ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Amara Sicilia e bella. Iudicis ad memoriam Livatini
di Pier Luigi Portaluri
Sommario: 1. I fatti di causa e il ricorso al Tar Palermo - 2. Il giudizio di prime cure - 3. La sentenza del Consiglio di giustizia in commento - 4. Casa Livatino e vincolo testimoniale - 5. Di una sottrazione al divenire: i semiòfori.
1. I fatti di causa e il ricorso al Tar Palermo
Dopo la barbarie mafiosa del 21 settembre 1990, con un decreto del 2015 l’Assessorato regionale dei beni culturali e dell’identità siciliana dichiara «di interesse storico, artistico, architettonico ed etnoantropologico particolarmente importante» la casa dove, a Canicattì, la famiglia di Livatino viveva.
Il padre del «Giudice ragazzino» era scomparso nel 2010, per cui – «in assenza di ulteriori eredi che della famiglia Livatino conservassero il nome»[1] – l’immobile era pervenuto in eredità al soggetto ricorrente: il quale, ricevuto quel decreto di vincolo, lo impugna innanzi al TAR Palermo[2].
Due ordini di censure.
Anzitutto deduce che l’Assessorato non avrebbe preso in considerazione le osservazioni endoprocedimentali della ricorrente.
Ma è col secondo ordine di doglianze che si entra nel vivo della vicenda.
Il ricorrente ritiene infatti che «l’immobile non presenterebbe alcuno dei requisiti richiesti dalla normativa vigente per la dichiarazione di interesse storico, artistico, architettonico ed etnoantropologico particolarmente importante, sia sotto il profilo del valore culturale, sia con riferimento all’assenza di pregio dei beni mobili presenti all’interno dell’immobile»[3]: di qui l’asserita violazione degli artt. 10, comma 3, lett. a) e d) e 13, d.lgs. n. 42/’04.
2. Il giudizio di prime cure
Il Tar Palermo dapprima sospende il decreto impositivo atteso il «mancato esame delle osservazioni presentate dalla ricorrente, alle quali il provvedimento impugnato non fa il minimo cenno»[4]: dispone quindi per il riesercizio del potere.
Ma l’Assessorato non riadotta un nuovo decreto e sceglie invece la strada della difesa meritale del provvedimento.
La strategia è vincente. In sentenza[5] il primo Giudice cambia infatti idea e aderisce espressamente alla tesi sostanzialistica per cui – in caso di omessa considerazione degli apporti difensivi – la violazione delle norme sul contraddittorio non rileva se gli interessati non provano o non forniscono elementi, «ancorché indiziari, ma certi, precisi ed univoci che quella violazione o omissione non ha consentito la completa emersione degli interessi privati in conflitto ed il conseguente corretto, adeguato e completo accertamento del substrato materiale (e giuridico) su cui avrebbe inciso con i propri effetti il provvedimento amministrativo; sotto tale angolazione non si richiede che dal provvedimento stesso risultino formalmente esaminate le memorie e i documenti depositati nel corso del procedimento, ma che una tale valutazione sia stata sostanzialmente compiuta».
La censura di diritto procedimentale è dunque superata e il Tar può esaminare le doglianze sostanziali.
Al giudice territoriale bastano pochi passaggi ricostruttivi per accertare la legittimità del decreto regionale e dunque respingere il ricorso: la relazione che accompagna il provvedimento, e che ne è parte integrante, motiva in modo adeguato la scelta vincolistica.
Vediamo il percorso argomentativo.
Un primo profilo è meno convincente. Piuttosto debole. Concerne l’interesse storico-artistico particolarmente importante dell’immobile in sé ex art. 10, comma 3, lett. a), cit.: il giudice territoriale si limita a validare in modo abbastanza cursorio la relazione citata, dove la casa della famiglia Livatino «viene collocata temporalmente e storicamente dal punto di vista architettonico, nella parte in cui la stessa si fa risalire alle fine dell’ottocento senza interventi di ristrutturazione e con la presenza delle finiture originarie».
È vero, precisa subito prima il Tribunale rifacendosi al diritto vivente, che «…il giudizio, che presiede all’imposizione di una dichiarazione di interesse (c.d. vincolo) culturale, è connotato da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, poiché implica l’applicazione di cognizioni tecnico-scientifiche specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari (della storia, dell’arte e dell’architettura) caratterizzati da ampi margini di opinabilità». Ma di contro – osserviamo noi – una motivazione così vaga e stereotipa sul punto sarebbe bonne à tout faire.
Tutto questo conta poco, per fortuna. Il cuore della decisione è ovviamente altrove, nel secondo profilo motivazionale: ed è tutto – sottolinea il giudice di prime cure – nel «riferimento all’insieme dei beni complessivamente considerati (immobili e mobili) in quanto la p.a. ha ritenuto detti beni espressione di valori storico-culturali simbolici, e di un valore sociale connesso non tanto ai beni mobili in sé considerati, quanto piuttosto al valore simbolico che gli stessi assumono per le generazioni, anche in funzione di stimolo per la coscienza sociale e culturale di un determinato contesto storico». Valenza culturale, peraltro, che nella ricordata relazione tecnica allegata al decreto è attestata dal fatto che «tale dimora è luogo di incontro di associazioni antimafia […] il che implica l’attualità del collegamento con l’aspetto culturale inteso in senso ampio»[6].
3. La sentenza del Consiglio di giustizia in commento
Il soggetto proprietario appella la sentenza davanti al Consiglio di Giustizia, che tuttavia conferma[7] la pronuncia del TAR.
Il Consiglio di Giustizia scrive una sentenza particolarmente ariosa.
Ci parla in toni vividi di quel mattino tragico, dei quattro sicari che uccisero Livatino ad appena 38 anni per ordine della stidda agrigentina; di come quel delitto avesse avuto anche l’effetto di aiutare il risveglio delle coscienze nell’impegno contro la mafia. Si spinge anche oltre, il giudice. Un tocco polemico: nell’esaltare di Livatino «l’impegno morale ed etico coltivato esclusivamente nel lavoro e nella riservatezza», sottolinea che in tal modo esso «assumeva valenze ulteriori a confronto delle deviazioni cui era andato incontro un certo modo di intendere e praticare l’iniziativa contro la mafia nella regione siciliana»[8].
Non manca in sentenza l’accenno al processo di beatificazione, che peraltro si concluderà fra pochissimi giorni, il prossimo 9 maggio 2021: per la Chiesa – ricorda il Consiglio – quel delitto è un martyrium in odium fidei[9].
Poi la descrizione – insistita – della casa di Livatino, degli arredi, delle semplici cose appartenutegli[10].
Infine – sempre tratta dalla relazione di accompagnamento al decreto – la conclusione: «la dimora del giudice Livatino, con i suoi ricordi, scritti autografi, foto ed effetti personali, preservata nel tempo nella sua immobile integrità dai genitori, custodi e artefici degli insegnamenti che costituiscono i capisaldi della figura umana ed istituzionale dell'uomo Livatino, rappresentano oggi la memoria storica su cui incentrare una azione di sensibilizzazione e divulgazione di valori fondanti come il perseguimento della legalità, la ricerca della giustizia, il compimento del proprio dovere, tutti valori che concorrono alla costruzione di una società migliore».
Questo indugiare non è superfluo, nel ductus della decisione. Ne è anzi la base fondativa.
Tralascio qui le doglianze appellatorie di diritto procedimentale: il Consiglio le rigetta muovendosi sostanzialmente nella scia del TAR.
Più interessanti sono invece le considerazioni meritali. Il CGA muove, ancora una volta, dal contenuto dell’atto impugnato, condividendolo (come vedremo): Casa Livatino – aveva sostenuto la relazione assessorile – è un «connubio tra valenza architettonica e preziosa testimonianza di memoria storica e di avvenimenti socio-politici caratterizzanti il territorio di Agrigento e della sua provincia», come tale tutelabile in base all’art. 10, comma 3, lett. a) e d). Per cui – afferma l’Assessorato siciliano – quella dimora è un bene culturale «particolarmente importante».
Per il nostro giudice d’appello si tratta quindi di «calibrare il valore semantico del termine “bene culturale”».
A questo fine, richiamato il concetto di patrimonio culturale introdotto dal Codice e la conseguente bipartizione in beni paesaggistici e culturali, la sentenza afferma che tra i caratteri comuni a tutti i beni culturali quello che rileva nel nostro caso è il carattere dell’immaterialità, intesa come l’attitudine a essere «testimonianza di superiori valori di civiltà». I valori – prosegue la pronuncia – «si incardinano inscindibilmente nel bene materiale, ed il bene diventa radice ed espressione di una significazione altra che non si identifica con il supporto materiale ma rimanda ai valori ed ai principi che in dato momento storico guidano l’evoluzione della società». E ancora: «il valore storico dei beni oggetto del presente procedimento origina dal loro valore simbolico e si colora di indubbi significati etici»[11].
«Immaterialità». «Significazione altra». «Simbolo»[12]. Concetti sui quali devo ora soffermarmi.
4. Casa Livatino e vincolo testimoniale
Volgiamoci[13] allora alla norma centrale, quella con cui s’apre il capo sui beni culturali: l’art. 10 del codice[14]. Per garantire la tutela dei beni oggetto della nostra vicenda l’Assessorato siciliano ne ha utilizzato sopra tutto il comma 3, lett. d)[15], concernente «le cose immobili e mobili[16], a chiunque appartenenti, che rivestono un interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere, ovvero quali testimonianze dell’identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive o religiose»[17].
Questi beni non devono presentare un interesse storico o artistico in sé. Sono rilevanti per un altro aspetto, per il loro legame con un evento storico o con una specifica epoca della civiltà: condizione sufficiente perché il bene sia vincolato.
I presupposti per l’imposizione del vincolo qui sono, in primo luogo, l’esistenza di un fatto della storia e della cultura collegabile al bene; poi, l’importanza particolare che la cosa assume per effetto del riferimento a quel fatto storico-culturale.
È il c.d. vincolo testimoniale (o storico-relazionale), sintagma molto elegante al quale la giurisprudenza ha attribuito carattere di specificità: «il vincolo appena descritto si distingue tradizionalmente da quello previsto in generale dallo stesso art. 10 a tutela delle cose di ‘interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico’. Si afferma infatti, in sintesi estrema, che la cosa di interesse per riferimento con la storia di per sé non rivestirebbe alcun interesse culturale, ma lo assume nel caso concreto, perché collegata ad un qualche evento passato di rilievo: si fa l’esempio di un oggetto di fattura comune e di nessun pregio artistico, che però fosse caro al personaggio celebre che ne era proprietario. In questo senso si esprimono anche, in termini generali, le sentenze della Sezione 22 maggio 2008 n. 2430 e 24 marzo 2003 n. 1496, che si citano perché di rilievo, e riguardano due casi nei quali il vincolo in questione era stato apposto su un bene immobile. […] Nei termini descritti, si osserva che il riferimento con la storia non necessariamente coinvolge fatti di particolare importanza, potendo essere sufficiente anche il ricordo di eventi della storia locale, come appunto la valorizzazione di un quartiere in precedenza disagiato, ovvero della storia minore, cui rimandano le mappe di un tratto di campagna. Si tratta però pur sempre di fatti specifici, bene individuati come tali. Si potrebbe anzi affermare che proprio in questo carattere specifico sta la differenza fra il vincolo in esame e quello storico-artistico, dato che, all’opposto, i valori artistici sono espressione del generico gusto di un’epoca, non necessariamente ricollegabile a fatti determinati»[18].
Il profilo d’importanza storica si colloca al di fuori del bene e prescinde da un requisito di vetustà del bene stesso[19]: il vincolo potrebbe essere applicato – come nel nostro caso – anche a beni di fattura recente, ma che meritano tuttavia di esser comunque tutelati a motivo del loro collegamento con fatti storici specifici.
5. Di una sottrazione al divenire: i semiòfori
Il riferimento alla storia politica, peraltro indipendente – come abbiamo appena visto – da una determinata data di costruzione del manufatto, rende questa norma di notevole rilievo per noi.
In base alla lett. d) in esame, infatti, la dichiarazione ex art. 13 del codice può riguardare un bene privato o pubblico, di realizzazione remota o moderna, pregevole o meno: nulla di tutto ciò rileva, ma solo l’esser protagonista o testimone di un accadimento cui si possa oggettivamente annettere rilievo storico-politico.
La natura puramente relazionale di questa tipologia di vincolo, e la vastità indefinita del parametro di valutazione cui esso appunto si riferisce e quindi ci riconduce (la generica rilevanza politica di un evento), sono strumenti che l’ordinamento offre a tutela di una categoria di beni assai estesa, proprio perché non circoscrivibile per qualità intrinseche.
Il rischio è anzi quello opposto: che ricadano nel perimetro del vincolo beni collocati in una “posizione segnica” troppo distante dall’evento cui dovrebbero riferirsi.
Per utilizzare una figurazione, l’accadimento – l’Ereignis – è generato da una serie virtualmente infinita di antecedenti causali. Può a sua volta immaginarsi come un punto d’impatto su di una superficie che disegna – a mo’ di cerchi concentrici – i segni dei suoi effetti. Non è semplice individuare il momento, a monte e a valle dell’evento, a partire dal quale si possa cominciare a ritenere segnicamente irrilevante la relazione – pur esistente per causa, effetto, vicinanza o somiglianza (come si dirà meglio più avanti) – fra una cosa-testo e l’evento stesso.
Un esempio costruito sul nostro caso. Nell’interminato novero delle cose che esibiscono oggettivamente un legame causale, effettuale (o relazionale in genere) con il tragico accadimento del 21 settembre 1990, quando si deve ritenere che quel legame sia così labile e lontano da non meritare l’apposizione del vincolo sulla res che si trova in una situazione siffatta? Il giudizio è foriero di non poche incertezze, esplicandosi nell’esercizio di un potere comunque discrezionale, sia pur connotato da valutazioni più o meno assise su criteri tecnico-scientifici[20].
Ciò deriva dal fatto che la funzione originaria del bene – la sua utilità[21] concreta – è infatti trascesa del tutto: l’oggetto acquista un nuovo significato, come frase di un testo diverso e più ampio.
Da qui si diparte poi un duplice, progressivo allargamento della prospettiva, ben sottolineato dal Consiglio siciliano.
Anzitutto, l’area semantica del bene vincolato si affranca dal suo riferimento a un oggetto specifico (materiale o meno, inteso dunque come Gegenstand), per assurgere a indicare un intero ambito di riflessione e d’interpretazione della realtà: un angolo visuale di lettura e comprensione dei processi reali.
Inteso come ‘campo’, quel bene induce poi alla costruzione di una teoria affidante intorno al modo con cui uno spazio-macchina[22] produttivo di segni crea un ambiente affatto immaginario, nonché intorno allo scopo ultimo cui esso è funzionale[23].
Sottrazione all’uso[24], protezione, pregio[25] e visibilità sono le caratteristiche evidenti e costanti dell’oggetto vincolato, che trae la sua rilevanza dall’ingresso in quello spazio-macchina, dal quale infatti non può più – regola abbastanza costante pur nell’infinita diversità di tempi, luoghi, modi, circostanze – uscire[26].
Questi beni esibiscono tutti una palese «omologia di funzioni»[27]. A differenza dei beni apportatori di utilità pratica (produzione, consumo, etc.), essi apportano un significato rimandando a ciò che non è immediatamente visibile/sensibile: sono cioè puri semiofori[28].
In sintesi, cose (utili) in opposizione a semiofori (significanti). Tali perché orientati nella direzione della loro funzionalizzazione a esigenze di elevazione culturale, di protezione e trasmissione dei fondamenti della civiltà di un popolo.
Non importa il pregio in sé del bene. Il segno di vita – e di morte – che questi oggetti tracciano come media simbolici è esso stesso momento di valore. Non può essere alterato.
L’oggetto è entrato in una dimensione al di fuori del tempo e dello spazio[29], divenendo «κτῆμα ἐς αἰεί»[30], acquisto perenne: la storia ne ha scolpito quel sembiante esteriore che noi – i sorteggiati a vivere ancora – possiamo oggi contemplare[31].
V’è qualcosa di sacrale. E un invito per il giurista-poeta[32]: queste cose restino sottratte al divenire. Tramandino per sempre il ricordo di un’ora tragica; di un’esistenza breve, piena di Grazia.
[1] Come si legge nella sentenza commentata.
[2] Uno dei più classici casi di dialettica fra interesse pubblico e (legittimo) interesse privato. Cfr. M.L. Torsello, Profili generali del Codice dei beni culturali e del paesaggio, in giustizia-amministrativa.it: «l’interesse sotteso al bene culturale è intrinsecamente “debole”, nel senso cioè che è esposto più di altri a confliggere con valori diversi delle società contemporanee, quali quelli dell’industria e del profitto. Del resto è questo il senso della collocazione della tutela tra i principi fondamentali della nostra Costituzione».
[3] Anche questo passo è preso dalla sentenza del CGA.
[4] Ord. n. 172/’16.
[5] È la n. 2887/’16.
[6] Si pensi al «Centro Studi Rosario Livatino», che – come si legge nel sito (centrostudilivatino.it) – si occupa di «temi riguardanti in prevalenza il diritto alla vita, la famiglia, la libertà religiosa, e i limiti della giurisdizione in un quadro di equilibrio istituzionale», attivandosi anche per iniziative di mobilitazione culturale.
[7] È la sentenza 15 febbraio 2021, n. 107, pubblicata qui.
[8] Molto bella, e sopra tutto molto autentica, l’intervista di Roberto Conti a Roberto Saieva (oggi Procuratore generale della Repubblica a Catania, il quale lavorò a contatto strettissimo con Livatino), pubblicata in questa rivista per il trentennale della morte del magistrato: Livatino ieri e oggi.
Non è per fortuna uno stucchevole ritratto agiografico da immaginetta sacra, da improbabile santino, quello che vien fuori dalle parole di Saieva: «La sua rigidità nel rispetto delle regole – anche di quelle formali, che rappresentano la necessaria premessa di quelle sostanziali – era non di rado causa di malcontento. I malumori crebbero quando passò alle funzioni giudicanti. Ricordo qualche memoria e qualche gravame avverso provvedimenti da lui redatti dai toni insolitamente aspri». Ancora, per descrivere le reazioni all’omicidio: «Sul momento, com’è ovvio, il sentimento prevalente fu quello della commozione, anche tra coloro – avvocati, altri liberi professionisti, pubblici amministratori, colleghi – che nei suoi confronti non avevano nutrito particolare simpatia. La commozione è un sentimento facile. […] E ricordo pure che nel dicembre di quell’anno 1990, nella cappella maggiore del seminario vescovile di Agrigento fu celebrata una solenne messa in suffragio di Rosario. Naturalmente i magistrati agrigentini furono tutti presenti. La cerimonia era aperta anche agli avvocati, ma soltanto tre di loro vi parteciparono. Uno dei tre era tuo padre».
Come giustamente secca e impietosa è la descrizione del clima ambiguo e opaco cha caratterizzava le istituzioni del tempo, inclusa la magistratura: «noi magistrati impegnati sul fronte antimafia avevamo la sensazione di essere non funzionari dello Stato, ma liberi professionisti; e se non rappresentavamo lo Stato, se facevamo quel che facevamo per una nostra scelta individuale, era normale che subissimo le conseguenze di un impegno che nessuno ci chiedeva. Era una sensazione fondata. E infatti la scia di sangue, come sappiamo, non si sarebbe fermata. Ci sarebbero state ancora le stragi di Capaci e Via D’Amelio, le stragi sul continente». Poi si ebbe finalmente la reazione dello Stato. Ecco il commento tagliente di Saieva: «[…] nell’attività della Magistratura debbano essere distinte due fasi, corrispondenti alle due fasi dell’azione dello Stato che ho in precedenza indicato. La risposta fu, non dico corale, ma diffusa solo nella seconda fase, quando cioè fu chiara la volontà dei pubblici poteri di sgominare le associazioni mafiose, cosa nostra soprattutto, che, per ragioni, ripeto, ancora largamente oscure, aveva scelto la strada dello scontro diretto con le Istituzioni. Insomma, molti magistrati avvertirono che il vento cambiava e furono lesti a conformarsi. Ho visto magistrati passare in pochi anni dalla negazione dell’esistenza della mafia, alla pubblica celebrazione dei secoli di carcere inflitti ai mafiosi».
Sulla figura di Livatino si v. ora il recentissimo volume di A. Mantovano, D. Airoma, M. Ronco, Un Giudice come Dio comanda. Rosario Livatino, la toga e il martirio, Milano, il timone, 2021.
[9] Sia pure nella sua più recente accezione, indiretta e larga. Cfr. K.J. Wojtyla, Il sangue dei due missionari martiri costituisce le fondamenta della Chiesa cinese, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. VI/1, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1983, p. 1245: «gli uccisori danno mostra di odiare la fede non solo quando la loro violenza si getta contro l’annuncio esplicito della fede [...], ma anche quando tale violenza si scaglia contro le opere di carità verso il prossimo, opere che obiettivamente e realmente hanno nella fede la loro giustificazione ed il loro motivo. Odiando ciò che sorge dalla fede, mostrano di odiare quella fede che è la sorgente».
[10] «Il vangelo, la macchina da scrivere, il telefono, materiale di documentazione e riviste giuridiche, un quadretto di Paolo VI (richiamato in una delle sue agendine quando muore il Sommo Pontefice), una vecchia radio assieme ad una nutrita videoteca in VHS. Presenti anche la copia della tesi di specializzazione in Diritto regionale nonché alcuni capi di abbigliamento compresa la toga posta sulla bara il giorno dei funerali».
[11] Ho aggiunto io i corsivi che compaiono nelle frasi della sentenza riportate nel testo.
[12] Il CGA insiste sul concetto di simbolo: «il valore storico-simbolico dell’immobile e delle cose conservate è, infatti, ancora maggiore oggi dopo che la Chiesa ha quasi portato a termine il procedimento di beatificazione del giovane giudice. […] A fronte dell’assenza di familiari diretti che possano mantenerne viva la memoria, è dovere dello Stato, di cui Livatino è stato un “servitore eccezionale”, riconoscere lo straordinario valore culturale della casa del Giudice ed il suo forte valore simbolico a ricordo di chi ha pagato con la vita la “normale” rettitudine che non si piega alle minacce o alle lusinghe della mafia».
[13] Si noti: in assenza di altri documenti recanti criteri per l’identificazione di un bene culturale (uso un linguaggio attualizzato), per molto tempo la fonte – pur a maglie comunque assai larghe – cui la prassi amministrativa ha fatto ricorso anche per procedere alla ricognizione dell’esistenza di un interesse pubblico all’apposizione del relativo vincolo è stata la circolare 13 maggio 1974, n. 2718 del Ministero della pubblica istruzione (allora titolare della competenza in materia), in materia di esportazione delle cose di interesse artistico ed archivistico.
Frutto del contributo di personalità come Giulio Carlo Argan, Cesare Brandi e Massimo Pallottino, gli indirizzi risentono di una duplice influenza, derivante sia dalla formazione culturale dei loro componenti, di natura prevalentemente storico-artistica, sia dallo Zeitgeist, vicino a una visione marxiana dei rapporti sociali. È infatti percepibile l’abbandono (pur se ancora in itinere) della concezione idealistico-estetica dell’intera materia. Così la circolare: «in sostanza può dirsi che mentre fino a qualche tempo fa le istanze prevalenti nella considerazione delle cose del passato erano quelle estetiche, ora pur conservando i valori estetici tutto il loro peso, se ne sono aggiunti ad essi molti altri che allargano notevolmente la sfera di interessi in cui tali cose possono rientrare». E vi affiorano le prime, ma già abbastanza strutturate teoricamente, consapevolezze circa la necessità di superare l’approccio sino a quel momento domi-nante: si delinea la traiettoria che condurrà poi, come vedremo, al modello – particolarmente interessante per la nostra riflessione – di apertura tendenziale nei confronti della possibilità di ravvisare i caratteri del bene culturale pressoché in ogni «testo» connotato da un particolare effetto di senso o valore.
[14] Di seguito, per comodità di lettura, riporto il testo dell’art. 10 (sul quale v. il commento di G. Morbidelli in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dei beni culturali e del paesaggio, III ed., Milano, 2019, 133 ss., il quale legge opportunamente il telaio normativo distinguendovi i beni culturali «per ragioni soggettive», «ope legis», «per dichiarazione amministrativa» ed «esemplificati»). «1. Sono beni culturali le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico. 2. Sono inoltre beni culturali: a) le raccolte di musei, pinacoteche, gallerie e altri luoghi espositivi dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente ed istituto pubblico; b) gli archivi e i singoli documenti dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente ed istituto pubblico; c) le raccolte librarie delle biblioteche dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente e istituto pubblico, ad eccezione delle raccolte che assolvono alle funzioni delle biblioteche indicate all’articolo 47, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616. 3. Sono altresì beni culturali, quando sia intervenuta la dichiarazione prevista dall’articolo 13: a) le cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico particolarmente importante, appartenenti a soggetti diversi da quelli indicati al comma 1; b) gli archivi e i singoli documenti, appartenenti a privati, che rivestono interesse storico particolarmente importante; c) le raccolte librarie, appartenenti a privati, di eccezionale interesse culturale; d) le cose immobili e mobili, a chiunque appartenenti, che rivestono un interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere, ovvero quali testimonianze dell’identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive o religiose. Se le cose rivestono altresì un valore testimoniale o esprimono un collegamento identitario o civico di significato distintivo eccezionale, il provvedimento di cui all’articolo 13 può comprendere, anche su istanza di uno o più comuni o della regione, la dichiarazione di monumento nazionale; d-bis) le cose, a chiunque appartenenti, che presentano un interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico eccezionale per l’integrità e la completezza del patrimonio culturale della Nazione; e) le collezioni o serie di oggetti, a chiunque appartenenti, che non siano ricomprese fra quelle indicate al comma 2 e che, per tradizione, fama e particolari caratteristiche ambientali, ovvero per rilevanza artistica, storica, archeologica, numismatica o etnoantropologica, rivestano come complesso un eccezionale interesse.
4. Sono comprese tra le cose indicate al comma 1 e al comma 3, lettera a): a) le cose che interessano la paleontologia, la preistoria e le primitive civiltà; b) le cose di interesse numismatico che, in rapporto all’epoca, alle tecniche e ai materiali di produzione, nonché al contesto di riferimento, abbiano carattere di rarità o di pregio; c) i manoscritti, gli autografi, i carteggi, gli incunaboli, nonché i libri, le stampe e le incisioni, con relative matrici, aventi carattere di rarità e di pregio; d) le carte geografiche e gli spartiti musicali aventi carattere di rarità e di pregio; e) le fotografie, con relativi negativi e matrici, le pellicole cinematografiche ed i supporti audiovisivi in genere, aventi carattere di rarità e di pregio; f) le ville, i parchi e i giardini che abbiano interesse artistico o storico; g) le pubbliche piazze, vie, strade e altri spazi aperti urbani di interesse artistico o storico; h) i siti minerari di interesse storico od etnoantropologico; i) le navi e i galleggianti aventi interesse artistico, storico od etnoantropologico; l) le architetture rurali aventi interesse storico od etnoantropologico quali testimonianze dell’economia rurale tradizionale.
5. Salvo quanto disposto dagli articoli 64 e 178, non sono soggette alla disciplina del presente titolo le cose indicate al comma 1 e al comma 3, lettere a) ed e), che siano opera di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre settanta anni, nonché le cose indicate al comma 3, lettera d-bis), che siano opera di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni».
[15] In questa vicenda il riferimento assessorile alla lett. a) ha – come abbiam visto – un ruolo chiaramente satellitare e di blando rinforzo motivazionale.
[16] Il codice ha opportunamente esteso la tutela anche ai beni mobili, esclusi invece dal previgente art. 2, comma 1, lett. b), d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell’articolo 1 della legge 8 ottobre 1997, n. 352), secondo cui «sono beni culturali […] le cose immobili che, a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte e della cultura in genere, rivestono un interesse particolarmente importante».
[17] Così prosegue la lett. d) cit., a seguito della novella recata dall’art. 6, l. 12 ottobre 2017, n. 153 («Disposizioni per la celebrazione dei 500 anni dalla morte di Leonardo da Vinci e Raffaello Sanzio e dei 700 anni dalla morte di Dante Alighieri»): «Se le cose rivestono altresì un valore testimoniale o esprimono un collegamento identitario o civico di significato distintivo eccezionale, il provvedimento di cui all’articolo 13 può comprendere, anche su istanza di uno o più comuni o della regione, la dichiarazione di monumento nazionale».
[18] Cons. Stato, VI, 14 giugno 2017, n. 2920: è il caso del cinema ‘America’ di Roma.
V. anche Cons. Stato, VI, 3 settembre 2013, n. 4399, secondo cui «la dichiarazione di particolare interesse storico-artistico di un immobile si deve basare su elementi pregnanti che ne illustrino uno specifico pregio o che ne attestino quantomeno la sua valenza testimoniale di un tipico e ben determinato stile architettonico».
[19] Questo profilo è oggetto di una censura dedotta in primo grado (ma che parrebbe non riproposta in appello). Il Tar Palermo la rigetta così: «non coglie nel segno neppure il riferimento alla circostanza che i beni mobili avrebbero meno di cinquanta anni, atteso che la disposizione normativa di riferimento è contenuta nell’art. 12, co. 1, del d.lgs. 42/2004, il quale – nel porre ope legis il vincolo sulle opere la cui esecuzione risalga ad oltre cinquanta anni, se mobili – si riferisce ai soli beni mobili di cui all’art. 10, co. 1, d. 42/2004 e, quindi, ai soli beni pubblici o di enti privati riconosciuti, i quali non vengono in rilievo nel caso di specie».
[20] La sentenza evidenzia chiaramente questo aspetto: «il giudizio circa la sussistenza dei requisiti che legittimano l’emissione del provvedimento impugnato è certamente discrezionale e lo stesso meriterebbe censura solo nelle ipotesi in cui debba ritenersi illogico o irrazionale».
Dobbiamo a G. Severini, Tutela del patrimonio culturale, discrezionalità tecnica e principio di proporzionalità, in AA.VV., Patrimonio culturale e discrezionalità degli organi di tutela, in Aedon, 2016, un’attenta analisi sulle dinamiche del potere tecnico-discrezionale nelle vicende qui in esame. Premessa in generale l’estraneità di ogni processo ponderativo, dovendosi quel potere muovere – come viaggiando su una monorotaia, dice l’A. – verso la tutela del solo interesse commessogli dalla norma, egli sottolinea che «la particolarità delle “tecniche” da spendere in questo settore – storia, storia dell’arte, architettura, scienze del paesaggio e del territorio, ecc. – è di un marcato carattere di “non-scienza esatta” delle conoscenze specialistiche necessarie alla ricognizione per la dichiarazione di bene culturale o paesaggistico, ovvero alla stima di compatibilità dell’intervento concretamente immaginato». Per la tesi, non priva di qualche arditezza, secondo cui la considerazione e ponderazione di interessi altri «costituirebbe invece un sicuro argine al dilagare della notificazione di rilevante interesse, indice sintomatico di un modo di amministrare che non può essere condiviso» per l’asserito timore che l’eccesso conduca a una sostanziale vanificazione della tutela, v. B. Cavallo, op. cit., 122.
[21] Un «mondo strano da cui l’utilità sembra bandita per sempre»: così, a proposito dei musei e degli oggetti custoditi lì, inizia la sua analisi celebre e densissima, K. Pomian, Collezione, in Enciclopedia Einaudi, vol. III, Torino, 1978, 330 ss., spec. 330; cui adde ovviamente Id., Collezionisti, amatori e curiosi. Parigi-Venezia XVI-XVIII secolo, Milano, 2007.
[22] La casa di Livatino, nel caso nostro.
[23] Il riferimento d’obbligo è ai due lavori di Krzysztof Pomian già citati: a essi mi atterrò nel prosieguo.
[24] E dunque al circuito dello scambio economico in base all’utilità sua intrinseca, se e in quanto esistente.
[25] Poiché, pur essendo allo stato non utilizzabile, potrebbe comunque esser considerato un oggetto con valore di scambio, anche se non d’uso.
[26] Come le offerte agli dei nei templi greco-romani, dai quali non potevano essere distolte se non in situazioni estreme, onde ricavarne provviste finanziarie ritenute indispensabili per la salus rei publicae.
[27] K. Pomian, Collezione, cit., 341. Pomian analizza anzitutto i cc.dd. musealia dell’epoca premoderna (suppellettili funebri, offerte votive, tesori reali, etc.), ravvisandovi un tratto comune: consentire la comunicazione biunivoca tra il mondo visibile e quello invisibile (tramandato da miti, leggende, religioni: è il linguaggio a secernere i fantasmi dell’invisibile – osserva Pomian – in un mondo dove si muore e che induce a sperare che il visibile/sensibile sia soltanto una parte dell’essere), donde le quattro già viste loro caratteristiche dell’esser sottratti all’uso comune, protetti, pregiati, visibili. Poiché l’invisibile è di necessità ritenuto superiore al visibile, l’oggetto che col primo intrattiene una relazione di partecipazione, discendenza, vicinanza o somiglianza gode inevitabilmente di uno status privilegiato rispetto alle altre cose.
[28] K. Pomian, Collezione, cit., 350.
[29] «Preservata nel tempo nella sua immobile integrità»: così dice – come abbiam visto – la relazione assessorile a proposito di casa Livatino (e di tutto ciò che vi è conservato).
[30] Tucidide, Historiae, I, 20, 23.
[31] Onde il «vedere poetico» che rimanda a Hölderlin e da lui a Heidegger e Benjamin: «un’identificazione affettiva che consente di superare la distanza fra il mondo in cui sono le cose e il mondo in cui ne pronunciamo i nomi, cogliendo un’intimità con le cose stesse sentite non più come “oggetti opachi e chiusi” ma come intimamente partecipi alla nostra vita, ad un “destino creaturale” dove vita delle cose, vita dell’uomo, della natura sono necessariamente legati»: così A. Quendolo, op. cit., 47.
[32] Per il giurista che conosca e dica il diritto poietico, con M. Nussbaum, Giustizia poetica, Milano-Udine, 2012, su cui ora i profondi pensieri di G. Montedoro, Giustizia poetica, in apertacontrada.it («Un giurista concepito come mero tecnico ha meno chances di comprendere la complessità valoriale dell’ordinamento multilivello, di essere attrezzato per interpretare le diverse culture che ormai confluiscono nel mare magnum dell’esperienza giuridica sovranazionale, ha meno attenzione in definitiva per ogni aspetto dell’umano ed alla fine è meno capace di apprezzarne la concretezza con quel grado di eternità che è in ogni differenza»).
Giustizia Insieme ha deciso di lanciare una riflessione pubblica sul programma di gestione della Corte di Cassazione per l'anno 2021 predisposto dal Primo Presidente Pietro Curzio, nella consapevolezza che la "vita" dell'organo giurisdizionale di ultima istanza al quale l'art.65 della legge sull'ordinamento giudiziario affida tuttora la funzione di nomofilachia, le modalità con le quali essa Corte opera, i risultati e gli obiettivi preventivati non siano patrimonio esclusivo di Presidenti, consiglieri, Procuratore generale, Avvocati generali e sostituti procuratori generali, ma appartengano alla comunità dei giuristi teorici e pratici e, più in generale all'intera collettività, alla quale la Corte tende a proporsi come una casa di vetro, pur minata, a volte, anche nelle sua fondamenta, da diversi fattori, non ultimo quello della irragionevole durata del processo.
Le riflessioni si snoderanno su binari che riguardano gli ambiti civili e quelli penali della Corte, non mancando di esaminare questioni di sistema collegate agli aspetti statistici ed all'essere e svolgere la funzione di consigliere di Corte nel tempo presente.
Inizia questo viaggio il Primo presidente aggiunto emerito della Cassazione Renato Rordorf sul tema, centrale, della motivazione dei provvedimenti.
Riflessioni sulla Relazione illustrativa del programma di gestione della Corte di Cassazione per l’anno 2021.
1) Commento al punto 11: “La motivazione dei provvedimenti”
di Renato Rordorf
1. La relazione con la quale il Primo presidente Pietro Curzio ha illustrato il programma di gestione della Corte di cassazione per l’anno 2021 (in prosieguo: la Relazione) dedica un corposo paragrafo, l’undicesimo, alla motivazione dei provvedimenti. Vale la pena, data l’importanza del tema, di trarne spunto per alcune brevi riflessioni.
Nel documento vengono posti in evidenza tre aspetti fondamentali, strettamente correlati: il primo attiene alla rilevanza costituzionale della motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, il secondo alla loro funzione, il terzo ai caratteri che dovrebbero contraddistinguerli. Proverò ad accennare brevemente a ciascuno di essi.
2. È superfluo ricordare che l’obbligo di motivare i provvedimenti giurisdizionali costituisce una delle più importanti conquiste della civiltà giuridica. L’art. 111 della Costituzione, che inaugura la sezione dedicata alle norme sulla giurisdizione, significativamente enunciava quell’obbligo sin dal primo comma, quasi a volerne evidenziare l’importanza prioritaria. Dopo la riforma costituzionale del 1999 l’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali è slittato al settimo comma, ma non per questo ha perso di rilievo.
D’altronde, come la Relazione non manca di sottolineare, la motivazione dei provvedimenti del giudice mette in gioco anche altri profili di rilevanza costituzionale: serve a dar conto all’opinione pubblica del modo di esercizio del potere giudiziario e va posta perciò in relazione con l’art. 101 della Costituzione in quanto fonda “la legittimazione tecnico-professionale dei magistrati”. V’è in effetti uno stretto legame tra il dovere dei giudici di motivare i propri provvedimenti, lo statuto di indipendenza di cui essi godono e la responsabilità che loro incombe; ed opportunamente viene anche richiamata, a tal proposito, la Raccomandazione n. 12 adottata il 17 novembre 2010 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, la quale non casualmente, nel trattare il tema dell’indipendenza, dell’efficienza e della responsabilità dei giudici, al punto 63 espressamente afferma: “I giudici devono motivare le sentenze in linguaggio che sia chiaro e comprensibile”.
La giustizia è amministrata in nome del popolo italiano, come recita il primo comma del già citato art. 101 della Costituzione, ma ad amministrarla sono chiamati dei pubblici funzionari – i magistrati – privi di una diretta investitura popolare, perché non eletti dal popolo bensì selezionati unicamente in base alle loro competenze tecnico-professionali. Ciò che, nondimeno, consente di riferire al popolo italiano i provvedimenti emessi da quei giudici è, per un verso, la soggezione di costoro (soltanto) alla legge, come si affretta a precisare il secondo comma del medesimo art. 101, ma per altro verso anche e proprio l’obbligo di motivazione dei provvedimenti di cui si è appena detto. In società complesse i principi democratici dello Stato di diritto non implicano che ogni decisione debba necessariamente promanare direttamente dal popolo, o dai suoi rappresentanti eletti, ma postula che chi è chiamato ad assumerla lo faccia nel rispetto della legge, forgiata dal Parlamento eletto dal popolo, e che ciò avvenga in modo trasparente e controllabile. Perché ciò accada occorre, appunto, che i provvedimenti giurisdizionali siano dotati di una motivazione che dia conto del rispetto da parte del giudice della stessa Costituzione e delle leggi emanate dal Parlamento. Non sarebbe altrimenti possibile il controllo dell’opinione pubblica sul modo in cui la giurisdizione è esercitata, né sarebbe offerto al medesimo Parlamento lo stimolo ad eventualmente modificare i testi normativi la cui applicazione giurisprudenziale fosse ritenuta non rispondente agli indirizzi del corpo elettorale. D’altronde qualsiasi forma di esercizio di un potere, ed in primo luogo quello giurisdizionale, nelle moderne democrazie deve sempre essere motivato.
3. V’è un evidente legame logico tra quanto appena osservato ed il secondo profilo sul quale la Relazione opportunamente si sofferma: quello concernente la funzione della motivazione dei provvedimenti giurisdizionali.
Si tratta, in realtà, di una funzione duplice, tanto endoprocessuale quanto extraprocessuale. Sono due facce, entrambe in qualche misura quasi sempre almeno potenzialmente presenti in ogni provvedimento giurisprudenziale, che possono combinarsi diversamente ed avere un diverso peso specifico a seconda dei casi. La funzione endoprocessuale consiste nel dare conto alle parti (ed ai loro difensori) delle ragioni per le quali è stato dato loro torto o ragione. E’ questa un’esigenza ineliminabile, quale che sia il regime di impugnazione del provvedimento, ed anche se esso non sia impugnabile. L’esercizio della giurisdizione, infatti, non consiste solo nel decidere autoritativamente una controversia o nell’esplicare d’imperio il potere punitivo dello Stato, ma dovrebbe anche poter favorire il ripristino del tessuto sociale lacerato dalla contesa soggettiva o dal compimento del reato; e perché ciò possa accadere (o almeno si possa sperare che accada) è sempre indispensabile che la decisione poggi su criteri ragionevoli e che i destinatari siano posti in condizione di intenderne il fondametno. Quando però il provvedimento sia impugnabile, la motivazione è ovviamente essenziale anche e soprattutto per consentire alle medesime parti, se del caso, una ragionata impugnazione, e serve al giudice del grado successivo per valutare appieno l’ammissibilità di tale impugnazione e la sua eventuale fondatezza. Può ben dirsi, quindi, che la funzione endoprocessuale della motivazione è immanente a qualsiasi provvedimento giurisdizionale, in quanto destinato ad incidere sulla situazione giuridica delle parti, fatta solo eccezione per i limitati casi in cui la Cassazione è chiamata ad enunciare un principio di diritto nell’esclusivo interesse della legge, ai sensi dell’art. 363 c.p.c.
Ma si è già prima ricordato che la motivazione è essenziale anche per consentire il controllo della pubblica opinione sull’esercizio della giurisdizione, ed in ciò risiede la sua funzione extraprocessuale. La motivazione non si rivolge più solo alle parti del singolo processo, ma si allarga ad una più ampia platea di destinatari, a cominciare dalla comunità dei giuristi, alimentando quel dialogo tra dottrina e giurisprudenza che è il principale motore dell’evoluzione dell’ordinamento. La conoscenza delle ragioni che hanno ispirato una determinata decisione giudiziaria può poi riflettersi sul modo in cui altre analoghe vertenze potranno prevedibilmente essere decise, Una funzione, questa, di certo non meno importante dell’altra, ove si consideri che il nostro sistema giuridico, pur non conferendo ai precedenti un valore propriamente vincolante, tende nondimeno col tempo a riconoscere sempre maggior rilievo agli orientamenti giurisprudenziali consolidati, incoraggiando a discostarsene solo in presenza di ben motivate ragioni. Il che, con ogni evidenza, implica, per un verso, che gli orientamenti della giurisprudenza (a cominciare da quelli della Cassazione) riusciranno ad essere tanto più stabili ed a assicurare quindi tanto maggiore certezza del diritto quanto più solida e persuasiva risulterà la motivazione che li sorregge; e, per altro verso, che il successo di qualsiasi, pur meritoria, spinta a modificare orientamenti ritenuti non più al passo coi tempi e con l’evoluzione dell’ordinamento dipenderà dalla persuasività della motivazione che ne venga posta a base e dalla sua capacità di scalfire e rimpiazzare la motivazione più risalente.
È quindi di tutta evidenza che la motivazione rappresenta lo strumento fondamentale per il corretto esercizio della nomofilachia, che compete in via principale (benché non esclusiva) alla Corte di cassazione, perché è proprio con l’uso accorto di tale strumento che risulta possibile declinare la nomofilachia in modo, per così dire, dinamico: ossia contemperare in maniera trasparente e ragionevole l’esigenza di stabilità e di (almeno relativa) prevedibilità della giurisprudenza con quella, non meno importante, di costante adeguamento della medesima giurisprudenza al mutare delle esigenze e delle sensibilità sociali.
Ma c’è di più. Oltre alla duplice funzione di cui si è detto, in cui la motivazione svolge un ruolo comunicativo verso l’esterno, ne aggiungerei una terza, per così dire interiore. La motivazione serve anzitutto al giudice per verificare la correttezza logica del ragionamento che lo ha condotto ad assumere una determinata decisione e la coerenza di quel ragionamento con i dati normativi di riferimento. La decisione sta in piedi se si riesce a motivarla in modo persuasivo nei suoi vari passaggi, ed è solo nell’esporre quei passaggi che lo stesso estensore acquisisce piena e sicura contezza della loro tenuta logica e giuridica. Accade talvolta che proprio nella fase di scrittura della motivazione ci si accorga che qualcosa nel ragionamento non funziona e che occorre perciò ridiscutere o rivedere, in tutto o in parte, la stessa decisione. Purtroppo l’eccessivo carico di lavoro da cui sono gravati quasi tutti gli uffici giudiziari non lo consente, ma sarebbe davvero un gran bene se, come accade per le pronunce della Corte costituzionale, prima di pubblicare qualsiasi provvedimento collegiale (o almeno le sentenze della Cassazione aventi una particolare valenza nomofilattica) fosse possibile sottoporne la motivazione al riesame dell’intero collegio giudicante.
4. Per poter soddisfare appieno le esigenze comunicative di cui prima s’è detto ed esplicare adeguatamente le diverse funzioni alle quali s’è fatto cenno, occorre che la motivazione risponda a due requisiti, ben messi in luce dalla Relazione che si sta qui commentando: chiarezza e sinteticità. L’importanza di questi requisiti è ormai entrata nel comune sentire: da tempo in documenti programmatici ed in ripetute circolari se ne raccomanda il rispetto e li si evoca sovente anche nei commenti di dottrina, quantunque mi pare non che li si rispetti poi con altrettanta fermezza nella pratica dell’agire quotidiano.
4.1. Che la motivazione di un provvedimento debba esser chiara mi sembra, a dire il vero, un concetto persino lapalissiano. La motivazione – lo si è già visto – deve poter dare conto delle ragioni della decisione ed essere il più possibile persuasiva; deve cioè assolvere ad una funzione comunicativa ed esplicativa. Ma una comunicazione che non sia chiara, e quindi non sia ben comprensibile da parte dei suoi destinatari, tradisce evidentemente il suo scopo; ed una spiegazione che non si lasci intendere in realtà non spiega nulla. Anche tralasciando i casi limite nei quali la motivazione risulti a tal punto incomprensibile o contraddittoria da potersi dire solo apparente, se le ragioni del decidere sono esposte con formule contorte, con inutili arcaismi, con un periodare eccessivamente lungo e pieno di incisi, con espressioni ambigue o di significato oscuro, il rischio del loro fraintendimento è elevato e si impone alle parti (nonché, eventualmente, al giudice dell’impugnazione) uno sforzo supplementare ed un dispendio di energia che non giova alla ragionevole durata del giudizio e spesso neppure al buon esito della causa. La Relazione che qui si sta commentando lo dice bene: “Il giusto processo è, quindi, anche un giudizio ben comprensibile”.
Discende da ciò anche la necessità di saper dosare l’uso dei termini giuridici e delle locuzioni gergali che sono familiari soltanto al mondo dei giuristi. Se si ha riguardo a quanto appena detto a proposito della funzione extraprocessuale della motivazione, ed in particolare al controllo dell’opinione pubblica che per il suo tramite si deve poter esercitare sull’esercizio della giurisdizione, non si stenterà ad intendere che l’abuso di un linguaggio estremamente specialistico rischia di frustrare quella finalità. Non posso qui affrontare in termini generali il ben più ampio tema, affascinante ma assai complesso, del linguaggio giuridico; mi si consenta però almeno di accennare alla necessità che, nel motivare i propri provvedimenti, il giudice non dimentichi chi ne sono i destinatari e sappia, di conseguenza, modulare diversamente l’uso di espressioni tecnico-giuridiche a seconda che l’argomentazione investa una questione strettamente giuridica (il cui significato saranno necessariamente i difensori a dover poi spiegare alle parti) o che invece riguardi temi di più generale interesse umano, magari tali da suscitare la sensibilità sociale della collettività, per i quali è necessario sforzarsi di evitare un linguaggio iniziatico non comprensibile ai più.
La chiarezza della motivazione dipende anche, come è ovvio, dalla sua struttura, ossia dal rispetto dell’ordine logico in cui vengono affrontati i diversi nodi problematici che il caso prospetta. E’ un ordine cui si può talvolta derogare, se la soluzione di una questione logicamente successiva, ma di per sé sola risolutiva, consente di decidere la causa più rapidamente (la cosiddetta ragione più liquida), a condizione però di rendere ben chiaro ed esplicito il motivo per il quale si è scelto di tralasciare l’esame, altrimenti prioritario, di questioni pregiudiziali o preliminari, onde non vi sia dubbio sul fatto che tali questioni sono rimaste assorbita e non sono state, invece, neppure implicitamente rigettate.
È sempre all’esigenza di chiarezza che va ascritto il dovere, nelle sentenze della Corte di cassazione, di enunciare il principio di diritto in base al quale la causa è stata decisa (art. 384 c.p.c.). Non sempre, in passato, si è prestata sufficiente attenzione a questa regola, che invece appare fondamentale per il corretto esercizio della già richiamata funzione nomofilattica della Suprema corte, realizzando quel “delicato equilibrio tra astrattezza e concretezza” che giustamente la Relazione invoca. La puntuale enunciazione del principio di diritto, inoltre, agevola di molto il compito di chi è poi chiamato ad estrarre dalla motivazione una massima, e non occorre aggiungere che, costituendo la massimazione uno strumento importantissimo per la conoscenza diffusa della giurisprudenza, è essenziale che ogni massima risulti il più possibile fedele al nucleo giuridico fondamentale della decisione cui si riferisce.
4.2. Mi è già capitato altre volte di rimarcare che chiarezza e sinteticità non sono concetti antitetici, bensì complementari, perché non è affatto vero che per risultare più chiari occorre spendere un maggior numero di parole. Ovviamente, la sinteticità non deve essere spinta sino all’ermetismo e, quindi, può ben dirsi che l’esigenza di chiarezza e comprensibilità della motivazione costituisce il limite oltre il quale la concisione non deve andare. Ma l’eccesso di parole e l’inutile sovrabbondanza delle argomentazioni, lungi dal giovare alla comprensibilità dei concetti, sovente li rende meno immediatamente percepibili, affatica inutilmente il lettore, ne affievolisce l’attenzione e finisce quindi col nuocere anche alla chiarezza.
La sinteticità della motivazione è, d’altronde, un importante strumento di economia processuale, non tanto perché lo scrivere meno consente di risparmiare tempo (ciò che non sempre è vero), ma in quanto l’eccesso di argomentazioni inutili inevitabilmente stimola la parte che voglia impugnare la decisione del giudice a formulare cautelativamente, a propria volta, motivi d’impugnazione non indispensabili ed, in un processo a catena, impone poi al giudice del grado successivo di esaminare anche tali motivi, sia pure magari solo per disattenderli o dichiararli inammissibili.
Non senza aggiungere che, quando si tratti di obiter dicta, ossia di considerazioni estranee alla vera a propria ratio decidendi, contenuti in motivazioni di provvedimenti collegiali quali sono quelli della Corte di cassazione, non è detto che se ne sia discusso approfonditamente in camera di consiglio: sovente la loro formulazione è frutto del pensiero individuale dell’estensore, di cui solo il presidente è reso poi partecipe, col rischio di generare una nomofilachia impropria e non sufficientemente controllata
Qualsiasi giudice, ma forse il giudice di cassazione più di ogni altro, deve saper porre un argine al pur comprensibile desiderio di allargare il proprio esame a tutti gli aspetti di una questione sottoposta al suo esame, anche quando solo alcuni tra essi risultano davvero rilevanti per la decisione della causa o per provvedere sugli specifici motivi di ricorso. Le cosiddette sentenze-trattato, pur se ispirate da intenti lodevoli, nella maggior parte dei casi non rendono un buon servizio alla giurisprudenza, che ha una funzione diversa dalla dottrina; e se un magistrato è punto dal legittimo desiderio di approfondire un tema giuridico anche al di là di quanto richiede la sentenza che è chiamato a motivare, non gli mancherà quasi mai la possibilità di farlo inviando ad una rivista giuridica il suo contributo di dottrina.
Una certa dose di narcisismo, sostengono gli psicologi ed i sociologi, è ineliminabile in qualsiasi manifestazione umana, ma c’è un narcisismo positivo ed uno nocivo. Il primo si identifica con l’amor sui, spinge a migliorarsi nell’intento di essere stimato nel proprio ambiente sociale e lavorativo; l’altro invece sconfina con la vanità, nasce dal desiderio di primeggiare sugli altri e rischia spesso perciò di pregiudicare il buon esito di attività destinate per loro natura a convergere verso una finalità collettiva. Anche nella motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, come in ogni altra manifestazione esterna del pensiero, si rispecchia questo dualismo. E’ un bene che l’estensore sia animato dal desiderio di non sfigurare nell’esercizio della sua professione, ed è anche umano che eventualmente egli ambisca a vedersi riconoscere il merito di aver contribuito positivamente allo sviluppo della giurisprudenza; ma è importante che non perda mai il senso del limite, che non si lasci trascinare dal “narcisismo cattivo” e non scambi la motivazione come una vetrina in cui mostrare al mondo la ricchezza della propria scienza giuridica: perché lo scopo dei provvedimenti giurisdizionali non è quello di illustrare il pensiero individuale di chi li redige, bensì di esprimere l’orientamento dei tribunali e delle corti cui sono intestati e di concorrere al formarsi della giurisprudenza nel suo insieme.
Anche l’auspicato ricorso a formule predefinite (le cosiddette “stringhe motivazionali”), quando si sia in presenza di questioni ricorrenti già ripetutamente affrontate e risolte dalla Corte, più ancora che consentire un significativo risparmio di tempo può forse valere a dar l’idea della motivazione come un prodotto collettivo in cui si manifesta, senza possibilità di equivoci, un orientamento giurisprudenziale condiviso e consolidato.
Va detto, però, che quello della sinteticità è pur sempre un concetto relativo. L’ampiezza dell’argomentazione, ovviamente, è proporzionale alla complessità della questione trattata e, se molte sono le questioni da affrontare, inevitabilmente ne risentirà la sua lunghezza. Ma c’è anche la variabile costituita dal tipo di provvedimento, perché alle ordinanze dovrebbe adattarsi una motivazione più sintetica ed agile di quella richiesta per le sentenze. Il codice del rito civile, pur se con qualche oscillazione terminologica, è esplicito in tal senso, laddove stabilisce che l’ordinanza sia “succintamente motivata” (art. 134, comma 1, c.p.c.). Proprio muovendo da tale considerazione il legislatore, nel riformare il procedimento di cassazione col d.l. n. 168 del 2016 (convertito nella legge n. 197 del 2016), ha voluto creare un duplice canale prescrivendo l’uso dell’ordinanza non solo quando si tratti di dichiarare un ricorso inammissibile o quando esso appaia manifestamente fondato o infondato, ma anche in tutti gli altri casi nei quali la Corte non ravvisi una preminente esigenza nomofilattica, riservando la decisione con sentenza, all’esito di discussione in pubblica udienza, solo alle questioni di maggiore rilevanza giuridica (art. 375 c.p.c.). Non posso però tacere l’impressione che questa impostazione normativa, ispirata dall’intento di valorizzare la funzione nomofilattica del giudice di legittimità consentendogli di riservarle maggior tempo e maggiori risorse, non sia stata ancora pienamente recepita e non sempre trovi riscontro nell’operare quotidiano della Cassazione. Ci si sarebbe potuto aspettare che solo (o quasi solo) le sentenze esibissero delle motivazioni ampie ed articolate, e che le ordinanze invece risultassero sempre più concise e stringate, come conseguenza della trattazione in pubblica udienza solo delle questioni più complesse e della scelta per tutte le altre del più sbrigativo rito camerale non partecipato. Ma è sufficiente sfogliare velocemente le pagine di qualsiasi rivista di giurisprudenza per accorgersi che così non è. La percentuale dei provvedimenti della Cassazione emessi con ordinanza, e nondimeno commentati su tali riviste perché considerati giuridicamente importanti, non è assolutamente inferiore a quella dei provvedimenti emessi con sentenza. Se poi si va a leggere la motivazione delle ordinanze pubblicate, ci si rende immediatamente conto che in moltissimi casi la loro ampiezza argomentativa non è per nulla inferiore a quella che ci si potrebbe attendere se si trattasse della motivazione di una sentenza. Appare quindi legittimo il dubbio che la scelta tra l’una o l’altra tipologia di provvedimento, nella realtà, non rispecchi un criterio uniforme, chiaramente definito e ben riconoscibile; né a tale scelta sembra poi corrispondere davvero una diversa tecnica motivazionale. Ciò verosimilmente dipende anche dalla difficoltà di operare efficacemente una cernita preventiva, in presenza di un numero elevatissimo di ricorsi, e di distinguere con sufficiente puntualità quelli ad alta o bassa valenza nomofilattica già nella fase del cosiddetto “spoglio”, ossia nel corso di quell’esame preliminare che serve appunto ad incanalarne la trattazione di ciascun ricorso nel solco del rito camerale o in quello della pubblica udienza. Se la rilevanza ed il grado di complessità delle questioni si percepiscono appieno solo quando si è giunti al momento di doverle decidere, è ovvio che l’esigenza di motivare adeguatamente una decisione che si rivela più complicata del previsto finisca col prevalere sul canone della maggior concisione cui ci si dovrebbe attenere in base al rito camerale ed alla conseguente tipologia del provvedimento decisorio. La medesima Relazione del Primo Presidente non manca, del resto, di sottolineare, in un diverso paragrafo, proprio l’importanza dello “spoglio” dei ricorsi e la necessità di renderlo più puntuale ed efficace.
Anche a tal proposito, d’altronde, si avvertono le conseguenze dell’antico e mai risolto problema dell’eccessivo numero di ricorsi che la Corte di cassazione deve fronteggiare e del modo in cui essa può riuscire a coniugare ius litigatoris ed ius constitutionis in difetto di criteri normativamente definiti che pongano limiti più stringenti alla possibilità di accedere al giudizio di legittimità. Ma di ciò non è qui il caso di parlare giacché il discorso condurrebbe davvero troppo lontano.
5. Non va infine dimenticato che la motivazione di un provvedimento giurisdizionale, oltre ad avere un’autonoma valenza nel favorire il consolidarsi o l’evolversi della giurisprudenza, costituisce il momento conclusivo di un dialogo che s’intreccia, nel corso del processo, tra i difensori delle parti ed il giudice; un dialogo destinato poi eventualmente a proseguire anche nel grado successivo se il provvedimento è impugnabile. La motivazione si colloca, quindi, in un contesto comunicativo di tipo dialettico nel quale, come in ogni forma di interlocuzione, è inevitabile che ciascun interlocutore sia almeno in qualche misura influenzato dall’atteggiamento dell’altro. Quanto più un atto difensivo è ben strutturato e chiaramente argomentato tanto maggiori probabilità vi saranno che altrettanto ben strutturata ed argomentata sia la motivazione del corrispondente provvedimento giurisdizionale; ed in tal caso è verosimile che se ne avranno effetti positivi anche sull’eventuale atto d’impugnazione e sui conseguenti provvedimenti di grado successivo.
È per questa ragione, per la stretta correlazione esistente tra la qualità degli atti difensivi e dei provvedimenti giurisdizionali, che appare del tutto condivisibile lo sforzo che da diverso tempo si va compiendo per sviluppare un costruttivo dialogo tra magistrati ed avvocati anche e proprio in merito alla redazione dei rispettivi atti. Un dialogo certamente più agevole in ambito locale ma che da alcuni anni a questa parte ha preso corpo anche tra i vertici della Corte di cassazione, della Procura generale presso detta corte, del Consiglio nazionale forense e dell’Avvocatura generale dello Stato, conducendo all’elaborazione di appositi protocolli. Ed è perciò ben condivisibile il proposito manifestato nella Relazione del Primo Presidente di incentivare tale dialogo tra i protagonisti del processo.
Siffatti protocolli, beninteso, vanno considerati alla stregua di strumenti di soft law. L’eventuale mancato rispetto di quanto in essi previsto non dovrebbe mai poter produrre conseguenze processuali; e mi permetto incidentalmente di osservare che è perciò discutibile il riferimento che ad essi talvolta ho visto fare nella motivazione di alcune sentenze della Cassazione quasi ponendoli sol medesimo piano delle norme aventi forza di legge. Ma sono convinto che quei protocolli possono essere assai utili per indurre, al tempo stesso, magistrati ed avvocati a seguire buone prassi ed, in particolare, per agevolare quella fruttuosa dialettica tra atti difensivi e provvedimenti giurisdizionali ben motivati che dovrebbe auspicabilmente favorire lo sbocco fisiologico del processo verso una risposta chiara ed il più possibile persuasiva alla domanda di giustizia che lo ha messo in moto.
Ciascuna categoria professionale ha il ruolo suo proprio, e ad esso deve attenersi, ma la buona amministrazione della giustizia è un bene comune a tutti.
La Corte costituzionale interviene sui diritti del minore nato attraverso una pratica di maternità surrogata. Brevi note a Corte cost. 9 marzo 2021 n. 33
di Arnaldo Morace Pinelli
Sommario: 1. Il problema del riconoscimento della filiazione delle coppie omoaffettive. L’orientamento giurisprudenziale di massima apertura, che valorizza la tutela di un asserito diritto alla genitorialità della coppia omoaffettiva - 2. L’intervento delle Sezioni unite in tema di maternità surrogata e il revirement della prima sezione civile della Corte di cassazione - 3. Il ripensamento del problema operato dalla Corte costituzionale - 4. Necessità dell’intervento del legislatore.
1. Il problema del riconoscimento della filiazione delle coppie omoaffettive. L’orientamento giurisprudenziale di massima apertura, che valorizza la tutela di un asserito diritto alla genitorialità della coppia omoaffettiva
La recente sentenza della corte costituzionale, in tema di maternità surrogata,[1] impone una riflessione ad ampio raggio su tale spinosa questione, che interseca l’altrettanto problematico nodo della filiazione delle coppie dello stesso sesso, notoriamente esclusa dalla legge sulle unioni civili e di cui si è fatta carico la giurisprudenza, come lo stesso legislatore del resto auspicava.[2]
Subito dopo l’approvazione di tale legge ha, infatti, preso corpo un orientamento giurisprudenziale, che ha fatto del riconoscimento della filiazione delle coppie dello stesso sesso una bandiera, pretendendo di conseguire un risultato di massima apertura attraverso un percorso ermeneutico segnato, essenzialmente, da tre tappe.
Il primo tassello è rappresentato dall’ammissione della c.d. stepchild adoption all’interno delle coppie omoaffettive. La Corte di cassazione[3] – all’esito di un inconsueto scontro con la Procura Generale, la quale aveva inutilmente richiesto che la questione fosse portata all’esame delle Sezioni unite e denunciato lo sconfinamento di campo che il potere giudiziario avrebbe compiuto estendendo alle coppie di fatto l’applicazione dell’art. 44, lett. “d”, l. adoz., stante il carattere derogatorio e di stretta interpretazione della norma – ha ritenuto praticabile la c.d. stepchild adoption all’interno delle coppie omoaffettive, giudicando superabili gli argomenti ostativi posti in luce dalla dottrina e dalla prevalente giurisprudenza[4] e trasformando, con una non comune forzatura ermeneutica, l’istituto dell’adozione particolare da criterio residuale a strumento generale, mediante il quale riconoscere alle coppie dello stesso sesso un rapporto di filiazione giuridica.
Il secondo momento di questo percorso logico-giuridico è incentrato sull’annoveramento, tra i diritti fondamentali della persona, di un asserito diritto alla genitorialità spettante anche ai membri della coppia omoaffettiva. Una pronuncia della Corte di Cassazione,[5] in particolare, cavalcando le apparenti aperture rinvenibili nella sentenza della Corte costituzionale che ha aperto alla fecondazione eterologa,[6] ha ritenuto di poter configurare un vero e proprio diritto soggettivo ad avere figli, fondato «sulla fondamentale e generale libertà delle persone di autodeterminarsi e di formare una famiglia», riconoscibile anche agli appartenenti alle coppie dello stesso sesso, onde evitare illegittime discriminazioni. Individua, poi, accanto ad esso, un diritto fondamentale del minore alla conservazione dello status filiationis, comunque acquisito (all’estero), pretendendo di identificare nella sua tutela, automaticamente, la realizzazione del superiore interesse del minore. In tale prospettiva, «la violazione delle prescrizioni e dei divieti posti dalla legge n. 40 del 2004 - imputabile agli adulti che hanno fatto ricorso ad una pratica fecondativa illegale in Italia – non possono ricadere su chi è nato» ed il riconoscimento e la trascrizione nei registri dello stato civile in Italia di un atto che riconosce lo status filiationis, validamente formato all’estero, «non contrastano con l’ordine pubblico per il solo fatto che il legislatore nazionale non preveda o vieti il verificarsi» di una pratica di p.m.a. sul proprio territorio.
L’ultimo anello ermeneutico lo ha posto la giurisprudenza di merito. Notoriamente, sul problema della filiazione per le coppie dello stesso sesso aleggia la spinosa questione della legittimità della surrogazione di maternità. In particolare, nella coppia omosessuale maschile il figlio non può nascere a seguito di una fecondazione eterologa, «ma, di necessità, a seguito di un contratto con il quale una donna si presti ad essere fecondata artificialmente, per poi consegnare alla coppia committente il nato, contratto che, nella modalità della maternità surrogata, non solo è vietato, ma anche penalmente sanzionato (art. 12 n. 6, l. 40/2004)».[7]
Seguendo l’iter logico indicato dalla Corte di cassazione, con il pretesto della realizzazione del preminente interesse del minore, identificato nella conservazione dello status filiationis, taluni giudici di merito hanno sdoganato anche la pratica della surrogazione di maternità, conseguendo il risultato di fornire piena attuazione all’asserito diritto ad avere figli, riconosciuto anche alla coppia omoaffettiva. E’ stato pertanto affermato,[8] allo scopo di tutelare il diritto del minore a conservare lo status di figlio di due padri che avevano fatto ricorso alla surrogazione di maternità all’estero, che «la disciplina positiva della procreazione medicalmente assistita» non deve essere considerata «espressione di principi costituzionalmente obbligati» e, dunque, d’ordine pubblico internazionale, cosicché il fatto che il legislatore nazionale vieti il verificarsi di una simile pratica fecondativa nel territorio italiano non osta al riconoscimento nello Stato del provvedimento straniero che dichiari la duplice paternità.
2. L’intervento delle Sezioni unite in tema di maternità surrogata e il revirement della prima sezione civile della Corte di cassazione
Di quest’ultima questione, come è noto, sono state molto opportunamente[9] investite le Sezioni unite della Corte di cassazione, le quali[10] hanno negato la possibilità di riconoscere nel nostro ordinamento un provvedimento straniero che riconosca il rapporto di genitorialità tra un bambino nato a seguito di maternità surrogata e il c.d. genitore d’intenzione. Secondo l’importante pronuncia, deve ribadirsi che il divieto di surrogazione di maternità, previsto dall’art. 12, comma sesto, l. n. 40/2004, integra un principio di ordine pubblico, posto a tutela di valori fondamentali, quali il rispetto della dignità umana della gestante e l’istituto dell’adozione, con il quale la surrogazione di maternità si pone oggettivamente in conflitto. Di fronte a questa pratica, penalmente sanzionata, torna ad operare il favor veritatis. Tuttavia, l’interesse del minore non è cancellato e, nei limiti consentiti da tale verità, è tutelato attraverso la possibilità della stepchild adoption da parte del genitore d’intenzione, con cui si salvaguarda «la continuità della relazione affettiva ed educativa» eventualmente instauratasi tra il minore e tale soggetto.
Questo lodevole sforzo di operare un equo bilanciamento tra l’interesse pubblico all’effettività del divieto della surrogazione di maternità e quello del minore alla conservazione delle sue relazioni affettive fondamentali è obiettivamente inappagante.[11]
Da un punto di vista sostanziale, la possibilità della stepchild adoption, per sanare giuridicamente le conseguenze di una maternità surrogata attuata all’estero, di fatto elude il divieto posto dall’art. 12 l. n. 40/2004 e non disincentiva il ricorso a tale pratica procreativa. Specie se l’adozione particolare venisse disposta automaticamente, per il solo fatto della convivenza con il figlio del partner, quando il nato sia in tenera età e, dunque, in un momento della sua vita in cui non è seriamente configurabile quella relazione affettiva fondamentale, che si intende tutelare. D’altro canto, la soluzione salomonica delle Sezioni Unite, oltre a non scongiurare il ricorso all’estero alla maternità surrogata, crea in Italia una filiazione di “serie b”. L’adozione particolare, infatti, non istituisce un rapporto di parentela tra l’adottato e la famiglia dell’adottante e neppure tra l’adottante e la famiglia dell’adottato (art. 300 c.c. e 55 l. adoz.) e ciò è obiettivamente pregiudizievole per il minore in caso di maternità surrogata, non esistendo alcuna famiglia d’origine che giustifichi la superiore limitazione, nell’interesse del minore adottato. Inoltre, nelle more della pronuncia di adozione, il minore rimane sprovvisto di tutela giuridica. Soprattutto, l’adozione in casi particolari resta rimessa alla volontà del genitore c.d. d’intenzione ed è condizionata all’assenso da parte del genitore biologico, che potrebbe non prestarlo in caso di crisi della coppia.
Muovendo da tali contraddizioni, la prima sezione civile della Corte di Cassazione, a meno di un anno dalla pronuncia delle Sezioni Unite, ha ritenuto di dover sollevare questioni di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 6, l. n. 40/2004, dell’art. 64, comma 1, lett. “g” l. n. 218/95 e dell’art. 18 d.p.r. n. 396/2000 «nella parte in cui non consentono, secondo l’interpretazione attuale del diritto vivente (fornita dalle Sezioni unite), che possa essere riconosciuto e dichiarato esecutivo, per contrasto con l’ordine pubblico, il provvedimento giudiziario straniero relativo all’inserimento nell’atto di stato civile di un minore procreato con le modalità della gestione per altri (altrimenti detta “maternità surrogata”) del c.d. genitore d’intenzione non biologico».[12]
Autorevole dottrina non ha mancato di criticare il revirement,[13] che mette in discussione il “fresco” risultato ermeneutico raggiunto dalle Sezioni Unite, attraverso il ricorso alla Corte costituzionale.
3. Il ripensamento del problema operato dalla Corte costituzionale
La Corte costituzionale,[14] con una pronuncia che si coordina con un’altra, pubblicata nello stesso giorno[15] e di cui condivide l’iter logico-giuridico, ha dichiarato inammissibili le questioni sollevate dalla prima sezione della Corte di cassazione, mettendo, peraltro, ordine nella complessa materia ed aprendo scenari nuovi.
Le due sentenza hanno, innanzitutto, il merito di mostrare l’evanescenza (rectius: l’erroneità) degli argomenti giuridici da cui ha preso le mosse l’orientamento giurisprudenziale che si è proposto di riconoscere il rapporto di filiazione all’interno delle coppie omoaffettive, ossia l’asserita sussistenza di un diritto alla genitorialità spettante ai membri della coppia e la ritenuta legittimità del ricorso all’adozione particolare per costituire il rapporto di filiazione tra il minore ed il partner del genitore biologico.
Da un canto, infatti, viene ribadito a chiare lettere che l’asserito diritto alla genitorialità, spettante ai membri delle coppie omoaffettive, non esiste.[16] In effetti, la l. n. 40/2004 configura le tecniche di P.M.A. come rimedio alla sterilità o infertilità umana, «escludendo chiaramente con ciò, che la PMA possa rappresentare una modalità di realizzazione del “desiderio di genitorialità” alternativa ed equivalente al concepimento naturale, lasciata alla libera autodeterminazione degli interessati»; d’altro canto, tale legge «prevede una serie di limitazioni di ordine soggettivo all’accesso alla PMA, alla cui radice si colloca il trasparente intento di garantire che il suddetto nucleo riproduca il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una madre e di un padre» (art. 5, secondo il cui disposto possono accedere alla PMA esclusivamente le coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi).[17] Meno che mai, in termini generali, è configurabile un diritto soggettivo ad adottare, sussistendo soltanto un interesse giuridicamente rilevante ad adottare, che «può essere soddisfatto solo se e in quanto sia adeguatamente realizzato il diritto del minore ad essere adottato».[18]
Al contempo, si riconosce l’erroneità dell’operazione ermeneutica in virtù della quale è stato consentito alle coppie omoaffettive il ricorso all’istituto dell’adozione particolare. La Corte costituzionale ammette, infatti, che la situazione del nato da p.m.a. è «assai distante da quelle che il legislatore ha inteso regolare per mezzo dell’art. 44, comma 1, lett. ”d”, della l. n. 184 del 1983».[19] Il che significa che siffatta peculiare situazione non poteva rientrare, attraverso il ricorso all’interpretazione estensiva, nell’ambito di operatività di quest’ultima norma, specie considerando che si tratta di una norma residuale e di chiusura e – in quanto tale - di stretta interpretazione. Di qui l’intrinseca impossibilità della stessa ad assurgere a regola generale e primaria del sistema, che consente al convivente, eterosessuale o omosessuale che sia, di diventare genitore, adottando il figlio del proprio partner.
Compiendo un’operazione culturale d’indubbio valore, la Corte costituzionale indica una strada diversa, che muove, anziché dai diritti della coppia omoaffettiva, soltanto dal minore e dai suoi diritti fondamentali. In altri termini, la Corte chiarisce definitivamente che il problema non è quello di riconoscere un inesistente diritto ad avere figli della coppia dello stesso sesso, bensì quello di tutelare i diritti fondamentali del nato da P.M.A., anche se questa è avvenuta all’estero ed in spregio ai divieti della l. n. 40/2004. Il nato, infatti, non ha colpa della violazione del divieto ed è «bisognoso di tutela come ogni altro e più di ogni altro» ed è criticabile il fatto che il legislatore si sia limitato, in questa materia, a vietare e sanzionare, mentre «avrebbe dovuto… regolare la sorte del nato malgrado il divieto».[20]
Questo percorso ermeneutico si sviluppa in piena armonia con i principi sanciti dalla c.d. Riforma Bianca sulla filiazione, che ha saldamente riposizionato l’ordinamento dalla parte del minore. E’ noto infatti che, in un mutato contesto, il nuovo art. 315 bis c.c. enuncia lo statuto dei diritti fondamentali del figlio come persona, mentre in passato «la posizione giuridica del figlio veniva identificata solo relativamente ai doveri dei genitori e agli obblighi delle prestazioni alimentari».[21] Il figlio viene posto al centro del sistema, ultimando la Riforma Bianca sulla filiazione il passaggio da una concezione del minore, quale soggetto debole da tutelare, a quella di individuo, titolare di diritti soggettivi, che l’ordinamento salvaguarda ed è chiamato a promuovere. Ed i suoi diritti, scolpiti nell’art. 315 bis c.c. (il diritto ad essere mantenuto, educato, istruito ed assistito moralmente dai genitori, il diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti, il diritto all’ascolto) rientrano nel novero di quelli fondamentali della persona e sono garantiti dall’art. 2 Cost.
Questa visione minore-centrica si ripercuote anche nel rapporto con i genitori, focalizzato sulla persona del figlio e sulla prevalenza dei suoi diritti. Costituisce portato fondamentale della Riforma del 2012 la sostituzione della nozione di potestà, evocativa di un potere sul minore, con quella di responsabilità genitoriale, che evidenzia invece l’impegno che l’ordinamento richiede ai genitori, non identificabile «come una “potestà” sul figlio minore, ma come un’assunzione di responsabilità da parte dei genitori nei confronti del figlio».[22] Questa sostituzione lessicale assume una valenza culturale profonda, segnando il radicale mutamento di prospettiva operato dalla Riforma: nel rapporto genitori-figlio l’ordinamento si colloca dalla parte del minore, in virtù del superiore interesse di cui questi è portatore.
In questa nuova prospettiva, espressamente evocata dalla Corte costituzionale,[23] nelle decisioni concernenti il minore deve essere sempre ricercata «la soluzione ottimale “in concreto” per l’interesse del minore, quella cioè che più garantisca…la miglior “cura della persona”»,[24] e non vi è dubbio – afferma la Corte costituzionale - «che l’interesse di un bambino accudito sin dalla nascita…da una coppia che ha condiviso la decisione di farlo venire al mondo è quello di ottenere un riconoscimento anche giuridico dei legami che, nella realtà fattuale, già lo uniscono a entrambi i componenti della coppia».
Tuttavia, la Corte costituzionale ribadisce la condanna della maternità surrogata, pratica che «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane», con il rischio di «sfruttamento della vulnerabilità di donne che versino in situazioni sociali ed economiche disagiate», con la conseguenza che l’interesse del minore deve essere bilanciato, «alla luce del criterio di proporzionalità, con lo scopo legittimo perseguito dall’ordinamento di disincentivare il ricorso alla surrogazione di maternità, penalmente sanzionato dal legislatore», ferma restando «la rammentata necessità di riconoscimento del “legame di filiazione” con entrambi i componenti della coppia che di fatto se ne prende cura».
Secondo la Corte, dunque, è legittima la soluzione, offerta dalle Sezioni unite della Corte di cassazione, in ordine alla non trascrivibilità del provvedimento giudiziario straniero, e, a fortiori, dell’originario atto di nascita, che indichino quale genitore del bambino il c.d. padre d’intenzione. L’interesse del minore al riconoscimento giuridico del suo rapporto con entrambi i componenti della coppia, che lo abbiano accudito esercitando di fatto la responsabilità genitoriale, impone, peraltro, che esso sia tutelato «attraverso un procedimento di adozione effettivo e celere, che riconosca la pienezza del legame di filiazione tra adottante e adottato,…sia pure ex post e in esito a una verifica in concreto da parte del giudice», non potendosi «strumentalizzare la persona del minore in nome della pur legittima finalità di disincentivare il ricorso alla pratica della maternità surrogata».
4. Necessità dell’intervento del legislatore
Molto condivisibilmente, secondo la Corte costituzionale, nel contesto del difficile bilanciamento tra l’esigenza di disincentivare il ricorso alla pratica della maternità surrogata e la necessità di assicurare i diritti dei minori, la soluzione non può essere quella indicata dalle Sezioni unite dell’adozione particolare, per gli evidenziati limiti intrinseci dell’istituto, volto a disciplinare ipotesi peculiari (rectius: eccezionali), in cui si pone, tra l’altro, la necessità di conservare il legame giuridico tra il minore e la sua famiglia d’origine, situazione del tutto estranea ai nati da P.M.A.
Il compito di adeguare il diritto vigente alle esigenze di tutela degli interessi dei bambini nati da maternità surrogata non può che spettare, almeno «in prima battuta», al legislatore, «al quale deve essere riconosciuto un significativo margine di manovra nell’individuare una soluzione che si faccia carico di tutti i diritti e i principi in gioco». La Corte costituzionale, pertanto, «allo stato», si arresta, pur riservandosi chiaramente di intervenire in futuro, in caso di latitanza del legislatore, stante l’”indifferibilità” di una soluzione in grado di porre rimedio «all’attuale situazione di insufficiente tutela degli interessi del minore».
In effetti, in questa delicata materia, soltanto il legislatore può individuare una disciplina esaustiva, individuando soluzioni di carattere generale e astratte, in grado di contemperare tutti gli interessi in gioco.
A nostro avviso, il legislatore dovrà, innanzitutto, favorire la costituzione di rapporti di filiazione giuridica tra persone esistenti, anziché il ricorso alle tecniche di p.m.a., con una profonda revisione della legge sulle adozioni. Essendo incontestabile l’idoneità genitoriale delle coppie omoaffettive ed in virtù dei sempre maggiori riconoscimenti delle convivenze, in un’epoca in cui il matrimonio non costituisce garanzia di stabilità affettiva, ci pare che il legislatore debba prendere seriamente in considerazione la possibilità di ammettere i conviventi, anche dello stesso sesso (ed, a ben vedere, anche la persona singola) all’adozione piena. Se – come ci sembra innegabile - l’adozione ha una chiara matrice solidaristica ed accedendo ad essa si adempie anche un «dovere di solidarietà verso i minori in stato di abbandono»,[25] è certamente auspicabile un’apertura dell’adozione nazionale e – in questo peculiare momento storico – di quella internazionale anche alle coppie conviventi, comprese quelle dello stesso sesso, ed alle persone singole, previa individuazione di ragionevoli requisiti e presupposti d’accesso ai due istituti.
Per quanto concerne, poi, la maternità surrogata, che riguarda soprattutto le coppie eterologhe, certamente non basta vietarla, dovendosi necessariamente disciplinare le conseguenze giuridiche che discendono dalla violazione del divieto, posizionandosi sempre dalla parte del minore, «nato incolpevole e bisognoso di tutela come ogni altro e più di ogni altro».[26] La possibilità dell’adozione particolare, ammessa dalle Sezioni unite, per quanto detto, costituisce un rimedio insufficiente. Il legislatore è chiamato ad introdurre una nuova tipologia di adozione, con un procedimento celere ed una disciplina che l’avvicini, negli effetti, all’adozione piena. Dovrà, peraltro, rimanere il vaglio del Giudice, che accerti, in concreto, la sussistenza del legame tra il minore e il genitore d’intenzione.
Nelle more dell’intervento del legislatore o della Corte costituzionale, va invece evitata, a nostro avviso, la chiamata alle armi dei giudici di merito, anche al fine di scongiurare soluzioni che, sulla base delle esigenze del caso concreto, risultino contrastanti e contraddittorie. La pronuncia della Corte costituzionale n. 33/2021 ha chiaramente ribadito la natura pubblicistica del divieto di maternità surrogata e non legittima – come peraltro è stato affermato[27] - alcun «ripensamento della nozione di ordine pubblico fatta propria dalle Sezioni unite, per il diverso bilanciamento tra i valori in gioco» suggerito dalla prima sezione civile.[28] Anzi, la Corte costituzionale ha espressamente riconosciuto la piena legittimità della soluzione offerta dalle Sezioni unite della Corte di cassazione, in ordine alla non trascrivibilità del provvedimento giudiziario straniero e, a fortiori, dell’originario atto di nascita, che indichino quale genitore del bambino il c.d. padre d’intenzione.
In materia di maternità surrogata, le Sezioni unite hanno compiuto il massimo sforzo ermeneutico possibile, entro il limite di compatibilità con la voluntas legis, espressa dalle norme vigenti e dai valori che esse esprimono, di cui deve essere operato il bilanciamento.
Come riteneva un illustre e compianto Maestro - il cui insegnamento, in materia di diritto di famiglia, è stato brillantemente esposto in un recente saggio[29] - «l’effettività della norma» è data «dalla sua accettazione da parte del corpo sociale come norma giuridica», che è il fatto dal quale scaturisce il diritto.[30] Il principio di effettività costituisce il metro dell’attività interpretativa, imponendo una lettura della norma «secondo il significato in cui essa è effettivamente operante».[31] Di qui il fondamentale ruolo della giurisprudenza, giacché «le applicazioni giurisprudenziali che si traducono in orientamenti consolidati conferiscono alla norma un significato che tende ad essere recepito nel tessuto sociale».[32] Ciò non significa, tuttavia, «né conferire né riconoscere un potere normativo ai giudici né dare ingresso alla “consuetudine giurisprudenziale” come fonte del diritto».[33]
In effetti, l’interpretazione della giurisprudenza non possiede un’autorità legislativa[34] e, soprattutto, secondo l’insegnamento degli stessi giudici di legittimità, non può correggere o sostituire la voluntas legis, dovendosi arrestare di fronte al limite di tolleranza ed elasticità segnato dal significante testuale della norma, nell’ambito del quale questa, di volta in volta, adegua il suo contenuto, piegandosi all’evoluzione che «l’interesse tutelato nel tempo assume nella coscienza sociale, anche nel bilanciamento con contigui valori di rango superiore, a livello costituzionale e sovranazionale».[35] A tale limite di tolleranza ed elasticità della norma soggiace anche l’interpretazione costituzionalmente orientata.[36]
A ben vedere, il diritto vivente costituisce un fenomeno oggettivo, legato alla peculiare struttura della norma giuridica e determinato dall’evoluzione dell’ordinamento. Come è stato efficacemente rilevato, la giurisprudenza «lo disvela, ma non per questo lo crea».[37]
E’ compito del legislatore, dunque, di fronte ad una realtà moralmente inadeguata, quale è certamente l’attuale con riguardo alla posizione giuridica del minore nato da un pratica di maternità surrogata, operarne il mutamento ed apprestare l’invocata tutela.[38]
[1] Corte cost., 9 marzo 2021, n. 33.
[2] Cfr., sul punto, il nostro Il problema della filiazione nell’unione civile, in C.M. BIANCA, Le unioni civili e le convivenze, Torino, 2017, 303 e ss.
[3] Cass., 22 giugno 2016, n. 12962, in Foro it., 2016, I, 2342.
[4] Per il loro compiuto esame, rinviamo al nostro Per una riforma dell’adozione, in Fam. e dir., 2016, 723 e ss.
[5] Cass., 30 settembre 2016, n. 19599, in Foro it., 2016, I, 3329.
[6] Corte Cost., 10 giugno 2014, n. 162, in Foro it., 2014, I, 2324.
[7] F. GAZZONI, La famiglia di fatto e le unioni civili. Appunti sulla recente legge, in www.personaedanno.it
[8] App. Trento 23 febbraio 2017, in Foro it., 2017, I, 1034.
[9] Cass., ord., 22 febbraio 2018, n. 4382, rel. Genovese, in Foro it., 2018, I, 782.
[10] Cass., S.U., 8 maggio 2019, n. 12193, in Foro it., 2019, I, 1951.
[11] Cfr., sul punto, il nostro La filiazione da p.m.a. e gli spinosi problemi della maternità surrogata e della procreazione “post mortem”, in Foro it., 2019, I, 3357 e ss.
[12] Cass., I Sez. civ., ord., 29 aprile 2020 n. 8325, in giudicedonna.it, 2/2020, con nota di M. BIANCA, Il revirement della Cassazione dopo la decisione delle Sezioni Unite. Conflitto o dialogo con la Corte di Strasburgo? Alcune notazioni sul diritto vivente delle azioni di stato.
[13] M. BIANCA, Il revirement, cit., 2
[14] Sent. n. 33/2021.
[15] Corte cost., 8 marzo 2021, n. 32.
[16] Corte cost., 9 marzo 2021, n. 33, precisa che «non è qui in discussione un preteso “diritto alla genitorialità” in capo a coloro che si prendono cura del bambino»; Corte cost., 9 marzo 2021 n. 32, esclude propriamente «l’esistenza di un diritto alla genitorialità delle coppie dello stesso sesso».
[17] Corte cost., 23 ottobre 2019, n. 221.
[18] In tal senso, cfr. C.M. BIANCA, Audizione, alla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati del 23 maggio 2016, nel corso dell’indagine conoscitiva diretta a verificare lo stato di attuazione delle disposizioni legislative in materia di adozioni ed affido.
[19] Corte cost., 9 marzo 2021, n. 33.
Anche Corte cost., 9 marzo 2021 n. 32, si premura di porre in luce le «caratteristiche peculiari dell’adozione in casi particolari, che opera in ipotesi tipiche e circoscritte, producendo effetti limitati».
[20] G. OPPO, Procreazione assistita e sorte del nascituro, in G. OPPO, Scritti giuridici, VII, Vario diritto, Padova, 2005, 49 e ss.
[21] M. BIANCA, Tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico, in La riforma del diritto della filiazione (l. n. 219/12), in N.l.c.c., 2013, 509.
[22] Così la Relazione illustrativa del d.lgs. n. 154/2013.
[23] Cfr. soprattutto Corte cost., 9 marzo 2021, n. 32.
[24] Corte cost., 9 marzo 2021, n. 33; Corte cost., 10 febbraio 1981 n. 11.
[25] Così Cass., S.U., ord., 16 febbraio 1995, n. 78.
Cfr. da ultimo, sulle ragioni solidaristiche dell’istituto dell’adozione, Cass., S.U., 31 marzo 2021, n. 9006, in Questionegiustizia.it, con nota di L. GIACOMELLI, L’adozione piena da parte delle coppie dello stesso sesso avvenuta all’estero è compatibile con l’ordine pubblico internazionale: gli equilibrismi della Cassazione tra inerzia del legislatore, moniti costituzionali ed esigenze di tutela omogenea dei figli.
[26] G. OPPO, Procreazione assistita e sorte del nascituro, cit., 53.
[27] G. FERRANDO, Il diritto dei figli di due mamme o di due papà ad avere due genitori. Un primo commento alle sentenze della Corte costituzionale n. 32 e 33 del 2021, in www.giustiziainsieme.it.
[28] Argomento in tal senso non è deducibile neppure dalla recentissima Cass., S.U., 31 marzo 2021, n. 9006, cit. In tale pronuncia, infatti, la Corte di cassazione chiarisce ripetutamente le differenze tra il caso esaminato e quello, affrontato da Cass., S.U., 8 maggio 2019, n. 12193, cit., riguardante la genitorialità formatasi all’estero attraverso una pratica di maternità surrogata, di cui si ribadisce il divieto e la contrarietà all’ordine pubblico. Ed anzi Cass. n. 9006/2021 richiama espressamente Corte cost. n. 33/2021 «con la quale è stato riaffermato il margine di apprezzamento degli Stati nel non consentire la trascrizione di atti di stato civile o provvedimenti giudiziari stranieri che fondino gli status genitoriali sulla surrogazione di maternità, pur sottolineando l’esigenza di un sistema di tutela del minore più efficace che non quello garantito dall’adozione in casi particolari» (§ 17 detta).
[29] M. BIANCA, Il diritto di famiglia e la missione del giurista. L’insegnamento di mio padre Cesare Massimo Bianca, in Familia, 2021, 125 e ss.
[30] C.M. BIANCA, Ex facto oritur ius, in C.M. BIANCA, Realtà sociale ed effettività della norma giuridica. Scritti giuridici, I, 1, 202 e ss.
[31] C.M. BIANCA, Interpretazione e fedeltà alla norma, in C.M. BIANCA, Realtà sociale, cit.,I, 1, 138 e ss.
[32] C.M. BIANCA, Ex facto oritur ius, cit., 207.
[33] C.M. BIANCA, Ex facto oritur ius, cit., 203 e ss.
[34] Non essendo quello italiano un ordinamento di common law, il giudice non è vincolato dal precedente, per quanto autorevole. Cfr., in tal senso, Cass., S.U., 3 maggio 2019, n. 11747.
[35] Cass., S.U., 11 luglio 2011, n. 15144.
[36] Secondo Corte cost., 13 aprile 2017, n. 82, in Foro it., 2017, I, 1819, «l'univoco tenore letterale della norma impugnata preclude un'interpretazione adeguatrice, che deve, pertanto, cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale». Conf. Corte cost., 19 febbraio 2016, n. 36, «l'obbligo di addivenire ad un'interpretazione conforme alla Costituzione cede il passo all'incidente di legittimità costituzionale ogni qual volta essa sia incompatibile con il disposto letterale della disposizione e si riveli del tutto eccentrica e bizzarra, anche alla luce del contesto normativo ove la disposizione si colloca (sentenze n. 1 del 2013 e n. 219 del 2008). L'interpretazione secondo Costituzione è doverosa ed ha un'indubbia priorità su ogni altra, ma appartiene pur sempre alla famiglia delle tecniche esegetiche, poste a disposizione del giudice nell'esercizio della funzione giurisdizionale, che hanno carattere dichiarativo. Ove, perciò, sulla base di tali tecniche, non sia possibile trarre dalla disposizione alcuna norma conforme alla Costituzione, il giudice è tenuto ad investire questa Corte della relativa questione di legittimità costituzionale».
[37] Cass., S.U., 11 luglio 2011, n. 15144.
[38] Cfr., in generale, C.M. BIANCA, Lo pseudo-riconoscimento dei figli adulterini, in Realtà sociale, cit., I, 1, 303 e ss.
Il diritto alla cura dei nati contra legem
di Alberto Gambino
Sommario: 1. I moniti - 2. Le vicende - 3. “Legami identitari” ovvero “du lien parent-enfant -4. La ricerca concreta della “soluzione ottimale”: più diritti cioè più cura? - 5. Il grande assente: il diritto del minore alla genitorialità naturale, nelle sue varianti riproduttive.
1. I moniti
Due questioni dal significativo impatto etico-sociale sono recentemente approdate davanti alla Corte costituzionale italiana, avendo entrambe quale oggetto la possibile giuridificazione della c.d. genitorialità d’intenzione. L’una è la vicenda di due uomini, sposati in Canada e uniti civilmente in Italia, che – attraverso il ricorso alla surrogazione di maternità – reclamavano lo stato genitoriale anche per l’unito civile che non aveva contribuito con il proprio gamete alla formazione dell’embrione che poi sarebbe stato generato. L’altra vicenda riguarda due donne, le quali - attraverso la pratica della fecondazione eterologa - avevano realizzato il loro “progetto procreativo”, salvo poi a separarsi e, nella crisi, rivendicare, l’una, la legittimazione esclusiva alla maternità e l’altra, l’applicazione, appunto, del principio della maternità d’intenzione.
Appare opportuno partire dalla fine e cioè dal diverso tenore dei due “moniti” della Corte.
Entrambe le decisioni si proponevano come punto centrale la risoluzione del problema relativo all’attuazione del “migliore interesse del bambino” in quelle date vicende, ponendosi il problema della rilevanza giuridica anche dell’interesse del componente della coppia che biologicamente non aveva legami con il minore. Eppure la diversità dei due rimedi per giungere alla maternità (surrogazione e fecondazione eterologa) evidentemente, nel bilanciamento di tutti i fattori in gioco – pubblici e privati – segna due decisioni di tenore diverso nel loro monito al legislatore, pur deponendo entrambe per l’inammissibilità delle questioni[1].
Nel caso della nascita per surrogazione di maternità, auspica il primo Giudice delle leggi (sentenza n. 33/2021): “Il compito di adeguare il diritto vigente alle esigenze di tutela degli interessi dei bambini nati da maternità surrogata – nel contesto del difficile bilanciamento tra la legittima finalità di disincentivare il ricorso a questa pratica, e l’imprescindibile necessità di assicurare il rispetto dei diritti dei minori, nei termini sopra precisati – non può che spettare, in prima battuta, al legislatore, al quale deve essere riconosciuto un significativo margine di manovra nell’individuare una soluzione che si faccia carico di tutti i diritti e i principi in gioco.
Di fronte al ventaglio delle opzioni possibili, tutte compatibili con la Costituzione e tutte implicanti interventi su materie di grande complessità sistematica, questa Corte non può, allo stato, che arrestarsi, e cedere doverosamente il passo alla discrezionalità del legislatore, nella ormai indifferibile individuazione delle soluzioni in grado di porre rimedio all’attuale situazione di insufficiente tutela degli interessi del minore” [sottolineatura nostra].
Nel caso della nascita con fecondazione eterologa, con maggiore enfasi e perentorietà il secondo Giudice delle leggi (sentenza n. 32/2021), ammonisce: “Il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, dovrà al più presto colmare il denunciato vuoto di tutela, a fronte di incomprimibili diritti dei minori. Si auspica una disciplina della materia che, in maniera organica, individui le modalità più congrue di riconoscimento dei legami affettivi stabili del minore, nato da PMA praticata da coppie dello stesso sesso, nei confronti anche della madre intenzionale. […] Nel dichiarare l’inammissibilità della questione ora esaminata, per il rispetto dovuto alla prioritaria valutazione del legislatore circa la congruità dei mezzi adatti a raggiungere un fine costituzionalmente necessario, questa Corte non può esimersi dall’affermare che non sarebbe più tollerabile il protrarsi dell’inerzia legislativa, tanto è grave il vuoto di tutela del preminente interesse del minore, riscontrato in questa pronuncia”[sottolineatura nostra].
Le vicende di madre e padre intenzionali, dunque, sembrano essere meritevoli di un trattamento non omogeneo, almeno a stare dal monito che le riguarda, più determinato per la prima, più prudente per la seconda. Come si vedrà in seguito, anche i suggerimenti della Consulta de iure condendo assumono contenuti solo parzialmente sovrapponibili.
2. Le vicende
Il caso dei due uomini (sentenza n. 33) origina da un’ordinanza della prima sezione civile della Corte di Cassazione (29 aprile 2020)[2], con cui si solleva - con riferimento a più articoli della Carta costituzionale (artt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma) e a una serie di disposizioni di carattere sovranazionale (art. 8 Convenzione europea dei diritti dell’uomo; artt. 2, 3, 7, 8, 9 e 18 Convenzione sui diritti del fanciullo; art. 24 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) - questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 6, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nonché di altre norme precludenti un’interpretazione conforme al c.d. “diritto vivente” del provvedimento giudiziario straniero relativo all’inserimento nell’atto di stato civile di un minore procreato con le modalità della gestione per altri (“maternità surrogata”) del c.d. genitore d’intenzione non biologico (art. 64, comma 1, lettera g), della legge 31 maggio 1995, n. 218; art. 18 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396).
La decisione riguarda un bambino nato in Canada da una donna “portante”, che cioè aveva consentito che nel suo utero venisse impiantato un embrione formato con i gameti di una donatrice anonima e di un uomo di cittadinanza italiana, unito in matrimonio in Canada con un altro uomo italiano – con atto poi trascritto in Italia nel registro delle unioni civili.
Le autorità giudiziarie canadesi optano per la doppia genitorialità della coppia e i due uomini richiedono all’ufficiale di stato civile italiano di rettificare l’atto di nascita del bambino e, in seguito al rifiuto, presentano ricorso alla Corte d’appello di Venezia che lo accoglie. La Cassazione adita dal Ministero dell’interno e dal Sindaco rimette la questione alla Consulta, pur prendendo atto che nel frattempo è stata depositata la sentenza delle Sezioni unite civili 8 maggio 2019, n. 12193, che afferma il principio secondo cui non può essere riconosciuto nel nostro ordinamento un provvedimento straniero che riconosca il rapporto di genitorialità tra un bambino nato in seguito a maternità surrogata e il genitore “d’intenzione” – trattandosi di principio di ordine pubblico a tutela di valori fondamentali, quali la dignità della gestante e l’istituto dell’adozione[3]. Nella medesima decisione si suggerisce il possibile ricorso all’adozione in casi particolari di cui all’art. 44, comma 1, lettera d), della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia).
A detta del giudice rimettente, i contenuti costituzionali cui andrebbe incontro il divieto di riconoscimento starebbero nell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione ai diritti del minore al rispetto della propria vita privata e familiare (art. 8 CEDU), nonché – con riferimento al diritto vivente cristallizzato dalla pronuncia delle Sezioni unite - negli artt. 2, 3, 30 e 31 Cost.
Rilievo significativo, inoltre assumerebbe, nella prospettazione dei giudici remittenti il parere consultivo della grande camera della Corte europea dei diritti dell’uomo del 10 aprile 2019, con il quale si è affermato che il diritto al rispetto della vita privata del bambino, ai sensi dell’art. 8 CEDU, richieda che il diritto nazionale offra una possibilità di riconoscimento del legame di filiazione con il genitore d’intenzione come autentica legal parent-child relationship[4].
Nel secondo caso, il Tribunale di Padova (ordinanza del 9 dicembre 2019) solleva questioni di legittimità costituzionale degli artt. 8 e 9 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) e 250 del codice civile, anche qui con riferimento a più articoli della Carta costituzionale (artt. 2, 3, 30 e 117, primo comma) e a una serie di disposizioni di carattere sovranazionale (artt. 8 e 14 Convenzione europea dei diritti dell’uomo; artt. 2, 3, 4, 5, 7, 8, 9 Convenzione sui diritti del fanciullo).
In questa vicenda, la madre intenzionale di due gemelle, nate a seguito del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA) – cui si è sottoposta l’allora partner della stessa – ha adito i giudici per ottenere, in via principale, l’autorizzazione a dichiarare all’ufficiale dello stato civile di essere genitore, ai sensi dell’art. 8 della legge n. 40 del 2004, o di essere dichiarata tale dalla sentenza dello stesso Tribunale per aver prestato il consenso alla fecondazione eterologa, ai sensi dell’art. 6 della medesima legge. Alla cessazione della relazione fra le due donne, infatti, l’adozione in casi particolari, di cui all’art. 44, comma 1, lettera d), della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori) è risultata impraticabile, in quanto l’art. 46 della medesima legge prescrive l’assenso del genitore legale dell’adottando, che, nella specie, è stato negato.
3. “Legami identitari” ovvero “du lien parent-enfant
Come ricorda la Consulta, il principio posto a tutela del migliore interesse del minore si afferma nell’ambito della Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo del 1959 (principio 2), in cui si prevede che, nell’approvazione di leggi e nell’adozione di tutti i provvedimenti che incidano sulla condizione del minore, ai best interests of the child deve attribuirsi rilievo determinante (“paramount consideration”). Successivamente, pur in assenza di una espressa base giuridica, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ricondotto all’art. 8, spesso in combinato disposto con l’art. 14 CEDU, l’affermazione che i diritti alla vita privata e familiare del fanciullo devono costituire un elemento determinante di valutazione («the child’s rights must be the paramount consideration»[5], così da reclamare garanzie anche per i legami affettivi stabili con chi, indipendentemente dal vincolo biologico, abbia in concreto svolto una funzione genitoriale, prendendosi cura del minore per un lasso di tempo sufficientemente ampio[6]. A meno che un distacco si renda necessario nel suo superiore interesse, di volta in volta rimesso alla valutazione del giudice, il minore non deve essere separato dai genitori contro la sua volontà[7]. Ne è seguita l’assimilazione al rapporto di filiazione del legame esistente tra la madre d’intenzione e la figlia nata per procreazione assistita, cui si era sottoposta l’allora partner, legame, dunque, che «tient donc, de facto, du lien parent-enfant»[8].
Nel ripercorrere tali itinerari giuridico-giurisprudenziali relativi alla fisionomia progressivamente assunta dal c.d. miglior interesse del minore, la Consulta prova a fornire una risposta all’interrogativo se il diritto vivente già espresso dalle Sezioni unite civili (adozione in casi particolari), alla luce della complessità della vicenda, sia compatibile con i diritti del minore alla sua identità, che si formerebbe anche in relazione alla rilevanza del legame di filiazione. In questa direzione depongono talune decisioni della Corte di Strasburgo, a partire dal noto “caso Mennesson”, in cui si riconosce che tali legami siano parte integrante della stessa identità del bambino[9], sia quando vive e cresce in una determinata famiglia sia quando si trovi nell’ambito di una determinata comunità di affetti, peraltro riconducibile, come ricorda la Consulta, al novero delle formazioni sociali tutelate dall’art. 2 Cost.
Sta allora dentro il perimetro del “miglior interesse del bambino” che tali legami abbiano riconoscimento non solo sociale ma anche giuridico così da attuarsi pienamente negli ambiti dalla cura della sua salute, dell’educazione scolastica, degli interessi patrimoniali ed ereditari e, soprattutto, perché il minore sia identificato dalla legge come membro di quella famiglia o di quel nucleo di affetti, composto da tutte le persone che in concreto ne fanno parte. E ciò anche laddove il nucleo in questione sia strutturato attorno ad una coppia composta da persone dello stesso sesso, dal momento che l’orientamento sessuale della coppia non incide di per sé sull’idoneità all’assunzione di responsabilità genitoriale.
Vi è, dunque, violazione del diritto alla vita privata del minore il mancato riconoscimento del legame di filiazione tra lo stesso e i genitori intenzionali, proprio in considerazione dell’incidenza del rapporto di filiazione, anche di tipo sociale, sulla costruzione dell’identità personale.
La Consulta ritiene, in buona sostanza, che sia preferibile per il minore cristallizzare giuridicamente entrambi i legami genitoriali, anziché ridurli esclusivamente dentro il solo già “legittimo”, così recependo il modello tradizionale della bi-genitorialità, che tuttavia affonda le radici nella differenziazione sessuale e, dunque, naturalmente procreativa della coppia. Dunque, un nuovo modello di bi-genitorialità sociale che mima quello naturale, senza tuttavia porsi il problema ben più profondo del perché nel modello naturalistico i genitori siano due e soltanto due.
4. La ricerca concreta della “soluzione ottimale”: più diritti cioè più cura?
La Consulta si mostra pienamente consapevole che il principio del best interest of the chiald non possa essere strumento interpretativo astratto – anche per la difficoltà di rappresentazione da parte del vero e unico titolare, il minore appunto – ma vada applicato modulandolo nella concretezza della vicenda data. Si invoca così il principio della ricerca della “soluzione ottimale” in concreto per l’interesse del minore, «quella cioè – secondo il magistero della Consulta - che più garantisca, soprattutto dal punto di vista morale, la miglior “cura della persona”» [10] . Là dove, la cura della persona implica, in senso estensivo, anche il più ampio esercizio dei diritti e, correlativamente, la più estesa doverosità soggettiva delle pretese giuridiche rivendicabili. Dunque, non solo un problema di “qualità” dei diritti ma anche di “quantità”. Pertanto – anche per confutare la prospettiva adultocentrica, che pur si affaccia nelle due decisioni della Corte – si precisa che nelle vicende della genitorialità d’intenzione non sarebbe in discussione un preteso “diritto alla genitorialità” in capo a coloro che si prendono cura del bambino, bensì l’interesse del minore a che sia affermata in capo ai genitori intenzionali la titolarità giuridica di “quel fascio di doveri funzionali agli interessi del minore che l’ordinamento considera inscindibilmente legati all’esercizio di responsabilità genitoriali. Doveri ai quali non è pensabile che costoro possano ad libitum sottrarsi”. In questo senso, la Consulta afferma che l’interesse del minore non possa ritenersi soddisfatto dal riconoscimento del rapporto di filiazione con il solo genitore “biologico”: “laddove, infatti, il minore viva e cresca nell’ambito di un nucleo composto da una coppia di due persone, che non solo abbiano insieme condiviso e attuato il progetto del suo concepimento, ma lo abbiano poi continuativamente accudito, esercitando di fatto in maniera congiunta la responsabilità genitoriale, è chiaro che egli avrà un preciso interesse al riconoscimento giuridico del proprio rapporto con entrambe, e non solo con il genitore che abbia fornito i propri gameti ai fini della maternità surrogata” (Sentenza n. 33, sottolineatura nostra). Afferma ancora la Corte, nello stesso caso della procreazione per surrogazione di maternità: “Non v’è dubbio, in proposito, che l’interesse di un bambino accudito sin dalla nascita […] da una coppia che ha condiviso la decisione di farlo venire al mondo è quello di ottenere un riconoscimento anche giuridico dei legami che, nella realtà fattuale, già lo uniscono a entrambi i componenti della coppia, ovviamente senza che ciò abbia implicazioni quanto agli eventuali rapporti giuridici tra il bambino e la madre surrogata” (Sentenza n. 33, sempre sottolineature nostre).
Merita allora approfondimento la locuzione “eventuali rapporti giuridici tra il bambino e la madre surrogata”.
Nel caso della surrogazione, la Consulta, infatti, riconosce che l’interesse del bambino non possa essere considerato sempre prevalente rispetto a ogni altro controinteresse in gioco, dovendosi avere presente che in tema di diritti fondamentali, la prevalenza assoluta di uno di essi sugli altri comporterebbe la “tirannide” “nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona” (sentenza n. 85 del 2013).
Correttamente la Consulta ricorda che gli interessi del minore dovranno essere allora bilanciati, alla luce del criterio di proporzionalità, con lo scopo legittimo perseguito dall’ordinamento di disincentivare il ricorso alla surrogazione di maternità, penalmente sanzionato dal legislatore (sentenza n. 33). Il bilanciamento tra gli interessi del bambino e la legittima finalità di disincentivare il ricorso a una pratica che l’ordinamento italiano considera illegittima e anzi meritevole di sanzione penale appare complesso (la sentenza della Corte costituzionale n. 272 del 2017 ha affermato, con parole forti, che la maternità surrogata “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”). Resta però ferma la rammentata necessità di riconoscimento del «legame di filiazione» con entrambi i componenti della coppia che di fatto se ne prende cura.
Altro è il divieto di trascrizione di atti di stato civile stranieri, o di provvedimenti giudiziari, che riconoscano sin dalla nascita del bambino lo status di padre o di madre al “genitore d’intenzione”, divieto funzionale allo scopo di non fornire incentivi, anche solo indiretti, a una pratica procreativa che ciascuno Stato ben può considerare potenzialmente lesiva dei diritti e della stessa dignità delle donne che accettino di portare a termine la gravidanza per conto di terzi. Altra è la necessità che ciascun ordinamento garantisca la concreta possibilità del riconoscimento giuridico dei legami tra il bambino e il “genitore d’intenzione”, al più tardi quando tali legami si sono di fatto concretizzati.
In altri termini, da un lato – stante la gravosità della vicenda di una maternità in surrogazione – la Corte non mette in alcuna discussione i possibili legami giuridici con la madre portante, ma, allo stesso tempo, dà per acquisito che il diritto alla genitorialità sociale dei genitori committenti corrisponde pienamente – potremmo dire senza ombra di discussione – all’interesse del minore. Eppure qui, anche soltanto in chiave logico-argomentativa, più di un ombra si riscontra. Delle due l’una: o si accetta che – stante l’impossibilità dichiarata di recidere i potenziali legami giuridici con la donna portante (unica madre del resto per il nostro ordinamento) – i genitori allora ben potrebbero essere tre, con buona pace della mimesi della bi-genitorialità anche nelle vicende che ci riguardano, con il corollario nevralgico di capire poi se ancora esista il best interest of the child in ipotesi di trigenitorialità; oppure ci si deve arrestare e con onestà intellettuale, capire che tale nodo è ineludibile.
Nodo che invece viene agevolmente sciolto nell’altra vicenda della eterologa. In questo caso, infatti, l’elusione del limite stabilito dall’art. 5 della legge n. 40 del 2004, (accesso alle sole coppie di sesso diverso) come già detto, “non evoca scenari di contrasto con principi e valori costituzionali” (sentenza n. 32), non ritenendosi configurabile un divieto costituzionale, per le coppie omosessuali, di accogliere figli, pur spettando alla discrezionalità del legislatore la relativa disciplina.
La Corte richiama altresì la riforma del 2012 e del 2013, in tema di filiazione, che pone al centri i diritti del minore e la responsabilità genitoriale, che, tuttavia, come ricordato proprio sulle pagine di questa Rivista, “si tratta di situazioni che non possono essere poste sullo stesso piano al fine di invocare una presunta violazione del principio di uguaglianza e di unicità dello stato di figlio” [11].
5. Il grande assente: il diritto del minore alla genitorialità naturale, nelle sue varianti riproduttive
Il contenuto delle due decisioni della Consulta muove, dunque, da un assunto apparentemente granitico: che vi sia assoluta necessità di riconoscimento giuridico del “legame” tra il minore e il convivente non genitore naturale. A deporre per la corrispondenza “logica” tra tale urgenza e una piena tutela dell'interesse del minore si richiama, in questo senso, l’obiettivo di dare attuazione ai diritti fondamentali del generato. L’indagine analitica dei percorsi giurisprudenziali e normativi affrontati dalle due decisioni della Consulta non si occupa, però, di un’altra prospettiva altrettanto meritevole: l’incidenza, anche nelle vicende affrontate dalla Corte, del diritto del minore alla genitorialità naturale. Ne emerge un quadro parziale, dove, accanto all’apprezzamento per l’esaustività dei richiami favorevoli alla tesi condivisa dalla Consulta non può che accostarsi un rilievo per una certa lacunosità rispetto all’assenza di una riflessione, anche critica, dei contenuti di bisogni ed esigenze di tutela del minore connessi con il tema della genitorialità biologica.
Occorre, infatti, osservare che il paradigma costituzionale della genitorialità naturale ha una sua profonda ragione d'essere, proprio nella cristallizzazione delle prerogative che comporta nel mondo giuridico il legame biologico tra figlio e genitore. Così come le argomentazioni delle Corti hanno radicato la tutela del legame sociale tra genitore di volontà e minore nel diritto all'identità del generato e alla responsabilità del genitore sociale, identiche premesse possono essere richiamate per dare fondatezza alla rilevanza della genitorialità naturale.
Un punto di osservazione maggiormente realistico, che abbia di mira la tutela del generato, non può in effetti trascurare a priori il legame naturale e biologico tra due esseri umani.
Si rifletta sui temi della salute e della cura, specie laddove sia necessario per motivi di cura risalire all'identità sanitaria del genitore; si pensi al diritto, consolidato, di ciascuna persona a le proprie origini biologiche; si pensi - e qui il discorso si fa particolarmente complesso - al significato esistenziale/collettivo che assume la presa d’atto che soltanto la generazione biologica è in grado di assicurare discendenza all’umanità. In altri termini, non si può evadere il quesito di senso che reclama la precondizione della genitorialità biologica e ridurla a fattore “esterno” da rimuovere per cedere il passo dinnanzi a nuove esigenze di garanzia di legami sociali e affettivi tra le persone. D’altro canto, anche il principio dell’autoresponsabilità, nei termini di libertà procreativa, non può restare immune da valutazioni ma richiede l’approfondimento del significato umano e sociale del fatto del generare una persona umana.
Efficacemente, c’è chi, in effetti, ravvisa proprio nella prospettiva naturalistica della genitorialità biologica uno straordinario potenziale emancipatorio da talune deformazioni insite nella assolutizzazione del solo legame sociale proprio in casi pregni di conflittualità tra genitori sociali, naturali e conviventi[12].
Cosa accadrebbe, infatti, se la madre portante volesse trattenere il generato con sè? Cosa prevarrebbe, in questo caso, l’accordo negoziale – come accade nei Paesi che ammettono la maternità surrogata – o, appunto, il diritto inalienabile ad essere riconosciuto genitore del soggetto nato; per converso, quest’ultimo potrà reclamare la maternità del genitore naturale? E, ancora, nel caso di una fecondazione eterologa, praticata da una coppia di donne, davvero non ha alcuna rilevanza giuridica la figura del donatore del gamete?
Si tratta solo di alcuni tra i tanti quesiti ineludibili che il giudice delle leggi avrebbe potuto/dovuto affrontare per dare maggiore compiutezza ai ragionamenti sviluppati. Con ciò non si vuole certo affermare che non abbiano rilevanza fatti relazionali socialmente riconosciuti e radicati nella vita del minore. Così come, nei casi concreti, non si può non rimarcare che il migliore interesse del minore consista perlopiù nel restare nell’alveo della coppia sociale e non invece esservi sottratto per un successivo inserimento, nell’ambito della procedura adottiva, in una famiglia nuova.
Ora, la soluzione concretamente segnalata dalle Sezioni unite cioè il ricorso alla disciplina dell’adozione in casi particolari aveva il merito di sottoporre al vaglio giudiziale, nell’ottica del concreto interesse del minore, la rilevanza giuridica del legame con il genitore intenzionale, pur con l’effetto di una certa sopravvalutazione, come detto, della ineludibilità di una sua formalizzazione, quasi che ciò abbia la capacità taumaturgica di cancellare la realtà delle cose. A ben vedere, è proprio dal bilanciamento degli interessi in gioco - cui non può essere a priori escluso quello connesso alla genitorialità naturale - che si può giungere alla migliore soluzione a tutela dell’effettivo interesse del minore nella concretezza della realtà data. In questa direzione, proprio i diversi strumenti dell'autonomia privata potrebbero offrire contributi significativi, evidenziandosi peraltro come nelle attuali evoluzioni della materia del diritto di famiglia la mancanza di formalizzazione normativa dei legami affettivi e sociali non implichi affatto assenza di garanzie per la tutela di una loro continuità.
Quanto agli strumenti giurisdizionali che l’ordinamento appresta per dare attuazione al diritto/dovere del genitore d’intenzione, la soluzione del possibile ricorso all’adozione in casi particolari, ritenuto esperibile dalle Sezioni unite civili, come detto, appare ai giudici costituzionali non del tutto adeguata al metro dei principi costituzionali e sovranazionali rammentati. La necessità dell’intervento legislativo discende dalla constatazione che l’adozione in casi particolari non attribuisce la genitorialità all’adottante, limita i vincoli di parentela con altri ascendenti e collaterali e, soprattutto, implica il necessario assenso del genitore “biologico” [13]. La Consulta, dunque, suggerisce, in via esemplificativa ed alternativa – almeno nella vicenda della fecondazione eterologa - una possibile “riscrittura” delle previsioni in materia di riconoscimento, ovvero dell’introduzione di una nuova tipologia di adozione, che attribuisca, con una procedura tempestiva ed efficace, la pienezza dei diritti connessi alla filiazione “sociale”, lasciando il doveroso margine di apprezzamento al legislatore. L’indicazione è solo apparentemente “aperta”, in quanto sembra davvero arduo riscrivere le previsioni in materia di riconoscimento, se non assegnando in definitiva un problematico (per quanto sin qui detto) diritto allo status anche nei confronti del committente privo di legame biologico.
Nel caso della surrogazione di maternità, la Consulta fa invece riferimento ad una disciplina genericamente “più aderente alle peculiarità della situazione in esame”, rispetto alla quale, occorre tenere presente che, in vista della migliore e concreta realizzazione dell’interesse del minore, non può però eludersi, anche qui, un vaglio giudiziale della reale consistenza del rapporto de facto col partner del genitore. Nell’interpretazione e nella valorizzazione dell’effettivo legame sociale tra il minore e il genitore d’intenzione, un prudente vaglio giudiziale appare in definitiva più coerente con la pluralità degli interessi in gioco e il loro diverso atteggiarsi nelle vicende concrete.
In questa prospettiva potrà eventualmente valutarsi anche la rilevanza di un diritto del generato alla genitorialità naturale e l’esigenza ad esso sottesa di garantire il significato personalistico della generazione umana.
Del resto, anche ove si riconosca un rapporto col genitore biologico, potrà essere comunque garantita la continuità del rapporto de facto col committente privo di legame biologico senza dar corso alla sua formalizzazione.
Certamente entrambe le decisioni della Consulta intendono ampliare l’orizzonte dei diritti per il minore. Ma mentre nel caso della fecondazione eterologa la Consulta richiama – pur con i limiti e le critiche espresse – anche possibili soluzioni pienamente legittimanti della formalizzazione di uno status, gli stessi esiti sono prudentemente taciuti nel caso della surrogazione di maternità.
Il disvalore sociale e costituzionale tra le due vicende è evidente. Nessuna di esse supera la barriera dell’ammissibilità, ma soltanto il caso dell’eterologa la dinamica legame-identità-migliore interesse reclama – nelle espressioni della Corte - una soluzione forte.
Oltre alla differente gravità delle violazioni delle norme previste dalla legge nei due casi, non si può a questo punto non osservare che si tratta di due fatti generativi che proprio in termini di rilevanza dell’ ”altro” legame con il genitore naturale, mostrano disomogeneità. E ciò perché il concetto di legame è più profondo di quello che appare anche nella sua dimensione di corporalità.
Nel caso della donazione di un gamete presupposto dell’eterologa, ci si spoglia della genitorialità ancor prima di avere acquisito un “legame” con il nascituro; diverso è, invece, il caso della surrogazione. Ci sono nove lunghissimi mesi in mezzo. Adriano Ossicini, padre della psicologia italiana, ha scritto volumi sulla rilevanza di un profondissimo legame non solo fisico ma addirittura psicologico del generato all’interno del grembo materno nel periodo della gravidanza[14].
La Consulta non azzarda esiti formalmente legittimanti alla genitorialità d’intenzione praticata con la tecnica della maternità surrogata, arrestandosi davanti all’intuitivo disvalore sociale della pratica vietata e pesantemente stigmatizzata. Forse, se avesse scavato più a fondo sulle ragioni ultime del disvalore penalistico della norma avrebbe rintracciato, oltreché ragioni deprecabili di sfruttamento di donne indigenti, anche un altro strettissimo legame biologico-esistenziale che si attiva tra la madre e il feto, certamente di qualità diversa rispetto al legame solo e puramente genetico tra il donatore del gamete e il generato.
[1] Afferma Renda in La surrogazione di maternità tra principi costituzionali ed interesse del minore, nota a Cass., 11 novembre 2014, n. 24001, pubblicata, tra l’altro, in Corr. giur. 2015, 481, che «la surrogazione di maternità destabilizza il sistema, violando principi fondamentali, assai più della donazione di ovociti».
[2] Il testo dell’ordinanza è pubblicato in Fam. e dir., 2020, 675 ss., con note di G. Ferrando, I diritti del bambino con due papà. La questione va alla Corte costituzionale e di G. Recinto, Un inatteso “revirement” della Suprema Corte in tema di maternità surrogata; in Corr. giur., 2020, 902 ss., con nota di U. Salanitro, L’ordine pubblico dopo le Sezioni Unite: la Prima Sezione si smarca… e apre alla maternità surrogata. Cfr. anche G. Luccioli, Il parere preventivo della Corte edu e il diritto vivente italiano in materia di maternità surrogata: un conflitto inesistente o un conflitto mal risolto dalla Corte di Cassazione?, in questa Rivista (22 maggio 2020).
[3] Per tale sentenza, si vedano: Fam. e dir., 2019, 653 ss., con note di M. Dogliotti, Le Sezioni Unite condannano i due padri e assolvono le due madri e G. Ferrando, Maternità per sostituzione all’estero: le Sezioni Unite dichiarano inammissibile la trascrizione dell’atto di nascita. Un primo commento; Nuova Giur. Civ. Comm., 2019, 737 ss., con nota di U. Salanitro, Ordine pubblico internazionale, filiazione omosessuale e surrogazione di maternità; Giur. it., 2020, 543 ss., con nota di A. Valongo, La c.d. “filiazione omogenitoriale” al vaglio delle Sezioni unite della Cassazione. Si legga anche G. Luccioli, Qualche riflessione sulla sentenza delle Sezioni Unite n. 12193 del 2019 in materia di maternità surrogata, in GenIUS, 2020 (www.articolo29.it, 23 maggio 2020).
[4] Per il testo dell’Advisory Opinion v. Nuova giur. civ. comm., 2019, I, 757 ss., con nota di A. G. Grasso, Maternità surrogata e riconoscimento del rapporto con la madre intenzionale.
[5] Corte EDU, sezione seconda, sentenza 5 novembre 2002, Yousef contro Paesi Bassi; sezione prima, sentenza 28 giugno 2007, Wagner e J.M.W.L. contro Lussemburgo, paragrafo 133: «Bearing in mind that the best interests of the child are paramount in such a case»; grande camera, sentenza del 26 novembre 2013, X contro Lettonia, paragrafo 95: «the best interests of the child must be of primary consideration»).
[6] Corte EDU, sezione prima, sentenza del 16 luglio 2015, Nazarenko contro Russia, paragrafo 66.
[7] Corte EDU, grande camera, sentenza 10 settembre 2019, Strand Lobben e altri contro Norvegia, paragrafo 207.
[8] Corte EDU, sezione quinta, sentenza 12 novembre 2020, Honner contro Francia, paragrafo 51.
[9] Corte EDU, sentenza 26 giugno 2014, Mennesson contro Francia, paragrafo 96. Cfr., anche, l’altra sentenza “gemella” Labassee contro Francia, paragrafo 75.
[10] Sentenza n. 11 del 1981 (con richiami all’art. 30 Costit); ed è stato ricondotto anche all’art. 31 Costit. dalle sentenze n. 272 del 2017, n. 76 del 2017, n. 17 del 2017 e n. 239 del 2014).
[11] M. Bianca, La genitorialità d’intenzione e il principio di effettività. Riflessioni a margine di Corte cost. n. 230/2020.
[12] L’itinerario prescelto è svolto da E. Bilotti, L’adozione semplice del figlio del convivente (dello stesso sesso), nota a Cass., 22 giugno 2016, n. 12962, in Nuovo Diritto Civile, 2016, 91 ss..
[13] M. C. Venuti, Le sezioni unite e l’omopaternità: lo strabico bilanciamento tra il best interest of the child e gli interessi sottesi al divieto di gestazione per altri, GenIUS, 2020, 17.
[14] Ex multis, da ultimo, ne La Rivoluzione della psicologia, 2008.
La discrezionalità amministrativa nel reato di abuso d’ufficio (note su Cass. Pen., Sez. VI, 8 gennaio 2021, n. 442)
di Andrea Crismani
Sommario: 1. Il rischio dell’esposizione alla responsabilità penale. - 2. Le riforme. - 3. La nuova formulazione dell’art. 323 c.p.. - 4. La Cass. Pen., Sez. VI, 8 gennaio 2021, n. 442. - 5. Che cosa vuole colpire la norma?
1. Il rischio dell’esposizione alla responsabilità penale
Il reato di abuso di ufficio rappresenta terreno di scontro che nel corso dei decenni ha creato alcune tensioni tra il legislatore e la giustizia penale. Vi è un’oggettiva difficoltà nell’individuare l’esatta articolazione del profilo strutturale di questo tipo di reato considerato “a maglie larghe”.
L’analisi richiede un approccio per certi versi interdisciplinare, poiché vi è una non definita tensione tra ciò che può considerarsi disvalore penale e ciò che rientra nell’illecito amministrativo[1]. Tuttavia, in certi casi l’approccio interdisciplinare non ha giovato e ha portato a soluzioni diametralmente opposte rispetto a quelle che il legislatore dell’art. 323 c.p. ha voluto attuare nelle quattro riforme che si sono susseguite.
Ciò che si coglie dalla lettura di alcune posizioni è la tendenza di identificare l’abuso con il semplice eccesso di potere e con alcune delle sue figure sintomatiche. Sul punto sembra che vi sia una scarsa convergenza che rischia di portare verso una “contrapposizione di paradigmi operativi differenti nel medesimo contesto d’azione”. Su quest’aspetto, la dottrina amministrativistica nota come rispetto alle linee evolutive del diritto amministrativo il diritto penale si presenta “estraneo, indifferente, distante: il diritto penale sembra semplicemente muoversi su un piano diverso. Le due dinamiche non si incrociano. E in questo contesto il giudice penale rischia oggettivamente di essere un ruolo di sbarramento, o quantomeno di ostacolo, sulla via della riforma amministrativa”[2].
Sul fronte legislativo invece accade che ciclicamente il legislatore di fronte all’eccessiva apertura della giurisprudenza penale interviene con riforme c.d. difensive e cerca di restringere l’area della punibilità.
L’eccessiva area di punibilità o di mero sospetto di punibilità ha comportato in capo ai funzionari pubblici la paura della firma fino ad arrivare alla creazione di una figura di amministrazione distorta che, da attiva, ha assunto la connotazione di amministrazione difensiva. Questo fenomeno ha comportato in capo al pubblico amministratore una posizione di immobilismo dovuto all’eccessiva, e per certe volte giustificata, prudenza[3].
Una simile disputa si è posta anche sul versante del danno erariale avanti alla Corte dei conti. Sono note le limitazioni della responsabilità alla sola colpa grave, l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali (cfr. art. 1, l. n. 20/1994), la limitazione dei danni all’immagine con il “lodo Bernardo”: tutti aspetti che avevano suscitato la reazione della giurisprudenza contabile che ha cercato di ridefinire il concetto di gravità nella colpa e, con riferimento al danno all’immagine, ha cercato di elaborare una nuova figura di danno alla reputazione. La stessa norma che ha rivisto l’abuso d’ufficio ha ora circoscritto la responsabilità erariale “oltre la colpa” attestandosi (in certi casi e per un periodo) sul solo dolo (cfr. art. 21 commi 1 e 2, d.l. 76/2020 conv. in. l. n. 120/2020).
Il timore della responsabilità erariale, penale o disciplinare indubbiamente può fungere da freno nell’azione del dipendente o del funzionario. Ciò non significa però che chi rifugge ha la coscienza sporca ma spesso ha timore o paura di decidere. Va anche considerato l’importante numero di procedimenti avviati per abuso d’ufficio in un contesto interpretativo della norma tale da arrivare ad utilizzare l’espressione “abuso dell’abuso d’ufficio”. In effetti, va notato che il numero dei procedimenti avviati per questo tipo di reato e quelli conclusi con una condanna,evidenziano un divario che è stato definito apparentemente paradossale ed è stato contabilizzato all’incirca da uno a cento[4]. Statisticamente la percentuale dei procedimenti che si chiudono con una condanna è esigua. È da dire che la “paura della firma” non discende tanto (solo) dal fatto di essere condannati, ma deriva dal rischio di subire il discredito sociale connesso alla semplice possibilità di essere sottoposti ad indagini, a perquisizioni, a sequestri, a interrogatori e all’ancora più temuto clamore mediatico e istituzionale. A questo si aggiunge il fattore tempo: l’ulteriore timore è dato dalla eccessiva durata dei processi e dalle conseguenze che ne derivano deriverebbero sulla carriera durante la pendenza del procedimento, potendo la durata rappresentare un valido strumento di eliminazione del pubblico amministratore o del politico rispettivamente dall’arena burocratica o politica[5].
2. Le riforme
Le riforme che si sono succedute nel corso dei decenni sono state essenzialmente improntate a porre un argine all’asserita “ingerenza” della magistratura penale nell’attività del pubblico amministratore che agisce nell’ambito dei poteri discrezionali. Tuttavia i vari tentativi sono falliti in quanto se dopo un primo arresto in cui si prendeva atto delle modifiche normative sul sindacato giudiziale ben presto si assistette a una inversione di rotta che in sostanza e per molti versi riportava la figura alle originarie previsioni. Le ragioni possono essere molteplici (o nessuna): qualche sintomo si rinviene nell’inadeguata tecnica normativa, nello sbilanciamento dovuto alla rivisitazione e abrogazione di altre fattispecie delittuose che hanno ribaltato le aspettative sull’abuso d’ufficio, nello scontro e nella resistenza ideologica alle trasfigurazioni dell’istituto, nella personalizzazione della fattispecie, nell’eccessiva confusione tra illegittimità amministrativa e illiceità penale, tanto da poter dire che nulla è cambiato.
Il volto dell’articolo 323 c.p. è stato rimodellato per ben quattro volte ed è passato da clausola di riserva assolutamente indeterminata secondo il testo nella versione del codice Rocco che poteva essere applicato soltanto in difetto di una qualsiasi altra norma incriminatrice, poiché questa fattispecie criminosa era inserita tra il peculato per distrazione (art. 314 c.p.) e l’interesse privato in atti d’ufficio (art. 324 c.p.). In tale contesto l’art. 323 c.p. ebbe una vita abbastanza equilibrata salvo alcune posizioni della giurisprudenza sui casi più eclatanti come lo “scandalo delle banane” degli anni Sessanta del precedente secolo[6].
Già nella versione iniziale dell’articolo 323 c.p. si poneva la questione dei confini tra giurisdizione penale e attività amministrativa che essenzialmente si identificavano, forse in modo non del tutto corretto, nella cognizione del giudice penale dell’atto amministrativo attraverso lo strumento della disapplicazione di cui all’art. 5 l. n. 2248/1865. Si poneva, infatti, il problema che poi si trascina fino ai giorni odierni, del rapporto tra l’illegittimità amministrativa e illiceità penale creando delle prospettive sostanzialmente illusorie.
Vi fu una prima riforma del 1990 (l. n. 89/1990) che aveva rivisto l’assetto originario soprattutto in funzione della riforma del reato di peculato e dall’abrogazione dell’interesse privato in atti d’ufficio. Se inizialmente l’art. 323 c.p. rappresentava un’ipotesi residuale di due fattispecie criminose ben definite in un successivo momento quest’articolo assunse una funzione diversa per così dire volta a colmare il vuoto che si era creato a seguito dell’abrogazione e modifica delle citate figure delittuose. La riforma del 1990 stravolse completamente la norma trasformando l’abuso di ufficio in una figura ampia, idonea a inglobare un numero indeterminato di condotte. Si ritiene, infatti, che in qualche modo fossero inglobate quelle fattispecie che prima rientravano nella figura criminosa del peculato per distrazione, della malversazione a danno di privati e che con la riforma del 1990 furono inserite nell’articolo 323 c.p..
Nel 1997 con l. n. 234/1997 vi fu un’altra rivisitazione improntata essenzialmente a prevenire le forzature giurisprudenziali che avevano portato “ad abbassare i confini”[7]. La versione del 1997 risultava caratterizzata dalla necessaria violazione di legge o di regolamento,oppure dell’inosservanza di un obbligo di astensione e dalla illiceità intrinseca del danno o del vantaggio patrimoniale[8]. L’intento legislativo presupponeva che vi fosse una norma imperativa di natura legislativa o regolamentare diretta al pubblico funzionario e riferita specificatamente al tipo di attività svolta in concreto. Da qui però la riscrittura da parte della giurisprudenza penale che aveva (giustamente) notato come le distorsioni più gravi si potessero compiere proprio nell’ambito dell’attività discrezionale. In tale contesto venne riconsiderata la nozione di violazione di legge ricomprendendo nel suo alveo anche le norme di principio e conseguentemente anche la fattispecie dell’eccesso di potere che nel diritto amministrativo ha subito un importante rivisitazione passando dalla identificazione nelle figure sintomatiche alla violazione di principi generali di norme a largo spettro.
L’eccesso di potere emerge non più come vizio a cognizione indiretta, ossia la cui conoscenza si può raggiungere soltanto attraverso sintomi, ma viceversa attraverso un tipo di cognizione analoga alla violazione di legge[9]. In tal modo diversamente dal dato letterale voluto dal legislatore, sintomatica sul punto fu la giurisprudenza penale[10] secondo la quale “ai fini della configurabilità del reato di abuso d’ufficio, sussiste il requisito della violazione di legge non solo quando la condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere, ma anche quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di potere, che integra la violazione di legge poichè lo stesso non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima l’attribuzione”.
In effetti, il punto di scontro stava proprio nel fatto che l’intento del legislatore del 1997, come emerge dai lavori preparatori, è dato dall’esclusione dell’eccesso di potere dall’ambito di rilevanza dell’abuso d’ufficio e alla definizione della condotta tipica circoscritta alla violazione di legge o di regolamento. La reazione della giurisprudenza fu di segno diverso, come appena notato. Non di meno nel diritto amministrativo la differenza tra eccesso di potere e violazione di legge deriva, per la violazione di legge, dall’inosservanza di regole scritte e puntuali ,mentre l’eccesso di potere presuppone che la disciplina violata si ricavi dai principi i quali anche se scritti in testi legislativi vanno resi regole concrete e specifiche mediante l’opera del giudice (amministrativo)[11].
Nel campo penale la violazione di legge fu letta come violazione della legalità amministrativa e nonostante lo sforzo di tipizzazione e di selezione dei fatti punibili, la fattispecie riformata nel 1997 ha continuato a riproporre le stesse problematiche iniziali della fattispecie di abuso del codice Rocco e della susseguente modifica del 1990[12].
3. La nuova formulazione dell’art. 323 c.p.
Con la riforma del 2020 operata con decreto legge (d.l. 76/2020 conv. in. l. n. 120/2020) si è voluto ridurre l’ambito di applicabilità dell’abuso intervenendo sulle parole “di norme di legge o di regolamento” che sono state sostituite dalle parole “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge ed alle quali non residuano margini di discrezionalità”.
Si ricavano due parti innovative del testo.
La prima parte ci dice che non basta una violazione di norme di legge o di regolamenti ma deve trattarsi di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da altro atto avente forza di legge ,esplicitando l’idea che debbono assumere rilevanza alle sole norme precettive.
La seconda parte esclude ogni rilevanza ai fini di integrazione del reato al vizio di eccesso di potere, prevedendo che dalla norma violata non debbano rimanere margini di discrezionalità in capo al soggetto agente.
Dalla nuova formulazione normativa ne emerge un ambito applicativo ristretto rispetto a quello definito con la precedente versione. Qui, in effetti, si apre il dibattito sulla portata della norma sul riformato reato di abuso d’ufficio, in quanto a prima vista parrebbe che si è siavoluto eliminare dal panorama dell’illecito penale l’uso distorto dei poteri discrezionali del funzionario pubblico verso fini privati[13].
Le reazioni della dottrina sono state di vario tipo tanto che il legislatore è stato definito “schizofrenico”[14], “frettoloso e maldestro”[15] e la nuova variante è considerata un esempio di “assurdità legislativa”[16] avendo il legislatore “ribattuto lo stesso chiodo impiantato nel 1997” prevedendo le specificazioni che potrebbero dar luogo un “reato legislativamente impossibile”[17] o a una “incriminazione fantasma”[18]. Altra dottrina ravvisa invece la soluzione della soppressione della norma e la sua sostituzione con delle fattispecie più determinate e precise[19]. Questa soluzione era già stata proposta della commissione Morbidelli la quale prevedeva tre diverse fattispecie incriminatrici che descrivevano tipiche forme di condotta di abuso. In tal modo si cercava di dare i caratteri di determinatezza a un reato che, come abbiamo visto ,si presta a rischi di lettura troppo espansive. La proposta che poi non ha avuto seguito a ridosso delle precedenti riforme aveva l’obiettivo di svincolare la condotta dalla rilevanza penale dell’illegittimità dell’atto amministrativo e quindi dell’eccesso di potere nella forma dello sviamento prevedendo tre figure: la prevaricazione la cui caratteristica è la non venalità, il favoritismo affaristico e, infine, lo sfruttamento privato dell’ufficio secondo la falsariga dell’infedeltà patrimoniale dell’art. 2634 c.c. previsto per i reati societari.
Aldilà di queste reazioni è comunque da notare che la giurisprudenza ha già da tempo avvertito la necessità di circoscrivere l’ambito delle norme di legge rendendosi conto della necessità di garantire la determinatezza della fattispecie penale. In tal senso è stato previsto che non deve trattarsi di norme generalissime o di principio, nemmeno di norme strumentali alla sola regolarità del servizio pubblico e nemmeno norme veramente procedimentali salvo che siano specificatamente puntualmente finalizzate a disciplinare la condotta dell’agente[20].
In sintesi nel panorama giurisprudenziale e dottrinale si possono ravvisare tre posizioni.
Una prima posizione esclude che l’eccesso di potere, in qualsiasi sua forma, debba rilevare ai fini della configurabilità del reato.
La tesi opposta attribuisce rilevanza penale dell’eccesso di potere tout court (sia intrinseco che estrinseco): l’esercizio arbitrario del potere discrezionale, pur in assenza di una violazione formale, deve poter essere comunque sindacabile.
Vi è ovviamente la posizione intermedia che limita la rilevanza penale ai casi di eccesso (o sviamento) di potere c.d. estrinseco, ritenendo che possano assumere rilievo penale solo i casi in cui l’esercizio del potere discrezionale conduca al soddisfacimento di un interesse del tutto estraneo al modello giustificativo del potere stesso.
Sul punto dei limiti esterni e interni alla discrezionalità amministrativa si è aperto un dibattito che parte dai limiti interni ed esterni elaborati dalla giurisprudenza che si riferiva essenzialmente alla giurisdizione per poi riprendere i limiti elaborati da Giannini[21] e rivisti da altri Studiosi. Il tema è complesso ed è difficile fornire un criterio distintivo tra i due tipi di limiti. Va però considerato l’assunto che l’eccesso di potere non è solo (e tanto) una figura composita (come usualmente era considerata) ma “contiene in sé ipotesi di violazioni a cognizione null’affatto sintomatica che avrebbero da tempo aver trovato uno spazio autonomo e una collocazione diversa nella sistemazione dei vizi provvedi mentali”[22].
L’esempio più significativo è dato dallo sviamento di potere. Lo sviamento di potere “implica, infatti, la valutazione dei vincoli funzionali imposti all’amministrazione: si tratta di stabilire se lo scopo concretamente perseguito con il provvedimento è quello voluto dalla legge o uno scopo diverso”. Inoltre, esso “involge un’operazione valutativa delicatissima che può arrivare sino all’accertamento delle intenzioni effettive dell’amministrazione o dei suoi agenti (…)”[23].
La giurisprudenza penale intende lo sviamento del potere in modo leggermente diverso ovvero come una sorta di strumentalizzazione dell’ufficio per fini personali ovvero per fini egoistici e quindi uno sfruttamento che porta a fuoriuscire dalle finalità pubbliche per le quali quel potere è stato attribuito[24].
4. La Cass. Pen., Sez. VI, 8 gennaio 2021, n. 442
A tracciare una prima linea interpretativa vi sono le prime sentenze della Cassazione intervenute su fatti anteriori la riforma e hanno attestato la retroattività della riforma intervenendo con la formula “perché il fatto non costituisce più reato”[25].
Significativa è la sentenza della Cassazione n. 442/2021 che interviene sul nuovo art. 323 c.p. e che identifica “la ragion d’essere della figura di reato delineata da una norma di chiusura, come l’art. 323 c.p. (…) nell’obiettivo di tutelare i valori fondanti dell’azione della Pubblica Amministrazione, che l’art. 97 Cost. indica nel buon andamento e nella imparzialità”.
La Cassazione ci fornisce alcune indicazioni iniziali su ciò che completa la nuova fattispecie incriminatrice. Si legge che: “La nuova disposizione normativa ha dunque un ambito applicativo ben più ristretto rispetto a quello definito con la previgente definizione della modalità della condotta punibile, sottraendo al giudice penale tanto l’apprezzamento dell’inosservanza di principi generali o di fonti normative di tipo regolamentare o subprimario (neppure secondo il classico schema della eterointegrazione, cioè della violazione “mediata” di norme di legge interposte), quanto il sindacato del mero “cattivo uso” - la violazione dei limiti interni nelle modalità di esercizio - della discrezionalità amministrativa”.
Essa ha, infatti, ritenuto di non confermare la responsabilità dell’imputato perché, alla luce della riforma, risulta assente nella sua condotta alla violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge e dalle quali non presidiano margini di discrezionalità. In tal modo essa afferma che può assumere rilievo solo la violazione di norme primarie di legge o assimilate.
L’altro aspetto importante è la “specificità della violazione”, infatti, la sentenza prevede che assumono rilievo norme di condotta “specificatamente disegnate in termini completi e puntuali”[26]. E pertanto “di qui il lineare corollario della limitazione di responsabilità penale del pubblico funzionario, qualora le regole comportamentali gli consentano di agire in un contesto di discrezionalità amministrativa, anche tecnica: intesa, questa, nel suo nucleo essenziale come autonoma scelta di merito - effettuata all’esito di una ponderazione comparativa tra gli interessi pubblici e quelli privati dell’interesse primario pubblico da perseguire in concreto”.
Per quanto riguarda i profili di discrezionalità la Cassazione esclude dall’ambito del penalmente rilevante le condotte alla cui base vi è l’esercizio di un potere discrezionale che sottende la possibilità di una scelta di merito, effettuata all’esito di una ponderazione comparativa tra gli interessi in gioco, pubblici e privati.
Tuttavia, e questo è l’aspetto importante, la Corte precisa che l’irrilevanza penale dell’esercizio di un potere discrezionale trova un limite quando tale esercizio non trasmoda “in una vera e propria distorsione funzionale dai fini pubblici - c.d. sviamento di potere o violazione dei limiti esterni della discrezionalità - laddove risultino perseguiti, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, interessi oggettivamente difformi e collidenti con quelli per i quali soltanto il potere discrezionale è attribuito; oppure si sostanzi nell’alternativa modalità della condotta, rimasta penalmente rilevante, dell’inosservanza dell’obbligo di astensione in situazione di conflitto di interessi”.
Su questo la Cassazione ulteriormente specifica facendo una distinzione tra limiti esterni e limiti interni della discrezionalità amministrativa prevedendo la persistenza del rilievo penale del provvedimento che viola i limiti esterni della discrezionalità. Questo è l’aspetto che in qualche modo salva il significato della norma e non genera com’è stato definito dalla dottrina un reato impossibile. La sentenza indica uno spazio di operatività e fornisce una (prima) soluzione di applicabilità intertemporale evidenziando come “in linea di principio, non può seriamente dubitarsi che si realizzi una parziale abolitio criminis in relazione ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della riforma, che non siano più riconducibili alla nuova versione dell’art. 323 c.p., siccome realizzati mediante violazione di norme regolamentari o di norme di legge generali e astratte, dalle quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse o che comunque lascino residuare margini di discrezionalità. Con il lineare corollario per cui all’abolizione del reato, ai sensi dell’art. 2 c.p., comma 2, consegue nei processi in corso il proscioglimento dell’imputato, con la formula perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato”[27].
5. Che cosa vuole colpire la norma?
La nuova formulazione della norma ridimensiona molto lo spazio che aveva assunto questo reato che, essendo caratterizzato da condotta indeterminata o fluida, si prestava a facili ampliamenti (anche prima, forse, non consentiti dalla formulazione ex ante vigente).
In sostanza, cosa vuole colpire la norma?
Tutti quei comportamenti - ben individuati e predeterminati dalla legge, in situazioni in cui non vi è un potere di scelta tra varie opzioni tutte “possibili” (uso questo termine, senza addentrarmi tra opzioni legittime, ma magari inopportune, o opportune, ancorchè non del tutto legittime, perchè questo presuppone un ulteriore approfondimento concettuale), quindi in cui l’attività è vincolata, laddove l’agente usi il potere che la legge gli ha attribuito per un fine diverso da quello indicato dalla norma stessa, quindi nelle ipotesi classiche di sviamento, cioè di volontà (che nello sviamento, non va dimenticato, è volontà procedimentale, non psicologica, con tutte le conseguenze del caso) deviata dal suo fine predeterminato.
Riguardo alle due parti innovative della riforma: a) il comportamento e la sua fonte e b) la discrezionalità, si nota quanto segue.
Analizzando il testo dell’art. 323 c.p. e mettendo a confronto due passaggi: le “specifiche regole di condotta” e l’”espressamente previste dalla legge”, va fatta una notazione sulla fonte della violazione comportamentale. Com’è noto spesso la legge non contiene “specifiche regole” e ciò accade per ragioni di delegificazione o perché è “fisiologico” che sia la fonte subprimaria a disciplinare nel dettaglio[28]. Si immagini i concorsi universitari e il rinvio della legge ai regolamenti dei singoli atenei oppure all’ambito ambientale o urbanistico che rinvia ai regolamenti o agli atti amministrativi generali.
La soluzione alla questione dell’estensione agli atti subprimari molto dipenderà dalle posizioni giurisprudenziali: infatti, in questo periodo intertemporale è interessante leggere i provvedimenti di archiviazione e le sentenze di merito. Se si va oltre il dato letterale e si qualificano gli atti secondari come presupposti della legge, è plausibile anche sostenere che si viola la legge violando l’atto secondario. Tesi potenzialmente sostenibile nelle ipotesi di delegificazione poiché la legge attribuisce il valore normativo all’atto secondario.
Per quanto riguarda la questione della discrezionalità, dalla lettura della norma la conseguenza parrebbe ovvia: dove c’è discrezionalità (cioè potere di scelta), la rilevanza penale perciò sola verrebbe meno. Tuttavia, anche se ci sono una molteplicità di scelte (cioè quando l’agente si trova in un’ipotesi classica di discrezionalità amministrativa), la volontà dell’agente può essere deviata da interessi non tutelati da quella specifica norma. Di conseguenza, non penso rilevi tanto il fatto che l’attività sia o meno discrezionale, vincolata o predeterminata dalla norma, ma piuttosto che lo sia la finalità per cui il potere è dato: si prenda a mente l’espropriazione per pubblica utilità. Nell’espropriazione il vincolo normativo che farebbe assurgere l’atto o l’attività a fattispecie penalmente rilevante non è la vincolatezza o l’assenza della discrezionalità, ma solo del fine cui è rivolta l’attività; e nell’espropriazione il fine è dato dal fatto che non ci deve essere interferenza di interessi privati.
La Cassazione ha fatto un ragionamento pienamente condivisibile in astratto in tutti gli elementi di come la norma penale è ora strutturata a seguito della riforma e sembra portare in quella direzione[29].
In concreto però non è (sempre) così, bisogna guardare com’è strutturata la specifica norma attributiva del potere. Se la norma non stabilisce un fine specifico allora in questo caso nulla si può dire in quanto vi è discrezionalità. Se la norma stabilisce un fine specifico predeterminato e non è osservato, in quel caso occorre la fattispecie dell’abuso anche con un atto discrezionale[30].
***
[1] È stata espressa “l’esigenza di convergere su un linguaggio condiviso fra i due settori del diritto, che scongiuri la contrapposizione di paradigmi operativi differenti nel medesimo contesto d’azione, che rendono obiettivamente difficile l’esercizio della funzione o l’espletamento del servizio”, sul punto l’analisi di A. MERLO, Lo scudo di cristallo: la riforma dell’abuso d’ufficio e la riemergente tentazione “neutralizzatrice” della giurisprudenza, in Sistema penale, 1° marzo 2021. Sul tema si v. P. TANDA, Abuso d’ufficio: eccesso di potere e violazione di norme di legge o di regolamento, in Cass. pen., 1999, p. 2121..
[2] L. VANDELLI, Riforma amministrativa e esigenza di rimodulare il ruolo del giudice penale”, in D. SORACE, Domenico, Le responsabilità pubbliche. Civile, amministrativa, disciplinare, penale, dirigenziale, Padova, 1998, pp. 513 ss; G. COMPORTI e E. MORLINO, La difficile convivenza tra azione penale e funzione amministrativa, in Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico, 2019, pp. 129-187; C. CUDIA, L’atto amministrativo contrario ai doveri di ufficio nel rato di corruzione propria: verso una legalità comune al diritto penale e al diritto amministrativo, in Diritto pubblico, 2017, pp. 683-722.
[3] M.A SANDULLI, Introduzione, in Abuso d’ufficio e responsabilità amministrativa: il difficile equilibrio tra legalità ed efficienza, 13 luglio 2020, Webinar in https://www.youtube.com/watch?v=1IgaLDRdCU8 e https://lamministrativista.it/articoli/news/webinar-abuso-d-ufficio-e-responsabilit-amministrativa-il-difficile-equilibrio-tra .
[4] Nel 2017 a fronte di oltre 6.500 cause, l'Istat ne ha contate 57 - e arrivano a distanza di anni, cfr. https://www.telemat.it/rischio-abuso-dufficio-6-500-inchieste-lanno-ma-solo-57-condanne/ e http://dati.istat.it/Index.aspx?DataSetCode=DCCV_CONDCRIM1, v. G.L. GATTA, Da ‘spazza-corrotti’ a ‘basta paura’: il decreto-semplificazioni e la riforma con parziale abolizione dell’abuso d’ufficio, approvata dal Governo ‘salvo intese’ (e la riserva di legge?), in Sistema Penale, 17 luglio 2020, p. 5; V. MAGLIONE, Il nuovo abuso d’ufficio non taglia i fascicoli a carico dei funzionari ma rischia di complicare le indagini, in Giustizia penale e riforme, Il Sole 24 Ore, 28 luglio 2020
[5] Sul concetto di abuso A. R. CASTALDO, L’abuso penalmente rilevante nel mercato economico finanziario e nella pubblica amministrazione, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1-2/2018, 89 ss.; M. NADDEO, Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina e rischio socialmente adeguato, in L’Indice Penale, n. 2-2013, 421.
[6] T. PADOVANI, Vita, morte e miracoli dell’abuso d’ufficio, in Giurisprudenza Penale, 2020, n. 7-8.
[7] M. NADDEO, Abuso d’ufficio: tipicità umbratile o legalità crepuscolare del diritto vivente? Dogmatica di categorie e struttura del tipo nella prospettiva de lege ferenda, in A. R. CASTALDO (a cura di), Migliorare le performance della Pubblica Amministrazione. Riscrivere l’abuso d’ufficio, Giappichelli, Torino, 2018, p.31 ss.
[8] G. FIANDACA, Verso una nuova riforma dell’abuso d’ufficio?, in Questione giustizia, 1996, p. 319.
[9] M. D’ORSOGNA, L’invalidità del provvedimento amministrativo, in F.G. Scoca, Diritto amministrativo, Torino , 2019, p. 289.
[10]Cass. Pen. SS.UU., 29 settembre 2011, n. 155, in Cass. Pen ,2012, p. 2140.
[11] G. CORSO, Validità, in Enc. Dir., vol. XLVI, Milano 1993, p. 85.
[12] S. TORDINI CAGLI, Il reato di abuso d’ufficio tra formalizzazione del tipo e diritto giurisprudenziale: Una questione ancora aperta, In penale diritto e procedura
[13]A. D’AVIRRO, Focus, in il Penalista, I.d., Lo sviamento di potere nel nuovo reato di abuso d’ufficio: un ritorno al passato, ivi.
[14]Ibidem
[15] A. MERLO, Lo scudo di cristallo, cit..
[16]T. PADOVANI, Vita, morte e miracoli dell’abuso d’ufficio, cit..
[17]G. GATTA, “Da “spazza-corrotti a “basta paura”: il decreto-semplificazioni e la riforma con parziale abolizione dell’abuso d’ufficio, approvata dal Governo “salvo intese” (e la riserva di legge?)”, in Sistema penale, 17 luglio 2020.
[18] A. NATALINI, Il nuovo abuso d’ufficio il rischio è una incriminazione fantasma, in Guida al diritto, 24 ottobre 2020, 42, p. 76.
[19] S. CASSESE, Intervista, in Il Messaggero, 20 febbraio 2021.
[20] R. GRECO, Abuso d’ufficio: per un approccio “eclettico”, in Questa Rivista.
[21] M.S. GIANNINI, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione. Concetto e problemi (1939), in Scritti, 1, Milano, 2000,pp.51-56
[22] M. D’Orsogna, cit., p. 289.
[23] Ibidem.
[24] G. FIDELBO, Intervento in Abuso d’ufficio e responsabilità amministrativa: il difficile equilibrio tra legalità ed efficienza, 13 luglio 2020 Webinar in https://www.youtube.com/watch?v=1IgaLDRdCU8 e https://lamministrativista.it/articoli/news/webinar-abuso-d-ufficio-e-responsabilit-amministrativa-il-difficile-equilibrio-tra.
[25] Cass. 25 agosto – 17 novembre 2020, n. 32174, si v. commento di G. AMATO, Una prima pronuncia che chiarisce la portata della limitazione introdotta, in Guida al diritto, 5 dicembre 2020, 48, p. 87 ss.
[26] La Cassazione sostiene che il nuovo art. 323 c.p. ha un ambito applicativo ben più ristretto rispetto a quello definito con la previgente definizione della modalità della condotta punibile: sottrae al giudice penale tanto l’apprezzamento dell’inosservanza di principi generali o di fonti normative di tipo regolamentare o subprimario, quanto il sindacato del mero “cattivo uso”, cioè la violazione dei limiti interni nelle modalità d’esercizio, della discrezionalità amministrativa.
[27] Sul punto dell’uso distorto del potere, v. G. AMATO, L’irrilevanza penale trova un limite nell’uso distorto del potere pubblico, in Guida al diritto, 6 febbraio 2021, 5, p. 99-100.
[28] A. ALBERICO, Le vecchie insidie del nuovo abuso d’ufficio Nota a Cass., Sez. VI, sent. 9 dicembre 2020 (dep. 8 gennaio 2021), n. 442, Pres. Fidelbo, Rel. Giorgi, in Sistema penale, 4, 2021, M. GAMBARDELLA, Simul Stabunt Vel simul Cadent. Discrezionalità amministrativa e sindacato del Giudice penale: un binomio indissolubile per la sopravvivenza dell’abuso d’ufficio, in Sistema penale 2020, p. 133 e ss.
[29] In effetti, l’analisi richiederebbe una approfondita considerazione non solo del versante oggettivo ma anche di quello soggettivo del giudizio di imputazione in termini di consapevolezza dell’imputazione, per un’analisi compiuta si v. A. PERIN, L’imputazione per abuso d’ufficio: riscrittura della tipicità e giudizio di colpevolezza, in La legislazione penale, 23.10.2020in particolare pp. 36 -37.
[30] Pertanto andrebbe da dire che se la finalità è attribuita da un atto amministrativo (ad es. di tipo generale o un piano) allora sfuggirebbe all’applicabilità del nuovo art. 323 c.p.
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