Credo quindi sono: rileggere Dio esiste? 9 anni dopo
di Tommaso Manzon
Sommario: 1. Introduzione - 2. Dio esiste? - 3. Due soglie storiche - 4. Küng su Feuerbach - 5. La fine della storia? - 6. Conclusione.
1. Introduzione
Quando mi è stato proposto di contribuire di nuovo a queste pagine (virtuali) con un articolo che in qualche modo, e per quanto modestamente, potesse marcare il passaggio a miglior vita del teologo e filosofo cattolico Hans Küng, le sensazioni che questa commissione suscitarono in me si possono riassumere così: da un lato sorpresa e gratitudine, perché non mi aspettavo assolutamente di essere contattato – e quindi qui voglio cogliere anche l’opportunità per ringraziare Giustizia Insieme per la cortesia e l’interesse dimostratimi – dall’altro lato ho invece subito cominciato a chiedermi quale potesse essere il “taglio” adatto per questo pezzo. A questo proposito, quasi come una captatio benevolentiae, chiarisco subito che non sono né un esperto, né quindi tantomeno un’autorità sul pensiero di Küng e che pertanto non ho nessuna intenzione di esprimermi come tale.
Piuttosto, per citare C. S. Lewis dall’introduzione del suo Reflections on the Psalms, “scrivo come dilettante a un altro dilettante, discutendo delle difficoltà che ho incontrato o delle illuminazioni che ho ricevuto”[1]. Il mio desiderio è quindi quello di scrivervi a partire da un rapporto personale e non specialistico con un autore e i suoi testi, così come lo scrittore britannico fece, in maniera senz’altro più degna, con le composizioni del Salterio. Il mio contributo quindi non vuole essere né un in memoriam, di cui peraltro abbiamo avuto un’abbondanza nelle ultime settimane[2] né in qualche modo un tentativo di ricapitolazione o di inquadramento generale dell’opera del grande pensatore tedesco – compito per il quale non mi sento equipaggiato. Quello che vorrei fare è invece concentrarmi su di un’opera in particolare nella vasta produzione künghiana e con la quale per una serie di motivi intrattengo un legame affettivo particolare – non ultimo per il fatto che la copia in mio possesso del testo in questione mi fu regalata da mio Padre in occasione del natale del 2013, a poco più di un anno di distanza dalla mia conversione e a circa 9 mesi dal mio battesimo. Attraversando in modo sparso e irregolare questo testo – appunto, in base alle luci e alle difficoltà che vi ho trovato – vorrei aprire una finestra su un nesso molto importante della riflessione künghiana e che, ne sono convinto, si colloca al centro del tempo che stiamo vivendo.
2. Dio esiste?
Il libro a cui voglio fare riferimento s’intitola nella traduzione italiana Dio esiste? e già da questo si può facilmente comprendere quale sia il suo tema. In linea con lo stile di Küng, questo testo è scritto in un modo piano, ai limiti del divulgativo, il che lo rende una lettura agevole e coinvolgente nonostante le dimensioni particolarmente voluminose (943 pagine di testo nell’edizione italiana! – anche la tendenza a produrre libri-fiume è un tratto caratteristico del teologo svizzero). Lo scopo dell’opera è proprio quello di dare e di giustificare una risposta – affermativa, ovviamente – alla domanda che fa da titolo al volume. La ricchezza specifica del testo però, mi pare che non riposi solo nella sua conclusione e nelle motivazioni messe in campo dall’autore. Bensì essa si rinviene anche nel viaggio che Küng fa compiere al suo lettore, per poterlo portare, passo dopo passo, ad avere un’approfondita comprensione della problematica che si cela dietro la domanda di copertina, e in che modo sia possibile e vada compresa la risposta fornitagli al termine dell’argomentazione.
In altri termini potremmo dire che a un approccio di tipo problematico – per cui si ha una domanda e si cerca di argomentare a favore di una particolare risposta a questa domanda, tentando allo stesso tempo di mostrare al nostro interlocutore/lettore perché le risposte concorrenti non dovrebbero ricevere la nostra approvazione – Küng associa ed intreccia un modo di procedere genealogico. A questo proposito bisogna specificare che genealogico è simile a storico ma significa una cosa differente, e questa differenza è cruciale per capire il modo in cui Küng legga e affronti il suo materiale. Questo potrebbe sorprendere chi conosca il libro in questione o che abbia anche solamente dato una scorta al suo indice. Di primo acchito infatti, Dio esiste? sembra presentarsi proprio come un’indagine storica del come e del perché il problema dell’esistenza di Dio sia emerso nella coscienza dell’umanità europea, e di come si sia affermata una condizione culturale che di fronte a questo problema si pone con una risposta negativa se non più semplicemente con una scrollata di spalle. Ed è senz’altro vero che in Dio esiste? venga in qualche modo raccontata una storia, che comincia con Cartesio e giunge fino ai giorni nostri e che include frequenti excursus nella filosofia, teologia, politica e storia sociale della cultura europea degli ultimi 4 secoli. Eppure non si può descrivere quest’opera come lo sforzo di uno storico: troppa la velocità, troppe le digressioni, ma soprattutto troppe le semplificazioni di figure e momenti storici (e in qualche caso il volume mostra i suoi anni offrendo delle interpretazioni superate); non vi è quindi la dovizia di particolari che faccia assurgere la storia di Dio esiste? al rango di scientificità specifico di una storia nel senso accademico e disciplinare del termine.
Ciò non di meno cogliamo il punto, la “cosa” di cui Küng ci vuole parlare – andando così a cogliere anche le sue intenzioni che non sono comunque quelle di scrivere un libro di storia – se intendiamo questo racconto delle origini di una cultura e di un problema come una genealogia, intesa nel senso nietzscheano del termine[3]. Questo significa leggere Dio esiste? come uno studio – mi si perdoni la semplificazione di una questione molto dibattuta come quella della natura della pratica genealogica di Nietzsche – delle condizioni ed eventi che hanno causato le impressioni, che hanno attivato le forze, che hanno prodotto la nascita e la diffusione delle idee, forme di vita, istituzioni, gruppi sociali che hanno portato alla formazione della condizione odierna in cui ci troviamo. Pertanto questo giustifica lo stile e l’andamento della scrittura küngiana, che intreccia momenti descrittivi a momenti dialettici e prescrittivi, che si muove costantemente tra il piano diacronico dell’esposizione storica e quello sincronico della discussione problematica, e che fondamentalmente tende a voler definire il campo di emersione e lo strutturarsi di un problema; non si tratta quindi di voler esporre con dovizia di dettagli una cronaca della storia europea, né di esprimere giudizi personali sui suoi protagonisti, bensì si tratta di “illustrare la problematica moderna del rapporto ragione e fede”[4].
3. Due soglie storiche
In quest’ottica l’orizzonte sistematico-genealogico di Dio esiste? informa anche la scelta e l’ordine nella trattazione del materiale storico. Non è quindi arbitrario che il nostro cominci la propria discussione a partire dal ‘600 e dalle figure di Cartesio e di Pascal. Nello specifico Küng legge questi due pensatori come i “responsabili” principali per quanto riguarda la definizione della nostra attuale comprensione dei concetti di fede e di ragione, nonché dei loro possibili modi d’interrelazionarsi, in quanto piani che non s’identificano, che non si separano mai del tutto, ma che non riescono nemmeno a trovare una pace nella loro comunicazione reciproca – sicché, per semplificare al massimo, con Cartesio prevale la ragione che regola la fede e con Pascal è il contrario. Nella loro costante attualità i due pensatori francesi diventano quindi due interlocutori che non si può non invitare al tavolo della discussione al fine di comprendere la nostra situazione attuale. Insomma è a partire dal loro – non ad esclusione del passato ma come “soglia” che taglia la coscienza europea – che il lettore, alla luce dello scenario contemporaneo, non potrà evitare di chiedersi che cosa “in questa storia [fosse] ‘necessario’ e che cosa no” e se “questo processo storico verso l’ateismo pratico [sia] irreversibile, [se si sia] svolto una volta per tutte” o se invece ci sia “ancora un futuro per la fede in Dio”[5].
Un secondo effetto sulla disposizione del materiale causato dall’orizzonte problematico di Küng è evidente, a parere di chi scrive, nel fatto che l’analisi contenuta in Dio esiste? trovi il suo perno nella discussione della figura di Hegel. Per Küng il filosofo tedesco è stato capace sia di fare i conti in maniera onesta con l’ateismo in quanto opzione etica ed intellettuale, sia di offrirvi una risposta credibile. In questo senso la strada percorsa da Hegel sarebbe stata quella di prendere sul serio le obiezioni della non-fede facendone tesoro e includendole nel proprio discorso, per poi trascenderle; ossia, come scrive Küng, Hegel fu in grado di comprendere “l’ateismo moderno in maniera post-ateistica”[6], sicché quest’ultimo diventerebbe una critica ingenua fatta ad un’esposizione altrettanto ingenua della fede, entrambe le quali verrebbero raccolte e superate in una presentazione più matura del messaggio cristiano all’interno del pensiero hegeliano. In questo le unilateralità ereditate dal momento “Cartesio-Pascal” verrebbero inquadrate all’interno di una visione più ampia ma comunque amica e funzionale alla fede. Più in generale la prospettiva hegeliana è il punto di partenza da cui secondo il teologo svizzero dovrebbe prendere il via ogni discussione su Dio e il nostro rapporto con lui, perlomeno con riferimento alla tradizione cristiana – il che è peraltro in linea con il fatto che l’opera speculativamente più “incisiva” di Küng sia per l’appunto uno studio del pensiero teologico di Hegel con un interesse specifico per la sua cristologia[7].
Più nello specifico, secondo Küng il genio di Hegel è stato quello di ribadire l’essenziale della fede cristiana superando il debito contratto dalla teologia – e quindi inevitabilmente dalla expositio fidei – con il pensiero greco e con una certa immagine scientifica dell’universo pre-moderna. Data la crescente in-credibilità della seconda e l’eccessiva enfasi sulla staticità ed estraneità di Dio della prima, questo debito contratto dalla tradizione cristiana con mondi intellettuali a lei estranei aveva finito per produrre la problematica divaricazione tra fede e ragione emersa nei pensatori francesi del ‘600. Hegel sarebbe stato in grado di superare questo stallo riuscendo a pensare Dio nella sua trascendenza e nel contempo – e questo è lo specifico della sua proposta intellettuale e spirituale – di pensarlo nel suo più profondo coinvolgimento con e nella storia. Pertanto non vi è né può esserci divaricazione tra infinito e finito perché questi sono organicamente insieme in un’unione differenziata. Ancora più nel dettaglio la coscienza infinita di Dio e quella finita dell’uomo sono originariamente in comunione e questo impedisce che si possa dare una contrapposizione netta tra ragione e fede, o perlomeno che una delle due prevarichi sull’altra. Questo avviene in quanto sia il nostro rapporto con il finito che quello con l’infinito, ossia ragione & fede, pur essendo differenti e in una relazione non sempre chiara l’uno con l’altro, si sviluppano all’interno di una più vasta connessione con la divinità. In altre parole mi sembra di poter dire che Küng affermi come Hegel, a fronte delle sfide della modernità, sia stato capace di formulare in maniera convincente la classica affermazione cristiana circa il fatto che Dio sia dall’eternità il Vivente e il Creatore e che quindi egli non sia essere statico, ma essere dinamico che agisce e che non è originariamente esterno alla creazione bensì intimamente coinvolto con essa senza però esservi identico[8]. Quindi un Dio sì trascendente ma non distante e privo di passioni come nella tradizione greca e in particolare platonica, ma il Dio di Abramo, coinvolto e appassionato nella storia, slegato da una qualunque visione scientifica dell’universo e sperimentato come trascendente nel mentre la nostra vita e la nostra azione s’intrecciano con la sua.
Non è questo il luogo in cui poter discutere in modo approfondito una tesi articolata come quella di Küng su Hegel. Questo è senz’altro un dono prezioso che Dio esiste? si porta in dote ma che già a una prima lettura risulta tanto seria e pregna di conseguenze – e pertanto degna di essere presa in serissima considerazione – quanto discutibile, sia in base alla ricostruzione storica che essa sottende, sia dal punto di vista dei suoi effetti concreti. È proprio su un elemento di questo aspetto, ovverosia degli effetti delle tesi di Hegel, che voglio basare il resto di questo pezzo, perché qui si cela un altro “dono prezioso” del testo di Küng – forse l’aspetto che più mi colpì del testo che stiamo discutendo la prima volta che lo lessi, per il modo in cui riuscì a incontrare le domande e i dubbi che all’epoca mi si ponevano. Questo secondo “dono” consiste nella discussione che Küng fa della figura di Feuerbach.
4. Küng su Feuerbach
A chi abbia qualche nozione di base della storia della filosofia europea, sarà già venuto in mente che, come già sotteso nel paragrafo precedente, c’è un aspetto estremamente controverso nella lettura fatta da Küng di Hegel il quale ci porta direttamente alla “questione Feuerbach”. Perché se è indubbiamente vero che Hegel abbia nutrito la teologia cristiana e specialmente quella di scuola evangelica, dotandola di strumenti in grado di crescere e prosperare anche in un clima culturale e intellettuale che mutava e diventava sempre più difficile da navigare per la fede, è anche vero che dal seno del pensatore tedesco sono fuoriusciti alcuni tra gli atei più formidabili di tutti i tempi. Anzi si potrebbe aggiungere che quando l’Ateismo con l’A maiuscola è stato un movimento di massa – e con questo intendiamo quindi l’ateismo come posizione intellettuale rigorosamente meditata e portata per le strade come un grido di battaglia sociale, culturale ed etica, e in questo differenziandolo dall’ateismo odierno che più spesso è semplicemente il nome dell’indifferenza – ebbene esso lo è stato precisamente dietro la spinta di movimenti secolaristi, che in un certo qual modo si ponevano come l’onda lunga della rivoluzione del pensiero operata dalla filosofia hegeliana – e prima di tutto pensiamo al marxismo di stampo leninista e maoista.
Con il senno di poi si potrebbe quasi dire che la vicenda ora cristallizzata nei manuali di storia fosse inevitabile, o perlomeno una delle tante conseguenze, inevitabili, della meditazione hegeliana sulla storicità di Dio. Se infatti questa doveva dare un senso nuovo, vivo e concreto alla coscienza della trascendenza divina, risulta se non ovvio quantomeno intuibile il fatto che un’enfasi sulla presenza di Dio nella storia potesse portare alla sua confusione con la storia stessa, ossia che l’infinito trascendente collassasse nel finito immanente. Non è quindi un caso che, ritornando sull’intreccio tra finito e infinito descritto in precedenza, Küng scriva che
“basta mutare il punto di vista perché tutto appaia rovesciato: perché non sia più la coscienza finita a venire ‘superata’ nella coscienza infinita e lo spirito umano nello Spirito assoluto, ma viceversa la coscienza infinita in quella finita e lo Spirito assoluto nello spirito umano![9]”
Pertanto si può capire come al Dio nella storia di Hegel sia potuta seguire l’umanità come Dio di Strauss e il Dio come umanità di Feuerbach, per poi arrivare alla pura e semplice assenza di Dio e alla convinzione di Marx, Engels & soci che l’umanità potesse fare come Dio, creandosi il proprio paradiso in terra.
È proprio sul secondo membro di questa triade che vorrei soffermarmi perché Küng, che è ovviamente ben conscio di questa storia e che dedica sia a Feuerbach che a Marx delle pagine illuminanti, vede più nel primo che nel secondo l’insorgere di un ulteriore punto di non ritorno dopo quelli segnati da Hegel, Cartesio e Pascal – laddove Marx è invece visto soprattutto come colui che avrebbe portato certe intuizioni fuori dallo studio dell’intellettuale e al livello della politica di massa.
La posizione di Feuerbach in materia di religione è ben nota nelle sue linee fondamentali: l’uomo parlando di Dio e facendo quindi della teologia ha in realtà sempre e soltanto parlato di sé stesso, proiettando “in grande” i propri bisogni, le proprie aspettative e le proprie speranze. La teologia sarebbe quindi in realtà un’antropologia fatta sotto mentite spoglie. Ebbene secondo Feuerbach non vi è nulla di male in questo, di per sé, nella misura in cui i buoni sentimenti e le buone intenzioni alla base della parte migliore della religione vanno assolutamente approvati, diffusi e messi in pratica. Dovremmo però liberarci dell’illusione sottostante il linguaggio teologico e delle sue immagini per tradurle in quello che sono veramente – sicché l’amore per Dio diventerebbe l’amore per l’umanità, la speranza in un futuro escatologico si trasformerebbe in quella di un rinnovamento delle nostre condizioni materiali, etc., etc. [10].
La fortuna immediata di Feuerbach e specialmente della sua Essenza del cristianesimo – lavoro dove svolge per la prima volta in maniera sistematica le sue tesi a-teologiche – fu immensa, per poi venire presto superata da quella delle stelle nascenti della critica post-hegeliana. Il ruolo storico svolto dal suo pensiero – che comunque è ben più ricco e va ben al di là di quanto gli ha garantito uno spazietto nei manuali di storia della filosofia tra Hegel e Marx – è stato quello di fornire un’impostazione filosofica di fondo che giustificasse l’ateismo di alcuni dei più grandi critici della religione (specialmente cristiana) che si sono succeduti in seguito. Secondo la diagnosi di Küng questa fortuna è dovuta al fatto che la tesi di Feuerbach sembra – quantomeno di primo acchito – estremamente plausibile e convincente[11]: Dio è quello che in inglese si direbbe “pie in the sky” – una torta nel cielo – cioè una cosa molto bella, anche troppo per essere vera, e che la cosa più sobria e ragionevole sarebbe quella di ammettere che essa in realtà non esista e che non sia altro che un frutto della nostra immaginazione. Ma la tesi di Feuerbach tiene anche di fronte ad un esame più ravvicinato?
5. La fine della storia?
Fatti alla mano, si potrebbe rispondere di no. No perché da un lato Feuerbach non ha nutrito solamente la critica marxista ma anche il pensiero e la spiritualità cristiana, a partire d’altronde dallo stesso Küng, e ha spinto la teologia europea a riconoscere e sottolineare ancora una volta il primato della rivelazione di Dio. In altri termini, riconoscendo il concreto pericolo di una religiosità che sia semplicemente alienazione e proiezione dei propri desideri “in grande”, il pensiero teologico ha riscoperto la forza profetica della rivelazione biblica, sicché come viene ben cristallizzato dalle famose parole di Karl Barth – peraltro autore carissimo a Küng e al pensiero del quale egli dedicò il suo primo libro[12] -- nel XX secolo la teologia cristiana ha potuto nuovamente e più chiaramente affermare che “l’Evangelo di Dio” è “la interamente nuova, la indicibilmente buona e lieta verità di Dio. Ma appunto: di Dio! Non un messaggio religioso, dunque, non istruzioni o notizie sulla divinità o sulla deificazione dell’uomo, ma l’ambasciata di un Dio, che è totalmente altro, del quale l’uomo, come uomo, non saprà e non avrà mai nulla, e dal quale appunto per questo gli viene la salvezza”[13]. Ecco quindi una prima risposta a Feuerbach: grazie per averci indicato il pericolo di scambiare Dio per la nostra auto-deificazione, però quello di cui parliamo è qualcos’altro e possiamo farlo in una maniera coerente e convincente.
Una seconda risposta potrebbe essere quella di far semplicemente notare il perdurare più o meno indisturbato della religiosità umana, anche in luoghi che in precedenza avevano subito o subiscono ancora un regime di secolarismo, materialismo e ateismo forzato. In effetti gli studi in proposito sembrano indicare che la popolazione umana a livello mondiale stia diventando e diventerà sempre più religiosa, complice anche il calo demografico dei gruppi più secolarizzati. Allo stesso tempo anche l’Europa scristianizzata non sembra vedere una crescita esponenziale della non-fede, sebbene casomai della dis-affiliazione dalle comunità di fede – cosa ovviamente ben diversa. Citando due rilevazioni recenti – una globale e l’altra centrata sul Regno Unito, una delle aree più secolarizzate del continente europeo – la prima (2015) indica che l’84% della popolazione globale si identifica in una religione e come questa percentuale sia cresciuta negli ultimi anni[14], mentre la seconda (2018) indica che il 52% dei britannici non s’identifica con nessuna religione mentre solo il 38% si identifica come cristiana. Eppure solo la metà di quei “non-affiliati” si dichiara atea e la quantità di atei diminuisce mano a mano che il campione si fa più giovane: insomma, i britannici delle generazioni più recenti magari non frequentano molto le moschee o le chiese, però non considerano nemmeno l’ateismo una risposta valida alla domanda sulla fede[15].
È chiaro che di per sé accumulare numeri non può negare in alcun modo una tesi come quella di Feuerbach: casomai si potrebbe obbiettare che essi mostrano la pervasività del problema da lui identificato – cioè che in vario modo l’umanità continua a dipingersi il proprio infinito in base ai propri desideri, lo chiami Dio o meno. Non possiamo però nemmeno trascurare il dato in questione: una fetta così grande della popolazione umana continua ad identificarsi come religiosa anche due secoli dopo l’emersione dell’ateismo come un’opzione di massa e la sua propagazione a livello mondiale lungo i canali della cultura europea, e quindi dopo che il movimento di opinione che inizia con i vari Strauss e Feuerbach e Marx ha potuto influenzare menti e cuori ai quattro angoli del globo; né allo stato delle misurazioni attuali sembra che questo dato cambierà nell’immediato futuro. Ripeto, questa di per sé non è una prova né a favore né contro l’esistenza di Dio – e comunque qui ho riprodotto i dati in modo parziale e frettoloso – ma comunque anche a un livello così superficiale di discussione la cosa dovrebbe darci da pensare.
A questo potremmo pure aggiungere che al di là della questione di Dio in sé, anche l’essere umano più secolarizzato e ateo difficilmente può dire di aver smesso di credere. Se non crede in Dio crederà nello Spirito, o nel Dharma, o nella Nazione, nel Partito, nel Progresso, nel Libero Mercato – oppure perché no, in Chiara Ferragni. Insomma siamo sempre bravi a individuare nuovi oggetti di adorazione e di ammirazione verso i quali riversare la nostra devozione – più o meno intensa che essa sia – e questo ci consente di ritornare a Küng e alla critica da lui svolta a Feuerbach. Scrive infatti lo svizzero che per quanto le tesi di Feuerbach possano sembrare intuitive e ovvie, il fatto che la coscienza umana sia orientata verso l’infinito e che a partire da questo orientamento essa proietti una realtà infinita dotata di determinate caratteristiche, non è di per sé una prova contro l’esistenza di questa realtà – eppure questo è proprio quello che Feuerbach sembra proporre a piè sospinto[16]. Detto più semplicemente: il fatto che io desideri intensamente che Dio venga in soccorso della mia miseria non ci consente d’implicare automaticamente e logicamente che questo Dio sia solo un prodotto della mia immaginazione, magari generato sulla base delle mie ferite e dei miei dolori. In fondo la teologia cristiana ha sempre sostenuto che un tale desiderio esiste nell’uomo proprio grazie a un rapporto con Dio che, per quanto si sia velato, non si è mai dissolto del tutto e non ha mai smesso di essere almeno parzialmente, sebbene inconsciamente, visibile. Si potrebbe quindi interpretare facilmente questa tendenza a credere e a proiettare illusioni religiose come il bisogno profondo dell’umanità di conoscere quel Dio totalmente altro di cui parla Barth – e quindi come la risposta a un rapporto realmente esistente – e la cui rivelazione – sempre a rischio di essere distorta dalle mistificazioni umane – è proprio ciò che dissolve queste illusioni, dando così riposo alla nostra coscienza.
6. Conclusione
Ma questo è sufficiente per dire che possiamo smettere di leggere Feuerbach e mettere le sue tesi nel cassetto della memoria storica? Evidentemente no. Perché anche se volessimo restringere la storia dei suoi effetti concreti a quella parte di umanità – europea principalmente – che si è secolarizzata e che ha messo più profondamente in discussione la propria spiritualità storica, non potremmo comunque rinunciare a dire con Küng che dopo Feuerbach si attraversa una soglia. Perché se anche le sue tesi si possono contestare quanto alla loro solidità logica, rimane il fatto che sono suonate e tutt’ora suonano veramente convincenti. Anche un credente, come lo è chi scrive, deve fare i conti seriamente con Feuerbach e riconoscere la serietà delle sue obiezioni. Bisogna quindi prendere le sue parole come un esercizio di purificazione delle proprie convinzioni e semmai giungere alla conclusione che sì, si può credere in Dio anche nel 2021 nonostante Feuerbach, ma anche e proprio grazie a Feuerbach, che ci aiuta a liberarci da certe illusioni che sempre insidiano la coscienza cristiana. Quindi nelle parole di Küng Feuerbach è sia un “punto di non ritorno” che una “sfida permanente”[17].
Arrivati a questo punto è giunto il momento di concludere questo breve tragitto che abbiamo compiuto insieme al teologo svizzero di recente dipartito. La genealogia che Küng traccia per portarci a discutere i problemi della fede nel nostro tempo continua nel resto di Dio esiste?, e s’intreccia in maniera estremamente pregnante con un altro -ismo, a cui l’ateismo dei pensatori post-hegeliani fornisce la premessa. Questo è il nichilismo – parola tanto importante quanto di solito usata a sproposito – che il nostro qualifica come una conseguenza dell’ateismo e come un atteggiamento di fondo che ancora una volta interroga la fede. Su questo non mi dilungo, se non segnalando che nella narrazione di Küng il nichilismo indica il “fondo del barile”: da lì, o si raschia o si risale. A chi si fosse incuriosito consiglio di prendersi in mano Dio esiste? e di leggerselo da copertina a copertina – pesa come il proverbiale mattone e si potrebbe facilmente trasformare in uno strumento d’offesa, ma non vi deve spaventare: scorre via facilmente e appassiona anche quando non si è d’accordo con l’autore.
[1] C.S. Lewis, Reflections on the Psalms (Londra: Harvest Book, 1986), p. 2.
[2] Mi permetto d’indicarne due, che trovo estremamente rappresentative l’una di una lettura critica e l’altra di una lettura favorevole dell’opera del nostro; doppiamente interessanti perché prodotte entrambe da teologi nostrani, benché di orientamento molto diverso per non dire opposto, ma in questo rappresentativi di come l’opera e il pensiero di Küng possano essere interpretati in modo radicalmente diverso: Vito Mancuso, “In memoria di Hans Küng”, https://www.vitomancuso.it/2021/04/07/in-memoria-di-hans-kung/ [reperito il 04/05/2021]; Leonardo de Chirico, “Hans Küng (1928-2021), perhaps very little ‘Roman’ but certainly very much ‘Catholic’”, https://vaticanfiles.org/en/2021/04/187-hans-kung-1928-2021-perhaps-very-little-roman-but-certainly-very-much-catholic/ [reperito il 04/05/2021].
[3] Ovviamente questo si tratta di un libero riferimento alla Genealogia della Morale; Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale: Uno scritto polemico (Milano: Adelphi, 1984).
[4] Hans Küng, Dio esiste?, a cura di Giovanni Moretto (Roma: Fazi Editore, 2012), p. 113.
[5] Küng, Dio esiste?, p. 130.
[6] Küng, Dio esiste?, p. 191.
[7] Hans Küng, Incarnazione di Dio: Introduzione al pensiero teologico di Hegel, prolegomeni ad una futura cristologia (Brescia: Queriniana, 1972).
[8] Alla luce di questa convinzione il nostro deduce da Hegel una serie di tesi, le quali vengono presentate al lettore come “punti di non ritorno” per ogni tentativo cristiano di pensare e parlare di Dio in un’epoca post-illuminista. Cfr. Küng, Dio esiste?, pp. 252-5.
[9] Küng, Dio esiste?, pp. 269-70.
[10] Küng, Dio esiste?, pp. 272-4.
[11] Küng, Dio esiste?, p. 276.
[12] Küng, La giustificazione (Brescia: Queriniana, 1979).
[13] Karl, Barth, L’Epistola ai Romani, a cura di Giovanni Miegge (Milano: Feltrinelli, 2009), p. 5.
[14] Harriet Sherwood, “Why faith is becoming more and more popular?”, https://www.theguardian.com/news/2018/aug/27/religion-why-is-faith-growing-and-what-happens-next [15/05/2021].
[15] The Guardian View, “The Guardian view on ‘post-Christian’ Britain: a spiritual enigma”, https://www.theguardian.com/commentisfree/2021/mar/28/the-guardian-view-on-post-christian-britain-a-spiritual-enigma [15/05/2021].
[16] Küng, Dio esiste?, p. 278.
[17] Küng, Dio esiste?, p. 285.
Bibliografia:
Barth, Karl, L’Epistola ai Romani, a cura di Giovanni Miegge (Milano: Feltrinelli, 2009).
De Chirico, Leonardo, “Hans Küng (1928-2021), perhaps very little ‘Roman’ but certainly very much ‘Catholic’”, https://vaticanfiles.org/en/2021/04/187-hans-kung-1928-2021-perhaps-very-little-roman-but-certainly-very-much-catholic/.
Küng, Hans, Dio esiste?, a cura di Giovanni Moretto (Roma: Fazi Editore, 2012).
Küng, Hans, Incarnazione di Dio: Introduzione al pensiero teologico di Hegel, prolegomeni ad una futura cristologia (Brescia: Queriniana, 1972).
Küng, Hans, La giustificazione (Brescia: Queriniana, 1979).
Lewis, C. S., Reflections on the Psalms (Londra: Harvest Book, 1986).
Mancuso, Vito, “In memoria di Hans Küng”, https://www.vitomancuso.it/2021/04/07/in-memoria-di-hans-kung/.
Nietzsche, Friedrich, Genealogia della Morale: Uno scritto polemico (Milano: Adelphi, 1984).
Sherwood, Harriet, “Why faith is becoming more and more popular?”, https://www.theguardian.com/news/2018/aug/27/religion-why-is-faith-growing-and-what-happens-next [15/05/2021].