ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Le conclusioni dell’Avvocato Generale sulle questioni pregiudiziali poste dall’ordinanza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 19598 del 2020: il Consiglio di Stato nega la tutela comunitaria sugli appalti, ma la decisione non è sindacabile in Cassazione
1. Lo scorso 9 settembre 2021 l’Avvocato Generale della Corte di giustizia UE ha presentato le proprie conclusioni nella Causa C – 497/20, originata dal rinvio pregiudiziale sollevato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con l’ordinanza n. 19598 del 18 settembre 2020[1]. In attesa della decisione della Corte di giustizia, le conclusioni dell’Avvocato Generale prendono posizione sulle tre questioni poste dalla Cassazione, evidenziando alcuni aspetti sin d’ora meritevoli di segnalazione.
2. Come si ricorderà, il rinvio pregiudiziale è maturato nel giudizio d’impugnazione di una decisione del Consiglio di Stato promosso a suo tempo da un concorrente escluso da una gara per l’affidamento di un appalto pubblico. Il Consiglio di Stato si era limitato ad esaminare (e rigettare) soltanto le censure proposte dal concorrente con riferimento alla valutazione della propria offerta, ma aveva dichiarato inammissibili le ulteriori contestazioni rivolte all’intera procedura, sul presupposto che il concorrente escluso fosse privo di legittimazione a censurare la regolarità della gara nel suo complesso. Nel ricorrere in Cassazione ai sensi dell’articolo 111, co. 8 Cost., il concorrente escluso contestava al Consiglio di Stato di avere erroneamente dichiarato inammissibili le censure rivolte alla procedura nel suo complesso, in contrasto con il diritto dell’Unione europea e, segnatamente, con il diritto ad un ricorso effettivo così come interpretato dalla più recente giurisprudenza della Corte di giustizia UE.
Dal suo canto, pur ritenendo la denunciata violazione configurabile alla stregua di una questione inerente la giurisdizione, la Cassazione rilevava come, allo stato, l’ammissibilità del ricorso fosse ostacolata da una “prassi interpretativa nazionale”, chiaramente esplicitata nella sentenza della Corte costituzionale n. 6 del 2018, secondo la quale la violazione del diritto dell’Unione europea non sarebbe inquadrabile in una questione di giurisdizione, ma integrerebbe una semplice violazione di legge, come tale incensurabile attraverso il ricorso per Cassazione previsto dall’articolo 111, co.8, Cost.
Di qui le tre questioni poste in via pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, che possono così sintetizzarsi:
i) una prima questione volta a verificare se il diritto europeo osti a una prassi interpretativa che, in base dell’articolo 111, co.8, Cost., assume l’inutilizzabilità del ricorso per Cassazione per impugnare sentenze del Consiglio di Stato contrastanti con il diritto europeo;
ii) una seconda questione volta a verificare se il diritto europeo osti a una prassi interpretativa che, in base all’articolo 111, co. 8, Cost., esclude la proponibilità del ricorso in Cassazione per contestare le sentenze del Consiglio di Stato che abbiano immotivatamente omesso di effettuare il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia;
iii) una terza questione volta a verificare se il diritto europeo osti a una prassi giurisprudenziale nazionale che, come quella applicata dall’impugnata sentenza del Consiglio di Stato, ritiene insussistente la legittimazione del concorrente escluso a contestare nel suo complesso la regolarità della gara, anche ove l’esclusione non risulti definitivamente accertata e sebbene l’eventuale accoglimento dell’impugnazione possa indurre l’amministrazione ad avviare una nuova procedura. In questo quadro vanno, dunque, collocate le conclusioni dell’Avvocato Generale, che di seguito vengono sinteticamente riassunte.
3. Per quanto riguarda la prima questione, l’Avvocato Generale tiene preliminarmente a precisare che il parametro normativo di riferimento debba essere esattamente individuato nella Direttiva 89/665 che tutela il diritto a un ricorso effettivo, in conformità all’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Con questa precisazione, l’Avvocato Generale osserva che, nell’attuazione della Direttiva 89/665, gli Stati membri, conformemente alla loro autonomia procedurale, conservano “la facoltà di adottare norme che possono rivelarsi differenti da uno Stato membro all’altro” e che una limitazione del diritto a un ricorso effettivo ai sensi dell’articolo 47 “può quindi essere giustificata soltanto se prevista dalla legge, se rispetta il contenuto essenziale di tale diritto e se, in osservanza del principio di proporzionalità, è necessaria e risponde effettivamente a finalità d’interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui”, precisando ulteriormente che l’articolo 47 della Carta “non impone un doppio grado di giudizio” e che, in virtù di tale disposizione, il principio della tutela giurisdizionale garantisce il diritto di accesso “soltanto a un giudice”. Di conseguenza, se la disciplina dello Stato membro garantisce l’accesso a un giudice, conferendo a tale giudice la competenza a esaminare il merito della controversia, i principi di tutela giurisdizionale sanciti dall’articolo 47 e dalla Direttiva 89/665 non possono ritenersi violati, proprio in quanto non “impongono un ulteriore grado di giudizio per porre rimedio a un’applicazione erronea di dette norme da parte del giudice di appello”.
Nel descritto contesto di riferimento, il fatto che il ricorso in Cassazione previsto dall’articolo 111, co. 8, Cost. sia limitato alle sole questioni di giurisdizione non può pertanto “essere considerato di per sé contrario al diritto dell’Unione neppure laddove precluda l’impugnazione di una decisione con la quale il giudice di secondo grado ha applicato un’interpretazione del diritto nazionale che, oggettivamente, è contraria al diritto dell’Unione”, proprio in quanto il diritto italiano prevede pacificamente l’accesso a un giudice competente a esaminare il merito della controversia.
Sulla base di queste premesse, l’Avvocato Generale conclude così che “l’articolo 1, paragrafi 1 e 3, della direttiva 89/665, letto alla luce dell’articolo 47 della Carta, debba essere interpretato nel senso che esso non osta a una norma quale l’articolo 111, ottavo comma, della Costituzione italiana, come interpretato nella sentenza n. 6/2018, secondo la quale un ricorso in cassazione per motivi di «difetto di potere giurisdizionale» non può essere utilizzato per impugnare sentenze di secondo grado che facciano applicazione di prassi interpretative elaborate in sede nazionale confliggenti con sentenze della Corte, in settori disciplinati dal diritto dell’Unione europea”.
Nel rassegnare le conclusioni, l’Avvocato Generale tiene comunque a precisare che la soluzione a un’errata applicazione del diritto europeo da parte di un giudice di ultima istanza andrebbe piuttosto individuata in “altre forme procedurali”, quali un ricorso per inadempimento ai sensi dell’articolo 258 TFUE, ovvero un’azione del “tipo Francovich” che consenta di far valere la “responsabilità dello Stato al fine di ottenere in tal modo una tutela giuridica dei diritti dei singoli riconosciuti dal diritto dell’Unione”.
4. In relazione alla seconda questione, l’Avvocato Generale evidenzia preliminarmente che “l’obbligo di adire la Corte in via pregiudiziale, previsto all’articolo 267, terzo comma, TFUE, incombente agli organi giurisdizionali nazionali avverso le cui decisioni non possa proporsi ricorso, rientra nell’ambito della cooperazione istituita al fine di garantire la corretta applicazione e l’interpretazione uniforme del diritto dell’Unione, nell’insieme degli Stati membri, tra i giudici nazionali, in quanto incaricati dell’applicazione del diritto dell’Unione, e la Corte”, precisando che, a norma dell’articolo 267, terzo comma, TFUE, “una giurisdizione nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno è in linea di principio tenuta a rivolgersi alla Corte, quando è chiamata a pronunciarsi su una questione di interpretazione del diritto dell’Unione”.
Nel descritto contesto di riferimento, al diritto nazionale sarebbe pertanto soltanto vietato di “impedire a un organo giurisdizionale nazionale di avvalersi della suddetta facoltà o di conformarsi al suddetto obbligo”. Sicchè, laddove al giudice interno sia riconosciuta la possibilità di effettuare un rinvio pregiudiziale, ovvero sia previsto l’obbligo di effettuare tale rinvio, spetterebbe esclusivamente ad esso “valutare, alla luce delle particolari circostanze della causa, sia la necessità di una pronuncia pregiudiziale per essere in grado di emanare la propria decisione, sia la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte”. La mancata adizione della Corte in via pregiudiziale verrebbe così ad integrare una illegittimità sostanziale o procedurale, ma non “una questione di competenza giurisdizionale ai seni dell’articolo 111, ottavo comma, della Costituzione italiana”, con la conseguenza che, come anche precisato per la prima questione, la soluzione ad un’eventuale errata applicazione degli obblighi derivanti dall’articolo 267 TFUE andrebbe individuata in altre forme procedurali, quali un ricorso per inadempimento o un’azione volta a far valere la responsabilità dello Stato.
In base a questi presupposti, l’Avvocato Generale conclude che il diritto europeo e, in particolare l’articolo 4, paragrafo 3, TUE, l’articolo 19, paragrafo 1, TUE e l’articolo 267 TFUE, letti alla luce dell’articolo 47 della Carta, “non ostano a che le norme relative al ricorso per cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione siano interpretate ed applicate nel senso di precludere che dinanzi alle Sezioni Unite della Corte suprema di cassazione sia proposto un ricorso per cassazione finalizzato a impugnare una sentenza con la quale il Consiglio di Stato ometta, immotivatamente, di effettuare un rinvio pregiudiziale alla Corte”.
5. Quanto alla terza questione, l’Avvocato Generale ribadisce i principi affermati dalla giurisprudenza europea, secondo i quali “il criterio determinante l’obbligo del giudice di esaminare il ricorso della ricorrente è che ciascuna delle parti del procedimento ha un interesse legittimo all’esclusione delle offerte presentate dagli altri concorrenti”. In base a tali principi, preordinati a una tutela giurisdizionale piena ed effettiva, la censura del concorrente escluso diretta a travolgere l’intera procedura andrebbe comunque esaminata in quanto “non si può escludere la possibilità che una delle irregolarità che giustificano l’esclusione tanto dell’offerta dell’aggiudicatario quanto di quella dell’offerente che contesta il provvedimento di aggiudicazione dell’amministrazione aggiudicatrice vizi parimenti le altre offerte presentate nell’ambito della gara d’appalto”. Più esattamente, l’esistenza di una siffatta possibilità sarebbe sufficiente a radicare la legittimazione (e/o l’interesse) del concorrente escluso all’impugnazione, poiché l’ipotetico accoglimento dell’impugnazione potrebbe comunque arrecargli una precisa utilità, consentendogli, ad esempio, di partecipare alla nuova procedura eventualmente indetta dall’amministrazione. Resta inteso che il concorrente escluso sarebbe comunque privo di legittimazione (a contestare l’intera procedura) nelle ipotesi in cui l’esclusione sia stata confermata “da una decisione che ha acquistato forza di giudicato prima che il giudice investito del ricorso contro la decisione di affidamento dell’appalto si pronunci”.
Nel caso di specie, al momento di proposizione del ricorso al Consiglio di Stato, l’esclusione del concorrente non risultava ancora definitiva, ragion per cui, come rilevato dall’Avvocato Generale, le censure dirette a travolgere l’intera procedura avrebbero dovuto essere esaminate, anche in considerazione del fatto che il loro eventuale accoglimento avrebbe potuto inficiare la regolarità delle altre offerte in gara prefigurando l’ipotetica indizione di una nuova procedura. Conseguentemente, al fine di garantire il diritto ad un ricorso effettivo, il Consiglio di Stato avrebbe dovuto applicare i richiamati principi affermati dalla giurisprudenza europea, riconoscendo in capo al concorrente escluso la legittimazione a contestare la regolarità della procedura di gara.
6. Sebbene non sia questa la sede per compiere più ampi approfondimenti, le conclusioni dell’Avvocato Generale forniscono alcune precise indicazioni.
In primo luogo, evidenziano che, nel ritenere inammissibili le censure dirette a travolgere l’intera procedura di gara, il Consiglio di Stato avrebbe erroneamente applicato il diritto europeo e, segnatamente, i principi in materia di effettività della tutela giurisdizionale come anche interpretati dalla Corte di giustizia.
In secondo luogo, rivelano che il diritto nazionale, nella misura in cui limita ai profili di giurisdizione il ricorso in Cassazione avverso le decisioni del Consiglio di Stato, non contrasterebbe con il principio di effettività della tutela giurisdizionale così come riconosciuto e tutelato a livello europeo.
In terzo luogo, danno atto che eventuali errori del giudice nazionale di ultima istanza in ordine all’applicazione del diritto europeo sarebbero pur sempre riparabili mediante un eventuale ricorso per inadempimento, ovvero attraverso un’azione volta a far valere la responsabilità dello Stato membro.
Non resta a questo punto che attendere la decisione della Corte di giustizia.
E. Z.
[1] Per i commenti all’ordinanza delle Sezioni Unite n. 19598 del 2020, M.A. SANDULLI, Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 19598 del 2020, in questa Rivista, 30 novembre 2020; F. FRANCARIO, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), in questa Rivista, 11 novembre 2020; F. FRANCARIO, Interesse legittimo e giurisdizione amministrativa: la trappola della tutela risarcitoria, in questa Rivista, 24 maggio 2021; G. TROPEA, Il Golem europeo e i «motivi inerenti alla giurisdizione» (nota a Cass., Sez. un., ord. 18 settembre 2020, n. 19598), in questa Rivista, 7 ottobre 2020; B. NASCIMBENE, P. PIVA, Il rinvio della Corte di Cassazione alla Corte di giustizia: violazioni grave e manifeste del diritto dell’Unione europea?, ib., 24 novembre 2020.
Sull’interruzione del processo per fallimento della parte: commento a Cass. S.U. 7 maggio 2021, n. 12154
di Giuseppe Fichera
Sommario: 1. – Fallimento ed interruzione dei processi. 2. – Il caso scrutinato dall’ordinanza interlocutoria della Prima sezione civile. 3. – La soluzione delle Sezioni Unite del 2021. 4. – La novità “processuale” partorita dalla Cassazione. 5. – Conclusioni.
1. Fallimento ed interruzione dei processi
L’ampia e dotta sentenza delle Sezioni Unite in commento si occupa di una problematica per lunghissimo tempo ignota agli studiosi del diritto fallimentare, per la decisiva considerazione che la disciplina originaria della legge fallimentare del ’42, sul punto non dava adito a dubbi interpretativi di sorta.
È noto che l’apertura del concorso tra i creditori del fallito determina l’interruzione di tutti i processi pendenti, purchè riferiti a rapporti di natura patrimoniale, visto che essa produce la perdita della capacità di stare in giudizio del soggetto che lo subisce e la nascita contestuale, salve le eccezioni previste nell’art. 46 l.fall., della legitimatio ad processum in capo al solo curatore.
L’art. 43, primo comma, l.fall. si limita ancora oggi seccamente a stabilire che nelle controversie in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale del fallito compresi nel fallimento, sta in giudizio il curatore; e questa norma secondo la granitica giurisprudenza della S.C. determina appunto quella perdita della «capacità di stare in giudizio» che al pari della morte, ai sensi dell’art. 299 c.p.c., costituisce causa di interruzione del processo.
Ora, verificatosi l’evento interruttivo – id est la dichiarazione di fallimento di una delle parti –, tradizionalmente nella vigenza della legge del ’42, trovava applicazione la disciplina di cui all’art. 300, commi primo, secondo e quarto, c.p.c., con la conseguenza che se la parte era stata dichiarata fallita dopo la sua costituzione in giudizio a mezzo di un difensore, l’interruzione si verificava solo se e quando il medesimo lo avesse dichiarato in udienza o lo avesse notificato alle altre parti; nei casi in cui invece l’apertura del concorso si era verificata dopo la dichiarazione della contumacia della parte, l’interruzione si verificava nel momento in cui l’evento fosse stato documentato dalla parte in bonis, oppure fosse stato certificato dall’ufficiale giudiziario nella relazione di notificazione di uno dei provvedimenti o atti di cui all’art. 292 c.p.c.
Siffatto inquadramento dell’istituto, pacificamente applicato in giurisprudenza per oltre sessant’anni, ebbe a subire una rilevante modifica con l’introduzione del terzo comma all’art. 43 l.fall., ad opera dell’art. 41, comma 1, del d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, a tenore del quale l’apertura del fallimento «determina l’interruzione del processo».
La norma novellata è stata interpretata costantemente dalla successiva giurisprudenza edita, anche della S.C., nel senso che la dichiarazione di fallimento di una parte processuale, determina ipso iure l’interruzione del giudizio in corso, rendendo così irrilevante, ai fini della produzione del relativo effetto la notificazione alle altre parti costituite da parte del soggetto fallito, come pure la dichiarazione in udienza dell’intervenuto fallimento, nonché tutti gli altri atti e i fatti previsti dal quarto comma dell’art. 300 c.p.c., nel caso in cui l’evento interruttivo colpisca la parte dichiarata contumace.
Corollario necessario di questo indiscusso assunto, è che la disciplina processuale del fallimento, quale evento interruttivo automatico, deve oggi essere ricercata nell’ambito dei casi in cui il codice di rito prevede e regola eventi che producono appunto automaticamente l’interruzione del giudizio: cioè negli artt. 299, 300, comma terzo, e 301 c.p.c., letti in combinato disposto con l’art. 305 c.p.c.
E la Consulta (Corte Cost. 21 gennaio 2010, n. 17), investita della questione di legittimità dell’art. 305 c.p.c., in relazione ai parametri degli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui fa decorrere dall’interruzione del processo per l’apertura del fallimento, ai sensi dell’art. 43, comma terzo, l.fall., anziché dalla data di “effettiva” conoscenza dell’evento interruttivo, il termine per la riassunzione del processo ad opera di parte diversa da quella dichiarata fallita e dai soggetti che hanno partecipato al procedimento per la dichiarazione di fallimento, con sentenza interpretativa di rigetto ha già avuto modo di affermare che, in base ai princìpi da essa stessa espressi nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 305 c.p.c. in relazione alle ipotesi di interruzione ipso iure previste dagli artt. 299, 300 comma 3, 301 c.p.c., si era consolidato nella giurisprudenza della Corte di Cassazione l’orientamento secondo cui il termine per la riassunzione del processo interrotto decorre non già dal giorno in cui si è verificato l’evento interruttivo, bensì da quello in cui di tale evento abbia avuto conoscenza “in forma legale” la parte interessata alla riassunzione; sicché il relativo dies a quo può ben essere diverso per una parte rispetto all’altra.
Sulla problematica in oggetto, poi, una significativa novità è stata introdotta con il d.lgs. 12 febbraio 2019, n. 14, recante il Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza (di seguito il c.c.i.i.) - destinato tuttavia ad entrare in vigore, dopo l’ennesimo rinvio, forse, il prossimo 16 maggio 2022 -, il quale nel comma 3 dell'art. 143 stabilisce espressamente che il termine per la riassunzione del processo decorre da quando l'interruzione viene dichiarata dal giudice.
Dunque, è certo che - almeno per il futuro - sarà necessaria la dichiarazione di interruzione da parte del giudice, perché decorra il termine per la riassunzione del processo, mentre nulla soggiunge il Codice in ordine a quale sia lo strumento per assicurare a tutte le parti la “conoscenza legale” di questa dichiarazione, come tale idonea a fare decorrere il termine per la riassunzione o per la prosecuzione.
Due, allora, sono le problematiche sorte all’esito della cennata novella del 2006 dell’art. 43 l.fall. e che – come da atto la sentenza in commento – hanno dato vita ad orientamenti contrastanti: i) la necessità o meno che, anche nel regime vigente, l’evento interruttivo venga dichiarato dal giudice, affinché decorra il termine per la sua riassunzione o prosecuzione; ii) quale debba ritenersi la forma di “conoscenza legale” dell’evento interruttivo, sufficiente ad assicurare il decorso del termine fissato la prosecuzione o la riassunzione con riguardo a tutte le parti del processo, nonché al curatore fallimentare.
2. Il caso scrutinato dall’ordinanza interlocutoria della Prima sezione civile
Per capire le rilevanza delle questioni poste dai quesiti surriferiti, è assai interessante esaminare il caso concreto portato all’esame delle Sezioni Unite della S.C., a seguito dell’ordinanza interlocutoria spiccata dalla Prima sezione civile (Cass. 12 ottobre 2020, n. 21961), con la quale è stata appunto sollecitata la rimessione al massimo consesso del giudice di legittimità.
Una società titolare di un conto corrente bancario conviene in giudizio l’istituto di credito per ottenere la sua condanna alla restituzione delle somme indebitamente trattenute nell’ambito del detto rapporto; il tribunale condanna la banca alla restituzione in favore della correntista di una determinata somma; proposto appello da parte dell’istituto di credito, ed interrotto il relativo processo in seguito alla dichiarazione di fallimento della società appellata, l’appellante riassume il giudizio, ma la curatela del fallimento della società, costituendosi nel giudizio riassunto, eccepisce l’estinzione del processo, assumendo che la banca non lo aveva tempestivamente riassunto, visto che quest’ultima aveva già ricevuto da oltre sei mesi l’avviso di cui all’art. 92 l.fall., la cui comunicazione avrebbe dovuto essere considerata idonea a determinare la sua “conoscenza legale” dell’evento interruttivo anche nell’ambito del giudizio d’appello.
La corte di appello accoglie l’eccezione della curatela e dichiara estinto il giudizio di appello; la banca propone allora ricorso per cassazione lamentando che la corte di appello abbia dichiarato l’estinzione del giudizio di secondo grado, individuando quale momento in cui avrebbe avuto conoscenza legale dell’evento interruttivo, la ricezione dell’avviso di cui all’art. 92 l.fall. da parte del curatore del fallimento, anziché quello in cui era intervenuta la dichiarazione dell’interruzione del processo, all’udienza davanti al giudice del gravame.
Insomma, dalla lettura della vicenda sottoposta alle Sezioni Unite dall’ordinanza interlocutoria, si capisce benissimo che, dopo la riforma del 2006, fermo l’orientamento a tenore del quale la dichiarazione di fallimento produce ex lege l’interruzione del giudizio, non era ancora sufficientemente chiaro nella giurisprudenza – neppure di legittimità – se occorra o meno una dichiarazione giudiziale dell’evento interruttivo e quando si possa dire che le parti abbiano avuto “conoscenza legale” del medesimo, al fine di individuare il dies a quo del termine di decadenza per riassumere o per proseguire il giudizio.
3. La soluzione delle Sezioni Unite del 2021
Le Sezioni Unite osservano anzitutto che la duplice modifica dell’art. 43 l.fall., prima nel 2006 – con l’introduzione del terzo comma che prescrive l’interruzione automatica dei processi – e poi nel 2015 – con l’inserimento di un quarto comma, in forza del d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2015, n. 132, in forza del quale le controversie in cui è parte un fallimento sono trattate con priorità, appare chiaramente volta, da un lato, ad attenuare, con l'automaticità dell'interruzione dei processi pendenti, i costi del contenzioso non endoconcorsuale e così, indirettamente, la durata dei fallimenti, dall'altro lato, ad istituire regole di trattazione selettiva per tutti i processi in cui assuma la qualità di parte l'organo concorsuale.
Del resto, l’art. 25 della Direttiva (UE) 2019/1023 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019 riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, l'esdebitazione e le interdizioni, tra le misure volte ad aumentare l'efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione, prescrive che gli Stati membri provvedono affinché «il trattamento delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione avvenga in modo efficiente ai fini di un espletamento in tempi rapidi delle procedure».
La scelta del legislatore del 2006 di rendere applicabile l’art. 305 c.p.c. con la conseguente estinzione del processo, ove non proseguito o riassunto nel termine ora trimestrale, appare allora chiaramente ispirata ad esigenze di celerità delle procedure, anche se occorre evidenziare – come puntualmente fanno le S.U. – che l’estinzione in caso di inerzia non è la sorte riservata a tutti i processi pendenti al momento della dichiarazione di fallimento di una parte, posto che in altri casi la dichiarazione di fallimento costituisce motivo di improcedibilità della lite, come quando è necessaria la migrazione della domanda in sede di accertamento del passivo.
Ora, secondo il Giudice di legittimità occorre chiedersi se la ricordata soluzione prospettata per il futuro dall’art. 143, comma 3, c.c.i.i. possa essere utilmente impiegata anche nella vigenza dell’attuale art. 43 l.fall.; e ciò pure tenendo a mente che l’art. 2, comma 1, lett. m), della legge 19 ottobre 2017, n. 155, nel dettare i principi di delega per la riforma della crisi d'impresa e dell'insolvenza, ha attribuito al legislatore delegato la potestà di riformulare le disposizioni all'origine dei contrasti interpretativi, così da consentirne il superamento, in coerenza con gli stessi principi della legge delega.
Il Giudice di legittimità sottolinea allora come la regola fissata nell'art. 143, comma 3, c.c.i.i. – quella della necessità della dichiarazione giudiziale dell’interruzione – non esprime una assoluta novità, mostrando all'evidenza di coincidere, come già evidenziato nell’ordinanza interlocutoria, con uno degli orientamenti formatisi presso la S.C.; dunque, la scelta del legislatore riformista si è limitata a selezionare un'interpretazione possibile, tra le più finora seguite, delimitando la portata dell'istituto e pertanto, per quel che qui rileva, non assumendo una radicale natura anche legislativamente innovativa.
E già in precedenza le S.U. della Cassazione hanno chiarito che il codice della crisi e dell'insolvenza «è testo in generale non applicabile - per scelta del legislatore - alle procedure aperte anteriormente alla sua entrata in vigore (art. 390, primo comma, c.c.i.i.), e la pretesa di rinvenire in esso norme destinate a rappresentare un utile criterio interpretativo degli istituti della legge fallimentare potrebbe essere ammessa se (e solo se) si potesse configurare - nello specifico segmento - un ambito di continuità tra il regime vigente e quello futuro» (Cass. S.U. n. 12476 del 2020; Cass. S.U. n. 8504 del 2021).
Anche la relazione illustrativa al Codice sullo specifico punto ribadisce che, per consentire al curatore di costituirsi nei giudizi che hanno ad oggetto rapporti patrimoniali compresi nella liquidazione, l'apertura della stessa comporta di diritto l'interruzione automatica del processo - ed è il principio riflesso anche nell’attuale art. 43, comma terzo, l.fall. - ma per assicurare il diritto di difesa delle parti, il termine della riassunzione decorre dal momento in cui il giudice dichiara l'avvenuta interruzione.
Dai superiori elementi, nella sentenza in esame le Sezioni Unite ricavano quella continuità normativa che giustifica l’opzione in favore della scelta ermeneutica fatta dal legislatore del 2019; e anzi, ribadisce la decisione che ci occupa, come già aveva fatto nella sua requisitoria il Procuratore Generale, che la soluzione codicistica non costituisce affatto un ritorno all’ancien regime, perché esigere la declaratoria giudiziale dell'interruzione affinché scatti l’onere di riassunzione del processo non significa affatto ripristinare il regime in base al quale l'interruzione non era automatica, visto che il giudice può addivenire alla dichiarazione di interruzione del procedimento per il solo fatto di essere venuto a conoscenza della sopravvenuta procedura fallimentare e a prescindere dalla dichiarazione del difensore del fallito.
La sentenza in commento, peraltro, osserva che pure ad aderire alla tesi che possa invocarsi in via ermeneutica l’opzione legislativa fatta propria per il futuro dal Codice, rimane non sufficientemente chiaro se la dichiarazione giudiziale di interruzione, determini il decorso del termine solo per alcuni soggetti, come si potrebbe evincere dal riferimento alla sola “riassunzione” e non anche alla “prosecuzione”, così delimitando la previsione della decorrenza del termine, almeno nella sua formula espressa, alla sola altra parte non colpita da fallimento.
Insomma, si tratta di capire se anche per il curatore il termine per la prosecuzione del processo decorra dalla dichiarazione del giudice e ciò, peraltro, considerato che il predetto curatore non ha di norma mai “conoscenza legale” della dichiarazione di interruzione, salvo che sia resa in un'udienza cui egli abbia presenziato, ovvero gli sia stata notificata come atto autonomo dall’altra parte.
La conclusione della Corte è perentoria: in caso di apertura del fallimento, ferma l'automatica interruzione del processo che ne deriva ai sensi dell'art. 43, comma terzo, l.fall., il termine per la riassunzione ad opera della parte non fallita, come quello per la prosecuzione su iniziativa del curatore della fallita, decorre sempre e soltanto da quando la dichiarazione giudiziale dell'interruzione stessa sia stata portata a conoscenza di ciascuna parte cui spetta riassumere o proseguire, compreso quindi il curatore fallimentare.
Orbene, nulla quaestio se la dichiarazione di interruzione viene ad essere conosciuta da tutte le parti – compreso il curatore – perché pronunciata in udienza con ordinanza, ai sensi dell’art. 176, comma secondo, c.p.c.: dalla data della pronuncia del giudice che dichiara l’interruzione decorrerà per tutti il termine trimestrale per la riassunzione o la prosecuzione del processo.
Quando l’ordinanza che dichiara interrotto il processo non sia stata pronunciata in udienza, invece, affinchè decorra il termine trimestrale essa dovrà essere comunicata alle parti in lite, secondo quanto previsto dall’art. 136 c.p.c. in generale per tutti i provvedimenti del giudice, oppure notificata alle parti o al curatore da ogni altro interessato, in modo da determinarne quella “conoscenza legale” che in maniera ora esclusiva determina il decorso del termine per riassunzione o prosecuzione.
Così ricostruita la disciplina vigente, allora, nella vicenda all’esame della S.C. la soluzione diviene obbligata: poiché la conoscenza legale dell’evento interruttivo si è verificata in capo alla banca appellante soltanto con la dichiarazione di interruzione resa all’udienza dal giudice di appello, la sentenza impugnata - che ha erroneamente dichiarato estinto il giudizio, ancorchè riassunto nel termine decorrente dalla pronuncia giudiziale di interruzione - merita di essere cassata; spetterà dunque al giudice del rinvio riesaminare nel merito le doglianze formulate dall’appellante.
4. La novità “processuale” partorita dalla Cassazione
Ma ecco che in cauda venenum: dopo avere fatto in maniera apprezzabile chiarezza sulla necessità della dichiarazione giudiziale dell’evento interruttivo e sugli eventi che determinato quella conoscenza legale che fa decorrere il termine per riassumere o proseguire il giudizio, la sentenza di cui ci occupiamo sottopone agli interpreti una novità processuale inattesa, peraltro estranea al caso sottoposto dall’ordinanza interlocutoria della Prima sezione civile, che come visto si riferiva ad una tardiva riassunzione da parte del soggetto rimasto in bonis e non al caso della prosecuzione su iniziativa del curatore.
Secondo le Sezioni Unite, a prescindere dalla notifica a cura della controparte al curatore fallimentare della parte fallita dell’ordinanza che dichiara l’interruzione del processo, sarà il cancelliere dell’ufficio giudiziario a doverla comunque comunicare al predetto curatore, affinchè decorra il termine per la prosecuzione del processo.
Per giustificare siffatta perentoria conclusione, la sentenza in commento si impegna in una diffusa motivazione che attinge anche a profonde suggestioni del diritto convenzionale europeo.
Il collegio parte dall’idea che la connotazione pubblicistica della procedura concorsuale, una volta aperta, imponeva di escludere che «una regola tanto solenne quanto puntuale, come l'interruzione ipso jure del giudizio in cui sia parte un fallimento, venisse arbitrata opportunisticamente o discrezionalmente, ma in modo di fatto casuale, dall'iniziativa di una parte rimettendo la sua verifica».
Constatata la doverosità giudiziale della dichiarazione di interruzione, le Sezioni Unite affermano che anche la priorità di trattazione dei giudizi in cui sia parte un soggetto fallito, disposta con il cennato d.l. n. 83 del 2015, si inserirebbe in una logica tutta tesa ad assicurare una efficace raccolta delle informazioni sull'eventuale dichiarazione di fallimento resa a carico di una parte, in modo da consentire ai giudici di rendere tempestivamente e anche d'ufficio la descritta dichiarazione, in coerenza agli artt. 127 e 175 c.p.c. e l’art. 81-bis disp. att. c.p.c.
Si ricorda, ancora, che lo scopo legittimo di assicurare il regolare funzionamento della giustizia, più volte è stato enunciato dalla Corte EDU con riguardo all'art. 6 §1 della Convenzione EDU, poiché amministrare la giustizia senza ritardi ingiustificati che possano comprometterne la credibilità e l'effettività, realizza un interesse generale della società («court proceedings unhindered by unjustified delays»: Corte EDU 15 ottobre 2015, in Konstantin Stefanov v. Bulgaria § 64).
D'altra parte lo stesso principio di «sécurité juridique» secondo la declinazione dell'art. 6 §1 della Convenzione EDU, tende a garantire una certa stabilità delle situazioni giuridiche e a favorire la fiducia nella giustizia, quali elementi fondamentali di uno Stato di diritto (Corte EDU 29 novembre 2016, in Paroisse gréco-catholique Lupeni et autres c. Roumanie, § 116), così che il bilanciamento tra il diritto di accesso alla giustizia e la perdita della possibilità di esercizio dell'azione lascia agli Stati membri margini d'intervento, ma evitando al contempo un eccesso di formalismo che minerebbe «l'équité de la procédure» e «une souplesse excessive» (Corte EDU 17 gennaio 2012, in Stanev c. Bulgaria §§ 229-231).
La conclusione, indefettibile, per il Giudice di legittimità è che non vi è alcun ostacolo alla comunicazione d'ufficio dell'ordinanza dichiarativa di interruzione del processo al curatore fallimentare, a seguito della dichiarazione di fallimento di una parte, ancorchè si tratti di un soggetto che non vi aveva assunto la medesima qualità.
Se invero il dies a quo per la decorrenza del termine di cui all'art. 305 c.p.c. viene fatto coincidere con la produzione della conoscenza dell'evento interruttivo, secondo un procedimento che parte dalla dichiarazione giudiziale e si realizza mediante la successiva facoltativa notificazione al curatore fallimentare, a cura della parte costituita, allora deve ammettersi analoga attività di comunicazione da parte dello stesso ufficio giudiziario; si tratta, infatti, di una forma di produzione della conoscenza che condivide con l'iniziativa della parte interessata «la natura di fattispecie meno extraprocessuale, in questa accezione, perché pur sempre originante dalla constatazione del fallimento assunta in primo luogo dal giudice del processo interrotto e dunque volta a veicolare una sua pronuncia, per quanto meramente dichiarativa».
Ora, certamente i cennati ampi richiami all’esigenza – garantita anche dal diritto convenzionale – di assicurare un processo equo e regolare, con una durata ragionevole, evitando inutili formalismi e costi anche economici a carico della collettività, sono tutti ampiamente condivisibili ed apprezzabili in linea generale.
Il fatto è, però, che non spetta alla Corte di Cassazione – e neppure alle sue Sezioni Unite – di ergersi a legislatore; dunque, quando il codice di rito, all’art. 136 c.p.c., prevede che le comunicazioni a cura del cancelliere si fanno nei casi previsti dalla legge o su ordine del giudice, è all’evidenza che occorre individuare quali siano siffatti casi, rinvenibili uno per uno nel tessuto normativo e non invocando genericamente i principi generali.
E dal combinato disposto degli artt. 134, 170 e 292 c.p.c. si capisce che, da sempre, le ordinanze - compresa quella che dichiara l’interruzione del giudizio per intervenuto fallimento della parte - devono essere comunicate a cura dell’ufficio giudiziario alle sole parti che siano costituite in giudizio, tramite il difensore, ma giammai al contumace, né al soggetto che, a seguito della perdita della capacità di stare in giudizio della parte processuale, per legge ne acquista la relativa legittimazione.
È vero che la parte non colpita dall’evento interruttivo pacificamente può notificare di sua iniziativa l’ordinanza al curatore fallimentare, al fine di provocarne la conoscenza legale e fare decorrere il termine per la prosecuzione del giudizio, onde guadagnare la sua eventuale estinzione, ma è chiaro che si tratta appunto di una facoltà in capo alla parte interessata, alla quale non può contrapporsi un dovere d’ufficio – per il cancelliere –, che non ha alcun fondamento normativo; e ciò senza neppure considerare difficoltà concreta dell’onere che viene posto in capo al cancelliere, id est di ricercare un nominativo (quello del curatore fallimentare), che potrebbe essere ignoto, potendo avere in thesi l’ufficio giudiziario notizia certa dell’apertura del concorso, ma non del professionista nominato dal tribunale fallimentare, magari situato in altro distretto di corte d’appello.
5. Conclusioni
In definitiva, la pronuncia in commento appare assai apprezzabile laddove – anticipando la futura soluzione adottata dal Codice della crisi – stabilisce una volta per tutte che solo dopo che il giudice abbia dichiarato l’evento interruttivo, potrà decorrere il termine per la riassunzione o la prosecuzione del processo interrotto.
Parimenti merita sicuro plauso la scelta – improntata a chiarezza e a semplificazione – di fare decorrere sia la riassunzione che la prosecuzione della lite, dal momento in cui l’ordinanza che dichiara l’interruzione è conosciuta dalle parti in udienza, oppure a seguito di comunicazione del cancelliere o notificazione a cura dell’altra parte.
Quella che lascia perplessi, invece, è l’idea che – solo per l’evento dichiarazione di fallimento – in difetto di una norma di qualsivoglia natura, si possa imporre al cancelliere di comunicare l’ordinanza che dichiara l’interruzione del processo direttamente al curatore fallimentare, cioè non al difensore della parte, ovvero alla parte stessa, ma ad un soggetto che è in quel momento estraneo al processo, essendo solo titolare di una legittimazione ex lege a proseguirlo.
Insomma, la legge processuale italiana non prevede che il cancelliere comunichi alcunchè a chi non è ancora parte del processo; e questo obbligo non può essere rinvenuto invocando i principi generali in tema di ragionevole durata del processo, perché allora un tale onere si dovrebbe estendere all’evidenza a tutti i procedimenti civili, né la specialità del procedimento fallimentare e la sua natura pubblicistica – in mancanza di una previsione espressa nella legge fallimentare, come quella appunto del terzo comma dell’art. 43 – autorizzano a ritenere che il codice di rito possa subire una così plateale eccezione agli oneri che incombono sull’ausiliario del magistrato.
Giustizia insieme pubblica il testo della sentenza delle Sezioni Unite civili n.24410/2021 che ha deciso una vicenda in tema di affissione del crocifisso all'interno delle aule scolastiche, in attesa dell'imminente commento alla decisione.
Il comunicato della Corte di Cassazione reso in data 9 settembre 2021:
"Con la sentenza n. 24414, pubblicata in data odierna, la Corte di cassazione, a Sezioni Unite, si è occupata dell’affissione del crocifisso nelle aule scolastiche. In particolare, la questione esaminata riguardava la compatibilità tra l’ordine di esposizione del crocifisso, impartito dal dirigente scolastico di un istituto professionale statale sulla base di una delibera assunta a maggioranza dall’assemblea di classe degli studenti, e la libertà di coscienza in materia religiosa del docente che desiderava fare le sue lezioni senza il simbolo religioso appeso alla parete. La Corte di cassazione ha affermato che la disposizione del regolamento degli anni venti del secolo scorso – che tuttora disciplina la materia, mancando una legge del Parlamento – è suscettibile di essere interpretata in senso conforme alla Costituzione. L’aula può accogliere la presenza del crocifisso quando la comunità scolastica interessata valuti e decida in autonomia di esporlo, eventualmente accompagnandolo con i simboli di altre confessioni presenti nella classe e in ogni caso ricercando un ragionevole accomodamento tra eventuali posizioni difformi.
Il docente dissenziente non ha un potere di veto o di interdizione assoluta rispetto all’affissione del crocifisso, ma deve essere ricercata, da parte della scuola, una soluzione che tenga conto del suo punto di vista e che rispetti la sua libertà negativa di religione.
Nel caso concreto le Sezioni Unite hanno rilevato che la circolare del dirigente scolastico, consistente nel puro e semplice ordine di affissione del simbolo religioso, non è conforme al modello e al metodo di una comunità scolastica dialogante che ricerca una soluzione condivisa nel rispetto delle diverse sensibilità. Ciò comporta la caducazione della sanzione disciplinare inflitta al professore. L’affissione del crocifisso – al quale si legano, in un Paese come l’Italia, l’esperienza vissuta di una comunità e la tradizione culturale di un popolo – non costituisce un atto di discriminazione del docente dissenziente per causa di religione.
Non è stata quindi accolta la richiesta di risarcimento danni formulata dal docente, in quanto non si è ritenuto che sia stata condizionata o compressa la sua libertà di espressione e di insegnamento".
Dopo aver indagato il tema della comunicazione, oggetto della rubrica della Rivista presentata con l’editoriale del 18 maggio 2021 attraverso il pensiero della magistratura di legittimità e di merito (si rimanda ai contributi di Gianni Canzio, Giovanni Melillo, Claudio Castelli) ed aver approfondito il valore della comunicazione e della parola quale mezzo di emancipazione dell’individuo e della società grazie allo scritto di Francesco Messina passando per un’analisi del tema del linguaggio dell’Accademia con Marina Castellaneta e della questione cruciale della comprensibilità e della conoscibilità dell’attività giurisdizionale attraverso il pensiero di Marcello Basilico, Giustizia insieme ha dedicato una serie di interviste ai professionisti della comunicazione e, facendo seguito a quelle di Rosaria Capacchione, Giovanni Bianconi, sono stati coinvolti i giornalisti Claudia Morelli e Giovanni Tizian
È seguito l'approfondimento di Edmondo Bruti Liberati sul drafting relativo all'attuazione della dir.UE 2016/343 sulla presunzione di innocenza- La problematica attuazione della direttiva UE 2016/343 sulla presunzione di innocenza-.
Oggi è la volta dell'Avvocato David Cerri, con un contributo dedicato alla comunicazione dell'Avvocato.
Giustizia e comunicazione. 12) La comunicazione dell’avvocato
di David Cerri
Sommario: 1. La comunicazione dell’avvocato - 2. La comunicazione delle associazioni - 3. La comunicazione delle istituzioni.
1. La comunicazione dell’avvocato
Argomento non semplice: già il titolo è equivoco. Perché dell’avvocato, e non degli avvocati o dell’avvocatura? Si tratta evidentemente di punti di vista differenti. C’è poi un’altra premessa da fare: chi scrive rappresenta solo se stesso, non ha certamente la pretesa di esprimere l’opinione dell’intera avvocatura italiana, nè di una sua parte presunta maggioritaria, tantomeno delle sue istituzioni.
Messo in guardia il lettore, affrontiamo comunque il tema, iniziando dal profilo citato per primo: la comunicazione del singolo professionista o del singolo studio richiama subito alla mente quella che di solito si definisce come la “pubblicità”. Si dica allora che questo tema, affacciatosi prepotentemente alla ribalta anche delle professioni forensi italiane negli ultimi anni, sulla scia di un facile entusiasmo per esperienze di altri ordinamenti (non ben conosciute né intese) alla prova dei fatti si è rivelato scarsamente interessante. Chi abbia infatti studiato come la questione della pubblicità dell’avvocato ci sia evoluta in ordinamenti come quello statunitense, dopo celebri sentenze della Corte Suprema degli anni ‘70, e faccia poi un paragone con l’attualità italiana, si rende subito subito conto di come la diversità non solo e non tanto degli ordinamenti, quanto piuttosto del contesto giuridico, delle relative tradizioni, e soprattutto dell’ambiente sociale ed economico abbia fatto sì che l’uso che se ne fa in quel paese (e anche in altri paesi europei, sia pur con tutt’altre modalità) non sia paragonabile né per qualità né per quantità alla nostra più recente esperienza. La motivazione a mio parere è piuttosto semplice: nel contesto eurounitario limitazioni alla concorrenza, anche sotto il profilo delle comunicazioni commerciali, sono ben previste (e direi a maggior ragione nelle professioni regolamentate rispetto alle imprese) in nome della tutela del pubblico interesse. La direttiva 2006/123/CE, cosiddetta Bolkenstein, espressamente ci rammenta all’art. 24 che “Le regole professionali in materia di comunicazioni commerciali sono non discriminatorie, giustificate da motivi imperativi di interesse generale e proporzionate”; se si legge come se ne è fatta applicazione in Italia col D.Lgs. n.59 del 2010 (art.34, c.3): “I codici deontologici assicurano che le comunicazioni commerciali relative ai servizi forniti dai prestatori che esercitano una professione regolamentata sono emanate nel rispetto delle regole professionali, in conformità del diritto comunitario, riguardanti, in particolare, l'indipendenza, la dignità e l'integrità della professione, nonche' il segreto professionale, nel rispetto della specificità di ciascuna professione” si vede inoltre come subito di seguito la norma si concluda con la pedissequa ripetizione del principio adottato in sede europea poco sopra riportato.
È questo infatti un caso esemplare nel quale la normativa deontologica aiuta l’ interpretazione e l’applicazione della legge statale. Il codice deontologico forense prevede all’art.17 in primo luogo il carattere essenziale della pubblicità dell’avvocato in Italia: quello informativo, e non meramente commerciale. L’art. 35 dettaglia poi l’applicazione di quel principio, i cui canoni sono quelli già conosciuti dalle discussioni sulle comunicazioni commerciali: trasparenza, veridicità, correttezza, non equivocità, non ingannevolezza, col divieto di informazioni denigratorie, suggestive o comparative.
Non è una singolarità del nostro ordinamento, perché lo stesso C.C.B.E., nel suo codice richiama all’art.2.6, 1 i criteri della veridicità e della correttezza, nonché i principi fondamentali della professione, sempre (come si ricava dall’intero sistema del codice e dal suo preambolo) a tutela del superiore pubblico interesse della tutela della collettività, mediante l’espresso riferimento allo “stato di diritto” ed alla “buona amministrazione della giustizia”; se si vuol declinare il termine di collettività in altro modo (francamente meno coinvolgente, a tacer della diversità ontologica) precisiamo allora: del consumatore.
Ancor meglio l’indagine svolta dalla Commissione sulla Concorrenza dell’ Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico - O.C.S.E. (DAF/COMP/(2007)39) sulle restrizioni alla concorrenza nel settore legale, ha infatti evidenziato il fenomeno dell’adverse selection, cioè che a far maggior ricorso alla pubblicità sono i legali che mostrano di avere la minore qualità; ed ha affermato a chiare lettere che “la nozione di pubblico interesse è più ampia della necessità di correggere i difetti del mercato”, per concludere che tra gli argomenti a favore di (proporzionate) limitazioni alla pubblicità si staglia quello di “Prevent charlatans from obtaining business”… che non ha bisogno di traduzione.
Singolari e fortemente contestate dei professionisti sono state quindi, e comprensibilmente, le interpretazioni offerte dall’A.G.C.M. che in numerosi interventi ha avuto modo di ritenere assurdo il riferimento a criteri come decoro e dignità, propri invece di tutti gli ordinamenti professionali in Italia, in Europa, ed in generale non solo nel mondo delle democrazie occidentali. Assurdo, al contrario, mi è sempre parso voler identificare tout court le professioni forensi con il mondo delle imprese, in particolare per la paradossale conseguenza che a seguire quei ragionamenti ne risulterebbe che i clienti degli avvocati dovrebbero avere meno tutele dei clienti delle imprese, alle quali codici del consumo come quello italiano, direttive eurounitarie, strumenti di autoregolamentazione delle aziende consentono invece una tutela consolidata anche in normative direttamente applicabili (pensiamo soltanto alla disciplina delle comunicazioni ingannevoli). Anche tali punte polemiche, peraltro, sono andate stemperandosi di fronte alla costatazione - fatta propria in primo luogo dalle stesse principali agenzie pubblicitarie -che di queste modalità di marketing (concetto ben più ampio) gli avvocati italiani hanno fatto ben scarso uso; e se, come accennato all’inizio, parlare degli avvocati italiani in generale può sembrare un’affermazione troppo generica e totalizzante, diciamo meglio allora: della stragrande maggioranza di loro; le grandi law firms, le cui case madri sono spesso di matrice estera, in realtà dal punto di vista professionale ed in particolar modo sociologico hanno molto poco a che fare con l’avvocato come la maggior parte di noi lo conosce. Basterebbe leggere le cronache di questi giorni a margine dell’arbitrato Rizzoli/RCS, con le colorite descrizioni dei professionisti dei grandi studi che vi hanno partecipato, per rendersene meglio conto. Una dimostrazione è data ripetutamente dalle indagini del Censis, che continuano a registrare anche di recente come il principale strumento di acquisizione della clientela sia il cosiddetto passa parola. Tutto ciò non significa ignorare I tentativi, spesso un po’ penosi, di pubblicità fatta in casa da numerosi studi: basta una veloce carrellata in rete per rendersene conto. C’è molto da dubitare però che tali tentativi diano dei frutti consistenti, senza naturalmente voler qui considerare le limitazioni di natura normativa e deontologica pur esistenti. Anche a questo proposito, però, torna decisivo il richiamo al pubblico interesse, che dovrebbe essere meglio apprezzato proprio considerando l’esperienza degli ordinamenti che assai prima del nostro hanno riconosciuto questa possibilità ai professionisti. Mi piace allora ricordare quanto mi riferiva il professor Settis, notissimo storico dell’arte, nel corso di un’intervista di qualche anno fa per una rivista giuridica che curavo. A proposito della sua esperienza di amministratore del Getty Museum a Malibu - esperienza che lo portava naturalmente a contatti con grandi studi professionali di Los Angeles - il professore mi riferiva parlando di questi temi che proprio uno dei suoi interlocutori gli raccontava con una certa amarezza come il regime di ampia libertà nella rappresentazione pubblicitaria dei professionisti californiani provocasse un grave danno sociale a carico delle categorie meno dotate di strumenti per interpretare correttamente una reclame televisiva, un cartellone affisso in autostrada, un annuncio fatto su un giornale o su internet. In particolare vittime di professionisti con pochi scrupoli erano, a detta di quel legale, gli immigrati ispanici di recente ingresso, che cadevano vittime della scarsa conoscenza delle consuetudini statunitensi, affidandosi così inutilmente, se non con danno, ad avvocati che ricordavano il famoso Lionel Hutz dei Simpson (se vi ricordate, è quello il cui motto è “Cause vinte in 30 minuti o pizza gratis!”, e che Lisa Simpson definisce uno “schyster”, termine che non oso tradurre ad un uditorio raffinato come quello di questa Rivista. In effetti uno sguardo su quel mondo è piuttosto interessante, se lo si vede come una possibile anticipazione di quello che sarebbe potuto accadere anche in Europa e in particolare in Italia ove non ci fosse una cura particolare della tutela della collettività di fronte agli operatori economici, di ogni tipo, miranti esclusivamente ricavare un profitto dalle loro attività. In altre parole nessuna regola significherebbe averne una sola: massimo profitto col minimo sforzo, il che, mi si consentirà, non è la migliore soluzione. A pensar diversamente sono rimasti gli epigoni del momento d’oro del neoliberismo selvaggio.
La comunicazione informativa, allora: segue agevolmente ed in primo luogo anche nel nostro paese i canali internet, spesso senza dover ricorrere a specifiche professionalità tecniche (e si vede…); si attua prevalentemente con la presentazione dei siti degli studi, delle informazioni utili per la scelta del professionista, nonché di tutte quelle altre indicazioni di tipo pratico (un esempio banale, la sede dello studio con suggerimenti per raggiungerlo, i parcheggi, e così via); naturalmente le aree di prevalente attività dei professionisti (vedremo poi l’uso che sarà fatto dei titoli di specializzazione, quando anche questa possibilità sarà ampiamente sfruttata; sin d’ora mi sentirei di dire che i risultati, sotto questo profilo, saranno minori di quelli forse attesi, per il semplice fatto che la realtà italiana vede una miriade di studi composti da pochi professionisti, una diffusione sul territorio capillare (anche in relazione all’elevato numero di fori), ciò che comporta che il fregiarsi del titolo di specialista in un dato ambito potrebbe in realtà avere l’effetto controproducente di escludere l’ interesse del potenziale cliente sotto tanti altri profili, magari egualmente trattati dal medesimo professionista con apprezzabile competenza, benchè non “bollinata”: staremo a vedere.
C’è infine, anche un altro tipo di pubblicità formalmente informativa ma sostanzialmente commerciale: quella delle interviste fasulle, fenomeno non così irrilevante se alcuni Ordini territoriali avevano sentito già da tempo l’opportunità di dotarsi di apposite delibere sull’argomento. Questione peraltro superata – da chi se lo può permettere – con gli interventi più sinceramente sfacciati su riviste nate ad hoc, di solito patinate, e che mi spingono a ricordare il titolo dell’opera del critico formalista russo Viktor Šklovskij, Il punteggio di Amburgo, e la sua spiegazione: “Il punteggio di Amburgo è importantissimo. Tutti gli incontri di lotta sono truccati. Gli atleti si fanno mettere con le spalle a terra secondo le istruzioni dell’impresario. Ma una volta l’anno si riuniscono ad Amburgo in una osteria e lottano a porte chiuse, con le tende tirate.
Lottano a lungo, con ostinazione, senza eleganza. Il punteggio di Amburgo serve a stabilire la classe reale di ciascun lottatore e ad evitare il totale discredito. Anche in letteratura non se ne può fare a meno” concludeva Šklovskij, e neppure nel nostro ambito. Ed i migliori giudici sono anche per noi i colleghi, cui potrebbero aggiungersi i magistrati, seguendo l’esempio di altre formule, come Find a Lawyer della Law Society of England and Wales, fondate sul peer review.
2. La comunicazione delle associazioni
Finora ho cercato di tratteggiare la comunicazione tesa in gran parte all' acquisizione ed alla cura della clientela, e pertanto dal punto di vista del singolo studio; gli avvocati però, associati nelle loro forme di aggregazione, tendono a svolgere anche altri tipi di comunicazione, che solo in parte possono essere ricondotti ad una forma di “pubblicità di categoria” e/o della stessa singola associazione. In questa prospettiva gli interessi che si vogliono coltivare sono sovente, ed in linea generale, quelli della tutela della stessa categoria, se si vuole in un' ottica sindacale (più frequente per alcune e minore in altre), con un particolare interesse alle esigenze degli iscritti al singolo ente, di solito riunitisi per la comunanza dell’ attività prevalentemente svolta. Tra le associazioni specialistiche formalmente riconosciute come “maggiormente rappresentative“ in attuazione del Regolamento n.1/013 C.N.F., di applicazione dell’articolo 35 c.1 lett. s) L. n. 247/2012, si annoverano alcune tra le più note – come (sperando di non suscitare reazioni da parte delle altre che non ricorderò solo per motivi espositivi…) le Unioni delle Camere Penali e delle Camere Civili, e le diverse di avvocati della famiglia (come AIAF, ONDIF, Cammino ecc.) e del lavoro (come AGI); ma non mancano associazioni “generaliste” che vantano una diffusione capillare sul territorio, come - una per tutte - l‘AIGA. Ebbene, quelle di maggiori dimensioni ed “anzianità” godono di veri uffici stampa, che ne permettono la costante presenza non solo nella pubblicistica di settore, ma anche nella opinione pubblica, tramite frequenti e mirati interventi sui quotidiani di maggior notorietà sui temi dell' attualità politica e sociale. Un altro profilo, attentamente curato dalle associazioni - e che costituisce buona parte delle loro attività di proselitismo – è quello della formazione continua, dove l' allestimento di convegni ed incontri di studio costituisce non solo un importante mezzo di accrescimento culturale dell’intera categoria, ma indubbiamente anche uno strumento di promozione della singola associazione: mentre si rende un servizio, quasi sempre poco costoso se non gratuito , ci si presenta ai colleghi in termini di efficienza ed aggiornamento. Già la parzialissima enumerazione delle diverse associazioni fa comprendere come la comunicazione dei professionisti forensi italiani non sia comparabile con quella di altri operatori della giustizia, come i magistrati, che oltre ad avere regole dettate dal legislatore, per l'ovvio rilievo pubblico della loro funzione, hanno anche organi di autogoverno che consentono l'adozione di regole; regole che almeno nella loro ispirazione dovrebbero indirizzare i comportamenti dei membri di quell’ordine (penso anche soltanto alle Linee-guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale adottate dal CSM nel 2018). L’avvocatura, pur essendo una professione regolamentata, con la costituzione di un organo apicale e di organi territoriali regolati dalla legge, non ha certamente (in primo luogo forse per le sue dimensioni) la possibilità di esprimere con una sola voce le sue indicazioni: ciò che nel contempo è un male, per la sicura minore efficacia, ma anche un bene, perché le diverse opinioni vengono alla luce del sole ed a conoscenza diretta dell'opinione pubblica. Quest'ultima riflessione ci porta diritto all'ultimo paragrafo di questo intervento.
3. La comunicazione istituzionale
Le istituzioni forensi, in Italia, come tutti sanno sono regolate dalla legge, e non da oggi ma dal 1874, con la tragica parentesi fascista. La loro natura di organi pubblici è causa ed insieme effetto del loro ruolo; non ci si associa liberamente all’Ordine di appartenenza, ma lo si deve fare, perché il legislatore – in ossequio, oggi, ai principi costituzionali – ha ritenuto che dovesse essere assicurato alla collettività l’affidamento in professionisti “verificati” (con tutte le debolezze delle “verifiche”, delle quali non è questa la sede per parlare), aggiornati e corretti, svolgenti un ruolo sociale ineliminabile (almeno nelle nostre democrazie). Può quindi apparire non scontato che tale istituzioni svolgano, oltre a quella definibile come una consueta comunicazione istituzionale, (relativa alle informazioni necessarie allo svolgimento della professione – a livello locale e nazionale - , ai servizi per i cittadini, ai rapporti con gli altri protagonisti del sistema giustizia) un intervento più esplicito, destinato ad influenzare direttamente l’opinione pubblica e la politica. Sarebbe però veramente ingenuo pensare che, data l’occasione, essa non venga colta, al pari di quello che fanno gli altri operatori. Questa è la strada che da alcuni anni ha intrapreso anche il Consiglio Nazionale Forense, dapprima con il ricorso (non troppo felice) alla collaborazione di agenzie specialistiche, poi con l’iniziativa del quotidiano Il Dubbio, nato nel 2015 tra le polemiche di buona parte dell’avvocatura. Polemiche spesso dettate dai costi non modesti dell’impresa, ma anche da una contrarietà di fondo ad esprimere una presenza in senso lato “politica” della categoria, da riservare piuttosto, secondo alcuni ed in una prospettiva sindacale, alle libere associazioni. Non starò qui certamente a fare la storia dei rapporti tra C.N.F. ed O.U.A., prima, e O.C.F., dopo (sigle per iniziati che, appunto, sarebbe troppo lungo spiegare) ma oggi è innegabile che, nel succedersi di direttori (aveva iniziato Sansonetti) che hanno dato una propria impostazione alla pubblicazione, questa sia entrata di diritto tra quelle citate d’obbligo nelle rassegne stampa; conseguenza forse inevitabile della perenne querelle sullo stato comatoso della giustizia italiana, la cui lettura semplificata vede additare come responsabili ora la magistratura, ora l’avvocatura, ora l’esecutivo di turno, e spesso tutte e tre.
Di sicuro questo tipo di pubblicazione può contribuire alla crescita culturale della categoria ed insieme del paese (ho in mente, per esempio, interventi recenti e posti in adeguato risalto sulla lingua di genere, di Barbara Spinelli e Stefania Cavagnoli); si può essere più perplessi nell’insistenza da un lato su temi dell’attualità “spicciola” e, dall’altro, su battaglie capitali come quella per “l’introduzione dell’ avvocato in costituzione” (personalmente credo che l’avvocato ci sia già, eccome, e che forse è nella normativa ordinaria che dovrebbero essere apprestate più adeguate tutele e soprattutto risorse: ma – al solito: ormai lo si sarà capito come la penso…– nell’interesse principale della collettività, non in quello della categoria, che ne risulterà garantito di riflesso).
Ricordo infine come, al pari delle associazioni, e come ho già ricordato, anche le istituzioni forensi a tutti i livelli si presentino all’interno ed all’esterno della categoria con l’attività svolta per la formazione, tanto per l’accesso che continua. Un professionista competente per far fronte ai suoi obblighi necessita di una formazione iniziale e di un aggiornamento continuo di alto livello; non è un caso che con la dismissione dei poteri dei poteri disciplinari in favore dei nuovi Consigli Distrettuali gli Ordini territoriali abbia visto crescere esponenzialmente le iniziative formative, spesso tramite la costituzione di appositi enti (come le numerose Fondazioni) che danno continuità a strutture organizzativamente complesse, assai spesso in proficua collaborazione con le Università (anche indipendentemente dall’esistenza di apposite convenzioni) ed assicurandone la “tendenziale gratuità” richiesta. E’ questa attività formativa (anche per il coinvolgimento interdisciplinare di altre professioni e della magistratura, per quello di altre istituzioni pubbliche, e talvolta caratterizzata anche dall’apertura alla cittadinanza: un esempio le manifestazioni per la Giornata della Memoria) che mi pare costituisca il miglior biglietto da visita dell’avvocatura italiana, ed in ogni caso la forma di “comunicazione” che prediligo.
Precauzione e prevenzione: nel dedalo delle competenze comunali, regionali e statali si attenua la tutela dei (diritti fondamentali dei) cittadini.
di Giovanna Iacovone e Annarita Iacopino[1]
Sommario: 1. Inquadramento del tema a partire dagli interessi coinvolti. 2. Il potere di ordinanza sindacale subisce una dequotazione sulla base della (astratta) disciplina delle competenze e in virtù di una eventuale responsabilità a posteriori. 3. Precauzione e prevenzione: una lettura neutralizzante del rischio. 4. Il ruolo e i confini delle ordinanze contingibili e urgenti nella garanzia di efficacia del paradigma precauzionale: una interpretazione minimalista. 4.1. Il principio di precauzione e sua operatività. 4.2 Valutazione e gestione del rischio nel rapporto tra tecnica e diritto in funzione della effettività delle tutele…4.3 …ipotesi di coordinamento. 5. Riflessioni conclusive.
1. Inquadramento del tema a partire dagli interessi coinvolti
Con la sentenza n. 4802 del 23 giugno 2021 la IV Sezione del Consiglio di Stato ha accolto l’appello presentato da Arcelor Mittal avverso la sentenza n. 249 del 13 febbraio 2021 resa dal TAR Lecce in relazione alla ordinanza contingibile e urgente n. 15 del 27 febbraio 2020 con la quale il Sindaco di Taranto, nell’esercizio dei poteri riconosciutigli dal TUEL, aveva ordinato una serie di prescrizioni all’ILVA fino alla sospensione delle attività.
L’analisi del supporto motivazionale della decisione del Consiglio di Stato non può prescindere, da un lato, dalla asettica ricostruzione del contesto fattuale dal quale (e nel quale) la decisione scaturisce, dall’altro dell’impianto logico motivazionale della sentenza di primo grado.
All’origine del rinnovato interessamento per la «vita» dell’ILVA da parte dell’amministrazione comunale vi era l’allarme sociale determinato da alcuni eventi emissivi che si erano verificati nel corso del 2019 e del 2020. Eventi rispetto ai quali l’ARPA Puglia – DAP di Taranto, nel valutare la connessione con «la tutela della salute», aveva sottolineato l’importanza del rispetto dei tempi di attuazione dei lavori di installazione dei filtri a manica del camino E312 dell’agglomerato dello stabilimento siderurgico, sottolineando l’opportunità di anticiparne i tempi di realizzazione. Opportunità confermata anche dallo stesso Dipartimento di prevenzione della ASL di Taranto – Spesal.
Successivamente la stessa ARPA, in relazione alle anomalie segnalate, aveva evidenziato il superamento del valore limite di emissione massima oraria per il parametro al camino E312.
Il Ministero competente, più volte sollecitato dalla stessa amministrazione comunale in relazione agli specifici eventi, aveva però sottolineato la conformità ai parametri previsti dall’AIA, rinviando all’ISPRA ogni valutazione della pericolosità e dell’impatto delle «problematiche emissive» sulla salute dei cittadini.
Si segnala, comunque, che lo stesso Ministero, sempre nel 2019, anno in cui gli eventi che hanno dato origine all’ordinanza si erano verificati, aveva, su sollecitazione dell’amministrazione comunale, avviato un procedimento di revisione dell’AIA.
Stante il mancato pronunciamento delle amministrazioni interpellate, e considerato anche il grado di allarme sociale generato dagli episodi richiamati, l’amministrazione comunale ha adottato l’ordinanza n. 15, prima ritenuta legittima dal TAR Lecce e poi annullata dal Consiglio di Stato.
Ai fini di una chiara definizione del quadro di contesto occorre richiamare la gradualità delle prescrizioni contenute nell’ordinanza di necessità e urgenza adottata ai sensi dell’art. 50 del TUEL.
Nell’ordinanza era espressamente previsto che «qualora siano state individuate le sezioni di impianto oggetto di anomalie e non siano state risolte le criticità riscontrate di cui in premessa: [ordina] di avviare e portare a completamento le procedure di sospensione/fermata delle attività nei tempi tecnici strettamente necessari a garantire la sicurezza e, comunque, non oltre ulteriori 60 gg. dalla presente degli impianti come sopra individuati (…) procedendo, laddove necessario per finalità legate a ragioni di sicurezza alla sospensione/fermata delle attività inerenti gli impianti funzionalmente connessi e gli impianti di cui sopra (…) qualora non siano state individuate le sezioni di impianto oggetto di anomalie e quindi non siano state risolte le criticità di cui in premessa: avviare e portare a completamento, nei tempi tecnici strettamente necessari a garantire la sicurezza, e comunque non oltre 60 gg. dal presente provvedimento, la procedura di fermata dei seguenti impianti Altiforni, Cokerie, Agglomerazione, Acciaierie».
L’elemento di rilevanza dell’ordinanza, e che poi si rileva come cardine su cui poggia la decisione di primo grado, secondo quanto espressamente previsto nel provvedimento impugnato, è rappresentato dalla pericolosità delle immissioni per la salute, dunque non solo per l’ambiente, valutate alla luce del principio di precauzione.
Nell’ordinanza si legge, infatti, che le «emissioni, percepite in città e oggetto di numerose segnalazioni, hanno procurato un forte odore diffuso (…) le attuali e persistenti criticità di carattere emissivo, non escludono possibili conseguenze di natura sanitaria e producono sempre più insistentemente situazioni di estremo disagio sociale, oltre che diffusa preoccupazione ed esasperazione della popolazione che vede minacciata la propria salute, specie nelle fasce più deboli».
Gli elementi sui quali occorre concentrare l’attenzione, ai fini della contestualizzazione delle della decisione di primo grado, sono rappresentati dalla valutazione del comportamento tenuto dalle amministrazioni a diverso titolo coinvolte, e in particolare dal Ministero e dall’ISPRA, nonché dalla funzione riconosciuta all’AIA e alla definizione della sua portata, nonché della sua valenza garantista rispetto al binomio ambiente/salute e, dunque, nella valutazione degli eventi segnalati in una prospettiva precauzionale mirata a garantire il diritto (fondamentale) alla salute.
Quanto al primo profilo, tanto il Ministero quanto l’ISPRA erano stati immediatamente interessati evidenziando, sin da subito, la richiesta di un intervento funzionale ad assicurare la tutela del diritto alla salute dei cittadini messo in pericolo dagli eventi emissivi imputabili, secondo quanto accertato dalle stesse amministrazioni coinvolte, al malfunzionamento degli impianti e delle attività di monitoraggio[2].
Dunque, una situazione relativa alle «concrete e attuali» condizioni dell’impianto all’origine di quella valutazione precauzionale operata dal sindaco, corroborata dai pareri espressi dall’ARPA e dalla ASL che sottolineavano, come detto, la necessità di una accelerazione dei tempi di realizzazione di alcuni interventi programmati evidenziando le criticità del funzionamento dell’impianto. Condizioni rispetto alle quali, nella stessa sentenza, si richiama non solo la peculiarità dell’impianto tarantino «unico sul territorio nazionale con alimentazione a carbone, risultando tutti i restanti stabilimenti siderurgici da tempo convertiti nell’alimentazione elettrica dei forni»[3], ma la stessa giurisprudenza CEDU che, nel 2019, riconoscendo la violazione degli artt. 8 e 13 della Convenzione aveva condannato l’Italia avendo «le Autorità nazionali (…) omesso di adottare tutte le misure necessarie per assicurare la protezione effettiva del diritto degli interessati al rispetto della loro vita privata»[4]. Una decisione che in realtà richiama un autorevole precedente specifico[5] e nella quale la connessione ambiente, benessere delle persone, diritto al godimento del loro domicilio è resa molto evidente[6] ed è ben delineata rispetto alla garanzia della «qualità della vita» che, sebbene concetto non ben definito, comunque presuppone e impone che «le autorità nazionali abbiano affrontato la questione con la diligenza dovuta e abbiano (…) affrontato la questione con la diligenza voluta e se abbiano preso in considerazione tutti gli interessi coesistenti», mentre, come si evidenzia nella stessa sentenza, «la gestione da parte della autorità nazionali delle questioni ambientali riguardanti l’attività di produzione della società (…) è tuttora in una fase di stallo», con la conseguenza di un pericolo per «la salute dei ricorrenti e più in generale, quella di tutta la popolazione residente nelle zone a rischio».
La considerazione di questo profilo rappresenta l’elemento dal quale muove il giudice di primo grado per considerare l’incidenza degli interessi e l’ ambito di valutazione cui è deputato il procedimento di AIA nell’ambito del difficile rapporto con il danno sanitario e con gli interessi economici che gravitano attorno alla attività imprenditoriale. Il Collegio, infatti, muovendo da precedenti specifici dello stesso giudice amministrativo[7], evidenzia come l’ambito di valutazione che rientra nel perimetro dell’AIA non è tale da garantire che si escluda il rischio o il danno sanitario[8], scardinando, dunque, l’assioma AIA/tutela della salute, alla cui base veniva individuata, dai ricorrenti, una carenza di potere dell’amministrazione comunale.
Dunque, un approccio sostanzialista che, proiettato in una dimensione precauzionale, porta a una valutazione complessiva, non solo degli specifici episodi emissivi, considerati «sintomatici di un incombente pericolo di reiterazione», ma dell’intera situazione relativa al funzionamento dell’impianto e della sistematica dei controlli attivati dalle competenti autorità. Significativamente sul punto il giudice di primo grado fa riferimento alla «perdurante pendenza del procedimento del riesame relativamente al monitoraggio del set integrativo», facendo emergere la necessità di adottare una decisione “di emergenza” per garantire l’effettività del sistema di precauzione, in una dimensione, dunque, orientata alla valutazione del rischio e non alla gestione (della già presente) emergenza. E così il giudice di primo grado tiene a precisare che «l’esercizio del potere contingibile e urgente da parte del Sindaco trova peraltro ulteriore supporto logico in considerazione del fatto che, anche a prescindere dalla rilevanza secondaria che nell’ambito dell’AIA – e ancor più nel caso della legislazione speciale prevista per l’ILVA, in quanto impianto strategico di interesse nazionale – riveste la valutazione del danno sanitario, il Sindaco ha comunque esercitato ogni iniziativa utile al fine di sollecitare un intervento di riesame dell’AIA, sulla base di qualificati pareri e relazioni ambientali e sanitarie, senza sortire tempestivi risultati e cui ha fatto riscontro, ad esempio la nota ISPA con cui quest’ultima assume di non avere competenza in campo sanitario».
Sembra, dunque, che nel dedalo di norme, competenze, interessi, confliggenti tra loro, stenti a trovare posto l’interesse (che sembrerebbe recedere) alla tutela della salute della collettività di cui si fa interprete, nella ordinanza impugnata, l’ente esponenziale ad essa più vicino in dichiarata applicazione del principio di precauzione[9] rispetto al «rischio» del verificarsi di un evento eccezionale (dannoso) la cui imprevedibilità non va intesa in senso assoluto, al fine di legittimare l’esercizio del potere di ordinanza, potendo quest’ultimo essere legittimato anche dalla sussistenza di un pericolo determinato da un «rischio perdurante»[10].
2. Il potere di ordinanza sindacale subisce una dequotazione sulla base della (astratta) disciplina delle competenze e in virtù di una eventuale responsabilità a posteriori
Ma è proprio quel dedalo di norme la base (formale) sulla quale il Consiglio di Stato ha poggiato la decisione con la quale è stata ribaltata la sentenza del TAR Lecce e riconosciuta l’illegittimità della ordinanza sindacale.
Infatti, l’intera struttura della decisione di secondo grado poggia su un paradigma diverso focalizzato primariamente sul potere, ritenuto carente in concreto, del Sindaco di emanare una ordinanza di necessità e urgenza operando una opzione interpretativa preliminare con la quale il thema decidendum viene limitato alla stretta verifica della legittimità del provvedimento impugnato escludendo espressamente «del complessivo impatto ambientale e sanitario determinato dalla presenza sul territorio dello stabilimento siderurgico tarantino, nonché delle questioni connesse (anche oggetto di separati giudizi in separate sedi giudiziali), le quali si stagliano sullo sfondo della questione qui controversa» e ciò nonostante questo elemento di contesto fosse un presupposto necessario, secondo la ricostruzione avanzata dal giudice di primo grado, per la valutazione del comportamento delle altre amministrazioni via via interessate e dell’impatto di quel comportamento sulla salute dei cittadini, elemento legittimante, ad avviso del giudice di prime cure, l’intervento sindacale.
Data questa premessa ermeneutica, il giudice di secondo grado, richiamando solo la decisione della Costituzionale n. 85 del 2013, valorizza l’AIA quale punto di equilibrio di una molteplicità di interessi tra cui il diritto (fondamentale) alla salute, qualificandola come «provvedimento per sua natura “dinamico”, poiché contiene un programma di riduzione delle emissioni, che deve essere periodicamente riesaminato, al fine di recepire gli aggiornamenti delle tecnologie cui sia pervenuta la ricerca scientifica e tecnologica nel settore».
Una cornice teorica, ricostruita con profusi richiami normativi, anche del «diritto singolare» creato nel tempo ad hoc per l’ILVA sulla cui base viene interpretato, e limitato, il potere sindacale di ordinanza.
Nella sua ricostruzione il giudice di secondo grado, pur considerando i poteri di ordinanza come una «valvola di sicurezza del sistema», riconosciuto per gestire situazioni di pericolo altrimenti non fronteggiabili, fa leva sulla residualità che sarebbe correlata alla eccezionalità di tale potere[11] per individuare nello specifico i confini del potere esercitato dal Sindaco di Taranto.
Pur negando la completezza del quadro normativo e la sua sufficienza a «fronteggiare qualunque situazione di pericolo o di danno scaturente dall’attività produttiva in essere nello stabilimento siderurgico»[12] il Consiglio di Stato conferma un concetto ampio di contingibilità, legato alla impossibilità di ricorrere (e non alla inefficacia rispetto alle esigenze di tutela in concreto considerate) a rimedi pur esistenti al fine di fronteggiare una situazione di pericolo[13], in ciò negando il difetto di attribuzione o l’incompetenza del Sindaco a emanare la contestata ordinanza.
Purtuttavia, nel passare a considerare i presupposti che in concreto legittimerebbero l’esercizio del potere sindacale, il giudice si sofferma sulla portata dei requisiti della contingibilità e urgenza sottolineando come la prima debba essere riferita e valutata non solo con riferimento alla concreta esistenza di strumenti per far fronte alla situazione di pericolo, ma anche alla loro “adeguatezza”[14]; mentre la seconda vada solo intesa come la «materiale impossibilità di differire l’intervento ad altra data, in relazione alla ragionevole previsione di danno a breve distanza di tempo»[15]. Presupposti a corollario dei quali sono poi stati individuati ulteriori caratteri, ampiamente richiamati dal Consiglio di Stato, quali la «straordinarietà dell’evento», la sua «imprevedibilità», la «necessaria temporaneità della misura adottata»[16] «volti a rimarcare il connotato fondamentale del potere di ordinanza, ossia la sua residualità rispetto ad altri rimedi tipici e nominati». Elementi che «Pur non costituendo requisiti necessari per il legittimo esercizio del potere rimangono, tuttavia, criteri di carattere logico adoperabili per lo scrutinio della legittimità in concreto del provvedimento».
Un inquadramento del potere di ordinanza che consente, sulla base della ricostruzione del quadro normativo, di escludere che, con riferimento alla immissione di «aria e fumi» provenienti dallo stabilimento, possa essere esercitato un potere di ordinanza da parte del sindaco, essendo lo stabilimento sottoposto ad AIA, la cui portata esautorerebbe ogni altra possibilità di tutela, con la conseguenza che l’esercizio del potere sindacale sarebbe circoscritto alle ipotesi in cui le situazioni di pericolo o danno per la salute derivino da «inosservanza delle prescrizioni autorizzatorie», tra l’altro, secondo la interpretazione che ne dà il giudice amministrativo, solo dietro «comunicazione dell’autorità competente», dunque, almeno stando alla lettera della sentenza che affianca i due presupposti, non un potere autonomamente esercitabile da parte del Sindaco, ma, al contrario, una extrema ratio cui ricorrere solo a seguito dell’esaurimento dei rimedi posti in capo alla “autorità competente” e su richiesta di quest’ultima. Dunque, un potere condizionato che da un lato esclude l’applicabilità degli artt. 50 e 54 del TUEL, dall’altro risulta subordinato alla valutazione, in questo caso del Ministero, della osservanza delle prescrizioni autorizzatorie.
Un meccanismo che valorizzando lo «scivolamento» delle competenze di fatto rischia di frustrare la effettività del bene giuridico protetto, e cioè la salute pubblica la cui valutazione in concreto viene posta in secondo piano.
E questo è particolarmente evidente se si considera che, pur riconoscendo alle norme (incluso l’art. 217 del r.d. n. 1265/1934) la finalità di garantire una tutela «“anticipatoria” del bene giuridico», consentendo «alla autorità preposta (il Sindaco) di intervenire prima (“prevenire”) che si verifichi l’effettiva compromissione (“il danno”) del bene giuridico tutelato (“la salute pubblica”)», il Consiglio di Stato nega da un lato la esercitabilità del potere di ordinanza ex artt. 50 e 54 del TUEL - non essendo comprovata la inidoneità e la inefficacia degli altri rimedi predisposti dall’ordinamento -, dall’altro nega la possibilità di esercitare i poteri straordinari riconosciuti dall’art. 217 del r.d. n. 1265/1934 - non essendoci stata una comunicazione da parte dell’autorità competente, il Ministero, che al contrario aveva rilevato la insussistenza di una violazione delle prescrizioni contenute nell’AIA.
Una ricostruzione ineccepibile sotto il profilo formale, che non sottace la consapevolezza – del giudicante – del suo potenziale impatto sul bene salute. E questo sembra evidente proprio in quella parte della decisione in cui il Giudice comunque precisa che «va evidenziato che, qualora “l’autorità competente” non effettui la comunicazione di cui all’art. 29-decies, comma 10, d.lgs. n. 152 del 2006 oppure neghi erroneamente che sussistono i presupposti per procedervi, si assumerà evidentemente le relative responsabilità, qualora si dovesse poi inverare l’evento pregiudizievole paventato».
Dunque, uno schema formalmente corretto che non può però non far sorgere qualche perplessità, perché, con riguardo al bene della salute, difficilmente la tutela risarcitoria postuma potrà essere altrettanto satisfattiva della tutela del bene principale (che, considerata la tipologia, dovrebbe essere primario).
3. Precauzione e prevenzione: una lettura neutralizzante del rischio
Ma quello richiamato non è l’unico motivo di illegittimità riconosciuto in sede di appello della decisione assunta dal Sindaco di Taranto.
A supporto della riconosciuta incompetenza del sindaco ad adottare una ordinanza di necessità ed urgenza a tutela della salute della collettività, stante le precondizioni richiamate in precedenza, il Giudice sposta l’attenzione su una ritenuta assenza di lesività, quanto meno di prova di una diretta lesività, dei fatti emissivi rispetto al bene protetto, riproponendo sic et simpliciter il dilemma insito nello stesso principio di precauzione tra certezza, ragionevole certezza della lesività e, dunque, tra prova e indizio del rischio insito o comunque correlato a quella determinata attività.
Un equilibrio che sottende un certo non agevole bilanciamento tra interessi contrapposti, tra tutela della salute e tutela delle attività economiche.
A sostegno della propria decisione il giudice amministrativo richiama l’evoluzione giurisprudenziale sul principio di precauzione rimarcando la necessità che la valutazione dei rischi avvenga sulla base di «indizi specifici» che, pur nell’incertezza della regola scientifica, permettano di individuare, nella sostanza, l’esistenza di «un rischio specifico», intendendosi per tale quel rischio in base al quale «non possa escludersi che [l’intervento umano su un determinato sito] pregiudichi il sito interessato in modo significativo». Dunque, un grado di certezza che, almeno ad una prima lettura, supera i confini del principio di precauzione, lambendo quelli del correlato principio di prevenzione.
Dalla lettura della motivazione pare, infatti, che il Giudice contesti all’amministrazione comunale l’assenza di una valutazione del rischio tale da comprovare la sussistenza di una situazione di pericolo «potenziale o latente» in grado di incidere significativamente sulla salute dell’uomo. Dunque, una valutazione fondata su un grado di certezza del binomio rischio/necessarietà della misura, che evidentemente, considerata anche la opinabilità del dato scientifico che in questi casi ammanta le valutazioni tecniche, riduce sensibilmente l’ambito di applicazione del principio precauzionale, soprattutto con riferimento a quelle fattispecie insolite non note, per le quali non si registra un elevato grado di approfondimento scientifico incrinando così anche la valutazione della stessa proporzionalità della misura.
Una visione della proporzionalità che, però, almeno nella prospettiva in esame non sembra considerare appieno la dimensione e la configurazione che ne viene data nelle sedi eurounitarie, pur richiamate nel testo, che offrono del principio una prospettazione in parte diversa proprio della valutazione scientifica degli effetti potenzialmente negativi che nella descrizione offerta in quelle sedi si caratterizza per una quadrifasicità (identificazione del pericolo, caratterizzazione del pericolo, valutazione dell’esposizione e caratterizzazione del rischio) che in parte è funzionale alla attenuazione delle conseguenze determinate dalla incertezza scientifica rispetto alla quale i fattori di prudenza non portano a richiedere una “prova” del rischio, ma a prendere a riferimento il livello «as low as reasonably achievable» di rischio[17].
In particolare, rileva rimarcare, al fine di delineare con compiutezza la prospettiva in cui nelle sedi comunitarie il principio viene inteso, come ivi si sottolinei che «La mancanza di prove scientifiche dell’esistenza di un rapporto causa/effetto, un rapporto quantificabile dose/risposta o una valutazione quantitativa della probabilità del verificarsi di effetti negativi causati dall’esposizione non dovrebbero essere utilizzati per giustificare l’inazione»[18].
Dunque, una considerazione complessiva della situazione funzionale alla elaborazione di una strategia di gestione del rischio - pur senza sottovalutare i «principi generali di una buona gestione dei rischi», e cioè il principio di proporzionalità, il principio di non discriminazione, il principio di coerenza, l’esame dei vantaggi e degli oneri derivanti dall’azione o dalla mancanza di azione, l’esame dell’evoluzione scientifica – che comporta anche un diverso inquadramento dello stesso onus probandi[19], essendo necessario distinguere tra decisione politica «di agire o di non agire e le misure risultanti dal ricorso al principio di precauzione, che devono rispettare i principi generali applicabili per qualunque misura di gestione dei rischi»[20]. Onere probatorio che, dunque, deve essere inteso non in senso assoluto, potendo, anzi dovendo, essere coniugato, bilanciato, con il principio di naturale incertezza correlato all’evento eccezionale[21].
Un quadro, quello sommariamente richiamato, che non si coglie nella decisione del Consiglio di Stato e che offre una diversa chiave di lettura per il bilanciamento degli interessi da porre a base della valutazione del rischio nel contesto della adozione di una misura precauzionale, se vogliamo più ampia di quella adottata dal giudice amministrativo che, richiamando alcuni propri precedenti, fa riferimento alla «esistenza di un rischio specifico all’esito di una valutazione quanto più possibile completa, condotta alla luce dei dati disponibili che risultano maggiormente affidabili e che deve concludersi con un giudizio di stretta necessità della misura»[22]. E nella decisione di secondo grado si coglie con chiarezza questa tensione tra «rischio puramente ipotetico», cioè una mera supposizione non verificata in termini scientifici[23], e «rischio non pienamente provato a causa della (naturale) incertezza scientifica» rispetto al quale si sottolinea che la «significatività» dell’impatto è alla base delle oscillazioni negli approcci, che richiedono una prova della sussistenza di un possibile rischio non fronteggiabile con gli strumenti tipici predisposti dall’ordinamento e, in ultimo, nella garanzia di effettività del principio di precauzione. Una tensione che traspare nel riconoscimento di un difetto di istruttoria e di motivazione dell’ordinanza, in ragione della ritenuta mancata individuazione «delle cause che hanno comportato gli eventi emissivi presi in considerazione», rispetto alle quali neanche le note istruttorie dell’ARPA e della ASL, secondo quanto ritenuto dal giudice, evidenziano «chiare ed univoche indicazioni sull’eziogenesi» degli eventi, né una chiara e comprovata correlazione degli eventi occorsi e del rischio di una loro ripetizione a eventuali criticità per il diritto alla salute[24].
E in ciò a nulla rilevando, dunque, la stessa ripetizione degli eventi, che in sé avrebbero potuto da soli provare il rischio di reiterazione, né le risultanze della nota ministeriale nella quale «sono enumerate una serie di “non conformità” e di “eventi incidentali”» sulla base della considerazione che nella stessa nota «non viene (…) chiarita l’attinenza con gli eventi presupposto dell’ordinanza»[25].
Dunque, circostanze che, ad avviso del giudice, «non evidenziano un pericolo “ulteriore” rispetto a quello ordinariamente collegato allo svolgimento dell’attività produttiva dello stabilimento industriale e gestita attraverso la disciplina dell’A.I.A.». Pericolo, dunque, che non risulterebbe corredato da un sufficiente apparato probatorio tale da rendere possibile la adozione di una misura straordinaria in applicazione del principio di precauzione poiché «quanto emerso è più incline ad escludere il rischio concreto di un eventuale ripetizione degli eventi e la sussistenza di un possibile pericolo per la comunità tarantina» in quanto gli eventi verificatisi risultano frutto di carenze procedurali, il primo evento emissivo, o di accadimenti non riconducibili comunque a violazioni dell’AIA. Dunque, una «situazione di assoluta e stringente necessità presupposta dall’ordinanza sindacale» non solo non provata ma tale da non giustificare un ritenuto aggravamento della situazione ambientale e sanitaria della città di Taranto le cui condizioni sono «un fatto che può reputarsi “pacifico”, a fini processuali», ma anche non giustificabile dalla ritenuta necessità di anticipare le realizzazioni intraprese[26] che, ad avviso del giudice, segnano una linea di discontinuità rispetto a quella situazione di stallo indicata dalla Corte europea menzionata in precedenza[27].
4. Il ruolo e i confini delle ordinanze contingibili e urgenti nella garanzia di efficacia del paradigma precauzionale: una interpretazione minimalista
Dai sintetici cenni richiamati in precedenza il primo elemento che si impone all’attenzione del lettore è la totale diversità di piani posta dal giudice di primo grado e dal Consiglio di Stato a base delle proprie valutazioni. Mentre nel primo grado a base della decisione di ritenuta legittimità dell’ordinanza sindacale vi è un approccio sostanzialista - che sottende una visione strumentale del diritto - nel quale nell’ambito del bilanciamento fra contrapposti interessi confluiscono diversi elementi tra i quali la considerazione della tempistica della attuazione del Piano approvato con D.p.c.M. nel quale sono contemplate una molteplicità di attività anche di tutela sanitaria; nel secondo grado prevale l’approccio formale, con una diversa conseguente rilevanza dello stesso paradigma precauzionale rispetto al quale, in questa sede, non si può non rimarcare la portata e la necessità di una contestualizzazione in una dimensione di (strumento di) garanzia dello sviluppo sostenibile, dove la sostenibilità, però, non va riferita soltanto alla finalizzazione ambientale dell’azione, ma a una connotazione di sistema che includa la valutazione dei profili e degli impatti sociali ed economici della decisione anche amministrativa[28].
In questo contesto la riflessione deve necessariamente stratificarsi su una molteplicità di piani che rendono anche complessa una lettura critica dei due approcci: il primo, a carattere più generale, relativo al grado di attuazione ed efficacia che il nostro sistema intende prioritariamente garantire attraverso il paradigma precauzionale e, a monte, attraverso la sistematica del rischio; l’altro relativo al potere di ordinanza[29], strumento tradizionalmente considerato irrinunciabile per la gestione e regolazione delle emergenze e, al contempo, la sua normalizzazione per la gestione di eventi eccezionali e non solo e di cui normalmente si criticano gli abusi imputabili proprio alla mancata visione sistemica del rischio.
4.1. Il principio di precauzione e sua operatività
La vicenda oggetto delle sentenze menzionate nei paragrafi precedenti è certamente emblematica dell’approccio complesso e conflittuale del nostro sistema rispetto al paradigma della precauzione e, a monte, della gestione del rischio. Un tema sul quale si è soffermata la dottrina soprattutto a seguito del realizzarsi degli eventi pandemici «scoprendo», in ciò sollecitati certamente dalla dimensione ultra-statuale del fenomeno, delle criticità intrinseche del nostro sistema, già emerse in occasione di eventi eccezionali che hanno interessato aree circoscritte del nostro territorio.
Senza ripercorrere in questa sede i diversi passaggi che hanno caratterizzato il percorso che ha portato alla lenta applicazione del principio di precauzione nel nostro ordinamento, la problematicità che lo caratterizza si innesta su due piani, quello a carattere generale, se vogliamo di sistema, relativo appunto all’approccio che si ha rispetto alla considerazione e ponderazione del rischio, l’altro a carattere puntuale e operativo relativo alla assunzione della singola decisione precauzionale e al correlato rapporto conflittuale tra tecnica e diritto e alla ricerca, da parte di quest’ultimo, di un dato di certezza che spesso la prima non può offrire.
Rispetto al primo profilo richiamato, come si evince già da una rapida lettura del quadro normativo, incluso il Codice di protezione civile[30], è subito evidente che lo spazio riservato agli eventi eccezionali si incentra prevalentemente sulla gestione del momento critico successivo all’evento negativo secondo una visione parziale, difficilmente compatibile con l’obiettivo di un sistema riflessivo che, oltre a pregiudicare la completezza del discorso, pone sullo stesso sistema una vera e propria ipoteca, condizionandone la prospettiva e gli elementi di valutazione, anche in relazione al (possibile) ruolo del livello istituzionale.
Una visione dell’evento eccezionale, quella richiamata, che, nella corretta valutazione della dimensione del rischio, e non solo dell’emergenza, non potrebbe prescindere dalla considerazione dei momenti antecedenti al suo verificarsi, in considerazione cioè di un modello programmatorio e regolatorio flessibile effettivamente in grado di costruire un sistema istituzionale e infrastrutturale pienamente funzionale che consenta di garantire la gestione delle conseguenze del verificarsi dell’evento eccezionale con i parametri e le garanzie dell’ordinarietà, evitando lo sconfinamento, o meglio l’abuso, di strumenti eccezionali, quali anche le stesse ordinanze di necessità ed urgenza.
Ma questa rapida considerazione si pone a latere rispetto alla decisione del Consiglio di Stato, né appare, rebus sic stantibus, sufficiente o idonea a confutare la correttezza formale della ricostruzione operata dal giudice d’appello.
4.2. Valutazione e gestione del rischio nel rapporto tra tecnica e diritto in funzione della effettività delle tutele…
Infatti, in questa prospettiva, di un diritto del rischio[31], la gestione dell’emergenza, e quindi la piena attuazione del paradigma precauzionale, anche eventualmente attraverso l’esercizio del potere (residuale) di ordinanza, conta un momento antecedente nel quale il binomio precauzione/prevenzione gioca un ruolo fondamentale secondo una dinamica circolare che, anche in ragione della complessità dei fatti considerati, presuppone un coordinamento tra diversi soggetti, anche privati, soprattutto al fine di acquisire una adeguata acquisizione delle indispensabili conoscenze scientifiche e tecniche che rappresentano l’indefettibile presupposto per la predisposizione di misure (normative e provvedimentali), di procedure adeguate rispetto al fine. Misure la cui elasticità risulta precondizione necessaria per consentire un adeguamento in parallelo al progresso delle conoscenze scientifiche e tecnologiche che ne rappresentano il presupposto[32] e che sono il nucleo problematico di lettura e interpretazione della complessità nonché alle mutate condizioni oggettive che potrebbero verificarsi, e che si sono verificate nel caso di specie.
Tale riflessione si fonda, oltre che sulla evidenziata relazione strutturale e complementare tra i due principi di precauzione e di prevenzione, su una piana interpretazione del chiaro massaggio proveniente dall’Europa secondo cui « è generalmente riconosciuto che, in alcuni casi, la sola valutazione scientifica del rischio non è in grado di fornire tutte le informazioni su cui dovrebbe basarsi una decisione di gestione del rischio e che è legittimo prendere in considerazione altri fattori pertinenti, tra i quali aspetti di natura sociale, economica, tradizionale, etica e ambientale nonché la realizzabilità dei controlli»[33].
Si intercetta così una ulteriore criticità, quella del rapporto tra tecnica e diritto, che ipoteca il dato della effettività della tutele e che si coglie con maggiore evidenza nel passaggio al piano della decisione sul caso singolo, rispetto alla quale l’incertezza del dato scientifico va ad alimentare quel dato di complessità proprio della decisione, spesso acquisendo un peso (politico) rilevante nella individuazione del bilanciamento tra contrapposti interessi, come del resto è evidentissimo proprionell’avvicendarsi delle decisioni attraverso cui può ricostruirsi (fino a questo momento) la “storia” dell’impianto ILVA .
Dalle osservazioni sin qui svolte è evidente che non è intenzione di chi scrive riproporre una lettura del paradigma precauzionale estremizzante, secondo una esegesi paralizzante, cioè astrattamente idonea a bloccare qualsiasi attività anche solo potenzialmente pericolosa, interpretazione giustamente esclusa anche dalla stessa Corte costituzionale[34]. L’obiettivo di queste brevi riflessioni è solo quello di contribuire a porre l’attenzione sugli elementi che potrebbero, anche alla luce delle decisioni assunte nelle sedi comunitarie, consentire un ragionevole e prevedibile bilanciamento dei contrapposti interessi, evitando che nella lettura di contrapposte decisioni, come nel caso di specie, si abbia la sensazione che in esse (decisioni amministrative) possa aver avuto un peso decisivo una valutazione politica degli interessi in gioco.
E a tal fine occorre ritornare brevemente sui parametri che via via sono stati elaborati con riferimento all’applicazione del principio di precauzione nella sua ascesa a principio generale dell’azione[35]. Parametri la cui formulazione «ampia» (si pensi al grado di certezza richiesto e alla differente portata che la diversa dimensione lessicale «rischio specifico» - che deve emergere da indizi specifici – «probabilità di un danno reale» comporta) lascia, come è evidente nel caso in esame, un margine molto ampio di manovra, tanto alle amministrazioni quanto ai giudici chiamati ad esaminare la legittimità, formale e sostanziale, della decisione amministrativa, e dunque dell’assetto degli interessi in essa consacrato.
4.3. …ipotesi di coordinamento
Superato il dato (formale) relativo alla competenza, nel confronto delle decisioni richiamate nei paragrafi precedenti, il principale nucleo problematico si addensa proprio attorno al conflittuale rapporto strutturale tra tecnica e diritto funzionale alla prevedibilità (in astratto) dell’evento dannoso. Un rapporto intrinsecamente condizionato da una molteplicità di fattori che vanno dalla incertezza del risultato dell’analisi scientifica, ai rischi connessi alla tecnica, e alla sua mutabilità, e che comporta anche che si proiettino il rischio e la sua valutazione nella complessa dimensione della probabilità/improbabilità del verificarsi dell’evento che, per garantire la ragionevolezza e la stessa proporzionalità della scelta consacrata nella decisione amministrativa, deve concorrere alla valutazione complessiva del fatto assieme ad ulteriori elementi - quali l’impatto sociale, politico e anche economico delle decisioni che sono assunte - alcuni dei quali, per loro stessa natura, sono caratterizzati da una più facile prevedibilità, soprattutto nel medio periodo, e quindi finiscono per avere un peso specifico maggiore nel contesto della decisione.
Ed è in questa prospettiva che occorre riflettere sulla portata (reale) di quel decalogo della precauzione elaborato dalla giurisprudenza[36] e in particolare sul grado di certezza (del rischio di danno) che viene richiesto per ritenere raggiunta quella «valutazione scientifica obiettiva», che nel caso in esame viene definita come «rischio specifico» tale, però, da garantire il principio «better safe than sorry». E ciò in quanto la valutazione posta a base della decisione non può prescindere dall’assunzione di una prospettiva nella quale si considerano gli effetti sistemici, anche di medio e lungo periodo, delle decisioni assunte, nella consapevolezza che la valutazione parziale dei rischi ha influenze distorsive della stessa efficacia delle decisioni di non poco momento, come del resto il caso della città di Taranto emblematicamente dimostra. Una portata che, in maniera più evidente proprio nel settore ambientale va definita e integrata con (ma non deve sostituire) quelle decisioni improntate al diverso principio di prevenzione inteso tanto in senso negativo quanto positivo[37] che, muovendo da una più concreta e certa definizione del rischio, impongono regole di condotta e comportamenti agli attori, di norma consacrate nei regimi autorizzatori, nei quali certamente rientra anche l’AIA, che, grazie alla revisione periodica, dovrebbero garantire una effettività della tutela degli interessi sensibili (ambientali e sanitari).
Nella decisione del Consiglio di Stato, l’opzione ermeneutica del giudice amministrativo, porta, invece, ad escludere la utilizzabilità della ordinanza sindacale di necessità ed urgenza per fini precauzionali per un duplice ordine di ragioni: le prime di pura legittimità essendo la gestione delle situazioni emergenziali relative all’impianto oggetto di una specifica disciplina che prevede l’intervento di soggetti diversi le cui competenze, anche in caso di inerzia, non possono, secondo quanto si legge in sentenza, essere esautorate dall’ordinanza sindacale[38]; e in ogni caso difettando, ad avviso del giudice, quei requisiti propri del potere extra ordinem, quali la contingibilità, l’urgenza, la straordinarietà dell’evento nonché la sua imprevedibilità non risultando, tra l’altro, nel merito, adeguatamente supportato da un corredo probatorio il rischio di ripetizione degli eventi emissivi, la pericolosità per la salute della cittadinanza degli stessi rispetto a una situazione di gravità e pericolosità già conclamata e quindi tale da non legittimare una qualificazione in termini di emergenza della condizione (abituale) del territorio.
La distanza siderale tra le due impostazioni riflette il diverso approccio rispetto ai beni giuridici primari oggetto di tutela. Un approccio evidentemente sostanzialista, quello del primo giudice, più condizionato da un approccio formale al principio di legalità il secondo che pare addirittura trovare un momento di chiusura in una valutazione della proporzionalità effettuata considerando (normale) la situazione (emergenziale) in cui quel territorio versa.
Una opzione interpretativa, quella del Consiglio di Stato, che si discosta, ad esempio, da alcune applicazioni del principio effettuate proprio nel periodo pandemico nelle quali la mancanza di «acclarate e solide conoscenze scientifiche in ordine alle modalità di trasmissione del coronavirus» sono state ritenute sufficienti per giustificare decisioni restrittive in applicazione proprio del principio di precauzione[39] nella sua dimensione finalistica correlata al principio di responsabilità che, in astratto dovrebbe guidare la interpretazione del paradigma precauzionale. Infatti, proprio facendo leva sulla presupposta ordinarietà delle condizioni di partenza valutata, prevalentemente, nella dimensione ambientale e solo di riflesso rispetto al diritto fondamentale alla salute e al diritto alla sicurezza invocato dalla cittadinanza[40], è stata negata la proporzionalità della misura precauzionale[41].
Un approccio che, se si supera la pur ineccepibile dimensione formale, risulta frustrare lo stesso profilo teleologico del principio di precauzione, e cioè una anticipazione di tutela finalizzata a prevenire, o quanto meno contenere, il danno, o anche un suo aggravamento[42], avendo il vaglio sui confini del potere di ordinanza reso impossibile una valutazione sul merito e dunque un bilanciamento tra contrapposti interessi, ivi includendo anche la considerazione dei tempi di risposta delle amministrazioni competenti, secondo lo schema richiamato dal giudice di secondo grado che, non a caso, incidentalmente, e solo come mero richiamo di un principio, ne ricorda la responsabilità in caso di danno causato da una loro inazione. Una ricostruzione quella proposta in appello che, assumendo la lente del giudice di primo grado, pare porsi in contrasto con quella necessaria sistemicità della tutela invocata dalla Corte costituzionale proprio con riferimento all’ILVA[43] che non può prescindere, dunque, anche nella considerazione della necessarietà dello strumento eccezionale, dalla valutazione del contesto, senza dimenticare che già in passato, nel bilanciamento tra diritto alla salute e diritto al lavoro, la compressione del diritto fondamentale era stata tollerata, o meglio era divenuta ragionevole in quanto temporanea e funzionale a prevenire un’altra emergenza (quella lavorativa). Una posizione non condivisa proprio dalla Corte europea per i diritti dell’uomo nella sentenza richiamata in precedenza in ragione di una diversa prospettiva assunta da quest’ultima, incentrata sulla valutazione della effettiva violazione del diritto fondamentale[44]. Una sistemicità che, però, anche in considerazione delle circostanze concrete, e forse anche del tempo trascorso, ad esempio a distanza di 6 anni ha portato la Corte costituzionale, nella sentenza 58/2018 a porre su una diversa base giuridica lo stesso bilanciamento costituzionale e dunque la valutazione della ragionevolezza e proporzionalità della decisione secondo un percorso di analisi più improntato a una concezione strumentale del diritto e, dunque, spinto maggiormente dal pensiero della necessità[45]. Approccio che trova un chiaro sostrato filosofico-concettuale nella decisione del giudice di primo grado[46].
5. Riflessioni conclusive
Dalle osservazioni svolte in precedenza è evidente che l’opzione ermeneutica dei due giudici non può essere valutata secondo un tradizionale e radicale paradigma interpretativo giusto/sbagliato, ma spinge piuttosto l’interprete a una riflessione di carattere generale sui canoni di convivenza tra principi e valori formativi della convivenza collettiva e diritti individuali, valorizzando proprio il compito della jurisprudenzia di «realizzare positivamente la “pratica concordanza” delle diversità e persino delle contraddizioni»[47] valorizzando quella funzione degli stessi diritti individuali e la loro diretta funzionalizzazione alla implementazione di un ordine sociale giusto[48]. In questo contesto ci si deve infatti domandare quanto le regole, quali quelle che disciplinano la competenza, possono risultare pregiudizievoli della efficacia ed effettività dei principi che, non avendo una fattispecie, assumono una operatività nel momento in cui si confrontano con un caso concreto e che, data la loro portata strutturale, non possono essere ridotti a meri accessori, assumendo una sostanza valoriale che non può essere frustrata (o esclusa) dalla regola[49].
Proprio l’esigenza di non neutralizzare principi fondamentali ha indotto l’ordinamento a delineare provvedimenti extra ordinem anche in deroga alle regole sulla competenza[50].
E su questo dovrebbe aprirsi una riflessione sulla razionalità materiale del potere in concreto esercitato dal giudice, quella razionalità non orientata alla forma e alla opposizione qualitativa vero-falso, ma al contenuto, alla ragionevolezza dell’assetto degli interessi che quella determinata decisione dà al rapporto amministrativo, stando ben attenti a non scardinarlo comunque dal diritto positivo, ma senza abdicare alla funzione pratica, rivalutando quella concezione articolata che pone l’interprete a servizio dell’ordinamento giuridico, tanto nella sua dimensione riferita alle regole (ex parte potestatis), quanto nella sua dimensione riferita ai principi (ex parte societatis). Dunque, non un giudizio etico, né un giudizio fondato su un acritico positivismo, ma sullo specifico accadimento, sullo specifico problema amministrativo di cui va inteso il senso e il valore[51], intendendo per senso quella logica sociale dell’azione e, dunque, le conseguenze che ne derivano e che rappresenta il nucleo attorno al quale ruota il percorso per la formulazione di una scelta (decisione) ragionevole e proporzionata[52], il che non vuol dire aprire la via a una visione soggettivistica dell’interpretazione con buona pace del principio di certezza, ma aprire una più ampia riflessione sul «reale» oggetto del giudizio amministrativo, e ciò anche in considerazione del fatto che la ragionevolezza (paradigma della proporzionalità)[53] della decisione è (e non potrebbe non essere) il risultato di una «categorizzazione dei fatti che tiene conto di tutti i principi che essi mettono in movimento»[54].
[1] Sebbene sia frutto di una riflessione condivisa sulle tematiche, i paragrafi sono così distribuiti: parr. 1, 2 e 3 Annarita Iacopino; par. 4, 4.1, 4.2, 4.3 e 5 Giovanna Iacovone.
[2] Nella sentenza di primo grado si legge, infatti, «deve ritenersi quindi provato che i fenomeni emissivi indicati nell’impugnata ordinanza sono stati determinati da malfunzionamento tecnico, difettosa attività di monitoraggio e di pronto intervento, nonché criticità nella gestione del rischio e nel sistema delle procedure di approvvigionamento di fornitura e di negligente predisposizione di scorte di magazzino».
[3] Nella decisione si sottolinea come la scelta di mantenere l’alimentazione a carbone «risulti funzionale agli interessi economici dell’indotto complessivo dell’acciaio, che beneficiano dei relativi prodotti differenziali».
[4] Rileva la Corte EDU che «il giusto equilibrio da assicurare tra, da una parte, l’interesse dei ricorrenti a non subire gravi danni all’ambiente che possano compromettere il loro benessere e la loro vita privata e, dall’altra, l’interesse della società nel suo insieme, non è stato rispettato. Pertanto, vi è stata violazione dell’articolo 8 della Convenzione». Sul punto si rinvia all’analisi critica svolta da S. Zirulia, Ambiente e diritti umani nella sentenza della Corte di Strasburgo sul caso ILVA, nota a C. eur. Dir. Uomo, sez. I, 24 gennaio 2019, Cordella e altri, in Diritto penale contemporaneo, 2019.
[5] Il riferimento è alla sentenza della Corte di giustizia UE del 31 marzo 2011 (causa C-50/10) nella quale si era riconosciuto che l’Italia si era sottratta agli obblighi cui era tenuta in forza della direttiva 2008/1/CE del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alla prevenzione e alla riduzione integrate dell’inquinamento avendo omesso, l’Italia, di adottare le misure necessarie grazie alle quali le autorità competenti avrebbero potuto controllare gli impianti industriali esistenti funzionassero conformemente a un sistema di autorizzazioni previsto dalla direttiva. Una posizione espressa anche in un parere motivato del 16 ottobre 2014 nel quale la Commissione aveva evidenziato che l’Italia si era sottratta agli obblighi di garantire che l’acciaieria fosse conforme ai requisiti della direttiva sulle emissioni industriali.
[6] La Corte EDU ha infatti che «una doglianza difendibile dal punto di vista dell’articolo 8 può sorgere se un rischio ecologico raggiunge un livello di gravità che riduce notevolmente la capacità del ricorrente di godere del proprio domicilio o della propria vita privata o famigliare» che riconduce in capo agli stati non solo un obbligo negativo di astensione dello Stato da ingerenze arbitrarie, ma anche un obbligo positivo «in particolare nel caso di un’attività pericolosa, di mettere in atto una legislazione adattata alle specificità di tale attività, in particolare al livello di rischio che potrebbe derivarne. Tale legislazione deve disciplinare l’autorizzazione, la messa in funziona, lo sfruttamento, la sicurezza e il controllo dell’attività in questione, nonché imporre a ogni persona interessata da quest’ultima l’adozione di misure di ordine pratico idonee ad assicurare la protezione effettiva dei cittadini la cui vita rischia di essere esposta ai pericoli inerenti al settore in causa» (in linea con questa impostazione Oneryildiz c. Turchia, [GC], n. 48939/99, § 90, CEDU 2004-XII, e Brincat e altri c. Malta, nn. 60908/11 e altri 4, §§ 101-102, 24 luglio 2014).
[7] In particolare, si richiama l’orientamento del Consiglio di Stato per il quale «nell’ambito del procedimento del rilascio dell’AIA in via generale non è obbligatorio procedere alla valutazione sanitaria (prescritta nelle sole ipotesi disciplinate dall’art. 9 della L. 221/15) salvo che, in base al principio di precauzione, concrete evidenze istruttorie dimostrino l’insussistenza di un serio pericolo della salute pubblica. Resta ovviamente fermo che, ove l’apporto consultivo dei predetti enti (ndr: ARPA, ASL, ISPRA) venga comunque acquisito, l’autorità procedente è tenuta ad una autonoma valutazione dei pareri resi quantomeno nell’ipotesi in cui intenda discostarsene» (IV, 11 febbraio 2019, n. 983; IV, 28 agosto 2019, n. 5985).
[8] Nella sentenza si precisa che «l’AIA costituisce un atto amministrativo di natura autorizzatoria finalizzato all’esercizio o prosecuzione di attività produttiva, con il quale vengono stabilite le specifiche prescrizioni che delimitano le condizioni di esercizio dell’attività; tali prescrizioni costituiscono l’esito della confluenza di plurimi contributi tecnici ed amministrativi in un unico procedimento nel quale (…) devono trovare simultanea applicazione i principi di prevenzione, precauzione, correzione alla fonte, informazione e partecipazione, che caratterizzano l’intero sistema normativo ambientale. Il procedimento che culmina nel rilascio dell’AIA con le sue caratteristiche di partecipazione, pubblicità, rappresenta lo strumento attraverso il quale si perviene, nella previsione del legislatore all’individuazione del punto di equilibrio in ordine all’accettabilità e alla gestione dei rischi che derivano dall’attività oggetto dell’autorizzazione.
Una volta raggiunto tale equilibrio diventa decisiva la verifica dell’efficacia delle prescrizioni; Ciò chiama in causa la funzione di controllo dell’amministrazione (…) Le prescrizioni e misure contenute nell’AIA possono rivelarsi inefficaci, sia per responsabilità dei gestori, sia indipendentemente da ogni responsabilità soggettiva» (Corte cost., 9 aprile 2013, n. 85).
[9] Un profilo condiviso dal giudice di primo grado il quale rileva che «tale principio impone che, allorché ricorrano incertezze o ragionevoli dubbi in ordine al rischio per la salute delle persone, possono essere adottate misure di tutela del bene protetto ancor prima che risulti pienamente dimostrata l’esistenza e gravità delle fonti di rischio (cfr. C.d.S. sez. III n. 3.20.2019 n. 6655; TAR Sardegna sez. I 16.11.2020 n. 628)».
[10] Rileva sul punto il giudice di primo grado, sulla scia di chiari precedenti giurisprudenziali (Cons. Stato, V, 25 maggio 2012, n. 3077) che «il fatto che una situazione fonte di rischio sia protratta nel tempo non rende per questo illegittimo il provvedimento contingibile e urgente del Sindaco, atteso che in determinate situazioni il trascorrere del tempo o lo stato di perdurante rischio non elimina da sé il pericolo per la salute dei cittadini potendo viceversa aggravarlo».
[11] Rileva il giudice di secondo grado che «Il potere in questione è icasticamente definito “derogatorio”, proprio per il peculiare tratto distintivo di “esorbitare” dalle regole che scandiscono l’attività amministrativa (ex multis, Cons. Stato, sez. II, 15 febbraio 2021, n. 1375; sez. IV, 11 gennaio 2021, n. 344; sez. II, 11 luglio 2020, n. 4474; sez. V, 4 febbraio 2015, n. 533).
Esso pone, perciò, delicati problemi di raccordo con il principio di legalità (…) del quale costituiscono corollari, per l’appunto, il principio di tipicità e nominatività dei poteri dell’amministrazione e il principio di competenza».
[12] Rileva, infatti, il giudice che «La panoplia di rimedi predisposta dal legislatore non esaurisce il novero delle ipotesi nelle quali, astrattamente, la pubblica incolumità o la salute della collettività possono essere poste in pericolo o subire un danno dallo svolgimento di un’attività produttiva legittimamente autorizzata».
[13] Sul punto cfr. Cons. Stato, II, 11 luglio 2020, n. 4474; T.A.R. Campania, Napoli, 9 novembre 2020, n. 5066 «I presupposti per l'adozione dell'ordinanza contingibile e urgente risiedono nella sussistenza di un pericolo irreparabile ed imminente per la pubblica incolumità, non altrimenti fronteggiabile con i mezzi ordinari apprestati dall'ordinamento, nonché nella provvisorietà e nella temporaneità dei suoi effetti, nella proporzionalità del provvedimento, non essendo pertanto possibile adottare ordinanze contingibili e urgenti per fronteggiare situazioni prevedibili e permanenti o quando non vi sia urgenza di provvedere, intesa come assoluta necessità di porre in essere un intervento non rinviabile, a tutela della pubblica incolumità».
[14] Una prospettiva chiaramente delineata dallo stesso Consiglio di Stato, da ultimo nella decisione, IV, 11 gennaio 2021, n. 344 nella quale si sottolinea che «Il principio di precauzione, ferma restando l’assoluta rilevanza nel diritto ambientale interno ed eurounitario, non legittima di per sé, in difetto di specifiche disposizioni normative, l’esercizio da parte del Sindaco, di un potere “innominato” di inibizione di attività amministrative e/o economiche, qualora non sussista, con sufficiente certezza alcun pericolo attuale, concreto ed irreparabile per la pubblica incolumità, ed in particolare per la salute pubblica».
[15] Cons. Stato, II, 15 febbraio 2021, n. 1375.
[16] Nella sentenza in commento si sottolinea che «La giurisprudenza ha individuato ulteriori “presupposti” del potere di ordinanza quali, per l’appunto, la “straordinarietà dell’evento”, la sua “imprevedibilità (da ultimo, Cons. Stato, sez. II, 15 febbraio 2021, n. 1375; sez. V, 16 aprile 2019, n. 2495; anche allorché la situazione di emergenza fosse sorta in epoca antecedente, secondo Cons. Stato, sez. II, 11 luglio 2020, n. 4474, o la situazione di incuria si fosse protratta da tempo, come in Cons. Stato, sez. IV, 25 settembre 2006, n. 5639) oppure la “necessaria temporaneità della misura adottata” (sempre secondo Cons. Stato, sez. II, 11 luglio 2020, n. 4474; Cons. Stato, sez. VI, 15 novembre 2016, n. 4705, e, per tutti, Corte cost., 2 luglio 2956, n. 8; contra Cons. Stato, sez. V, 13 febbraio 2009, n. 828, secondo cui “nulla esclude che la specificità della situazione richieda l’adozione … di misure di carattere definitivo, atteso che quello che rileva è l’idoneità della misura in relazione alla situazione da fronteggiare”; v. pure sez. IV, 9 novembre 2019, n. 7665; sez. V, 6 marzo 2013, n. 1372; sez. V, 25 maggio 2012, n. 3077; sez. IV, 22 giugno 2004, n. 4402)».
[17] Il richiamo è alla Comunicazione nella quale si legge espressamente che «Il principio di precauzione presuppone: l’identificazione di effetti potenzialmente negativi derivanti da un fenomeno, da un prodotto o da un procedimento; una valutazione scientifica del rischio che, per l’insufficienza dei dati, il loro carattere non concludente o la loro imprecisione, non consente di determinare con sufficiente certezza il rischio in questione» (15).
[18] In particolare, la Commissione rileva che «Una valutazione delle potenziali conseguenze dell’inazione e delle incertezze della valutazione scientifica dovrebbe essere compiuta dai responsabili al momento di decidere se intraprendere azioni basate sul principio di precauzione.
Tutte le parti in causa dovrebbero essere coinvolte nel modo più completo possibile nello studio delle varie opzioni di gestione del rischio, una volta che i risultati della valutazione scientifica e/o della valutazione del rischio siano disponibili. La procedura dovrebbe essere quanto più possibile trasparente» (17).
[19] Nella Comunicazione la Commissione richiama, accanto alle ipotesi di autorizzazione preventiva quei casi in cui «non è prevista una simile procedura [e] può spettare all’utilizzatore, persona privata, associazione di consumatori o di cittadini o al potere pubblico di dimostrare la natura di un pericolo e il livello di rischio di un prodotto o di un procedimento. Un’azione adottata in base al principio di precauzione può comportare in alcuni casi una clausola che preveda l’inversione dell’onere della prova sul produttore, il fabbricante o l’importatore; tuttavia, un tale obbligo non può essere sistematicamente previsto in quanto principio generale». (22)
[20] «La Commissione ritiene inoltre che qualunque decisione debba essere preceduta da un esame di tutti i dati scientifici disponibili e, se possibile, da una valutazione quanto più possibile obiettiva e completa del rischio. Decidere di ricorrere al principio di precauzione non significa che le misure siano fondate su base arbitraria o discriminatoria» (22).
[21] Sul punto cfr. CGUE, sentenze del 5 maggio 1998, cause C-157/96 e C-180/96 nella quale si sottolinea che «si deve ammettere, quando sussistono incertezze riguardo all’esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone, le istituzioni possono adottare misure protettive senza dover attendere che siano esaurientemente dimostrate la realtà e la gravità di tali rischi” (punto 99 della motivazione).
Questa considerazione è corroborata dall’articolo 130R, n. 1, del Trattato CE, secondo il quale la protezione della salute umana rientra tra gli obiettivi della politica della Comunità in materia ambientale. Il n. 2 del medesimo articolo dispone che questa politica, che mira a un elevato livello di tutela, è fondata segnatamente sui principi della precauzione e dell’azione preventiva e che le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle altre politiche comunitarie” (punto 100 della motivazione).
[22] Cons. Stato, III, 3 ottobre 2019, n. 6655.
[23] Cons. Stato, IV, 14 luglio 2020, n.4545; III, 7 maggio 2021, n. 3597.
[24] Sul punto il Giudice di secondo grado rileva come «L’unica criticità segnalata avente queste caratteristiche è quella relativa alla ritenuta insufficienza delle procedure predisposte dal gestore per l’individuazione e la correzione delle anomalie di funzionamento dell’attuale sistema di abbattimento delle polveri e alla necessità “non solo” di rispettare i tempi di installazione dei filtri a maniche, ma, anzi, di “anticiparli” e “accelerarli”».
[25] Nella motivazione si legge che «Ad una lettura di quest’atto [la nota del Ministero del 13 agosto 2020], emerge una congerie eterogenea di accadimenti, collegati all’attività dello stabilimento siderurgico e rilevanti, dunque, nell’anzidetta prospettiva del controllo sull’osservanza del titolo abilitativo o sulla necessità di una sua revisione, ma non attinenti alla legittimità del provvedimento gravato».
[26] «La sollecita anticipazione dell’adozione di alcune di queste misure (in particolare, dei filtri a maniche), evidenziata nella prima parte del provvedimento gravato (…) non risulta coercibile mediante l’adozione di provvedimenti “paralleli” a quelli invece preordinati alla loro pianificazione.
Tale anticipazione potrà avvenire, rebus sic stantibus e salvo ulteriori procedimenti di revisione del titolo, solamente con un ulteriore impegno assunto volontariamente dal gestore dell’impianto, in una prospettiva di pianificazione della complessa situazione sociale venutasi a creare a causa del problema di lungo corso che affligge la città di Taranto, e che tuttavia non esonera il giudicante dal dovere di valutare l’operato dei soggetti pubblici, e nella specie in particolare del Comune, applicando esclusivamente i parametri della legittimità amministrativa».
[27] Rileva sul punto il Giudice che «Con riferimento alla situazione attuale, le misure previste dal Piano risultano in corso di realizzazione e non emergono, dagli atti endoprocedimentali o dal provvedimento gravato, particolari ritardi o inadempimenti rispetto alla loro attuazione».
[28] Sul punto cfr. L. Giani, Dalla cultura dell’emergenza alla cultura del rischio. Potere pubblico e gestione delle emergenze, in AA.VV., Dal diritto dell’emergenza al diritto del rischio, a cura di L. Giani, M. D’Orsogna, A. Police, Napoli, 2018, 21-22, secondo cui «[l]a questione della “mancata previsione” […] va ricondotta alla individuazione e contestualizzazione dei principi generali di “precauzione”, “prevenzione” e “sostenibilità” letti attraverso la lente del principio di “responsabilità” rispetto al quale deve ritenersi superata la ritenuta irrilevanza etica del rapporto dell’uomo con “il mondo extraumano”, fondata sulla non necessarietà, in favore di una impostazione che non può prescindere dalla valutazione delle conseguenze a lungo termine delle azioni umane, con il conseguente mutamento dell’imperativo categorico nel senso di non poter rischiare “il non essere d elle generazioni future” garantendo la sostenibilità, anche per le generazioni presenti, delle scelte».
[29] Sul potere di ordinanza si veda, per tutti, R. Cavallo Perin, Potere di ordinanza e principio di legalità. Le ordinanze amministrative di necessità e urgenza, Giuffrè, Milano, 1990; C. Marzuoli, Il diritto amministrativo dell’emergenza: fonti e poteri, in Annuario AIPDA 2005, Milano, 2006, 16 ss.
[30] Si veda l’analisi condotta da S. Cimini, I soggetti del sistema: intreccio di competenze e regolazione delle emergenze, in AA.VV., Dal diritto dell’emergenza al diritto del rischio, cit., 99 ss.
[31] Sul punto sia consentito rinviare all’analisi condotta nel volume AA.VV., Dal diritto dell’emergenza al diritto del rischio, cit.
[32] Sul punto cfr. L. Giani, Dalla cultura dell’emergenza alla cultura del rischio: potere pubblico e gestione delle emergenze, cit., che, proprio in relazione, a tale rapporto specifica che si tratta di «Un percorso, dunque, che si colloca su un terreno di indagine assai delicato, nel quale la chiave di lettura va ricercata nel rapporto interferenziale che imporrebbe una necessaria e reciproca comunicazione fra i due, fino al punto di contribuire a determinare la prima i contenuti del secondo, o quanto meno quegli atti regolatori e provvedimentali che del secondo sono attuazione; definendo per tale via il rapporto che dovrebbe sussistere tra scienza e diritto, al fine di interrogarsi su alcuni profili problematici, primo fra tutti la incidenza che la prima dovrebbe avere sui contenuti del secondo, inteso in senso ampio, inclusivo della vasta gamma dei provvedimenti (anche non a carattere normativo) che possono essere assunti nel quadro dei diversi livelli di governo, senza determinare una automatica prevalenza del profilo economico» (18).
[33] 19° Considerando, Reg. 178/2002, cit.
[34] Il richiamo è a Corte cost., 9 maggio 2013, n. 85.
[35] Sul punto si rinvia all’analisi condotta da P. Gargiulo, Brevi riflessioni sulla natura giuridica e sul contenuto dei principi di precauzione e di prevenzione nel diritto internazionale, in AA.VV., Dal diritto dell’emergenza al diritto del rischio, cit., 31 ss.; F. De Leonardis, Tra precauzione, prevenzione e programmazione, in AA.VV., Dal diritto dell’emergenza al diritto del rischio, cit., 49 ss. Con specifico riferimento alla materia ambientale, W. Giulietti, I principi di prevenzione e precauzione nella materia ambientale, in AA.VV., Dal diritto dell’emergenza al diritto del rischio, cit., 237 ss.
[36] Parla di decalogo della precauzione F. De Leonardis, op. cit.: «Quando dunque l’art. 301 cod. amb. prevede espressamente che il rischio probabile è quello accertato come tale a seguito di una “valutazione scientifica obiettiva” si può dire che tale norma codifichi gli esiti di una copiosa giurisprudenza europea che si potrebbe sintetizzare in una sorta di “decalogo” della precauzione: 1) si deve sempre partire dai dati tecnico-scientifici disponibili; 2) i risultati da cui si parte devono essere recenti e devono essere rivisti assai spesso; 3) gli organi che si pronunciano sul rischio devono essere tecnicamente competenti (eccellenza dell’organo tecnico); 4) gli organi tecnici devono essere indipendenti (indipendenza dell’organo tecnico); 5) vi deve essere un numero ragionevole di pareri tecnico-scientifici; 6) per la decisione dell’organo tecnico collegiale non vale il principio della maggioranza; 7) l’onere della prova in ordine al rischio spetta alla p.a.; 8) occorre svolgere un’analisi costi benefici; 9) la misura deve essere proporzionata; 10) la motivazione deve dare ampio conto di quanto innanzi espresso» (67-68).
[37] Per questa distinzione si rinvia alle riflessioni di P. Dell’Anno, Prevenzione dall’inquinamento ambientale, in Riv. trim. dir. pubbl., 1986, 206 ss.
[38] Si ricorda, infatti che i fatti che hanno dato origine al ricorso risalgono al 2019 quando viene trasmessa una valutazione di danno sanitario da parte di ARPA Puglia alle autorità competenti. A seguito della trasmissione di detto documento il Sindaco del Comune di Taranto ha richiesto al Ministero competente il riesame dell’AIA dello stabilimento emessa nel 2017, affinché fossero introdotte misure di tutela delle condizioni sanitarie. Nelle more del procedimento di revisione dell’AIA, avviato a seguito dell’istanza avanzata dal Comune di Taranto, si sono verificati due episodi emissivi a seguito dei quali l’amministrazione comunale si è rivolta all’APRA Puglia e alla ASL per ottenere delucidazioni sul profilo tecnico nonché indicazioni sulle «possibili azioni da intraprendere».
Contestualmente il Comune di Taranto si è rivolto al Ministero al fine di sollecitare una verifica sull’eventuale violazione dell’AIA, onde poter assumere le misure necessarie previste dall’art. 217 del r.d. 1265/1934. Nonostante il riscontro negativo offerto dal Ministero, a seguito del verificarsi di ulteriori episodi emissivi nel corso del 2020 il Comune ha adottato l’ordinanza all’origine del contenzioso in questa sede esaminato.
[39] TAR Campania, Napoli, V, 22 aprile 2020, n. 826. Sul punto, cfr., in senso contrario, Cons. Stato, II, 15 febbraio 2021, n. 1375 nella quale si afferma che “Il potere in discorso, come si è visto volto a fronteggiare situazioni di carattere eccezionale e imprevisto, costituenti concreta minaccia per la pubblica incolumità, trova legittima espansione in presenza di un preventivo accertamento della situazione, fondato su prove concrete e non su mere presunzioni. I sopra indicati presupposti non ricorrono, laddove il Sindaco possa fronteggiare la situazione con rimedi di carattere corrente nell’esercizio ordinario dei suoi poteri, ovvero laddove la situazione possa essere prevenuta con i normali strumenti apprestati dall’ordinamento. Il ricorso allo strumento dell’ordinanza contingibile e urgente trova, per effetto delle riferite coordinate interpretative, fondamento nella dimostrata presenza dell’esigenza di fronteggiare con immediatezza una situazione di natura eccezionale ed imprevedibile (in attesa dell’adozione delle misure ordinarie), ovvero una condizione di pericolo imminente al momento dell’adozione dell’ordinanza, indipendentemente dalla circostanza che la situazione di emergenza sia sorta in epoca antecedente”.
[40] Sul punto cfr. C.R. Sunstein, Laws of Fear. Beyond the recutionary Principle, Cambridge, 2005. Sulla portata del principio di precauzione cfr. Corte Giust. UE (Grande Sezione), 1.10.2019, Mathiew Blaise e a., C-616/17, par. 41: «sebbene l’articolo 191, paragrafo 2, TFUE preveda che la politica in materia ambientale è fondata, in particolare, sul principio di precauzione, tale principio è applicabile anche nel contesto di altre politiche dell’Unione, segnatamente della politica di protezione della salute pubblica nonché quando le istituzione dell’Unione europea adottano, nell’ambito della politica agricola comune o della politica del mercato interno, mirese di protezione per la salute umana».
[41] Sulla correlazione logica tra i due principi cfr. Cons. St., sez. III, 9.3.2020, n. 1692, sul noto caso Xylella fastidiosa, che al punto 9.3. ribadisce che il principio di precauzione deve essere applicato «tenendo conto del principio di proporzionalità, in quale esige che gli atti delle istituzioni dell’Unione e quelli adottati dalle amministrazioni nazionali in conseguenza non superino i limiti di ciò che è appropriato e necessario per il conseguimento degli obiettivi legittimi perseguiti dalla normativa di cui trattasi, fermo restando che, qualora sia possibile una scelta tra più misure appropriate, si deve ricorrere a quella meno gravosa, e che gli inconvenienti causati non devono essere eccessivi rispetto agli scopi perseguiti».
[42] Sul punto cfr. Cons. St., sez. II, 11.5.2020, n. 2964 che nel richiamare la Corte di Giustizia rileva che «la disciplina di tutela ambientale e della salute dei cittadini deve ritenersi ormai orientata da tale principio» e che lo stesso si sostanzia «quale obbligo giuridico di assicurare un elevato livello di tutela ambientale con l’adozione delle migliori tecnologie disponibili finalizzato ad anticipare la tutela, poi da apprestarsi in sede legislativa, a decorrere dal momento in cui si profili un danno da riparare, ai fini sia della sua prevenzione, ove possibile, sia del suo contenimento» (in senso analogo Cons. St., sez. II, 6.4.2020, n. 2248 e Cons. St., sez. IV, 18.7.2017, n. 3559).
In particolare, «[q]ualora risulti impossibile determinare con certezza l’esistenza o la portata del rischio asserito, a causa della natura non concludente dei risultati sugli studi condotti, ma persista la probabilità di un danno reale per la salute pubblica nell’ipotesi in cui il rischio si realizzasse, il principio di precauzione giustifica l’adozione di misure restrittive» (Cons. St., sez. III, 9.3.2020, n. 1692, che cita Corte Giust. UE, 17.12.2015, Neptune Distribution SNC c. Ministre de l’Economie et des Finances, C-157/14).
[43] Corte cost., 9 maggio 2013, n. 85, in particolare punto 9 dove si afferma che «tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre “sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro” (sentenza n. 264 del 2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono nel loro insieme, espressione della dignità della persona». Tra i numerosi commenti si rinvia a D. Pamelin, Il difficile bilanciamento tra diritto alla salute e libertà economiche: i casi ILVA e TEXACO-Chevron, in Costituzionalismo.it, n. 2/2017; D. Morana, I rapporti tra Parlamento e Corte costituzionale nella garanzia dei diritti sociali, in Amministrazione In Cammino, 2015; A. Ciervo, Esercizi di neo-liberismo: in margine alla sentenza della Corte costituzionale sul caso ILVA, in Questione giustizia, n. 2/2015, 134 ss..; B. Deidda – A. Natale, Introduzione: il diritto alla salute alla prova del caso ILVA. Uno sguardo d’insieme, in Questione Giustizia, n. 2/2014, 67 ss.; A. Morelli, Il decreto Ilva: un drammatico bilanciamento tra principi costituzionali, in Diritto penale contemporaneo, n. 1/2013, 7 ss. In senso contrario ai commenti richiamati V. Onida, Un conflitto fra poteri sotto la veste di questione di costituzionalità: amministrazione e giurisdizione per la tutela dell’ambiente. Nota a Corte costituzionale, Sentenza n. 85 del 2013, in Giurisprudenza costituzionale, 2013, fasc. 3, 1494 ss. La Corte ha poi ribadito la medesima impostazione nella sentenza 182/2017 sulla quale cfr. E. Verdolini, Il Caso ILVA Taranto e il fil rouge degli interessi costituzionali: commento alla sentenza 182 del 2017 della Corte Costituzionale, in Forum di Quaderni Costituzionali del 24.2.2018; D. Servetti, Il fattore tempo nel bilanciamento tra lavoro e salute. Alcune note alla nuova sentenza della Corte costituzionale sull’Ilva di Taranto, in Costituzionalismo.it, 2018, 193 ss.
[44] Sulla asimmetria prospettica tra i due giudizi si rinvia all’analisi svolta da A. Ruggieri, La Consulta rimette abilmente a punto la strategia dei suoi rapporti con la Corte EDU e, indossando la maschera della consonanza, cela il volto di un sostanziale perdurante dissenso nei riguardi della giurisprudenza convenzionale, in Diritti Comparati, 2012, 6; E. Scoditti, Se un diritto umano diventa diritto fondamentale: la CEDU come parametro interposto di costituzionalità, in Foro it., 2013, I, 788 ss.; R. Dickmann, Corte costituzionale e controlimiti al diritto internazionale. Ancora sulle relazioni tra ordinamento costituzionale e Cedu (dalle sent. nn. 348-349 del 2007 alla sent. n. 264 del 2012), in federalismi.it, 2013.
[45] P. Häberle, Demokratische Verfassungstheorie im Lichte des Möglichkeitsdenkens, 1977, ora in ID., Die Verfassung des Pluralismus, Königstein, 1980, pp. 1 ss.
[46] Sul punto non si può non richiamare la giurisprudenza del Consiglio di Stato in materia di emissioni elettromagnetiche rispetto alle quali, a fronte del riconoscimento che «la massimizzazione della tutela dell’ambiente esigerebbe che non vi fosse alcuna emissione elettromagnetica artificiale e pertanto nessun apparato/antenna idonea a produrlo; quella al corretto assetto del territorio che non vi fossero pali, tralicci o altre strutture più o meno impattanti; quella della salute imporrebbe, sulla scorta del principio di precauzione, di evitare qualsiasi tipo di emissione elettromagnetica in quanto potenzialmente dannosa», il Giudice amministrativo ha statuito che: «posto che i dati scientifici attualmente a disposizione non dimostrano in modo certo che le emissioni elettromagnetiche siano dannose per la salute; posto che il principio di precauzione impone comunque di adottare ogni cautela in vista di danni ipoteticamente possibili, allora occorre definire i limiti oltre i quali, precauzionalmente, non sono legittime le emissioni. Tali limiti segnano la misura dell’incomprimibilità del diritto alla salute. La massimizzazione del diritto alla comunicazione troverebbe quindi in essi un primo confine invalicabile: le emissioni delle antenne dovranno essere sempre inferiori ai limiti cautelativi posti sulla base delle risultanze scientifiche anzidette. D’altra parte, dato che il diritto alla comunicazione non può essere arbitrariamente e ingiustificatamente compresso o limitato, le amministrazioni preposte al corretto governo del territorio dovranno trovare le soluzioni che di volta in volta meglio consentano il minor sacrificio dello stesso e, allo stesso tempo, la massima tutela del diritto alla comunicazione. Sorge quindi, a quest’ultimo proposito, la necessità di individuare un bilanciamento» (Cons Stato, VI, ord. 27 marzo 2019, n. 2033).
[47] Così G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, 1992, in particolare 14 il quale individua il diritto come «l’insieme delle condizioni entro il quale le attività pubbliche e private devono necessariamente essere collocate in vista di interessi materiali indisponibili. È un ordine oggettivo previsto per limitare la fluttuazione della volontà» (124).
[48] G. Zagrebelsky, Il diritto mite, 125, in particolare 138 ss. dove a proposito del mutamento del rapporto tra uomo e ambiente, rileva che «la volontà non può essere tutelata come diritto senza limiti intriseci poiché non è ormai più illimitato il campo fisico “naturale” in cui essa si esercita. (…) I diritti-volontà non si muovono, perciò, nell’assenza di limiti e regole, secondo la loro schematizzazione classica, quali residui dello Stato di libertà naturale compatibili con il pactum societatis. I diritti il cui esercizio incide sulla natura materiale del mondo presuppongono oggi, al contrario di un tempo, il riferimento a un quadro obiettivo entro i quali sono situati: per garantirne la sopravvivenza e assicurarne un’equa e generalizzata utilizzazione» (140).
[49] Significative, nella prospettiva proposta nel testo, le illuminanti parole di G. Zagrebelsky, Il diritto mite, cit. (160) il quale sottolinea come «l’”essere”, illuminato dal principio, non contiene in sé, ancora, il suo “dover essere”, cioè la sua regola, ma almeno l’indicazione di una direzione lungo la quale deve porsi la regola per non contravvenire al valore contenuto nel principio».
[50] Sul punto v. R. Cavallo Perin, in R. Cavallo Perin, A. Romano (a cura di), Commentario breve al T.U sull'ordinamento degli Enti Locali, Padova, 2006, 365.
[51] «Per il diritto, quindi il caso non è qualcosa che debba semplicemente essere registrato ma è qualcosa che deve essere risolto. La risoluzione è richiesta dall’esistenza del problema. Come in tutti i problemi, anche i problemi giuridici devono essere “compresi” (…) Ai fini dell’applicazione (e, ancor prima, dell’individuazione tramite l’interpretazione) della regola di diritto, la comprensione del caso presuppone che se ne intenda il “senso” e gli si dia un “valore” attraverso categorie, appunto, di senso e di valore di cui disponga l’interprete. La caratterizzazione del caso alla luce di esse indicherà così in quali direzioni e in vista di quali risultati dovrà cercarsi nell’ordinamento la regola adatta ad essere applicata» (G. Zagrebelsky, Il diritto mite, cit. 187).
[52] «Il fatto, di per sé, nella sua semplice realtà storico-materiale (…) non avanza pretese, è muto e non postula alcuna “adeguatezza”. Le cose cambiano, però, una volta che tale fatto sia sottoposto a quella categorizzazione attraverso la quale esso viene “inteso”, “compreso” ed “esperito”» (G. Zagrebelsky, Il diritto mite, cit., 189).
[53] Sul punto cfr. G. Zagrebelsky, Il diritto mite, nota 29, 216. Una prospettiva ripresa da S. Cognetti, Potere amministrativo e principio di precauzione fra discrezionalità tecnica e discrezionalità pura, in AA.VV., Istituzioni di diritto amministrativo, Torino, 2017, 130; Id., Principio di proporzionalità. Profili di teoria generale e di analisi sistematica, Torino, 2011.
[54] G. Zagrebelsky, Il diritto mite, cit., 204. Il senso e la portata delle affermazioni richiamate nel testo emergono con estrema chiarezza dalle riflessioni svolte da G. Zagrebelsky, Il diritto mite, cit., il quale appunto sottolinea che «Nel concreto dell’applicazione giudiziaria, il carattere “ragionevole” del diritto viene in evidenza in entrambi i suoi momenti: nella categorizzazione dei casi alla luce dei principî e nella ricerca della regola da applicare al caso. Ragionevole è la categorizzazione dei fatti che tiene conto di tutti i principi che essi mettono in movimento; ragionevole è la regola, individuata entro le condizioni costringenti del diritto come ordinamento, che risponde alle esigenze del caso. Nella ricerca di questa complessiva “ragionevolezza” consiste l’opera di unificazione del diritto che è data come compito alla giurisprudenza».
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