si compone attualmente di un presidente coordinatore, di un consigliere e di un magistrato del Massimario, e si avvale della attività di schedatura e classificazione dell'arretrato meritoriamente operata da un nucleo della Guardia di finanza distaccato presso la Corte. Ad un altro consigliere è, inoltre, affidato il compito di monitorare le decisioni e di segnalare al Presidente titolare incoerenze e antinomie e consentire a quest’ultimo le opportune iniziative.
Ai fini dell'attività di formazione dei ruoli, l'Ufficio adotta linee guida sperimentate, che prevedono il criterio di base della prioritaria fissazione dei ricorsi di più antica iscrizione, contemperato con la fondamentale esigenza di composizione, innanzitutto per le udienze pubbliche (ma anche, ove possibile, per le adunanze camerali), di ruoli tematici, formati cioè da controversie legate da connessione e/o stretta affinità di questioni, a prescindere dall’anno di iscrizione dei relativi ricorsi.
Rivestono poi priorità di trattazione: i ricorsi in relazione ai quali le parti abbiano comprovato ragioni di particolare urgenza; i ricorsi per revocazione ai sensi dell'art. 391-bis c.p.c.; i ricorsi coinvolgenti questioni sulle quali si registra un vasto contenzioso di merito (anche eventualmente segnalate dall'Avvocatura Generale dello Stato ai sensi del Protocollo d'intesa sottoscritto ormai da vari anni), la cui sollecita definizione in sede nomofilattica potrebbe avere anche funzione preventivamente deflattiva.
La distribuzione dei ricorsi tra udienze pubbliche e adunanze camerali risponde ai criteri dettati dall'art. 375, secondo comma, c.p.c., in base ai quali alle udienze pubbliche sono indirizzate le controversie in cui sia prima facie riscontrabile una chiara valenza nomofilattica, anche se, poiché l'esperienza insegna che siffatta valenza si rivela a volte nell'ambito della dialettica della camera di consiglio, non sono poche le decisioni camerali che presentano anch’esse un qualche interesse di tipo nomofilattico.
Il numero di ricorsi inseriti, per ciascun consigliere, nei ruoli di udienza/adunanza è, in linea tendenziale, di 4/5 per le udienze pubbliche e di 6/7 per le adunanze camerali (o anche in numero maggiore, per queste ultime, nel solo caso di trattazione congiunta di controversie sostanzialmente identiche), fatti salvi i correttivi resi attualmente necessari dallo svolgimento delle adunanze in via telematica.
Va sottolineato che, contrariamente a quanto probabilmente si ritiene all’esterno, sono molto rari i casi di ricorsi caratterizzati da elevata serialità pura (cioè concernenti una precisa e identica questione di diritto) e, quindi, la trattazione stabile in adunanza dell’anzidetto numero di ricorsi richiede ai consiglieri e ai presidenti di collegio un impegno non sostenibile oltre un ragionevole limite di tempo.
Negli ultimi anni, in particolare a decorrere dal 2018 (e a parte il 2020, per i ben noti motivi che lo rendono scarsamente idoneo ad essere valutato a fini statistici), le adunanze camerali sono state di gran lunga prevalenti, nella misura di circa i tre quarti del totale, rispetto alle udienze pubbliche.
Va infine sottolineato che la sezione ordinaria tiene da tempo mediamente 30/35 udienze/adunanze mensili, molto spesso quindi, inevitabilmente, con due, a volte anche tre, collegi che operano in contemporanea.
d) Definizione agevolata delle controversie tributarie ai sensi dell'art. 6 d.1. 23 ottobre 2018, n. 119
Nel corso del 2020 sono state emesse alcune centinaia di decreti presidenziali di estinzione del processo a firma della Presidente titolare, relativi sia a controversie definite per condono ai sensi dell’art. 11 del d.l. n. 50 del 2017, convertito dalla legge n. 96 del 2017 (sostanzialmente esaurite), sia a quelle soggette alla definizione agevolata di cui all’art. 6 del d.l. n. 119 del 2018, convertito dalla legge n. 136 del 2018.
Va, poi, ricordato che, con recente provvedimento della presidente titolare, in considerazione dell’elevato numero, pari a circa 6000, di processi pendenti interessati dal condono introdotto dal citato art. 6 del d.l. n. 119 del 2018, è stata organizzata una struttura destinata alla definizione veloce e allo stesso tempo corretta di tali processi. In particolare, è stato previsto che i giudizi suscettibili di estinzione siano distribuiti in parti uguali tra la Presidente titolare e i tre Presidenti coordinatori dei gruppi tematici; che l’attività di individuazione e di controllo dei detti giudizi finalizzata alla emissione dei decreti di estinzione, finora compiuta dal Nucleo della Guardia di finanza in servizio presso la Corte sotto il coordinamento di un magistrato del Massimario, sia potenziata, al fine di garantire una verifica ulteriore e più scrupolosa, con un consigliere e altri due magistrati del Massimario, dichiaratisi disponibili senza riduzione dei compiti loro ordinariamente assegnati; che, infine, i Presidenti coordinatori possano anch’essi, in qualità di delegati, sottoscrivere i decreti di estinzione.
Ci si avvale, anche in questo ambito, ove occorra, della interlocuzione con l’Avvocatura Generale dello Stato.
In virtù di detta struttura organizzativa, si confida di estinguere almeno 4000 processi nell’arco dell’anno, senza intaccare l’ordinaria attività giurisdizionale.
e) Misure tese a favorire la coerenza della giurisprudenza
Consapevole della capitale importanza che il corretto esercizio della funzione nomofilattica riveste, anche al fine di contenere l'entità del contenzioso, la sezione si è particolarmente impegnata nella predisposizione di strumenti miranti a favorire l'uniformità della propria giurisprudenza.
In particolare, si è operato sia sul versante della prevenzione delle difformità interpretative (al fine di evitare contrasti inconsapevoli), sia su quello della risoluzione dei contrasti interni.
Sotto il primo aspetto, considerato il numero di udienze/adunanze che i diversi collegi della sezione, come si è detto, tengono giornalmente anche in contemporanea ed il tempo che mediamente trascorre tra la decisione e la pubblicazione delle sentenze/ordinanze, il primo e più delicato problema che si pone è quello della tempestiva conoscenza della giurisprudenza in itinere.
In proposito, pur nella consapevolezza della necessità che non sia data pubblicità a decisioni ancora non trasfuse in sentenze pubblicate, si è tuttavia fortemente incentivato l’uso di canali informativi riservati (dropbox, chat sezionale e per area tematica, iniziale sperimentazione di archiviazione sulla piattaforma Teams) per tenere al corrente i colleghi, nel modo più rapido e semplice possibile, di decisioni relative a questioni nuove o che si discostano da precedenti orientamenti.
Considerato inoltre l’elevatissimo numero delle pronunce, si è raccomandato ai presidenti di collegio di utilizzare il modulo a tal fine predisposto per segnalare all’Ufficio del Massimario le sentenze più rilevanti sul piano nomofilattico, allo scopo di agevolare e velocizzare il lavoro di selezione svolto da quell’Ufficio, anche ai fini della rassegna periodica della giurisprudenza della sezione, che il Massimario ha meritoriamente introdotto da oltre due anni e che si è rivelato uno strumento molto utile di immediata consultazione.
Per quanto concerne il problema della risoluzione dei contrasti interni già verificatisi (consapevolmente o inconsapevolmente) con la pubblicazione della decisione, va segnalato che, oltre alla indizione di eventuali apposite riunioni sezionali, nella proposta di variazione tabellare deliberata nel mese di novembre 2020 (sopra citata), è stata inserita una rilevante novità, costituita dalla previsione, ritenuta di particolare efficacia, di uno specifico modulo organizzativo, che può essere definito collegio speciale nomofilattico, formato (a rotazione) da magistrati appartenenti a tutte le aree tematiche e deputato, appunto, alla composizione, all’interno della sezione, di contrasti su questioni di competenza “trasversale” ai gruppi (quali quelle concernenti istituti procedimentali o processuali tributari, ma anche, in casi non infrequenti, di diritto tributario sostanziale).
Lo scopo è quello di discernere i contrasti effettivi da quelli meramente apparenti e, quanto ai primi, che attengano ovviamente a questioni di stretta competenza sezionale, di tentare di pervenire al riassorbimento del conflitto interpretativo in ambito interno (anche avvalendosi, ove ritenuto necessario, di relazioni dell’Ufficio del Massimario), prima di richiedere il definitivo intervento chiarificatore delle Sezioni unite.
f) Rapporti con la sottosezione presso la sesta sezione
La sottosezione è attualmente composta, oltre che dal coordinatore, da un numero di consiglieri (10 più due ausiliari), in regime di assegnazione esclusiva, idoneo ad assicurare l’operatività di due collegi.
Il mantenimento di tale assetto (sotto entrambi i profili, doppio collegio e assegnazione a tempo pieno) è oggetto di riflessione negli ultimi tempi; personalmente ritengo inopportuno, allo stato, apportare variazioni strutturali, anche in ragione della situazione di incertezza in cui versa in questo momento la sezione nel suo complesso.
Si rivela di grande importanza il mantenimento, e anzi l’intensificazione, di un costante flusso informativo tra la sezione e la sottosezione, la quale ultima, in particolare, deve segnalare al Presidente titolare o ai presidenti coordinatori delle aree tematiche le controversie rimesse alla sezione che presentino ragioni di urgenza della decisione, dovute, ad esempio, alla presenza di un vasto contenzioso di merito che richiede, anche a scopo deflattivo, una rapida risposta nomofilattica.
3. Necessità di una svolta di mentalità e un’occasione da non perdere
A) Tornando al tema dell’entità del contenzioso pendente presso la sezione tributaria, innanzitutto intendo fare una premessa di carattere generale, una sorta di testimonianza personale che sento doverosa per conoscenza diretta, lavorando in sezione da oltre 15 anni, e che certamente è stata sempre condivisa da tutti: la quantità del contenzioso non può essere certo addebitata ai magistrati o ai componenti la cancelleria. Gli uni e gli altri, in pari misura, hanno sempre, e vieppiù nel tempo, profuso il massimo impegno, fino ai limiti, e forse anche oltre, dell’esigibile.
Ciò posto, temo che la sottovalutazione del problema sia stata dovuta anche, da parte di alcuni, ad una inadeguata percezione (che, devo dire, ho colto in qualche occasione, e non solo io) dell’importanza e della complessità e difficoltà del diritto tributario.
Non si tratta evidentemente di fare graduatorie, fuori luogo, tra settori del diritto, ma di riconoscere, molto semplicemente e quasi banalmente, che il diritto tributario: a) disciplina il dovere di tutti di concorrere alle spese pubbliche in base al principio di capacità contributiva – cioè di pagare la “giusta“ imposta, secondo il dettato dell’art. 53 Cost., che costituisce specificazione ai fini fiscali del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. -, e quindi la essenziale attività dello Stato diretta a procurarsi i mezzi finanziari per il raggiungimento delle proprie finalità a vantaggio della intera collettività: riveste pertanto un evidente e fondamentale rilievo sociale ed economico (in proposito, da un recente calcolo statistico risulta che il valore complessivo dei ricorsi in materia tributaria pendenti in Cassazione è pari a circa 38 miliardi di euro); b) regola in tale ambito il rapporto tra Stato e cittadini, cioè tra fisco e contribuente, la cui conformazione costituisce la misura del grado di civiltà di una nazione; c) come ha detto il Primo Presidente della Corte di cassazione nella relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2020, e quindi nella più elevata sede istituzionale, “è uno dei settori più complessi e impegnativi dell’esperienza giuridica”: non vi è dubbio, infatti, che il diritto tributario è caratterizzato da elevata tecnicità, accentuata e resa ancor più complessa sia dalla necessità, da parte dell’interprete, di adeguarsi alla disciplina e alla giurisprudenza unionali (costituita, quest’ultima, da pronunce molto frequenti della Corte di giustizia, con la quale si può dire che si è instaurato una sorta di continuo e proficuo “dialogo”), sia dalla presenza di una normativa interna asistematica, stratificata, confusa, che rende a volte difficile anche il mero reperimento della regula iuris applicabile alla fattispecie concreta ratione temporis.
In definitiva, il diritto tributario - e il relativo contenzioso – non è affatto un diritto “minore”, quasi da considerare con sufficienza, e richiede, quindi, a pieno titolo, l’esercizio della funzione attribuita dall’ordinamento alla Corte di cassazione. Come ha affermato in un recente scritto Franco Gallo, con riferimento alla proposta di trasferire la materia tributaria ad altro ambito giurisdizionale, “non si tocchi nella sostanza l’attuale assetto della Corte di cassazione riguardo alla giurisdizione tributaria. La si lasci svolgere pienamente la sua funzione nomofilattica, perché anche in campo fiscale la legge e l’evoluzione nel tempo della giustizia hanno affidato ad essa, e non ad altri giudici, questa superiore funzione, quale unico ufficio giudiziario di pura legittimità che opera, nei limiti dell’art. 360 c.p.c., con l’apporto della Procura generale e conclude negli interessi della legge”.
B) L’attuale momento storico è particolarmente propizio per affrontare finalmente ed efficacemente, con interventi strutturali stabili, l’ultraventennale questione della funzionalità della sezione tributaria della Corte di cassazione.
Infatti, con la legge n. 145 del 2018 e il successivo d.m. del 17 aprile 2019 l’organico della Corte di cassazione è stato aumentato di 4 presidenti di sezione e 48 consiglieri, portando questi ultimi a 356: in realtà, peraltro, i posti in organico da distribuire tra le sezioni sono oggi di fatto 53, non essendo stati assegnati i 5 posti in più (da 303 a 308) già fissati con precedente decreto ministeriale.
Inoltre, il problema dell’arretrato della Corte in materia tributaria ha ormai superato i confini nazionali ed ha assunto rilevanza europea.
In definitiva, siamo di fronte a un’occasione da non perdere: anzi, è l’ultima chance che abbiamo per tentare di evitare che in Italia la giustizia tributaria – e quindi il diritto tributario – si avvii verso un degrado irreversibile.
Ed è il momento di intraprendere la strada maestra, costituita dall’aumento dell’organico, considerando la sezione tributaria non come una sorta di corpo a sé, quasi estraneo alla Corte di cassazione, e da trattare quindi con provvedimenti straordinari e precari (e a volte anche estemporanei), bensì per quella che è, vale a dire una sezione della Corte come le altre, il cui arretrato non è un quid di separato dal resto, ma si traduce e confluisce in arretrato della Corte di cassazione tout court e come tale va considerato e affrontato.
Vien da sé, pertanto, la netta contrarietà alla nuova proposta di assegnazione alla sezione, in via temporanea e contingente, di magistrati ausiliari onorari, prevista nel Piano nazionale di ripresa e resilienza: oltre a tutto quanto già detto in linea generale, va rilevato, da un lato, che non sono indicati i criteri di nomina di detti magistrati onorari (a differenza della misura introdotta nel 2017, la quale li individuava nei magistrati a riposo) e, dall’altro, che, dovendo ritenersi - e auspicarsi – che verrebbe stabilito anche questa volta il limite di due membri ausiliari per collegio, essi sarebbero ampiamente sottoutilizzati, in ragione della necessità di garantire nei collegi la presenza maggioritaria di magistrati istituzionali.
C) Consentitemi a questo punto di avanzare alcune proposte concrete, precisando che sono formulate a titolo personale, ma che sono anche il frutto di riflessioni e valutazioni comuni e antiche con i colleghi e che peraltro hanno già trovato espressione nella relazione recentemente inviata dalla Presidente titolare della sezione Camilla Di Iasi al Primo Presidente, ai fini della predisposizione del programma di gestione per l’anno 2021 previsto dall’art. 37 del d.l. n. 98/2011 (conv. nella legge n. 111/2011).
1) Aumento dell’organico dei consiglieri della sezione tributaria di almeno venti unità, portandolo così, rispetto alle attuali presenze effettive, a 60: ciò consentirebbe di definire stabilmente, tra sezione e sottosezione, intorno a 15000 procedimenti l’anno, e cioè da un lato di fronteggiare le sopravvenienze (stabilmente pari in media a 10000 all’anno negli ultimi 10 anni) e dall’altro di erodere l’arretrato di circa 5000 giudizi, sempre su base annua.
2) In attesa dell’aumento effettivo dell’organico all’esito del concorso da poco bandito, si rivela necessario, al fine di evitare nel frattempo una notevole diminuzione delle definizioni (pari a circa 3000 annue), prorogare, in via transitoria, l’applicazione presso la sezione degli attuali magistrati dell’Ufficio del Massimario, in scadenza, come detto sopra, il 31 maggio prossimo.
3) Misura ancor più auspicabile è una previsione legislativa – che rinviene un precedente in parte analogo nell’art. 5 del d.lgs. n. 24 del 2006 - che consenta il transito, previa ovviamente valutazione del CSM, degli attuali applicati del Massimario (o almeno di quelli che abbiano esercitato le funzioni giurisdizionali per un periodo ritenuto congruo) nella qualifica di consiglieri di cassazione, con destinazione alla sezione tributaria. Ciò al fine di non obliterare la loro pluriennale esperienza, avendo essi in questi anni, oltre a continuare a svolgere i compiti essenziali e preziosi tipici dell’Ufficio di appartenenza, acquisito, con risultati eccellenti, una profonda diretta conoscenza del giudizio di legittimità in genere e del contenzioso tributario in particolare: è un tesoro da non disperdere, nell’ottica di conservare, con effetto immediato, una composizione della sezione dotata della elevata professionalità che una materia così altamente specialistica e complessa esige; il provvedimento, d’altra parte, non andrebbe a scapito delle legittime e altrettanto fondate aspettative dei colleghi provenienti dal merito, per i quali resterebbero disponibili i 22 posti già messi a concorso per il settore civile (oltre a 18 per il penale), nonché quelli futuri, considerato che l’organico registra attualmente oltre 80 vacanze.
4) Nella stessa ottica di formare e affinare una specifica competenza nella materia, sarebbe molto importante, poi, la previsione di una permanenza minima in sezione di almeno 4/5 anni dei consiglieri ad essa assegnati, prima di eventuali trasferimenti; la storica natura – soprattutto con riguardo ad anni risalenti, poiché negli ultimi tempi il fenomeno si è notevolmente ridimensionato - di sezione di mero transito rivestita dalla sezione tributaria ha, infatti, comportato ovvi effetti negativi legati a tale turn over.
5) Altra essenziale misura è quella di un congruo incremento del personale di cancelleria, che lavora anch’esso da anni all’estremo limite delle forze e al quale esprimo, anche a nome di tutti i colleghi, un profondo apprezzamento e ringraziamento: in mancanza di un aumento consistente, commisurato all’entità del carico di lavoro in ogni fase dell’attività processuale, qualunque discorso sulla efficienza della sezione sarebbe del tutto vanificato.
6) Spetta, infine, esclusivamente al legislatore valutare, nell’esercizio della sua discrezionalità, l’opportunità, sempre al fine dell’abbattimento dell’arretrato, di introdurre misure deflattive del contenzioso di altra natura.
*L’articolo riproduce, con alcune limitate modifiche, il testo dell’intervento scritto allegato agli atti del Convegno organizzato da Area democratica per la giustizia, tenutosi in data 12 marzo 2021 sul tema Il recovery fund e le criticità della sezione tributaria della Corte di Cassazione: quali opportunità?
Obbligo di vaccino. Istruzioni per l’uso*
di Vladimiro Zagrebelsky
Il contesto di una epidemia che non passa, di un virus tuttora poco conosciuto, che va e viene e cambia forma, colpendo in modi diversi e poco prevedibili, dal quasi nulla al letale, è l’ideale terreno che spinge alla ricerca affannosa di soluzioni, per tentativi, anche solo a scopo di sostegno psicologico per una opinione pubblica allarmata. E anche questa volta, come spesso in Italia, la soluzione viene cercata in una legge. Ma la vera utilità delle leggi si giudica prima sul terreno della loro necessità, poi su quello della loro esecuzione e infine sulla loro efficacia. Ciascuno di questi passaggi andrebbe analizzato in vista della iniziativa legislativa annunziata dal presidente del Consiglio, per obbligare il personale sanitario a vaccinarsi contro il Covid-19. Recentemente si è avuta indicazione di ricoverati in ospedale o ospiti in RSA che sono stati infettati dal virus e si sospetta che all’origine ne sia il personale sanitario non vaccinato. È così tornato in discussione un tema che era stato affrontato a livello astratto quando si annunciò la prossima disponibilità di vaccini. Come si disse già allora, la Costituzione consente di imporre un trattamento sanitario, come sono i vaccini, contro la volontà della persona. La possibilità è sottoposta alla condizione che l’obbligo sia previsto da una legge o da un atto equivalente, come il decreto-legge.
Ora si tratta di obbligare, non tutta la popolazione o larghe fasce di essa, ma soltanto medici, infermieri, operatori socio-sanitari. È probabile che il governo disponga di dati affidabili sul fenomeno, che si vuole contrastare e correggere, del rifiuto del personale sanitario di farsi vaccinare. Le dimensioni del fenomeno ed anche la sua realtà nelle varie categorie interessate vanno naturalmente tenute in conto per valutare l’adeguatezza dell’intervento legislativo e soprattutto il tenore del sistema che si immagina di introdurre. Un obbligo può essere articolato in molti modi. Esclusa la coercizione fisica, naturalmente, si possono prevedere sanzioni penali o amministrative per chi non si adegua, ma esse rispetto al problema concreto e alla sua urgenza sarebbero inutili. Diverso è il caso di conseguenze sul piano del rapporto di lavoro, pubblico o privato che sia. Tali conseguenze e la loro concreta gestione sono necessariamente diverse se si tratta di uno dei (pochi) medici specialisti di un ospedale, o uno dei molto più numerosi infermieri o operatori socio-sanitari. Il loro rapporto di lavoro poi è diverso e non per tutti è richiesta l’abilitazione alla professione.
Quanto ai numeri, non risulta vi sia un vero problema per quanto riguarda i medici. Il ricorso alla vaccinazione sarebbe pressoché totale, se si escludono casi particolari come quello dei medici che, avendo patito il Covid-19 ed essendone guariti, per un certo tempo non possono vaccinarsi. La previsione dell’obbligo di vaccinarsi non sarebbe quindi necessaria. Non sorprende che sia così per l’evidente interesse personale e professionale ed anche perché in tal senso spinge il codice deontologico, recentemente richiamato dal presidente degli Ordini dei medici. Più significativo sarebbe il caso della categoria infermieristica. Ma sarebbe sbagliato assimilare la posizione di coloro che non si vaccinano a quella dei NoVax, irrazionali, complottisti, ecc. Anche per gli infermieri il codice deontologico spinge verso l’accettazione del vaccino. Sarebbero però presenti perplessità di tipo sanitario in una categoria composta in gran parte da donne, spesso giovani, che temono effetti collaterali non ancora sufficientemente testati. Un’opera di seria informazione sarebbe necessaria, ma la circostanza è rilevante poiché potrebbe aprire la via ad un diffuso contenzioso, per far valere motivi validi in opposizione alle sanzioni. Su un altro piano va considerato che non è escluso che una persona, anche vaccinata, possa essere infettata e poi per un certo tempo essere infettiva. L’elemento vaccinazione da solo non sarebbe quindi decisivo, ai fini della protezione degli ospiti di ospedali e RSA; andrebbe chiaramente espresso lo scopo prudenziale che spiega il provvedimento in cantiere e non la presunzione di una sua efficacia assoluta.
Si tratta di questioni che dovrebbero essere esaminate nel momento in cui l’intervento legislativo verrà definito, quando la parola “obbligo” dovrà essere declinata in una forma concreta, utile e praticabile. Come è noto è diffusa l’opinione secondo la quale l’operatore sanitario in un ospedale o in una RSA, che rifiuta di vaccinarsi potrebbe -anzi, dovrebbe- essere allontanato dal servizio o almeno dal servizio a contatto con i pazienti o ricoverati, in applicazione delle leggi già vigenti. È di pochi giorni fa la decisione del giudice di Belluno che ha respinto un ricorso contro provvedimenti di quel tipo. La legge in preparazione potrebbe intervenire sul piano civilistico dell’adempimento dei doveri propri del rapporto di impiego; potrebbe utilmente chiarire e disciplinare, con specifica attenzione al settore sanitario che è in considerazione, l’obbligo per le strutture sanitarie di reagire al rifiuto del dipendente con il suo trasferimento ad altre mansioni, se possibile senza danno per la funzionalità del servizio, ovvero il suo allontanamento dal lavoro o il licenziamento. Una graduazione di possibili provvedimenti sarebbe opportuna. Soprattutto andrebbe disciplinata la natura del provvedimento “sanzionatorio” e la tipologia dei possibili ricorsi al giudice. Il problema cui si vuol dar soluzione richiede l’immediata efficacia del provvedimento e l’attenta regolamentazione dello svolgimento del controllo giudiziario.
*Il presente articolo è stato pubblicato sul quotidiano La stampa del 27 marzo 2021 e viene qui riproposto con il consenso dell'editore e dell'autore.
Imparzialità e ragionevolezza delle leggi-provvedimento. Il caso del Teatro Eliseo (nota a Cons. di Stato, sez. IV, ord. 21 dicembre 2020, n. 8191)
di Silia Gardini*
Sommario: 1. Inquadramento della vicenda processuale – 2. La disciplina dell’intervento pubblico nel settore teatrale ed il contributo extra-FUS al Teatro Eliseo – 3. La legge-provvedimento: legittimità e limiti nella giurisprudenza costituzionale – 3.1. I profili di incostituzionalità dell’art. 22, comma 8 del decreto legge n. 50 del 24 aprile 2017 – 4. Una considerazione conclusiva
1. Inquadramento della vicenda processuale
Con la pronuncia in commento, il Consiglio di Stato affronta la complessa vicenda innescata dalla erogazione di fondi statali straordinari in favore del Teatro Eliseo di Roma. Tale contributo straordinario è stato, infatti, istituito – al di fuori della disciplina e del procedimento ordinariamente previsti per l’intervento pubblico a sostegno dei soggetti operanti nel settore teatrale – direttamente dalla legge, con l’art. 22, comma 8 del decreto legge n. 50 del 24 aprile 2017 (convertito con modificazioni dalla l. n. 96 del 21 giugno 2017), al dichiarato fine di garantire la continuità delle attività del Teatro Eliseo in occasione del centenario della sua fondazione. Un successivo decreto del Ministero dell’economia e delle finanze ha, poi, autorizzato la spesa di 4 milioni di euro[1] per ciascuno degli anni 2017 e 2018, istituendo uno specifico capitolo di spesa nello stato di previsione del Ministero dei beni e delle attività culturali.
Avverso tale provvedimento, alcune società titolari della gestione di altri enti teatrali nella stessa città di Roma, hanno proposto ricorso dinnanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, lamentando che la concessione ad un solo teatro di un contributo di tal genere – evidentemente straordinario ed aggiuntivo rispetto a quelli già concessi in virtù della disciplina generale, compendiata nella legge n. 163 del 30 aprile 1985 e, ratione temporis, nel D.M. 1° luglio 2014 – avrebbe alterato la concorrenza e la parità di trattamento nella distribuzione delle risorse pubbliche disponibili. Dopo una pronuncia di inammissibilità da parte del Tribunale amministrativo regionale[2], in sede di appello il Consiglio di Stato ha invece ritenuto il ricorso ricevibile ed ammissibile e – segnalando la natura di legge-provvedimento della disposizione legislativa di cui all’art. 22, comma 8, del d.l. n. 50 del 2017 – con l’ordinanza annotata ne ha sollevato la possibile illegittimità costituzionale, in relazione alla violazione degli articoli 3, 9, 33, 41 e 97 della Costituzione: «[è] rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità dell’art. 22, comma 8, d.l. n. 50 del 24 aprile 2017, convertito con modificazioni in l. n. 96 del 21 giugno 2017, in relazione agli artt. 3, 9, 33, 41 e 97 Cost. nella parte in cui introduce un contributo straordinario in favore del teatro Eliseo al di fuori della disciplina e del procedimento ordinariamente previsti ai fini dell’intervento pubblico a sostegno dei soggetti operanti nel settore del teatro e dello spettacolo dal vivo».
La pronuncia appare particolarmente interessante poiché, dopo aver operato una ricostruzione della normativa in materia di intervento pubblico nel settore dello spettacolo dal vivo, si sofferma efficacemente sulla controversa categoria delle leggi-provvedimento, inquadrandone i caratteri principali e ripercorrendo i principali arresti della giurisprudenza costituzionale in materia.
2. La disciplina dell’intervento pubblico nel settore teatrale
La disciplina dell’intervento pubblico nel settore teatrale e dello spettacolo dal vivo si fonda essenzialmente sullo stanziamento di fondi pluriennali da parte dello Stato, cui i soggetti interessati possono accedere partecipando a specifiche procedure che si svolgono su base comparativa. Il fulcro del sistema è costituito dal Fondo unico per lo spettacolo (FUS), istituito dalla legge 30 aprile 1985, n. 163, “Nuova disciplina degli interventi a favore dello spettacolo”, con il duplice scopo di riordinare gli interventi finanziari a favore dell’intero settore dello spettacolo e di conferire agli stessi una disciplina unitaria. L’importo complessivo del FUS è allocato su differenti capitoli – sia di parte corrente che di conto capitale – dello stato di previsione del Ministero della Cultura.
La destinazione del FUS ai diversi settori che rientrano nella nozione di “spettacolo” (attività cinematografiche, musicali, di danza, teatrali, circensi e dello spettacolo viaggiante ed iniziative di carattere e rilevanza nazionali da svolgersi in Italia o all’estero) viene effettuata secondo una ripartizione percentuale, originariamente stabilita in quote minime dalla stessa legge n. 163/1985. Dopo la riforma del titolo V della Costituzione, che – com’è noto – ha attribuito alla competenza concorrente Stato-Regioni la promozione e l'organizzazione delle attività culturali (fra le quali è ricompreso lo spettacolo dal vivo[3]), l'art. 1 del D.l. 18 febbraio 2003, n. 24 (convertito in legge n. 82/2003), ha stabilito che i criteri e le modalità di erogazione dei contributi e le quote percentuali di ripartizione del FUS siano annualmente individuati con uno specifico decreto del Ministro per i beni e le attività culturali e per il turismo (oggi Ministro della Cultura) non avente natura regolamentare, adottato d’intesa con la Conferenza unificata[4].
I criteri e le modalità di erogazione dei contributi nell'ambito di ciascun settore sono stati, invece, più di recente ridefiniti dal D.l. 8 agosto 2013, n. 91 (convertito, con modificazioni dalla legge 7 aprile 2013, n. 112), recante «Disposizioni urgenti per la tutela, la valorizzazione e il rilancio dei beni e delle attività culturali e del turismo». In particolare, per tutti i settori dello spettacolo dal vivo (diversi da quello relativo alle fondazioni lirico-sinfoniche, per le quali è prevista una specifica disciplina), l'art. 9, comma 1, del D.l. n. 91/2013 ha previsto che i criteri di assegnazione dei contributi devono tener conto dell'importanza culturale della produzione svolta, dei livelli quantitativi, degli indici di affluenza del pubblico, nonché della regolarità gestionale dei relativi organismi.
A seguito della riforma del 2013, è intervenuto il D.M. 1° luglio 2014 – oggi superato, ma vigente ratione temporiscon riferimento alla vicenda oggetto dell’ordinanza annotata[5] – che ha definito, per la prima volta, criteri generali comuni a tutti i settori, introducendo la programmazione triennale delle attività ammesse al finanziamento, ferma restando la corresponsione annuale del contributo[6]. L’art. 46, comma 2 del medesimo decreto, ha previsto inoltre che, su esclusiva iniziativa del Ministro e sentite le Commissioni consultive competenti per materia, potessero essere finanziati anche progetti speciali, a carattere tanto annuale, quanto triennale.
In ogni caso, ai fini della valutazione comparativa delle domande (presentate da teatri nazionali, teatri di rilevante interesse culturale, imprese di produzione teatrale e centri di produzione teatrale), il D.M. disponeva l’attribuzione ai relativi progetti e programmi di un punteggio numerico massimo di cento punti, sulla base di tre parametri: la qualità artistica, per un massimo di trenta punti, attribuiti dalla Commissione consultiva competente attraverso la valutazione discrezionale di alcuni parametri; la qualità indicizzata, per un massimo di trenta punti, attribuiti dall’Amministrazione su base oggettiva, attraverso la valorizzazione di indicatori per la misurazione di specifici fenomeni individuati dal Decreto; la dimensione quantitativa (input/output/risultati), per un massimo di quaranta punti, attribuiti in maniera automatica, secondo una formula di calcolo prevista dallo stesso Decreto.
Si tratta, dunque, di un sistema “misto”, in parte discrezionale ed in parte legato a valutazione tecniche e vincolate, alla luce del quale i fondi disponibili vengono ripartiti in misura proporzionale al punteggio ottenuto in centesimi (che non può, ai fini dell’inserimento in graduatoria, essere inferiore a trenta). All’Amministrazione è sempre riconosciuto un potere-dovere di controllo (art. 7 D.M. 1° luglio 2014), anche successivo, al fine di accertare la permanente regolarità degli atti riguardanti l’attività sovvenzionata e dei relativi requisiti ed a seguito del quale possono verificarsi ipotesi di decadenza o revoca del contributo erogato (art. 8).
Alla luce della normativa generale, qui richiamata, al teatro Eliseo erano stati corrisposti sia contributi “ordinari” quale teatro di rilevante interesse culturale (ai sensi dell’art. 11 del D.M. 1° luglio 2014), sia contributi per progetti speciali (ai sensi dell’art. 46, comma 2, dello stesso D.M.), pari – rispettivamente – ad € 481.151 per il 2015 e ad € 514.831 per il 2016, nonché un ulteriore somma di € 250.000 per la realizzazione del progetto speciale “Generazioni”, sempre nel 2016.
In tale contesto si colloca l’art. 22, comma 8 del decreto legge n. 50 del 24 aprile 2017 (convertito, con modificazioni, dalla l. n. 96 del 21 giugno 2017) che – come sopra anticipato – ha istituito un ulteriore contributo straordinario in favore del Teatro Eliseo, «per spese ordinarie e straordinarie, al fine di garantire la continuità della sua attività in occasione del centenario della sua fondazione». Tale disposizione ha, evidentemente, natura di legge-provvedimento, poiché riguarda un solo destinatario, specificamente individuato e qualificato e presenta un contenuto particolare e concreto, rappresentato dall’erogazione di un contributo economico preventivamente quantificato e collocato nei capitoli di spesa nello stato di previsione del Ministero della Cultura, già responsabile dei finanziamenti ordinari.
Prima di analizzare più nello specifico i profili di illegittimità costituzionale che, a secondo la ricostruzione dell’ordinanza annotata, emergerebbero dalla disposizione in questione, è opportuno soffermarsi sulla figura generale della legge provvedimento, inquadrandone i tratti distintivi elaborati dalla dottrina e ripercorrendo le coordinate ermeneutiche nel tempo fornite dalla giurisprudenza costituzionale e richiamate dai giudici di Palazzo Spada.
3. La legge-provvedimento: legittimità e limiti nella giurisprudenza costituzionale
Com’è noto, la caratteristica principale della legge-provvedimento è rappresentata dalla capacità del dettato legislativo di incidere in via diretta sulle situazioni giuridiche soggettive dei suoi destinatari, con effetti concreti e puntuali, intervenendo su un campo ordinariamente assegnato all’autorità amministrativa[7]. Della legge essa mantiene, dunque, esclusivamente la dimensione “formale”, ovvero il procedimento genetico e l’aspetto esteriore, mentre la peculiare configurazione degli effetti prodotti, equivalenti a quelli provvedimentali, la riconduce – sul piano pratico – alle misure propriamente amministrative. Come ampiamente rilevato in dottrina[8], nella legge-provvedimento emerge una sorta di anomalia genetica che, unificando una qualificazione relativa all’efficacia della decisione pubblica (la legge) ed una che si riferisce al contenuto (provvedimento) «vale ad alterare il sistema delle fonti normative»[9].
La legittimità di tali atti legislativi è stata più volte scrutinata dalla Corte Costituzionale, che ne ha però escluso l’astratta incostituzionalità rispetto all’assetto dei poteri stabilito dalla Costituzione[10]. L’assenza in Costituzione di una esplicita “riserva di amministrazione” opponibile al legislatore, non consentirebbe, infatti, di considerare preclusa la possibilità che la legge ordinaria attragga nella propria sfera di disciplina oggetti o materie normalmente affidati all’azione amministrativa[11].
L’ordinanza in commento si sofferma ampiamente sulla giurisprudenza costituzionale in materia, evidenziando come – secondo la Consulta – il sistema di garanzia dei diritti individuali, “colpito” dalla legge-provvedimento, sarebbe comunque assicurato dalla “sostituzione” della giurisdizione costituzionale a quella amministrativa[12]. D’altro canto, la Corte prevede l’attuazione di uno scrutinio particolarmente stringente sulla ragionevolezza della disposizione, con un riferimento “rafforzato” alle regole ed ai principi – di uguaglianza, parità di trattamento, imparzialità e buon andamento – che ordinariamente presiedono all’attività amministrativa[13].
Corollario di tale ricostruzione concettuale è, dunque, la valorizzazione della pregnanza del sindacato costituzionale di ragionevolezza della legge, sino al punto da renderlo (o, almeno, di tentare di renderlo) incisivo al pari a di quello giurisdizionale sull’eccesso di potere. In tal modo, la Corte intende riconoscere al privato – seppure nella forma indiretta della rimessione della questione alla Consulta da parte del Giudice amministrativo – una forma di protezione ed un’occasione di difesa pari a quella offerta dal sindacato giurisdizionale degli atti amministrativi[14]. Il riconoscimento in capo al legislatore di un ambito di azione che si spinga sino a ricomprendere misure puntuali e concrete viene, dunque, bilanciato attraverso la piena sottoposizione del relativo potere di apprezzamento al vaglio di costituzionalità, sotto il profilo della non arbitrarietà e della ragionevolezza delle scelte compiute: sindacato tanto più rigoroso quanto più marcata appaia la natura provvedimentale dell’atto sottoposto a controllo. Resta, tuttavia, il fatto che lo strict scrutiny compiuto dalla Corte in tali circostanze, pur implicando in astratto l’estensione delle valutazioni del Giudice costituzionale, non può in nessun caso essere parificato al sindacato – ben più pregnante – del Giudice amministrativo[15]. Solo in rari casi, peraltro, la Consulta ha operato un controllo realmente penetrante sulle ragioni che hanno giustificato la deroga ai normali rapporti tra disporre e provvedere, tali da legittimare l’esistenza di una legge in luogo di un provvedimento. Secondo condivisibile dottrina, l’impressione che si ricava è che «la Corte non si inoltri nella ricerca dell’elemento teleologico che sorregge la sostituzione della legge al provvedimento ma si limiti a procedere all’ordinaria verifica della ragionevolezza della disciplina con riguardo al caso concreto»[16].
Per quel che più interessa il caso oggetto della pronuncia, l’art. 22, comma 8 del decreto legge n. 50 del 24 aprile 2017 viene correttamente ricondotto dal Giudice amministrativo nella categoria delle leggi-provvedimento c.d. “innovative”. Si tratta di disposizioni normative caratterizzate da personalità ed eccezionalità che, con riferimento a singoli soggetti e a specifici rapporti, derogano al diritto comune ed incidono in via diretta sul principio di eguaglianza[17]. Il contributo concesso al Teatro Eliseo ha imposto, infatti, all’amministrazione un obbligo di esecuzione ben definito in tutti i suoi elementi costitutivi, privando quest’ultima di qualsivoglia discrezionalità nell’applicazione della norma. In questi casi, come pure il Consiglio di Stato puntualmente rileva, l’unica possibilità di tutela per il cittadino è quella di impugnare gli atti applicativi della legge-provvedimento, seppure di contenuto vincolato, deducendone l’incostituzionalità[18].
3.1. I profili di incostituzionalità dell’art. 22, comma 8 del decreto legge n. 50 del 24 aprile 2017
Alla luce delle coordinate ermeneutiche della Corte costituzionale, i Giudici di Palazzo Spada rilevano – innanzitutto – il possibile contrasto dell’art. 22, comma 8 del decreto legge n. 50 del 24 aprile 2017 con l’art. 3 della Costituzione.
La finalità enunciata dalla norma, come sopra ricordato, è quella di contribuire alle spese affrontate dal Teatro Eliseo in occasione del suo centenario di attività, attraverso l’erogazione di uno stanziamento straordinario che si discosta dalle regole generali di assegnazione dei fondi statali agli enti teatrali. Sul punto, il Consiglio di Stato, con l’ordinanza annotata, rileva che tale previsione determinerebbe una ingiustificata discriminazione nei confronti degli altri teatri operanti nella medesima area geografica e con riferimento al medesimo bacino di utenti, in quanto soggetti titolari di un equivalente interesse al sostegno pubblico. Secondo il consolidato orientamento della Corte costituzionale, infatti, «[i]l principio di uguaglianza è violato anche quando la legge, senza un ragionevole motivo, faccia un trattamento diverso ai cittadini che si trovino in eguali situazioni»[19], poiché «l’art. 3 Cost. vieta disparità di trattamento di situazioni simili e discriminazioni irragionevoli»[20]. Di conseguenza, «quando situazioni sostanzialmente identiche siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso»[21], si verifica una palese violazione del principio costituzionale di uguaglianza.
Orbene, nel caso di specie – ad avviso del Giudice amministrativo – non emergerebbero né un particolare interesse pubblico alla elargizione del contributo straordinario al solo Teatro Eliseo[22], né tantomeno specifiche ragioni atte a giustificare una differenziazione del teatro beneficiario rispetto alle situazioni giuridiche soggettive dei teatri appellanti. Specularmente, la particolare importanza storico-artistica del teatro beneficiario, pure sostenuta dalle amministrazioni appellate, non troverebbe riscontro in dati concreti ed intellegibili e neppure se ne rinverrebbe traccia nei lavori preparatori alla legge.
Dall’alterazione degli equilibri nella distribuzione delle risorse pubbliche (garantiti dal sistema comparativo previsto dalla normativa ordinaria e derogati dalla legge-provvedimento), il Consiglio di Stato fa discende anche la possibile violazione degli artt. 9 e 33 della Carta costituzionale, posti a tutela dello sviluppo della cultura e della libertà dell’espressione artistica, valori rispetto ai quali risulta centrale la parità di accesso ai benefici disponibili.
Particolarmente interessante appare, poi, l’argomentazione relativa alla violazione dell’art. 97 Cost., in relazione ai principi di buon andamento ed imparzialità. Osserva, sul punto, il Consiglio di Stato – richiamando una recente pronuncia della stessa Corte costituzionale[23] – che in materia di leggi-provvedimento il procedimento amministrativo rappresenta il luogo elettivo di composizione degli interessi, in quanto è «nella sede procedimentale (…) che può e deve avvenire la valutazione sincronica degli interessi pubblici coinvolti e meritevoli di tutela, a confronto sia con l’interesse del soggetto privato operatore economico, sia ancora (e non da ultimo) con ulteriori interessi di cui sono titolari singoli cittadini e comunità, e che trovano nei princìpi costituzionali la loro previsione e tutela». In altre parole, se la legge-provvedimento, per la stessa conformazione che il legislatore ha inteso darle, presenta i tratti e gli effetti di un atto provvedimentale, ne consegue la necessaria applicazione delle garanzie tipiche del procedimento amministrativo, unico luogo che rende possibile l’emersione e la ponderazione degli interessi meritevoli di tutela, nonché la trasparenza dei processi decisionali, l’imparzialità delle scelte ed il perseguimento, nel modo più adeguato ed efficace, del pubblico interesse.
Per tali ragioni, la previsione generale contenuta nell’art. 12 della l. n. 241/1990 deve essere considerata, in tali casi, quale norma interposta rispetto all’attuazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione, “proiettando” sull’iter formativo della legge-provvedimento il necessario rispetto dei principi vigenti in materia di distribuzione delle risorse pubbliche, secondo i quali – com’è noto – è sempre necessario che i criteri e le modalità per l’attribuzione di vantaggi economici siano predeterminati, al fine di evitare ingiustificate discriminazioni e garantire la trasparenza dell’azione amministrativa[24].
Evidenzia, dunque, il Consiglio di Stato che l’erogazione straordinaria in favore del Teatro Eliseo, operata in assenza di qualsiasi progettualità o valutazione comparativa, si concretizzerebbe in un contributo privilegiato volto a far prevalere l’interesse di uno rispetto a quelli, parimenti meritevoli di tutela, degli altri soggetti esclusi ed «a discapito, quindi, dell’interesse generale».
L’ultimo profilo di incostituzionalità, rilevato dall’ordinanza in commento, riguarda l’art. 41 della Costituzione e s’incardina, dunque, sull’alterazione del meccanismo concorrenziale nel settore teatrale. L’erogazione in denaro conferirebbe, infatti, all’impresa che ne beneficia la possibilità di coprire costi ulteriori e di adottare, dunque, prezzi di mercato più competitivi, a discapito degli altri operatori concorrenti. Non emergerebbe, d’altro canto, alcun elemento idoneo a connotare l’infungibilità o la peculiarità dei servizi offerti dal teatro beneficiario, né tantomeno verrebbero in rilievo altre ragioni che – in un’ottica di bilanciamento – «potrebbero giustificare la deroga al valore costituzionalmente rilevante della libertà di concorrenza».
4. Una considerazione conclusiva
Nell’ultimo ventennio quote crescenti della messa in opera delle politiche pubbliche sono progressivamente passate nelle mani di attori diversi dall’amministrazione. La legislazione prevalente si è mossa, infatti, principalmente in due direzioni: o prevedendo norme dettagliate ed autoapplicative (come nel caso delle leggi-provvedimento), ovvero operando una sorta di “banalizzazione” della pubblica amministrazione, riducendone al minimo il potere decisionale ed accrescendo parallelamente gli oneri formali. Una regolamentazione assorbita soltanto nella forma perde la sua connotazione assiologica, poiché vengono meno i processi di verifica procedimentale con il corpo sociale e con gli interessi che esso esprime. Si delinea, in sostanza, un vero e proprio paradosso, che la dottrina ha sintetizzato come «l’illusione di amministrare senza amministrazione»[25].
In conclusione, l’effetto della legificazione sul terreno amministrativo, seppur astrattamente compatibile con il sistema costituzionale, finisce per avere conseguenze pratiche spesso controverse: la discrezionalità amministrativa non esercitata apre un vuoto enorme nell’amministrazione della cosa pubblica e determina il trasferimento di valutazioni e controlli in sedi atipiche, con il risultato «di giudizi sommari, (…) di confuse sovrapposizioni e serie disfunzioni»[26].
* Ricercatore di Diritto Amministrativo, Università degli Studi “Magna Graecia” di Catanzaro.
[1] L’entità del contributo, inizialmente ridotta dall’articolo 4, comma 3, della legge 22 novembre 2017, n. 175, – (che, nel disporre un finanziamento di 4 milioni di euro in favore di “attività culturali nei territori delle regioni Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria, interessati dagli eventi sismici verificatisi a far data dal 24 agosto 2016”, aveva rintracciato la relativa copertura finanziaria proprio nella corrispondente riduzione, per l’anno 2018, dell’autorizzazione di spesa in favore del Teatro Eliseo) – era stata poi raddoppiata per l’anno 2018 dalla Legge di Bilancio.
[2] Cfr., T.A.R. Lazio, sez. II, 6 marzo 2019, n. 3028, in www.giustizia-amministrativa.it, che dichiara inammissibile il ricorso in quanto diretto contro un atto – il decreto ministeriale del 3 agosto 2017 – non idoneo a concretizzare la portata lesiva della legge.
[3] Cfr., Corte Cost., sent. n. 255/2004.
[4] Lo ha stabilito la l. n. 239/2005, a norma della quale i decreti possono, però, essere comunque adottati qualora l'intesa non sia stata raggiunta entro 60 giorni dalla trasmissione del testo alla Conferenza unificata. Con la già citata sentenza n. 255/2004, la Corte costituzionale aveva evidenziato la ineludibile necessità di una riforma profonda della disciplina del finanziamento allo spettacolo dal vivo, che smorzasse l’eccessivo accentramento statale nella procedura di ripartizione del FUS, coerentemente con la mutata disciplina costituzionale discendente dal nuovo titolo V della Costituzione. La Corte aveva sottolineato, in particolare, che «per i profili per i quali occorra necessariamente una considerazione complessiva a livello nazionale dei fenomeni e delle iniziative (…) dovranno essere elaborate procedure che continuino a svilupparsi a livello nazionale, con l'attribuzione sostanziale di poteri deliberativi alle Regioni od eventualmente riservandole allo stesso Stato, seppur attraverso modalità caratterizzate dalla leale collaborazione con le Regioni».
[5] Attualmente i criteri di ripartizione del FUS sono disciplinati dal D.M. n. 332 del 27 luglio 2017, che ha abrogato, a partire dal 1° gennaio 2018, il Decreto del 2014 e le sue modifiche e integrazioni, fatte salve le disposizioni relative alla presentazione della documentazione consuntiva relativa all’erogazione dei contributi assegnati nel triennio 2015-2017 e comunque fino alla chiusura dei relativi procedimenti amministrativi. La nuova disciplina non si discosta significativamente da quella prevista dal Decreto del 2014. Di recente, a seguito della sospensione delle attività di spettacolo resasi necessaria per far fronte all'emergenza sanitaria da Covid-19, il D.l. n. 34/2020 ha individuato criteri specifici per l'attribuzione delle risorse del FUS nel periodo 2020-2022, in deroga alla disciplina generale.
[6] Il D.M. 1° luglio 2014 era stato, invero, dichiarato illegittimo dal TAR Lazio, con sentenza n. 7479 del 28 giugno 2016. Secondo il Giudice amministrativo, l’Amministrazione aveva, infatti, posto in essere una vera e propria riforma del sistema del finanziamento dello spettacolo, ponendo in essere un vero e proprio regolamento ed eludendo le disposizioni di cui all’art. 17 della l. n. 400/1988. Successivamente alla sentenza, l’art. 24, comma 3-sexies, del d.l. n. 113/2016, ha ribadito la natura non regolamentare del decreto ministeriale previsto dall’art. 9del d.l. n. 91/2013 (in virtù del quale era stato emanato il D.M. 1° luglio 2014), chiarendo che le regole tecniche di riparto ivi previste sono basate sull’esame comparativo di appositi programmi di attività pluriennale presentati dagli enti dello spettacolo e possono definire apposite categorie tipologiche dei soggetti ammessi alla presentazione della domanda per ciascuno dei settori di attività. Con sentenza n. 5035 del 30 novembre 2016, il Consiglio di Stato ha poi riformato la sentenza del T.A.R. del Lazio, confermando la natura non regolamentare del DM 1° luglio 2014 e ritenendo l'art. 24, co. 3-sexies, del D.L. 113/2016 norma di interpretazione autentica non innovativa.
[7] Secondo la giurisprudenza costituzionale, sono leggi provvedimento quelle che: «contengono disposizioni dirette a destinatari determinati» (sentenze n. 154/2013, n. 137/2009 e n. 2/1997) ovvero «incidono su un numero determinato e limitato di destinatari» (sentenza n. 94/2009), che hanno «contenuto particolare e concreto» (sentenze n. 20/2012, n. 270/2010, n. 137/2009, n. 241 2008, n. 267/2007 e n. 2/1997) «anche in quanto ispirate da particolari esigenze» (sentenze n. 270/2010 e n. 429/2009) e che comportano l’attrazione alla sfera legislativa «della disciplina di oggetti o materie normalmente affidati all’autorità amministrativa» (sentenze n. 94/2009 e n. 241/2008).
[8] Per un inquadramento generale del tema in dottrina, si rinvia a: F. Cammeo, Della manifestazione di volontà dello Stato nel campo del diritto amministrativo, in Primo trattato completo di diritto amministrativo, a cura di V.E. Orlando, Milano, 1907, III, 94; C. Mortati, Le leggi provvedimento, Milano, 1969; R. Dickman, La legge in luogo di provvedimento, in Riv. trim. dir. pubbl., 1999, 915 ss.; G.U. Rescigno, Leggi-provvedimento costituzionalmente ammesse e leggi-provvedimento costituzionalmente illegittime, in Dir. Pub., 3/2007, 319 ss. Più di recente: A. Sarandrea, Legge-provvedimento, in Dizionario di diritto pubblico, a cura di S. Cassese, Milano, 2006, 3430 ss.; S. Spuntarelli, L’amministrazione per legge, Milano, 2007, passim, che affronta ampiamente il problema della “amministrativizzazione” della legge formale come risposta alle nuove esigenze dello Stato sociale.
[9] In tal senso, L. R. Perfetti, Legge-provvedimento, emergenza e giurisdizione, in Dir. Proc. Amm., 3/2019, 1021 ss.
[10] L’art. 70 della Costituzione esprime una concezione di legge intesa in senso formale: la legge è tale non perché generale ed astratta, ma in quanto adottata all’esito del procedimento legislativo previsto dalla Costituzione. In tal senso: A. M. Sandulli, voce Legge (diritto costituzionale), in Noviss. Dig. It., IX, Torino, 1963, 630 ss.
[11] Tale orientamento si è consolidato a partire dalle decisioni n. 50 e 60 del 1957 ed è stato poi confermato dalla sentenza 21 luglio 1995, n. 347, in Giur. cost., 1995, 2608; Id., 16 febbraio 1993, n. 62, in Giur. cost., 1993, 446; Id., 21 marzo 1989, n. 143 in Giur it., 1989, I, 1, c. 1601. Tra le pronunce più recenti, si segnalano: Corte cost., n. 275/2013, n. 64/2014, n. 231/2014 e, da ultimo, le pronunce n. 181/2019 e n. 116/2020. Per un’analisi storica delle linee evolutive di questa giurisprudenza, nonché per un approfondimento sul concetto di “riserva di amministrazione”, si rinvia a D. Vaiano, La riserva di funzione amministrativa, Giuffrè, Milano, 1996, in part. 56 ss. Certo è che sull’argomento la Corte mantiene da tempo un atteggiamento non pienamente definito. Con sempre maggior frequenza, infatti, la Consulta annulla leggi-provvedimento mediante argomentazioni che sottintendono l’esistenza di una riserva di amministrazione, senza mai però esplicitare la costituzionalità di un tale principio. Esempio ne è la sentenza n. 258 del 2019 che, nel dichiarare illegittima la legge-provvedimento regionale che disciplinava un ambito di materia riservato dalla legge statale ad un provvedimento amministrativo, la Corte costituzionale ha sostenuto a chiare lettere l’esistenza di una «implicita riserva di amministrazione». Cfr., P. Scarlatti, Aggiornamenti in tema di limiti alle leggi-provvedimento regionali: luci e ombre della sentenza n. 28 del 2019 della Corte costituzionale, in Giur. cost., 1, 2019, 360 ss.
[12] Sul punto, si veda in particolare: Corte cost., 10 ottobre 2014, n. 231.
[13] Sul tema, si veda anche il recente commento di S. Spuntarelli, L’illegittimità costituzionale della legge-provvedimento e la “riserva” di procedimento amministrativo (Nota a Corte Costituzionale n.116/2020), in questa Rivista, 2020.
[14] Cfr., Consiglio di Stato, Sez. IV, 19 ottobre 2004, n. 6727, in www.giustizia-amministrativa.it.
[15] Cfr., R. Manfrellotti, Qualche ombra sull’effettività della tutela giurisdizionale avverso le leggi provvedimento, in Giur. cost., 5, 2019, 3740 ss.
[16] Cfr., A. Cardone, Nuovi sviluppi (rectius, ritorni al passato) sulle aree regionali protette in tema di riparto di giurisdizione tra corte costituzionale e giudice ammnistrativo, in Le Regioni, 2008; Id., Le leggi-provvedimento e le leggi autoapplicative, in L’accesso alla giustizia costituzionale: caratteri, limiti, prospettive di un modello, a cura di R. Romboli, Napoli, 2006, spec. 385.
[17] Sul pericolo di violazione del principio di uguaglianza insito in queste previsioni di natura derogatoria, si veda Corte cost., 9 maggio 2013, n. 85, relativa alle norme concernenti la bonifica della ex Italsider di Bagnoli e dell'ILVA di Taranto. Diverso è il caso delle leggi-provvedimento rivolte a dare applicazione concreta ad altre disposizioni normative, che incidono, invece, sulla separazione dei poteri, sottraendo alla cognizione del giudice l’applicazione della legge. Per un approfondimento sulla distinzione, si rinvia a G.U. Rescigno, Leggi-provvedimento costituzionalmente ammesse e leggi-provvedimento costituzionalmente illegittime, cit.
[18] Sul punto, si segnala anche la recente pronuncia della Quarta Sezione del Consiglio di Stato che, rimarcando la consolidata giurisprudenza amministrativa in materia, ha escluso l’impugnabilità diretta della legge-provvedimento dinanzi al giudice amministrativo, «dovendo il giudizio di costituzionalità conservare il proprio carattere incidentale, e quindi muovere pur sempre dall’impugnazione di un atto amministrativo (sulla cui qualificazione in termini di lesività e impugnabilità, a sua volta la giurisprudenza amministrativa adotta un approccio peculiare rispetto ai comuni principi proprio in quanto trattasi di atti direttamente applicativi di una legge- provvedimento, v. Cons. Stato, sez. VI, 8 ottobre 2008, n. 4933)». È, dunque, inammissibile, per difetto assoluto di giurisdizione, il ricorso con il quale si impugni in via diretta dinanzi al giudice amministrativo un atto avente forza di legge, chiedendone l’annullamento previa rimessione alla Corte costituzionale della relativa questione di legittimità costituzionale, sul presupposto che nella specie si tratti di una legge-provvedimento. Cfr., Cons. di Stato, Sez. IV, 22 marzo 2021, n. 2409, in www.giustizia-amministrativa.it.
[19] Corte cost., sent. n. 15/1960.
[20] Corte cost., sent. n. 96/1980.
[21] Corte cost., sent. n. 340/2004.
[22] Ricorda, a tal proposito, il Collegio che in ogni operazione di finanziamento «non è intelligibile solo un interesse del beneficiario, ma anche quello dell’organismo che l’elargisce, il quale, a sua volta, altro non è se non il portatore degli interessi, dei fini e degli obiettivi che si intendono soddisfare con l’erogazione del contributo» (Cons. Stato, sez. IV, 27 aprile 2004, n. 2555).
[23] Corte cost., sent. 5 aprile 2018, n. 69.
[24] Sul punto, la giurisprudenza amministrativa è salda nell’affermare che, per effetto del corollario desunto dal combinato disposto degli articoli 3 (obbligo di motivazione dell'atto amministrativo) e 12 (provvedimenti attributivi di vantaggi economici) della legge 241/1990, è illegittima la concessione di contributi pubblici qualora l’assegnazione ai relativi beneficiari sia priva di motivazione, ossia non indichi i criteri seguiti per formarla, né faccia rinvio ad altro documento esplicativo con riguardo alla procedura di valutazione eseguita. Sull’argomento, si veda, tra le pronunce più recenti T.A.R. Lazio, n. 2483/2020, in www.giustizia-amministrativa.it.
È interessante evidenziare che anche il Giudice contabile si è spesso soffermato sulla centralità dell’art. 12 della l. 241/1990 in materia di erogazione di contributi economici ai soggetti privati. In particolare, la Corte dei conti, Sezione regionale di controllo della Lombardia (deliberazione Lombardia, 19 gennaio 2017, n. 4/2017/PRSE) ha stabilito che l’Amministrazione che conceda concesso economici in favore di soggetti privati senza “predeterminare” i criteri e le modalità per la loro attribuzione, viola le regole di sana gestione finanziaria: «la condotta tenuta dall’ente non è conforme ai principi di sana gestione finanziaria in quanto, alla luce dei richiamati principi che governano la materia, l’ente non può compiere una valutazione “implicita” ma deve esplicitare le ragioni per le quali un determinato soggetto è individuato quale beneficiario del vantaggio economico riconducibile all’art. 12 della Legge n. 241/90».
[25] In tali termini, M. Cammelli, Amministrazione e mondo nuovo: medici, cure, riforme, Dir. Amm., 1-2/2016, 9.
[26] Ibidem.
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