ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Ponti versus muri, o muri e ponti. 2) Sting – The bridge
di Luigi Di Paola
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Sommario: 1. Dublino 1980: i Police possono attendere - 2. Leixlip Caste, Dublin Festival, Sunday 27th July at 2pm - 3. La tecnica dei Police - 4. If you love somebody set them free - 5. La musica è capace di fermare il tempo? - 6. The bridge - 7. La musica “semplificata”.
1. Dublino 1980: i Police possono attendere
Dublino odorava dell’umidità del verde, complice nella sua profondità di ascolto, svelandosi imperiosamente nell’intreccio delle strade ampie che indirizzavano ragazzi elegantemente spettinati, dapprima dondolanti per O’ Connell Street, in parchi rumorosi, arredati da “radioni” che, appoggiati alla base dei giganteschi alberi, si dimostravano seccamente inospitali verso musica solo lievemente distante dal genere “punk”.
Mi trovavo lì, nel 1980, in una classica casa di periferia a due piani con giardino, presso la famiglia McCormack, invasa da una elettricità di fondo sprigionata dal rosso fuoco dei capelli che tutti (padre, madre e tre simpatici ragazzi), pur con varie intensità, esibivano armoniosamente, ad attestare una sorta di innato calore gradevole e contagioso.
Io ero alloggiato al piano di sopra, in una confortevole camera che condividevo col mio amico Massimo C., il quale, in quel frangente, non so perché, si dimostrava molto incuriosito dalle novelle di Giovanni Verga, alla cui lettura spesso, di sera, si abbandonava ad alta voce, ben conscio del mio, oserei dire incolpevole e giustificato, disinteresse.
La mia vita, allora, era infatti occupata interamente dalla musica (senza nulla voler togliere al buon Verga, che avrei in età più matura glorificato), già dalla fine degli anni ’70 in pieno fermento per le novità introdotte dai fenomeni di “fusione”, basati sulla contaminazione parziale di generi, realizzata attraverso l’enfatizzazione di determinati movimenti armonici e fraseggi stilistici.
Il “jazz” veniva affiancato dalla “fusion”, il “soul” soppiantato dall’“easy listening” e dalla “dance”, il “rock” imbarbarito dalla “new wave” e dal “punk”.
Una sera, appena rientrato in casa con due ellepì appena acquistati (se non ricordo male, “Beggars banquet” dei Rolling Stones e “JT” di James Taylor), il figlio maggiore dei McCormack, mio coetaneo, mi chiese cosa pensassi dei Police.
Gli risposi senza imbarazzo che non ne sapevo nulla, immaginando si trattasse di qualche gruppo inglese venuto, localmente, alla ribalta sull’esempio di formazioni quali i Sex Pistols o i Clash, la cui fortuna, notoriamente, fu dovuta, almeno all’inizio, più all’aggressività di immagine e a trovate spettacolari dal vivo che ad una musica realmente convincente.
Mi mostrò, quindi, con chiaro entusiasmo, “Outlandos d’Amour”, invitandomi ad ascoltarlo e suggerendomi di prestare particolare attenzione ad alcuni brani che riteneva interessanti.
Lì per lì, pigramente, non lo feci, anche perché distratto dalla ingombrante presenza di Bob Marley, che ebbi la fortuna di vedere nel suo ultimo concerto del 10 luglio a Dalymount Park, sotto una coperta di fumo che annebbiava vista e sensi. I Police, anche se per poco, potevano attendere.
2. Leixlip Castle, Dublin Festival, Sunday 27th July at 2pm
Il caso volle che vidi pubblicizzato, in una locandina esposta in un pub, un festival che avrebbe avuto luogo a Leixlip Castle, con inizio alle due del pomeriggio, con i seguenti artisti, in ordine di “crescente” importanza: Moondogs, Skafish, Q. Tips (il cui vocalist era uno sconosciuto Paul Young), U2 (che, giovanissimi, nascevano in quel momento), John Otway, Squeeze (gruppo all’epoca molto famoso in Irlanda) ed i Police.
Un evento analogo, allora, sarebbe stato inconcepibile in Italia, ripudiata dall’intera generazione di artisti stranieri in reazione allo sgradevole trattamento riservato a Milano, nel 1975, a Carlos Santana, la cui esibizione fu malamente interrotta dalla caduta “in orizzontale” di molotov sul palco.
Con un altro mio amico (Massimo T.) ci ritrovammo in un’area enorme, nel mezzo di una folla di cui non si scorgevano i contorni: pareva Woodstock.
In serata (ma con il sole ancora alto) si presentarono Sting, Andy Summers e Stewart Copeland, carichi al punto giusto, disinvolti e comunicativi, con il mondo davanti e la musica a portata di mano; io e il mio amico eravamo in quel mondo, capitati per caso, quasi sotto il palco e con l’incoscienza e la statura dei quindicenni.
La “performance”, per quanto posso ricordare, fu strepitosa, e ne uscì subito sfatata l’idea (o pregiudizio) che ad una band di tre sole unità, per di più priva di tastierista, sarebbe inevitabilmente mancato il potenziale per suonare una musica di qualità.
La verità è che Sting usava il basso in modo anomalo, ossia non in funzione dell’armonia tracciata da uno strumento di accompagnamento, ma creando la sonorità degli accordi, nei quali si inseriva la magica chitarra di Andy Summers, con arpeggi “rivoltati” ed impiego di movimenti in “sus4”, artefici di dissonanze in rapida sequenza che si facevano beffa della consuetudine, scatenavano reazioni nervose, rivitalizzando le parti sopite della corteccia celebrale in una continua sfida all’apparato acustico, già fiaccato da ore di ascolto intenso.
Steward Copeland era un inventore di tempi sincopati, di una ricchezza ineguagliabile, con alto dosaggio di ritmi frenetici che affrancavano dall’immobilismo anche gli anziani, producendo movimenti istintivi nell’automatismo tipico del ginnasta, avvezzo alle contorsioni ed agli allungamenti muscolari.
La batteria era una, ma valeva almeno tre, e non vi era una minima parvenza di vuoto che sopravvivesse a quell’incessante rullare, tuttavia sempre pulito, regolare, capace di scongiurare antipatiche sovrapposizioni, spesso generatrici di fastidioso rumore, tra “tom” e piatti.
Nel repertorio vi erano non solo i brani del disco che il ragazzo irlandese mi aveva invitato ad apprezzare (quali “So lonely”, “Roxanne”, “Can’t stand losing you”), ma anche altri (“Message in a bottle”, “Bring on the night”, “Walking on the moon”), che poi riconobbi quali pezzi “di grido” del secondo ellepì del gruppo, “Regatta de blanc”, a me, in quel momento, parimenti ignoto, ma che ebbi subito modo di consumare al mio ritorno a casa (verificando che, effettivamente, i Police stavano spopolando anche in Italia, dove poi scalarono le classifiche con il terzo, magico album, “Zeniatta Mondatta”, l’ultimo che veramente apprezzai).
Di quel mitico concerto rimane inciso nella mia memoria anche l’avventuroso tragitto del rientro a Dublino, in compagnia di una coppia di sconosciuti che ci offrirono un provvidenziale passaggio, togliendo dal ciglio della strada me e il mio amico con i pollici alzati, oramai senza speranza e tenuti in piedi dall’incoscienza dei quindicenni, non essendovi più autobus in servizio a quell’ora.
E in macchina pensavo: “ma questo gruppo durerà? Rimarrà sempre così o si evolverà?”.
All’epoca non potevo averne consapevolezza, ma la vera domanda era: “Questi tre ragazzi saliranno sul ponte o cercheranno una vetta?”
3. La tecnica dei Police
Fin lì non si era mai assaporata una miscela di “rock” asciutto, di “raggae” altalenante e di ibrido “ska”, arricchita da continue accelerazioni e da brusche frenate che mettevano a repentaglio l’equilibrio, scosso dai singhiozzi del pedale della cassa apparentemente fuori tempo, tormentato dall’eco stridulo di una chitarra ansiosa e palpitante, vittima di una febbrile agitazione e di una smania quasi irritante, in cui ogni pennata aveva l’effetto di una violenta frustata.
Sting spingeva allora soprattutto sugli acuti, che definivano melodie secche, capricciose, mai banali, in simbiosi con il giro di basso che si muoveva rapidamente sulle note, per creare la base armonica del brano.
Era il segno di una tecnica compositiva in controtendenza, giacché non era più la tastiera o la chitarra ritmica a creare la struttura del brano mediante una successione di accordi, bensì il basso, con il quale si interfacciavano gli altri strumenti in funzione quasi ausiliaria.
Quei brani, così, erano capaci di mantenere la loro integrità anche se eseguiti solo con voce e basso, come è da ritenere che Sting li abbia concepiti.
Il solo altro caso analogo che si registra (per quanto io ricordi) nella musica di quegli anni è quello del grande Mark King, bassista di un gruppo - i Level 42 - non poco innovativo, ma sul lato “soul”; qui lo strumento non si limitava a disegnare gli accordi, ma faceva leva sullo “slap” per tessere la trama dei vari arrangiamenti.
Sta di fatto che i Police, con la loro musica, avevano dato un’autentica sferzata alla staticità del passato, e stavano già attraversando il ponte; ma, ovviamente, non potevano saperlo.
4. If you love somebody set them free
Ho sempre pensato (ma forse mi sbaglio), che la vena compositiva, per affermarsi, non possa prescindere da una lucida intelligenza, che solo è in grado di guidare il talento, di renderlo produttivo e funzionale all’opera artistica che attende di essere ideata.
Un talento con sola anima rischia di perdersi, di essere risucchiato nel marasma della molteplicità delle cose, senza poter fare breccia nelle sensibilità di chi ambirebbe ad apprezzarlo.
Ed è sempre l’intelligenza che rende conscio l’artista della fine di un momento, della conclusione di un viaggio, della necessità di immaginare nuove prospettive e di ripartire con altre aspettative, lanciando il pensiero verso idee originali, che prefigurino un tangibile e radicale cambiamento.
La carriera solista di Sting, dopo la conclusione dell’avventura con i Police, non si è mantenuta fedele ai canoni del “pop” cui il gruppo si era da ultimo legato, ma ha seguito una strada parallela, in verità già percorsa per brevi tratti in passato (in particolare con il brano “When the world is running down”), ma senza troppa determinazione.
L’intelligenza, nel suo caso, ha optato per una musica “black” di estrema potenza non disgiunta da raffinatezza, suonata con musicisti “jazz” di prim’ordine (Omar Hakim alla batteria, Darryl Jones al basso, Kenny Kirkland alle tastiere, Brandon Marsalis al sax), scandita da un ritmo trascinante e resa unica dalla voce acuta di un bianco.
“If you love somebody set them free” è stato il brano che più mi ha fatto scatenare nell’estate del 1985, ed il concerto del successivo 4 dicembre al Palaeur di Roma è stato entusiasmante, all’insegna della libertà di spirito e di testa.
Quella sera eravamo in tanti e tutti in movimento sul ponte.
5. La musica è capace di fermare il tempo?
Rivedo oggi Sting negli ultimi video su Youtube, certamente invecchiato nell’aspetto, meno incline a forzare la voce, come in passato, sulle note alte, prudente nell’assecondare la musica con i movimenti del corpo, più composto nel suonare il suo strumento.
Lo sguardo fermo e sbarazzino è tuttavia sempre lo stesso, perché è il riflesso di una intimità con la musica che non può evidentemente tramontare.
Certamente il tempo prosegue, ma con il ricordo della musica sono recuperabili istanti del passato, nella dimensione spazio-temporale originaria.
Ciò è negato da Marc Augé, il quale, anche nei suoi “Momenti di felicità’”, sostiene che lo sguardo volto all’indietro non si risolve mai nell’apprezzamento fedele di ciò che è stato, poiché la generale evoluzione della materia e le debolezze ed incertezze della memoria impediscono all’individuo di riportare al presente la nitida immagine dell’esperienza vissuta.
Tuttavia, a mio modo di vedere, vi è una sorgente capace di dare vitalità al ricordo, di ripristinare il passato nella sua versione “originale”.
Mi riferisco alla “sensazione musicale”, ossia a quell’insieme di immagini e di emozioni legate ad un vecchio brano che ci capita di risentire.
Anche il sapore del cibo torna ad essere quello del passato, lo scricchiolio dei passi, la stupidità infantile, il senso di libertà, l’odore dell’aria.
Quando riascolto i brani di Joe Jackson o di Donald Fagen chiudo gli occhi e mi ritrovo all’istante a Mykonos, nel 1983, nel bianco delle case, prosciugato dall’aridità del vento, con la vista appannata dal fumo umile e grezzo delle “MS” portate da Roma, in attesa dell’apertura dei locali notturni.
In quei momenti il passato si sovrappone al presente, mette fuori gioco l’autocontrollo e dilata la dimensione del reale.
Del resto, se proviamo ad osservare attentamente il volto dei componenti di un gruppo musicale, anche solo durante una “session” di prova, scorgiamo spesso in ciascuno di essi uno strano sorriso, che è il derivato di un coinvolgimento collettivo, prodotto da una musica che scava nel profondo, che unisce, che dal nulla crea una immediata confidenza difficilmente raggiungibile finanche tra persone che si frequentano da un’eternità.
La vera vita si cristallizza in quel brano che stanno eseguendo e le emozioni condivise creano un legame unico, che rimane inalterato nel corso degli anni.
Quelle sensazioni sono incancellabili e, mantenendo fresca la giovinezza del passato, consentono effettivamente di viaggiare nel tempo: è come attraversare, in un senso e nell’altro, un ponte.
6. The bridge
Il ponte simboleggia la via per attraversare più agevolmente luoghi impervi, che restano in basso, spesso a comporre uno scenario esaltante e destinato a sparire alla vista dell’osservatore una volta raggiunta la terraferma, per lasciare il posto ad uno scenario diverso, e, poi, ad un altro ancora.
Il collegamento tra spazi favorisce il movimento, taglia le gambe all’inerzia, offre delle opportunità di cambiamento nello scorrere della vita.
La scelta non è obbligata, perché si può anche rimanere arroccati su una vetta che garantisca la sopravvivenza, al riparo da ondate gigantesche ma vitali, lontani dalle dinamiche della realtà, spettatori dall’alto in un nido angusto, dal quale non è tuttavia possibile spiccare il volo, perché non si è pronti, non si ha abbastanza coraggio, si teme il contatto con l’imprevedibile.
Nella sua canzone (che dà il titolo all’album), Sting sembra vedere nel ponte uno strumento di salvezza o di liberazione, situato nella mente, nella disponibilità di coloro che lo scorgono e decidono di attraversarlo, lasciandosi alle spalle una città sommersa, e con essa coloro che si sono limitati a cercare il terreno più alto, alla fine comunque raggiunto dalle acque.
Nella parte finale, tuttavia, si invoca l’apertura del ponte per tutti - che consente di sfuggire, mutando luogo, alle ondate -, in uno slancio di generosità che evidentemente l’autore deve anche alla sua musicalità, che non può essere egoistica, essendo l’arte in genere inclusiva, promotrice di un senso di appartenenza che non ammette insensibilità per l’altro.
L’acqua diventa, stavolta, protagonista nel singolo “Rushing water”, il cui dinamismo evoca le atmosfere dei primi Police, con un ritornello semplice che cattura al primo ascolto, imitando quasi il suono del mare, che inonda il cervello.
Rilassarsi in acqua diventa un’esigenza vitale, perché le paure accumulate nel corso dell’esistenza, che ritornano in sogno, diventando opprimente persecuzione, possono sciogliersi solo nel liquido che svuota la mente dei vari pensieri, nemici di una serenità lontanamente accarezzata e poi rintanata in una completa amnesia.
In effetti, in gioventù, l’assenza di sovrastrutture consente di gustare anche l’ozio, di soffermarsi con profondità di sguardo anche nel vuoto, di percepire le note di un brano una ad una, come se fossero sospinte nell’aria al rallentatore.
E allora non rimane che scrutare il passato con gli occhi che avevamo, risentire le vecchie canzoni che ci accompagnavano nelle gite in macchina, fare a meno di cercare spiegazioni alle continue domande, spesso inutili, che ci stressano quotidianamente e ci spengono.
In “If it’s love” Sting si riaccosta al valore dell’inspiegabile, quale può essere un sentimento come l’amore, che non può lasciare insoddisfatti, ma deve solo stupire, attirare, rasserenare, appagare.
Cosa c’è, peraltro, di più inspiegabile della musica, del brivido che suscita in chi ne è artefice ed in chi ne è toccato, della commozione che spesso provoca anche senza ragione, del sorriso che strappa quando si manifesta in una leggera ventata di profumo.
7. La musica “semplificata”
L’evoluzione dei costumi che il perenne cammino della mente umana inevitabilmente comporta sembra oggi condurre verso una semplificazione dell’approccio alla vita, quale necessario antidoto ad un senso di soffocamento indotto dalla complessità delle cose che la scienza e la tecnologia, giorno dopo giorno, mettono a nudo.
Il concetto di semplicità, tuttavia, sembra prendere forma quale effetto non di un ripensamento di un modello di agire - reputato insoddisfacente in quanto condizionato dai variegati impulsi che, disordinatamente, provengono dall’esterno -, bensì di una mera tendenza ad impoverire il linguaggio di comunicazione, contenendo al minimo la riflessione sugli accadimenti ed attribuendo scarso peso alle esperienze vissute.
Il futuro diventa, così, una volta azzerato il passato, una corsa verso il buio, dove anche la musica, non risparmiata da questa nuova ventata di semplicità, si riduce al minimo, priva di armonia, quale misero sottofondo di un cantato aggressivo, spesso stonato e urlato.
Sennonché una semplicità così ottenuta, non filtrata da un lavoro di meticolosa selezione ed espulsione del superfluo, si risolve in appiattimento, che è l’anticamera della salita, faticosa e senza speranza, verso una nuova vetta.
Fa bene, allora, il buon Sting a non farsi abbattere dalla stanchezza e a prepararsi ad attraversare l’ennesimo ponte.
Ponti versus muri, o muri e ponti. 10) Il confine tra le cose e il coraggio di superarlo: il muro (di Berlino) oggi
di Andrea Apollonio
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Sommario: 1. Una funambolica domanda - 2. Il muro in “Good-bye Lenin” - 3. La Storia non è finita - 4. Il muro in “La spia che venne dal freddo” - 5. Dopo Berlino - 6. Il confine tra le cose e il coraggio di superarlo.
1. Una funambolica domanda
Riccardo Ehrman era nel 1989 il corrispondente dell'Ansa a Berlino. Il 9 novembre, come tanti altri suoi colleghi, era presente alla conferenza stampa del portavoce del governo della Germania orientale, Günter Schabowski, il quale stava annunciando ai media la decisione di aprire il confine tedesco per lasciar passare i cittadini che volevano andare a Ovest. Ehrman, esperto giornalista italiano con una storia di corrispondenze da ogni parte del globo, fece a quel punto la domanda più intuitiva e immediata. "Quando entra in vigore il nuovo regolamento?", chiese con disarmante semplicità. Una domanda che ancora nessun giornalista aveva rivolto al portavoce Schabowski, il quale dopo una visibile titubanza, rispose: "A quanto ne so, subito, da ora". Parole che ebbero un effetto travolgente sui cittadini della DDR, molti dei quali avevano visto la conferenza stampa in diretta tv. A migliaia affluirono immediatamente nei punti di passaggio lungo il muro per verificare se fosse vero quello che avevano sentito in televisione; da lì in poi gli eventi travolsero la Germania socialista. Ehrman, quella sera stessa, ebbe una vampata di celebrità: fu riconosciuto per le strade e fu portato in trionfo, come se fosse stato lui l'artefice di quel miracolo. In parte è così, se è vero che la sua domanda è passata alla storia come l'innesco che ha determinato la caduta del muro di Berlino. Riccardo Ehrman è morto il 14 dicembre 2021, all'età di 92 anni: la sua è stata una vita segnata da una funambolica domanda.
Una storia che sembra uscita da una brillante sceneggiatura felliniana; un sogno, quasi. E questa incredibile genesi di quegli eventi epocali ci spinge a considerare il modo, poco convenzionale, con cui affrontare il racconto dei muri, del muro (di Berlino). Si vuol dire che la caduta del muro di Berlino è un evento talmente suggestivo, di tale portata storica, economica, sociale e geopolitica che rischia di venire banalizzato, se affrontato in termini obiettivi e analitici. La forza del linguaggio artistico consente di osservare quegli eventi dietro una lente convessa onirica e deformante, eppure capace di cogliere - fellinianamente, come in un sogno - il senso dei fatti in poche immagini, in poche battute; in qualche diapositiva (la domanda di Ehrman; la comica titubanza di Schabowski). Il modo migliore per raccontare i muri, il muro (di Berlino), e di trarre alcuni possibili spunti, è appunto servirsi del linguaggio artistico tecnicamente più completo: il cinema.
2. Il muro in “Good-bye Lenin”
E nel film rivelazione "Good-bye Lenin", girato da quasi esordienti cineasti tedeschi nel 2004, la caduta del muro di Berlino è davvero raccontata come in un sogno, dentro un teatro di posa: a riprova di quale sconvolgimento emotivo, di quali tracce e solchi freudiani, abbia recato quell’episodio nelle coscienze dei cittadini della Germania e del mondo intero. Alex, il protagonista, che pure auspicava la fine del governo socialista della DDR e saluta come tutti - festeggiando - la domanda di Ehrman e la risposta di Schabowski, è in prima battuta costretto a nascondere il passaggio d’epoca alla madre, fervente sostenitrice del regime, che poco prima di quel fatale 9 novembre 1989 era stata colpita da infarto e caduta in coma, per risvegliarsi 8 mesi dopo: nel boom capitalistico che in poche settimane aveva spazzato via quarant'anni di storia.
È un film agrodolce: Alex con l’aiuto di un suo amico cineasta in erba realizza finti cinegiornali sul "caro, rassicurante, collettivista" modello socialista, da far vedere alla madre, immobilizzata sul letto, a riposo; la quale non può certo sospettare che il muro sia caduto, portandosi dietro tutto il resto: sarebbe per lei uno shock letale. Eppure Alex gradualmente, e dolorosamente, comprende che il mondo che sta costruendo ad uso e consumo della madre, come in un set cinematografico, recuperando oggetti, storie, discorsi e comportamenti del passato (di 8 mesi prima...), è forse meglio del presente: il nuovo modello di sviluppo sarà anche più colorato, più ammiccante, ma ì è anche molto più criptico, fatuo e fragile: la sorella di Alex ha trovato un lavoro precario nel Burger King appena aperto, e un giorno torna a casa con il naso sanguinante e la faccia disperata (non era questo ciò che si aspettava dal capitalismo); Alex invece sbarca il lunario vendendo truffaldinamente parabole satellitari ai nuovi tele-cittadini sempre più alienati e soli, e anche lui sembra rivalutare quel tempo andato, più grigio, forse, ma anche più chiaro e comprensibile, in cui i confini tra le cose erano più nitidi - quel modello di società semplificata e collettiva non presentava zone d'ombra. Lo stesso muro di Berlino era un confine tra le cose, tra due canoni politici ed esistenziali diversi, e c'era chi aveva il coraggio di superarlo (il padre di Alex, che nel frattempo si è rifatto una vita a Berlino Ovest) e chi no: ma anche quello era coraggio, come quello della madre di Alex, rimasta ad accudire i suoi due figli scegliendo di non avventurarsi in un viaggio esistenziale ignoto.
3. La Storia non è finita
Non si pensi che "Good-bye Lenin" non parli di noi: noi che oggi viviamo in un modello di sviluppo economico-sociale che, passando per alcuni stadi, direttamente deriva da quel passaggio epocale. L’avvento del capitalismo, questa la verità, ha innescato un processo della storia rapidissimo: al capitalismo (quello puro, yankee, per intenderci) è seguito il liberismo, al quale dopo - orientativamente - la grande crisi finanziaria della seconda metà degli anni duemila è seguito il neo-liberismo. Forme sempre più estreme di astrazione economica, finanziaria, monetaria, ma anche - ben più tragicamente - lavorativa, sociale, relazionale: la globalizzazione dei denari, delle merci e delle persone ha cambiato non solo i modelli di sviluppo ma anche - ed è questione più delicata - le nostre vite, in meglio o in peggio è difficile dirlo; o forse, non così difficile, ma è giusto mantenere una equidistanza emotiva dai processi della storia.
Non è finita - la Storia non è finita, come ha detto qualcuno - perché siamo già in una fase post-qualcosa: il neo-liberismo - che deriva dal liberismo, che deriva dal capitalismo, dilagato dopo la caduta del muro di Berlino - sembra già alle spalle, dopo la spaventosa crisi pandemica; che, ormai è chiaro, non può essere pensata come una parentesi, chiusa la quale si tornerà a vivere più o meno come prima. Già si parla di società "contact-less" e di "social-distancing" quale paradigma lavorativo, culturale, esistenziale: la pandemia c'entra, ma fino ad un certo punto, perché non possiamo negarcelo: si è trattato soltanto di una accelerazione, di una trasformazione in atto ormai da anni. E quel modello che vede l'uomo solo con se stesso (ma tra lui e se stesso c'è il diaframma dell'immagine televisiva, dello schermo del computer, del dispositivo smartphone) emergeva già nelle sue forme primigenie dietro le porte aperte all'ammiccante antennista Alex dai nuovi tele-cittadini della DDR, finalmente "soli" e alle prese con il più piacevole dei bombardamenti: quello dei telefilm americani, delle notizie incontrollate; quello dello schermo che ubriaca, stordisce e infine fa addormentare.
Ma una riflessione sul muro (di Berlino), sui muri, può essere compiuta anche ad un livello meno cupo (volendo...); più profondo, più intimo ed esistenziale, ma non per questo meno collegata a tematiche socio-generali. E questo con l'ausilio di un'altra pellicola.
4. Il muro in “La spia che venne dal freddo”
In uno dei film di spionaggio più memorabili della storia del cinema, nella "spia che venne dal freddo", rimane impressa l'ultima scena. Leamas è un esperto agente dei servizi segreti inglesi che viene inviato, dall'altra parte del muro di Berlino, nella Repubblica Democratica Tedesca, per una missione di contro-spionaggio. Semplificando: dopo varie peripezie, da questa parte del muro perviene ad una terribile verità: l'organo da cui dipende è "deviato", si è nel tempo imbarbarito e non risponde più ad alcuna funzione democratica. Riesce a disattendere gli ordini e a tornare indietro clandestinamente, ma quando si tratterà di scavalcare il muro, approfittando di un momento di distrazione dei guardiani, quando è già sul cordolo, esattamente nel mezzo, tituba e alla fine fa per tornare indietro. Deliberatamente decide di farsi ammazzare dai soldati. La pellicola e la storia presentano molte altre sfumature, s'intende, ma alla fine questa è la sostanza: Leamas è un agente segreto, ma anche una testa pensante; un idealista, che non può tollerare le subdole macchinazioni del suo lavoro e sceglie consapevolmente di non oltrepassare il muro: di non mettersi nuovamente al servizio delle spie inglesi, scegliendo al tempo stesso di non denunciare i suoi superiori, come se le cose - alcune cose - non potessero cambiare mai.
Anche questo film può sembrarci lontano dal presente, e per molti versi lo è: il blocco occidentale e quello comunista non esistono più, i servizi segreti - se ancora esistono da qualche parte - non hanno più molto da fare; e il muro di Berlino è stato abbattuto trent'anni fa. Eppure questo film è in grado di dirci molto più di quanto il tempo trascorso da quelle riprese - cinquant'anni - possa precluderci.
5. Dopo Berlino
Anzitutto, il muro: non è vero che è stato abbattuto, non del tutto almeno, perché con gli anni è diventato un luogo di memoria. I resti del muro sono ancora disseminati per la città in guisa di monumenti a cielo aperto, a perenne ricordo di chi ha perso la vita nel tentativo di riconquistare la libertà (anche Leamas, a ben vedere, tentava di riappropriarsi della "sua" libertà: ma è quella forma di libertà assoluta che prevede l'indifferenza per ciò che ci circonda: una legittima forma di libertà). Così come, del resto, sono ancora lì, e ben conservati, i lager nazisti, i ghetti ebraici o i teatri della prima guerra mondiale: oltralpe - molto più che da noi - la memoria è assurta al rango di preziosa risorsa del tempo presente, perché è la storia, è la memoria, a sorreggere i destini dell'uomo, aiutandoli a spiegare meglio il presente, a renderlo davvero intellegibile.
Poi, "La spia che venne dal freddo" è un film falsamente storiografico, nel senso che i due blocchi mondiali contrapposti - e divisi simbolicamente, ma neanche troppo, dal muro di Berlino - hanno cambiato composizione, ed hanno oggi una geometria variabile, ma sono ancora lì: vecchie potenze e nuove potenze; nord e sud del mondo; paesi ricchi e paesi poveri. Anzi, è paradossale, ma oggi ci sono molti più confini di ieri: i muri, dopo Berlino, non sono caduti, ma sembrano aumentati, in numero ed altezza (oggi sembrano davvero insormontabili). E' il frutto delle politiche capitalistiche, liberiste, neo-liberiste: e anche questo, soprattutto questo, è un paradosso. E in molti altri casi i muri, i confini, avranno forse perso il loro carattere materiale e frontaliero, ma hanno assunto un carattere mentale, psicologicamente collettivo. E questi confini, pur se debolmente tracciati sulle carte, sono i veri punti di uno scontro di civiltà in atto da almeno un decennio. Le coste dell'isola di Lesbo, ad esempio, sono confini tracciati dall'acqua, si spostano in base alle maree, le coste si offrono lì da millenni ai naviganti, eppure lì si consuma un epocale scontro di civiltà: tra chi vuole arrivare, da sud, spinto da fame e da guerre, e chi vuole respingere, a nord, spinto da irragionevoli paure per il diverso, da egoismi persino inutili da nascondere o edulcorare. E la globalizzazione, dove la mettiamo? E il neo-liberismo?
6. Il confine tra le cose e il coraggio di superarlo
Il muro di Berlino, che è poi il vero protagonista del film, è soprattutto, e per quanto si è appena detto, una metafora, peraltro ben messa in scena dal povero, idealista agente Leamas: quella del confine tra le cose e il coraggio di superarlo. Leamas, sul cordolo di quel muro, deve decidere se andare avanti o no, se imporre le sue volontà e le sue aspirazioni o lasciarsi sopraffare dalle cose - ma soprattutto dal modo in cui esse sono e si presentano. Leamas è un personaggio positivo, secondo i canoni letterari egli è un eroe, non l'antieroe: eppure deliberatamente sceglie di non oltrepassare il muro - il confine tra l'intenzione e l'azione, tra l'ideale e l'azione, tra lo sdegno e l' azione. Le "cose" di Leamas, quell'intreccio di condizioni personali e situazioni generali che fanno un sistema - ecco cosa deve mettersi in conto quando si dice di volere cambiare il "sistema"... - rimarranno intonse, e almeno da questo punto di vista la sua vita inutilmente perduta.
Sempre secondo i canoni letterari, egli è un personaggio positivo, perché certamente non è un personaggio negativo. A stare nel mezzo, e a decidere di non decidere, a volte, anzi spesso, ci si salva, agli occhi della gente. I canoni, è noto, sono la tipizzazione del pensiero comune.
Ma non a tutti basta, e non tutti si comportano allo stesso modo, davanti al muro (di Berlino, metaforicamente tale) che è davanti a noi ogni giorno. E rappresenta memoria (da praticare), paura dell'altro (da vincere), abbiamo detto; il confine delle cose e il coraggio di superarlo, abbiamo detto.
Ponti versus muri, o muri e ponti. 4) Nel Natale del covid non siamo più tanto buoni
di Giuseppe Savagnone
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Sommario: 1. Un Natale rovinato? - 2. La nuova conflittualità sui vaccini e il green pass - 3. Dagli intellettuali ai social, una guerra fratricida - 4. A Natale non siamo tutti fratelli - 5. La festa di Dio è quella dell’uomo.
1. Un Natale rovinato?
Un altro “Natale di guerra” con il covid - il secondo dallo scoppio della pandemia - mette a dura prova il clima festoso che ha sempre caratterizzato questa festa. Già la formula del “distanziamento sociale” contraddice la sua essenza, che tradizionalmente è quella di riunire intorno a una bella tavola imbandita, in un clima di serena distensione e di allegria, le famiglie disperse, gli amici lontani, tutti coloro che i ritmi inesorabili della società contemporanea hanno diviso nel corso dell’anno. E invece no: mascherine, niente abbracci, niente assembramenti, ambienti ben aereati (e quindi esposti al freddo invernale).
E questo è ancora solo un aspetto, per quanto importante, del problema. Per ciò che ormai da tempo il Natale significa nella società odierna – la celebrazione del consumismo di massa - la pandemia viene a rovinare anche l’economia, rendendo più precaria la corsa agli acquisti, i viaggi, le cene al ristorante. Anche perché il virus ha rivelato una terribile capacità di mutazione e si ripresenta in sempre nuove varianti – l’ultima è quella omicron - , facendo temere che presto non basteranno più per definirlo tutte le lettere dell’alfabeto greco.
2. La nuova conflittualità sui vaccini e il green pass
C’è tuttavia qualcosa, nel momento attuale, che colpisce più alla radice il senso del Natale. Essa ha sempre rappresentato la festa della bontà, in cui la durezza dei cuori si scioglie e lascia affiorare barlumi di solidarietà e di fraternità abitualmente soffocati dalle logiche spietate del “terribile quotidiano”.
Di questa fraternità, oggi, stentiamo molto a vedere delle tracce. Le misure approntate dai vai governi per contenere la pandemia, in particolare la campagna vaccinale e l’obbligo del green pass, hanno scatenato in diversi Paesi reazioni che vanno dal rassegnato vittimismo di chi deve sottostare a una prevaricazione dei propri più sacri diritti, a una protesta, che assume anche forme violente.
Ormai tramontate le guerre di religione, finiti anche i tempi delle contrapposizioni ideologiche, sperimentiamo con un po’ di stupore che le fratture, un tempo dovute a quelle divergenze ideali, si verificano oggi, con non minore drasticità, per la questione dei vaccini. Quello che nel vangelo si preannunziava come effetto della nuova fede - «separare l'uomo da suo padre e la figlia da sua madre e la nuora da sua suocera» (Mt 10,35) – lo stiamo oggi sperimentando per i problemi legati all’esistenza della pandemia e alle eventuali misure per il suo contenimento.
Amicizie saldissime si sono incrinate, su questi temi per la foga della reciproca polemica. All’interno delle famiglie si sono accese aspre discussioni. Nessun vaccino – anzi più in generale, nessun farmaco (nemmeno la famosa pillola anticoncezionale) – aveva forse mai diviso gli animi quanto questo.
3. Dagli intellettuali ai social, una guerra fratricida
Lo scontro non si svolge solo a livello privato, ma ha il suo riscontro pubblico a livello intellettuale. A fronte di una maggioranza della comunità scientifica che attesta la gravità del fenomeno, ci sono state persone di cultura, come il filosofo Agamben, che parlano della «invenzione di un’epidemia», con cui si sarebbe trasformata «una normale influenza, non molto dissimile da quelle ogni anno ricorrenti», in una catastrofe umanitaria, allo scopo di giustificare «frenetiche, irrazionali e del tutto immotivate misure di emergenza».
In netta contrapposizione a papa Francesco, secondo cui il vaccino «può salvare tante vite umane, non dimentichiamolo», c’è stata la durissima denunzia di mons. Carlo Viganò, arcivescovo e già nunzio apostolico negli Stati Uniti: «Ci siamo svegliati un po’ tardi, è vero, ma stiamo cominciando a capire che ci hanno ingannato per quasi due anni, raccontandoci cose che non corrispondevano alla realtà, dicendo che non c’erano cure, che si moriva di Covid, mentre uccidevano deliberatamente i contagiati per farci accettare mascherine, lockdown e coprifuoco».
Senza arrivare a questo estremo negazionismo, altri intellettuali, pur riconoscendo l’utilità dei vaccini, si sono schierati contro l’obbligo del green pass. È il caso di Massimo Cacciari, che ha firmato insieme ad Agamben una lettera in cui si denunzia il pericolo che l’introduzione dell’obbligatorietà del green-pass dia luogo alla «discriminazione di una categoria di persone, che diventano automaticamente cittadini di serie B», creando una situazione che è tipica dei regini totalitari. «Un fatto gravissimo, le cui conseguenze possono essere drammatiche per la vita democratica».
È anche il caso dei 300 docenti universitari - tra cui il noto storico Alessandro Barbero - che, invocando analoghe motivazioni, hanno firmato una lettera in cui si dichiara «ingiusta e illegittima la discriminazione introdotta ai danni di una minoranza, in quanto in contrasto con i dettami della Costituzione (art. 32: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana).
Anche se queste posizioni sono state fin dall’inizio decisamente contestate dalla maggioranza del mondo universitario, che parla di assurdo “complottismo” e di misconoscimento delle ragioni della scienza, i no-vax e no-pass non demordono e l’8 dicembre scorso, a Torino, hanno celebrato un convegno seguito da quasi tremila persone, in cui si è costituita una «Commissione dubbio e precauzione» col compito di sostenere la loro causa.
Non si tratta di un dibattito limitato agli ambienti intellettuali. Basta andare sui social per scoprirne le vastissime risonanze mediatiche. Con toni tutt’altro che rispettosi e dialogici. Fino al punto di pubblicare su Telegram l’indirizzo dell’abitazione romana del premer Draghi, con un minaccioso invito a ritrovarsi ogni sera davanti al suo portone.
La guerra del covid si è trasformata, insomma, in una guerra fratricida e assolutamente trasversale, che lacera le nostre società e rende problematica la serenità della convivenza, soprattutto in un momento in cui la pandemia e le misure sanitarie sono di fatto, ormai da mesi, l’argomento prevalente sia sui mezzi di comunicazione sia nelle conversazioni private. Per non rovinare il cenone di Natale sarà meglio, quest’anno, parlare del tempo e dei mutamenti climatici…
4. A Natale non siamo tutti fratelli
Ma la più grave smentita dello spirito natalizio è forse quella che viene dallo stile con cui la risorsa dei vaccini è stata finora gestita dalle società opulente, le quali, al di là di dichiarazioni prevalentemente retoriche, non hanno fatto quasi nulla per aiutare i Paesi poveri ad averne la quantità necessaria per le loro rispettive popolazioni.
«Il cartello di associazioni sanitarie e umanitarie People’s Vaccine Alliance denuncia che, rispetto agli 1,8 miliardi di dosi promesse al fondo Covax, nato per distribuire vaccini ai Paesi più poveri, al momento ne sono arrivate 261 milioni, solo il 12%» (A. L. Somoza, Vaccini ai paesi poveri, promesse da marinaio, su «Huffington Post», 26 ottobre 2021) .
E stenta ancora moltissimo a passare la richiesta di una moratoria dei diritti di proprietà intellettuale dei vaccini, proposta già nell’ottobre 2020 da India e Sudafrica e sostenuta energicamente da papa Francesco nella sua battaglia contro i “muri” che dividono i poveri dai ricchi
Si tratta, infatti, di una misura tesa a superare la logica capitalista dei monopoli con cui le grandi case farmaceutiche impediscono ai Paesi in via di sviluppo di produrre autonomamente i vaccini necessari a combattere la diffusione della pandemia.
Non tutti sanno che ad opporsi strenuamente da mesi a questa svolta è, insieme a Gran Bretagna, Svizzera e Canada, la Commissione Europea la quale, in alternativa, ha proposto che delle «licenze volontarie per il trasferimento di tecnologie alle aziende nei Paesi del Sud del mondo» venga effettuata dalle multiazionali farmaceutiche «in cambio di abolizione delle restrizioni commerciali, abbattimento delle barriere doganali, facilitazioni fiscali. Così i monopoli sono salvi» (N. Dentico, Covid. Vaccini. La Terza via dell’Europa mette all’angolo i Paesi poveri, su «Avvenire» 27 novembre 2021).
E questo mentre la stessa Commissione elaborava delle linee-guida, poi ritirate, in cui, per combattere ogni forma di discriminazione, si chiedeva ai suoi dipendenti di attenersi ad un «linguaggio inclusivo», da cui bandire nomi propri come Maria e Giovanni, perché presenti nella Bibbia, ed espressioni come “buon Natale”, da sostituire con “buone festività”, per rispetto alle culture non cristiane. Come se l’inclusività potesse realizzarsi annullando le differenti identità, invece che trattandole tutte con un rispetto che include la solidarietà.
Vecchia, ipocrita Europa senza più anima - un tempo cristiana e ora neppure umana! Altro che spirito di fraternità! Certo, la tristezza per questa perdita non può e non deve far dimenticare tanti meriti che, malgrado tutto, la rendono preziosa e che continuano ad alimentare la speranza di una sua rinascita. Peraltro, quello che il Natale richiederebbe non è un buonistico altruismo, ma la cura intelligente del suo stesso bene. Come è evidente nel caso dei vaccini. Gli immunologi sostengono che le varianti nascono e proliferano laddove la campagna vaccinale stenta a decollare. L’affacciarsi della versione omicron del covid, devastante per tutti, è dunque anche una conseguenza di questo miope egoismo dell’Occidente che, come tutti gli egoismi, alla fine non paga.
5. La festa di Dio è quella dell’uomo
Il “muro” che divide i Paesi ricchi da quelli poveri in tema di vaccini è solo un caso dei tanti, tutti drammatici sul piano umano, di cui le cronache di queste settimane sono piene. Basti pensare al dramma dei migranti ammassati alla frontiera tra Bielorussia e Polonia, o a quello dei profughi di Lesbo, in riferimento a cui papa Francesco ha parlato di un «naufragio di civiltà»…
Il rinnegamento delle sue radici cristiane da parte dell’Europa, in ogni caso, non le stia portando fortuna. Si può non credere nel vangelo per fede, ma esso per secoli ha dimostrato la capacità di evidenziare i valori dell’umano (magari anche contro la Chiesa istituzionale, che è stata sempre più lenta a riconoscerli). La fraternità è uno di questi valori, come papa Francesco, nella sua enciclica «Fratelli tutti», ha voluto sottolineare. Il Natale ne è un simbolo eloquente.
Resta, per chi è aperto all’ascolto, il richiamo del messaggio cristiano ad un evento che non si presenta solo come un episodio del passato, di cui fare memoria, al pari della presa della Bastiglia o della proclamazione della Repubblica italiana, ma come una prospettiva di senso che può illuminare il futuro. Che Dio abbia voluto diventare uomo, che abbia condiviso la vita di ogni essere umano, specialmente dei più poveri, è una verità difficile da credersi – lo “spaventato”, colpito dalla follia per quello che accadeva, in fondo è l’unico personaggio del presepe che abbia realizzato l’inconcepibilità di ciò che stava accadendo - , ma sicuramente carica di significato. Alla luce del Natale, in ogni persona è possibile riconoscere il Suo volto divino: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me»» (Mt 25,40). Questa è la festa Dio, ma anche quella dell’uomo, soprattutto di chi è povero e debole.
Per questo, forse, al di là del discutibile intento dichiarato, aveva una sua logica l’idea della Commissione Europea di cancellare ufficialmente dal suo vocabolario il termine “Natale”.
Sui limiti e poteri del giudice dell’ottemperanza in ordine al giudicato civile di condanna (nota a Consiglio di Giustizia amministrativa per la regione siciliana, 28 giugno 2021, n. 623)
di Carmine Filicetti
Sommario: 1. Premessa - 2. Cenni storici - 3. Prospettiva costituzionale ed europea - 4. I beni aggredibili nel processo di esecuzione - 5. Limiti al potere sostitutivo del commissario ad acta - 6. La non alternatività del giudizio esecutivo a quello di ottemperanza.
1. Premessa
Nell’arte di ragionare kantiana compariva il celebre verso “fiat iustitia et pereat mundus”, pensiero rivisitato e corretto dal sagace Hegel che, riscrivendolo, né cambio i connotati in “fiat iustitia ne pereat mundus, vale a dire “sia fatta giustizia perché non perisca il mondo” [1]; negare il perimento equivaleva e fare giustizia, fare giustizia significava sanzionare o, per dir si voglia, eseguire.
Sebbene nella dialettica hegeliana il riferimento è certamente ascrivibile alla pena criminale è, altrettanto, semplice mutuare il punto di vista del filosofo direzionandolo sul tema dell’attuazione del diritto.
È noto che, il tanto agognato e, talvolta, faticosamente conquistato giudicato civile[2], definito nella sua portata sostanziale dall’art. 2909 del codice civile e sotto il profilo formale dall’art. 324 del codice di procedura civile, trova non pochi freni alla sua corretta esecuzione utile al soddisfo dei consociati.
A tal proposito, tale commento vuole soffermarsi, ancora una vota, sul delicato tema dei rapporti intercorrenti tra il giudicato civile e l’esecuzione dello stesso dinanzi al giudice dell’ottemperanza[3].
La statuizione della C.G.A.R.S. è, infatti, frutto di una controversia relativa all’esecuzione, da parte di una società in liquidazione, di un decreto ingiuntivo, emesso dal Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, a favore di altra società. Il titolo da ottemperare veniva portato dinanzi al Tar Sicilia – Catania che, con sentenza, dichiarava l'obbligo di dare esecuzione al predetto titolo entro il termine di sessanta giorni, nominando Commissario ad acta il Prefetto di Messina, con facoltà di delega, per provvedere in via sostitutiva rispetto all’Amministrazione intimata entro il successivo termine di giorni sessanta dal suo insediamento.
Successivamente, il Commissario ad acta depositava la propria relazione dalla quale emergeva l’incapienza dei fondi della società in liquidazione e, a tal proposito, il Tar Sicilia – Catania, con ordinanza dichiarava estinta la procedura di esecuzione del giudicato ritenendo esaurito il giudizio di ottemperanza.
La società soccombente, bramosa di ottenere l’equo soddisfo, appellava la predetta ordinanza, nella parte in cui il Tar ha dichiarato l’estinzione della procedura esecutiva; il Consiglio siciliano disponeva gli incombenti istruttori, di cui ha onerato l’Assessorato regionale dell’energia e dei servizi di pubblica utilità e il Commissario liquidatore della società in liquidazione e da tali attività emergeva una relazione a cui facevano seguito, per il completamento dell’istruttoria, ulteriori relazioni del Dipartimento regionale dell’acqua e dei rifiuti, esaurita l’istruttoria il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, respingeva definitivamente l'appello, per i motivi che meglio si tratteranno nel prosieguo.
2. Cenni storici
In una prospettiva storica, il giudizio di ottemperanza[4] nasceva in stretta correlazione con l’attribuzione al giudice ordinario[5] del potere della disapplicazione. Tale giudizio è, quindi, figlio dell’esigenza di garantire una più incisiva tutela rispetto al provvedimento illegittimo, ma nel rispetto del principio della separazione dei poteri.
L’obbligo di conformarsi al giudicato civile è stato, in origine, concepito come obbligo dell’Amministrazione di annullare l’atto amministrativo disapplicato, annullamento precluso al giudice ordinario in virtù del principio di separazione dei poteri[6].
Nel corso del tempo, dopo che la giurisprudenza ha esteso il rimedio anche alle sentenze delgiudice amministrativo, regola oggi contenuta nell’art. 112 c.p.a., il giudizio di ottemperanza ha visto accentuarsi la funzione, strettamente connessa al riconoscimento della giurisdizione dimerito, di sostituzione dell’Amministrazione (inottemperante) al fine di assicurarel’adempimento della pronuncia giurisdizionale, pur nella consapevolezza che detta sostituzione non avviene nell’esercizio del potere di cura dell’interesse pubblico attribuito dalla legge, masolo con riferimento al decisum ottemperando (trovando titolo nella sentenza medesima).
3. Prospettiva costituzionale ed europea
La sentenza in commento, ripercorrendo le ragioni poste a fondamento della decisione offre notevoli spunti in chiave costituzionale e chiarisce a mezzo del dictum della Corte Costituzionale i confini della questione: “il giudizio di ottemperanza non deve necessariamentemodellarsi sul processo esecutivo ordinario, attese le peculiarità funzionali del giudizioamministrativo (esteso al merito) con potenzialità sostitutive e intromissive nell'azione amministrativa, non comparabili con i poteri del giudice dell'esecuzione nel processo civile“[7].
In sostanza, si precisa che non esiste un principio costituzionalmente rilevante di necessaria uniformità di regole processuali tra i diversi tipi di processo (civile e amministrativo), potendo i rispettivi ordinamenti processuali differenziarsi sulla base di una scelta razionale del legislatore, derivante dal tipo di configurazione del processo e dalle situazioni sostanzialidedotte in giudizio, “naturalmente a condizione che non siano vulnerati i principi fondamentalidi garanzia ed effettività della tutela”[8].
Chiarita la non incostituzionalità, di una configurazione del giudizio di ottemperanza, nonaderente allo schema del processo esecutivo civile, la sezione sottolinea come il legislatoreabbia delineato i due modelli fortemente diversificati: se da un lato il giudizio d’ottemperanza rappresenta il punto di caduta più avanzato del confronto fra il principio di effettività della tutela e il principio di separazione fra i poteri, dall’altro il giudizio esecutivo richiama in causa, oltre al principio di effettività della tutela, i diritti fondamentali della proprietà sui beni (e i crediti).
Il bilanciamento di tali principi, nel caso di specie, è funzionale all’effettività della tutelagiurisdizionale, garanzia riconosciuta dall’art. 24 Cost., che permette di poter agire in giudizio per la tutela dei propri diritti, tutela che ovviamente comprende anche la fase dell’esecuzione forzata[9].
È indubbio che la tutela in sede esecutiva sia componente essenziale del diritto di accesso algiudice: l’azione esecutiva rappresenta uno strumento indispensabile per l’effettività della tutela giurisdizionale poiché risulta essere l’unico mezzo capace di soddisfare le pretese creditorie in mancanza di adempimento spontaneo da parte del debitore.
Ancora, sottolinea la sezione, come la fase di esecuzione coattiva delle decisioni digiustizia, proprio in quanto componente intrinseca ed essenziale della funzionegiurisdizionale, deve ritenersi costituzionalmente necessaria[10] , in ragione del fatto che “ilprincipio di effettività della tutela giurisdizionale […] rappresenta un connotato rilevante diogni modello processuale”[11] .
In riferimento alle norme europee[12], il giudice si sofferma, poi, sull’ambito di applicazionedegli artt. 6 e 13 della CEDU, che comprende a sua volta il diritto all’esecuzione di una decisione giudiziaria, che è uno degli aspetti del diritto d'accesso alla giustizia[13], quale dirittonon assoluto, che è declinato dallo stato con un certo margine di apprezzamento, da esplicarsi in modo da non comprimere il diritto “nella sua stessa sostanza”. Pertanto “la limitazione si concilia con l’articolo 6 § 1 solo se persegue un fine legittimo, e se esiste un rapporto ragionevole di proporzionalità tra i mezzi impiegati e il fine perseguito”[14].
Tali doverosi e necessari preamboli normativi fungono per le successive valutazioni di merito analizzate dal Consiglio.
4. I beni aggredibili nel processo di esecuzione
L’attenzione della sezione si sposta, poi, sulla questione giuridica proprietaria, “evoluta dalla concezione assolutistica quale dominio inviolabile ed esclusivo che ha imperato per lunghissimo tempo nel diritto positivo e nel pensiero giuridico, ad un ripensamento critico, che è stato inizialmente positivizzato dalla Costituzione di Weimar (dove ha trovato riconoscimento quale diritto fondamentale ma non inviolabile), dal codice civile italiano del 1942 e dalla Costituzione italiana, che ha preso in considerazione anche l’interesse pubblico coinvolto nella situazione giuridica dominicale e la relativa istanza di partecipazione democratica o comunque i vari interessi coinvolti dalla titolarità di un bene (di modo da delineare una varietà di statuti proprietari)”.
Il giudice, al fine di pronunciarsi sulla controversia, muove le sue mosse dalla responsabilitàpatrimoniale di cui all’art. 2740 c.c[15], fondata sul rapporto di prevalenza del credito sui beni di proprietà del debitore. Successivamente partendo dagli assunti di cui all’art. 2910 c.c. (norma che inaugura una serie di disposizioni inerenti all'espropriazione forzata, rivolte ad ottenere una realizzazione in forma coattiva del diritto di credito, per garantire la tutela del creditore insoddisfatto) specifica quelle che sono le precise attribuzioni che fanno capo al creditore ovvero la facoltà spettante a quest’ultimo consistente non nel diritto di espropriare i beni in via immediata, ma della possibilità – in via mediata - di azionare i mezzi che l’ordinamento fornisce al fine di far espropriare quei beni.
In sostanza, parafrasando l’ultimo inciso, si comprende come il creditore sia fornito di un solo potere di natura processuale, attuabile verso lo Stato, che si fa da garante dell’effettività della tutela del credito.
La via maestra è certamente il giudizio esecutivo, crocevia fra principio di effettività della tutela e diritti fondamentali della proprietà sui beni (e i crediti) e il successivo giudizio diottemperanza, anch’esso intriso del principio dell’effettività della tutela ma caratterizzato anche da quello della separazione dei poteri[16].
Il consiglio, dunque, sancisce come sia di vitale importanza il posizionamento dei due rimedi -giudizio d’ottemperanza e processo esecutivo civile - riguardo ai principi fondamentali che essi tutelano; da ciò discende, a cascata, la logica ricaduta nella diversità dei poteri attribuitial giudice dell’ottemperanza e al giudice civile dell’esecuzione, dal momento che al secondo è accordato il potere di aggredire i beni del debitore, entrando nella sfera della proprietàaltrui, mentre al primo è riconosciuto il potere sostitutivo, capace di alterare il principio dellaseparazione fra i poteri.
5. Limiti al potere sostitutivo del commissario ad acta
Peculiarità del giudizio di ottemperanza è quella di avere al suo interno un meccanismo sostitutivo, capace di contemperare fra l’esigenza di assicurare una tutela effettiva ed il principio di separazione dei poteri.
Nella sentenza in commento, il giudicante si è interrogato sulla misura del confine dell’ambito dei poteri (sostitutivi) del giudice di ottemperanza e di quelli facenti capo allo stesso commissario ad acta, organo straordinario appunto del giudice d’ottemperanza. Il solco del perimetro dei compiti di quest’ultimo è stato, tra l’atro, oggetto di recente adunanza plenaria che ne ha stabilito i margini indicando quale limite quello di coincidere “con i confini della giurisdizione del giudice che lo ha nominato e nel cui ambito il commissario agisce”[17].
Il Commissario ad acta, dunque, essendo organo straordinario del giudice, deputato adadottare, in luogo dell’Amministrazione, gli atti e i provvedimenti tipici di quest’ultima, diviene intestatario dei soli poteri che facevano capo all’amministrazione inottemperante. Esso, in sostanza, essendo una proliferazione del giudice dell’ottemperanza, può muoversi solo e soltanto entro le soglie degli atti che farebbero capo al giudice stesso e dell’Amministrazione dalla quale il giudice dell’ottemperanza mutua i propri poteri attraverso il riconoscimento della giurisdizione di merito. Non a caso, l’Adunanza plenaria già citata, ha affermato che “ilcommissario ad acta potrà essere chiamato ad adottare atti dalla natura giuridica e dal contenuto più vari: da quelli volti al pagamento di somme di denaro, cui l’amministrazione èstata condannata, ai provvedimenti amministrativi di natura vincolata, che trovano già nella sentenza che ha concluso il giudizio di cognizione la propria conformazione; fino aiprovvedimenti di natura discrezionale, che solo eventualmente possono trovare nellasentenza ragioni e limiti della valutazione e della scelta che il commissario deve effettuare in luogo dell’amministrazione” (25 maggio 2021 n. 8), così indicando proprio nel compimento diatti giuridici la tipica funzione del giudizio di ottemperanza e del Commissario ad acta.
Dunque, in termini generali, il potere amministrativo da sostituire rappresenta non solo il limite dell’intervento del giudice dell’ottemperanza ma anche l’aspetto che lo connota, di talché, allorquando non si tratta di esercitare detto potere, viene meno la stessa ragion d’essere del rimedio di cui agli artt. 112 e ss. c.p.a, e che l’unico spazio di manovra lasciato dal giudizio d’ottemperanza, riguarda i soli casi in cui l’adempimento della sentenza richiede l’adozione di atti esecutivi sui beni e/o sui crediti del debitore.
6. La non alternatività del giudizio esecutivo a quello di ottemperanza
L’aspetto che connota la presente decisione, è utile a sottolineare come la diversità fra i duegiudizi - esecutivo e di ottemperanza – sia caratterizzata da aspetti tipici, che vengonoevidenziati con specifico riferimento all’adempimento del decisum del giudice civile[18].
Quanto ai limiti soggettivi, il giudice, si limita a rilevare il soggetto pubblico che può essere sostituito dal giudice dell’ottemperanza e/o dal Commissario ad acta, restando, tuttavia vincolato agli stessi limiti del giudicato di condanna che, di fatto, impediscono al giudicedell’ottemperanza di incardinare il Commissario ad acta presso un soggetto pubblico terzo; di contro il giudice civile dell’esecuzione, invece, dispone di tali poteri, potendo coinvolgerenell’esecuzione anche il debitore terzo, anche se di natura pubblicistica.
In riferimento alle differenze poste in relazione ai limiti oggettivi, viene rilevato come rispetto all’esecuzione delle sentenze del giudice civile - sia nella forma dell'espropriazione forzata mobiliare e immobiliare, sia nelle forme per consegna o rilascio ovvero per violazione di un obbligo di fare o di non fare - è del tutto ininfluente il mancato passaggio in giudicato dellasentenza o provvedimento giudiziale purché esecutivo; situazione nettamente contraria in riferimento ai presupposti per azionare il giudizio ti ottemperanza, in quanto trattasi di circostanza necessaria.
Chiarite le differenze di tipo oggettivo-soggettivo dei due giudizi, la sezione si sofferma a catalogare, in maniera ancor più analitica, quella che è la natura del giudizio di ottemperanza, definendola “polisemica”, in quanto dotata sia di poteri esecutivi che di cognizione[19].
Ancora, ulteriore differenziazione tra i due giudizi è visibile nelle diverse facoltà attribuite ai due diversi giudici: il giudice dell’ottemperanza può offrire una tutela in forma specifica, attraverso il meccanismo sostitutivo al fine di arrivare all’’adozione del provvedimentoamministrativo che soddisfa l’interesse sostanziale inizialmente leso; il giudice dell’esecuzione è, invece, attrezzato per aggredire il patrimonio del debitore.
Tali considerazioni, sono fondamentali per comprendere che non si è certo difronte ad un sistema a doppio binario di tutele, in quanto, se è pur vero che il privato ha a disposizione due rimedi, la scelta fra le due azioni non è indifferente, poiché diverse sono le pretese e le risultanze, alle quali si potrà arrivare adendo l’una piuttosto che l’altra giurisdizione.
Il thema decidendum, del caso affrontato dalla C.G.A.R.S., è essenzialmente fondato sul pagamento di una somma di danaro, contenuta in un decreto ingiuntivo diventato esecutivo.
Precisa la sezione, però, che i poteri attribuibili al giudice dell’ottemperanza, nell’eseguire il pagamento di una data somma possono limitarsi alla sola adozione degli atti della procedura contabile di spesa, atti che facevano capo all’amministrazione stessa, di cui il giudice assume i poteri e che risultano gli unici esperibili da parte di quest’ultimo, sicché la polisemicità del giudizio e dell’azione di ottemperanza viene ridotto, in tal caso, ad uno spazio marginale.
Ebbene, le pretese della società ricorrente, non potevano trovare accoglimento dinanzi al giudice amministrativo, semplicemente poichè la sola adozione di atti di mera natura contabile non risulta in alcun modo sufficiente, in quanto ci troviamo al cospetto di una società incapiente.
D’altro canto, il reperimento delle risorse, a mezzo del pignoramento presso terzi, non è attività attribuibile al giudice dell’ottemperanza, in quanto, per come sin ora esposto, non ha al suo interno poteri utili ad incrementare il patrimonio dell’amministrazione.
Invero, l’Amministrazione risulta avere poteri esecutori soltanto sui propri beni, poteri che, di riflesso, sono identici a quelli assunti dal giudice dell’ottemperanza a mezzo del meccanismo sostitutivo.
In sintesi, si può massimare la sentenza in questione affermando che: non è attività conoscibile dal G.A quella utile al reperimento delle risorse necessarie per l’esecuzione coattiva della condanna al pagamento di una somma di denaro; l’esecuzione del giudicato si trova dinanzi ad un limite intrinseco e ineliminabile, che è logico e pratico, ancor prima che giuridico, “nel sopravvenuto mutamento della realtà fattuale o giuridica tale da non consentire l’integrale ripristino dello status quo ante”[20] .
In tale prospettiva, il Commissario ad acta, in alcun modo è adibito al pignoramento dei creditiin quanto egli, essendo longa manus del giudice dell’ottemperanza che a sua volta sisostituisce all’Amministrazione, non ha alcun potere e nessuna pretesa di adoperarsi perchéaltra autorità giudiziaria provveda ad assicurare la tutela del diritto.
Ulteriore distinzione viene, poi, affrontata sulla natura del Commissaria ad acta, in contrapposizione alla figura del Commissario liquidatore, che invece, in virtù di una precisa previsione normativa[21], assume la qualifica di pubblico ufficiale ed è deputato, quindi, a svolgere tutte le operazioni della liquidazione[22] e, a tal fine, è legittimato ad agire in giudizio nel perimetro delle prerogative liquidatorie[23].
Infine, poiché oggetto della pronuncia in commento, è un decreto ingiuntivo divenuto definitivo e contenente un ordine di pagamento e giacché la peculiarità della vicenda insiste sulla assenza di risorse disponibili presso la società esecutata, il giudice chiarisce che, in alcun modo può essere posta questione alcuna relativa all’adozione degli atti contabili.
Inoltre, il Commissario ad acta ha fatto salva la possibilità che tali risorse possano essere reperite attraverso i Comuni, che risultavano soci della società e che l’esecuzione del decreto ingiuntivo necessita esclusivamente di attività e poteri del giudice civile funzionali all’aggressione dei crediti del debitore verso i terzi, attività consistenti nel pignoramento presso terzi, azionabile dalla parte privata.
In alcun modo può essere chiesto al giudice dell’ottemperanza l’attuazione del pignoramento dei crediti presso terzi, ex art. 543 c.p.c., attività mai configurabile come atto amministrativo.
Ulteriormente, la decisione di ritenere esaurito il giudizio di ottemperanza, non determina un vulnus al principio di effettività della tutela in quanto è fatta salva la possibilità di poter procedere tramite i rimedi processuali, civilistici, utili per far valere le pretese creditorie potendo il soggetto interessato, ancora, avvalersi dell'azione esecutiva ordinaria perespropriazione forzata in base a sentenza esecutiva contenente condanna al pagamento disomma di denaro[24].
[1] I. KANT, Per la pace perpetua, Feltrinelli, Milano 2003, p. 93; G.F.W. HEGEL, Lineamenti di Filosofia del diritto, Laterza, Bari 1965, § 130, p. 120.
[2] Sul tema del giudicato: A. Romano Tassone, Sulla regola del dedotto e deducibile nel giudizio di legittimità, in www.giustamm.it; M. Clarich, Giudicato e potere amministrativo, Padova, 1989.
[3] Per una più completa ricostruzione dell’istituto dell’ottemperanza e del rapporto con giudicato civile si veda: F. Francario, Il giudizio di ottemperanza. Origini e prospettive, in Il Processo, 3/2018, 171-215, Id., Giudicato e ottemperanza, in F. Francario, Garanzia degli interessi protetti e della legalità dell’azione amministrativa, sez. II, Napoli, 2019.
[4] Cfr., A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2018; F. Manganaro, Il giudizio di ottemperanza come rimedio alle lacune dell’accertamento, in La sentenza amministrativa ingiusta ed i suoi rimedi, F. Francario - M.A. Sandulli (a cura di), Napoli, 2018, 119 e ss.; A. Storto, Il giudizio di ottemperanza come rimedio alle lacune dell’accertamento, 139 e ss.; A. Police, Giudicato amministrativo e sentenze di Corti sovranazionali. Il rimedio della revocazione in un’analisi costi benefici, 181 e ss; G. Montedoro, Esecuzione delle sentenze CEDU e cosa giudicata nelle giurisdizioni nazionali, 199 e ss.
[5] Gli artt. 4 e 5 della legge 20 marzo 1865 n. 2248, comprendevano il sindacato sugli atti amministrativi ai fini della tutela dei diritti soggettivi perfetti, che si traduceva nel solo istituto della disapplicazione, in conformità al principio di separazione dei poteri (alla base anche della devoluzione, nel 1889, alla IV Sezione del Consiglio di stato, collocata appunto inizialmente nella sfera del potere esecutivo lato sensu, e non al giudice ordinario, del potere di annullare gli atti amministrativi).
[6] Con l’istituzione della IV Sezione del Consiglio di Stato si ritenne quindi di offrire un rimedio “alla parte che non si contenta degli effetti civili della decisione dell’autorità giudiziaria, il mezzo di far cadere interamente il provvedimento illegittimo dell’autoritàamministrativa” (Relazione del Governo al progetto di legge, poi approvato come legge 31 marzo 1889 n. 5991).
[7] Corte cost. 12 dicembre 1998, n. 406.
[8] Corte cost. 15 settembre 1995 n. 435.
[9] Corte cost. 22 giugno 2021 n. 128.
[10] Sentenza n. 419 del 1995.
[11] Corte cost. 5 dicembre 2018 n. 225.
[12] Nelle fonti dell’Unione europea il diritto alla tutela giurisdizionale effettiva è stato positivizzato negli articoli 47 della Carta diNizza e 19 del Trattato sull’Unione europea. In più occasioni la Corte di giustizia ha esplicitamente affermato che quellodell’effettività della tutela giurisdizionale è un principio generale dell’ordinamento giuridico dell’Unione (Corte giust. 16 luglio2009, causa C-385/07 P, Der Grüne Punkt Duales System Deutschland/Commissione, Corte giust. 1 marzo 2011, causa C-457/09,Chartry,; Corte giust. 22 dicembre 2010, causa C-279/09).
[13] Corte EDU 19 marzo 1997, causa Hornsby c. Grecia.
[14] Corte EDU 16 ottobre 2007, causa De Trana c. Italia.
[15] Responsabilità che, a partire dalla pronuncia della Corte cost. 21 luglio 1981 n. 138, investe anche la pubblica amministrazione.
[16] Sul tema, R. Dagostino, Ottemperanza al giudicato civile: interpretazione, integrazione o sostituzione del giudicato? (nota a Consiglio di Stato, Sez. III, 7 luglio 2020, n. 4369), in giustiziainsieme.it.
[17] Ad. plen. 25 maggio 2021 n. 8.
[18] A tal proposito, nella sentenza in commento si legge a chiare lettere che “diverso è il profilo soggettivo della tutela, atteso che nel processo esecutivo civile è indifferente la natura del soggetto che agisce in giudizio, laddove il giudizio di ottemperanza avente ad oggetto il giudicato civile è teso a coartare l’adempimento dell’Amministrazione, come è evincibile dall’art. 112 comma 2 lett. c) c.p.a., benché si collochi a valle di obblighi esecutivi gravanti sulla parte pubblica e sulla parte privata ai sensi dell’art. 112 comma 1 c.p.a.”.
[19] Ad. plen. 15 gennaio 2013 n. 2.
[20] Ad. plen. 9.6.2016 n. 11.
[21] Art. 199 l. fall.
[22] Art. 204 l. fall.
[23] Cass. civ., sez. II, 17 dicembre 2019 n. 33422.
[24] Corte cost. 12 dicembre 1998, n. 406.
La risarcibilità del danno da perdita di chance (nota a Consiglio di Stato, Sez. VI, 13 settembre 2021, n. 6268)
di Ilaria Genuessi
Sommario: 1. Il caso di specie. – 2. La questione di diritto. – 3. La risarcibilità del danno da perdita di chance quale frutto di una lenta evoluzione interpretativa. – 3.1. Cenni sull’affermazione della risarcibilità della chance nell’ambito del diritto privato. – 3.2. Il percorso verso la risarcibilità della chance nel diritto amministrativo alla luce della nozione di interesse legittimo e della tutela mediata del bene della vita. – 3.3. Gli approdi giurisprudenziali più recenti. – 4. La ricostruzione interpretativa del Consiglio di Stato nella pronuncia in commento. – 5. Alcune riflessioni conclusive.
1. Il caso di spece.
La questione presa in esame dal Consiglio di Stato nella pronuncia che si annota si pone come particolarmente articolata in ragione di una serie di aspetti, tra i quali, certamente, la stessa complessità della tematica oggetto della vicenda, ovvero l’affidamento della gestione del servizio di trasporto pubblico locale.
Tale ambito, infatti, come noto, è stato interessato da profondi mutamenti nel corso del tempo, così come da evidenti e persistenti criticità, come rilevato, peraltro, nella medesima pronuncia in commento[i].
In tal senso, incide in misura rilevante la stratificazione normativa registratasi a proposito dello specifico servizio pubblico locale in questione, generatasi anche in conseguenza della presenza di diversi attori sul piano dell’individuazione della disciplina: nel caso di specie, in particolare, non soltanto il legislatore europeo e nazionale, ma altresì le ulteriori previsioni normative dettate, con riguardo al trasporto pubblico locale, dalla Regione Autonoma Trentino-Alto Adige e, ancora, in relazione alla fattispecie in esame, dalla Provincia autonoma di Bolzano, in ragione della competenza primaria in materia di trasporto di interesse provinciale riservata dallo Statuto Speciale per il Trentino-Alto Adige alla suddetta Provincia autonoma[ii].
Si ritiene, dunque, preliminarmente, di dover prendere in esame e ricostruire con precisione i principali passaggi, in fatto, della vicenda.
Il primo grado di giudizio, in particolare, aveva ad oggetto l’impugnazione, ad opera di un consorzio stabile operante sul territorio della Provincia autonoma di Bolzano nel settore del trasporto pubblico, della deliberazione della Giunta provinciale recante ulteriore proroga, peraltro in prossimità della scadenza di seconda proroga già disposta, del servizio di trasporto pubblico locale extraurbano, in favore dei due operatori economici già concessionari del servizio dagli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso.
Mediante il ricorso, in particolare, si chiedeva l’annullamento dei provvedimenti impugnati, oltre che la dichiarazione di inefficacia della predetta proroga, ex art. 121 c.p.a. e, in aggiunta, la condanna dell’amministrazione resistente al risarcimento del danno per perdita di chance, questione peraltro trattata ampiamente nella parte in diritto della pronuncia e, di conseguenza, fulcro della presente nota.
Avverso la medesima delibera impugnata, peraltro, proponeva ricorso in ottemperanza, a valere anche quale ricorso di legittimità, uno dei concessionari predetti (ricorso peraltro pendente dinanzi al Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa di Bolzano).
Ebbene, con sentenza non definitiva n. 43 del 2021, il Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa di Bolzano si pronunciava respingendo le eccezioni di inammissibilità sollevate dall’Amministrazione locale e dai controinteressati e accogliendo la domanda di annullamento della delibera provinciale di proroga tecnica delle concessioni in essere impugnata, inquadrando la medesima quale atto illegittimo nell’ambito della fattispecie di cui all’art. 121, comma 1, lett. b), c.p.a.
La stessa sentenza, tuttavia, respingeva la domanda di dichiarazione di inefficacia del contratto, nello specifico in ragione della rilevata sussistenza di esigenze imperative connesse alla necessaria garanzia di continuità del servizio pubblico essenziale in questione e, per quel che rileva nella presente sede, respingeva altresì la domanda risarcitoria formulata, fondando il rigetto sull’argomentazione per cui la domanda sarebbe stata proposta sulla base dello “erroneo presupposto” che l’amministrazione avrebbe dovuto esperire gara pubblica, anziché disporre una proroga della concessione ed altresì in considerazione del fatto che il consorzio non sarebbe stato in grado di dimostrare che, laddove l’amministrazione avesse affidato il servizio adottando misure eccezionali, quali l’affidamento diretto, lo stesso sarebbe risultato aggiudicatario con elevato grado di probabilità.
Mediante la successiva sentenza n. 77/2021, inoltre, sempre il giudice di prime cure, nell’applicazione delle sanzioni alternative di cui all’art. 123, comma 1, c.p.a., disponeva – ritenuta la limitata estensione temporale delle concessioni illegittimamente prorogate – la riduzione delle stesse nella misura minima e riteneva di non irrogare la sanzione pecuniaria ex art. 123, comma 1, lett. a) c.p.a.
Avverso la pronuncia proponevano appello i due concessionari interessati dalla illegittima proroga e promuoveva altresì appello incidentale lo stesso consorzio (peraltro nei confronti di entrambe le sentenze menzionate n. 43 e n. 77/2021) con riguardo alle statuizioni che lo avevano visto soccombente, tra le quali lo stesso disconoscimento del diritto del consorzio medesimo al risarcimento del danno per perdita di chance.
La stessa Provincia coinvolta si costituiva in giudizio sostenendo nondimeno l’insussistenza da parte del consorzio del preteso danno da perdita di chance.
2. La questione di diritto.
Uno dei due soggetti già concessionari in relazione al servizio di trasporto pubblico nell’ambito della Provincia Autonoma di Bolzano proponeva appello avanti al Consiglio di Stato contestando il contenuto delle due menzionate pronunce di primo grado con riferimento ad una serie di passaggi riferiti alla illegittimità della disposta proroga delle concessioni in essere e deducendo in particolare che la proroga avrebbe dovuto essere ritenuta legittima, trovando una conferma nella stessa regolamentazione della materia di derivazione europea.
Sotto altro profilo, si censurava, altresì, l’appellata sentenza non definitiva di primo grado nella parte in cui rilevava che la sussistenza dei requisiti di ordine generale propri degli operatori economici affidatari dovesse essere verificata ad opera dell’amministrazione affidante, anche nelle ipotesi di proroga o rinnovo contrattuale.
Nel contempo, uno dei concessionari appellanti chiedeva fosse disposto rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE della questione circa la compatibilità di un sistema interno ostativo alla reiterabilità delle proroghe di durata inferiore al biennio, con l’art. 5, comma 5 del Regolamento UE n. 1370/2007.
Ulteriori argomentazioni in diritto venivano impiegate dall’altro concessionario, proponente autonomo appello avverso le due sentenze del Tribunale di Giustizia Amministrativa di Bolzano, il quale evidenziava, in particolare, come la proroga disposta in favore dei gestori attuali avrebbe dovuto essere giudicata perfettamente coerente con il – pur peculiare – quadro normativo (europeo, ma anche regionale e provinciale) di riferimento.
Particolarmente rilevanti appaiono, dunque, le diverse questioni di diritto trattate dalla pronuncia del Consiglio di Stato oggetto della presente annotazione, la quale presenta una consistente parte in diritto nell’ambito della quale il Supremo Consesso amministrativo espone diverse e articolate ragioni per le quali entrambi gli appelli principali degli attuali concessionari debbano essere respinti.
Così, si destituisce di fondamento la tesi della “ultra-vigenza” dei rapporti concessori originari; si evidenzia la violazione della normativa di emanazione europea sull’argomento, oltre che della norma di diritto interno, di cui all’art. 23 della legge provinciale n. 15/2015 e, da ultimo, non si ritiene neppure applicabile al caso di specie l’art. 92, comma 4-ter, d.l. 18/2020, recante disciplina peculiare in merito alle procedure in corso, in conseguenza della pandemia da Covid-19.
Tutte le suddette pur rilevanti ragioni di censura formulate dagli appellanti e le argomentazioni proprie della pronuncia in esame, tuttavia, non possono porsi quale oggetto di più estesa trattazione, ritenuto che la stessa sentenza del Consiglio di Stato si sofferma altrettanto diffusamente su altro aspetto oggetto del secondo motivo di ricorso incidentale del consorzio e, di conseguenza, fulcro della presente disamina.
Il consorzio, infatti, mediante ricorso incidentale in appello – come accennato – censurava lo specifico capo della sentenza di primo grado laddove i giudici avevano respinto la domanda di risarcimento del danno da perdita di chance, rilevando come la Provincia mediante il suo operato gli avesse di fatto impedito di concorrere per l’affidamento della concessione in oggetto mediante l’impiego dei moduli propri dell’evidenza pubblica.
Nel dettaglio, il giudice di prime cure, nel caso sottoposto alla sua attenzione, aveva ritenuto preclusa la domanda di risarcimento del danno da perdita di chance a causa del rilievo, ritenuto assorbente, per cui il consorzio non sarebbe stato in grado di dimostrare di avere perduto, quale diretta conseguenza dell’illegittima proroga dei servizi in favore dei concessionari uscenti, un’occasione concreta di aggiudicarsi direttamente il servizio.
In altri termini, il solo fatto di operare nel settore del trasporto pubblico di linea a livello locale – secondo il giudice di prime cure – rappresenterebbe un dato privo di rilevanza posto che, se l’amministrazione avesse affidato il servizio impiegando una delle misure eccezionali, quale l’affidamento diretto, avrebbe potuto rivolgersi a tutti gli operatori economici del settore, non necessariamente a quelli presenti a livello locale.
Il consorzio ricorrente non avrebbe cioè dimostrato di poter risultare aggiudicatario, con un elevato grado di probabilità: avrebbe avuto soltanto una “mera possibilità” di aggiudicazione, con la conseguente configurazione di un danno solo ipotetico, in quanto tale non meritevole di reintegrazione in sede di giudizio, poiché – secondo quanto asserito dal giudice di primo grado – “non distinguibile dalla lesione di una mera aspettativa di fatto”.
Aspetto di rilevanza e meritevole di attenzione, pertanto, appare quello per cui il Consiglio di Stato, nell’ambito della pronuncia di appello in commento, ha ritenuto erronea la suddetta statuizione del giudice di primo grado, disponendo conseguentemente la liquidazione, in via equitativa, del medesimo danno da perdita di chance.
Di particolare interesse poi le argomentazioni sulla base delle quali i giudici del Consiglio di Stato nella pronuncia in questione sono giunti a riconoscere la sussistenza di tale suddetto danno, dettando le coordinate generali al fine della sua risarcibilità.
La questione si ritiene possa essere presa in esame, anzitutto, a partire dagli orientamenti giurisprudenziali che progressivamente si sono affermati in merito al pregiudizio, meritevole di risarcimento, consistente nella perdita di chance.
3. La risarcibilità del danno da perdita di chance quale frutto di una lenta evoluzione interpretativa.
È lo stesso Consiglio di Stato, nell’ambito della pronuncia in commento, a porre in evidenza come il riconoscimento della risarcibilità della perdita di chance si ponga quale esito di “una lenta evoluzione interpretativa”.
Nel dettaglio, si tratterebbe di una figura elaborata allo scopo di trasferire sul piano delle situazioni giuridiche soggettive e, dunque, del danno ingiusto, una questione problematica concernente la causalità incerta e, in particolare, le fattispecie in cui non risulti possibile accertare, in senso astratto ed in termini oggettivi, se un determinato esito vantaggioso – in favore di chi invoca il medesimo – si sarebbe o meno verificato senza l’ingerenza illecita del danneggiante.
Come rammentato nella pronuncia in esame, cioè, al fine di superare lo stallo della “deficienza cognitiva del processo eziologico”, sarebbe stata operata la predetta “traslazione”, facendo pertanto assurgere a bene giuridico “autonomo” lo stesso “sacrificio della ‘possibilità’ di conseguire il risultato finale”[iii].
3.1. Cenni sull’affermazione della risarcibilità della chance nell’ambito del diritto privato.
Orbene, nell’ambito del diritto privato il danno da perdita di chance è stato preso in esame dalla giurisprudenza[iv] e dalla stessa dottrina[v] ed in senso generale le ipotesi in cui più frequentemente tale danno è stato nel tempo riconosciuto riguardano la responsabilità medica, rispetto alla mancata attivazione di una cura, ovvero di un intervento sanitario, il cui esito sarebbe stato, tuttavia, incerto.
In tale ambito, pur a fronte delle posizioni che intendevano inizialmente la chance quale mero interesse di fatto, si è fatta strada nella giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione l’idea circa la risarcibilità del danno in caso nell’ipotesi di mera perdita di chance[vi].
Il leading case in tema di perdita di chance pare rappresentato dalla nota sentenza del Pretore di Roma del 27 marzo 1977, concernente la mancata sottoposizione di alcuni autisti, avviati dall'ufficio di collocamento ad una società privata di trasporti, in base a richiesta numerica di quest'ultima, alle prove di cultura elementare e di guida dal cui – anche solo probabile – superamento sarebbe derivata l'assunzione al lavoro.
Nell’ambito di tale storica pronuncia la chance viene intesa quale utilità economicamente valutabile, situazione fonte di reddito non certo, ma probabile e la responsabilità da perdita di chance è riportata all’ambito della responsabilità contrattuale, nel senso che la perdita dell'occasione favorevole deve essere conseguenza immediata e diretta del comportamento del debitore, presentandosi come conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento secondo il principio della regolarità causale.
Dagli anni Ottanta del secolo scorso la Suprema Corte, poi, perlopiù nell’ambito lavoristico, ritiene risarcibile tale posta di danno, intendendo la chance quale probabilità effettiva e congrua di conseguire un risultato utile, da accertare secondo il calcolo delle probabilità o per presunzioni ed esplicitando il principio di diritto per cui, ai fini della dimostrazione del verificarsi di un danno certo, consistente nella perdita della possibilità di conseguire un risultato utile, sia sufficiente per il soggetto danneggiato provare che la possibilità sia superiore al cinquanta per cento[vii].
Attorno alla natura giuridica della chance, peraltro, sono emerse diverse tesi interpretative di fatto riconducibili da un lato a quella c.d. “eziologica”, che riporta l’istituto all’ambito del “lucro cessante” e, dall’altro, la tesi “ontologica”, che intende la chance quale “danno emergente”.
Nel primo caso, in particolare, si ritiene che la chance non possa essere qualificata quale bene autonomo e nemmeno quale entità a sé stante, ma unicamente quale vantaggio che discende dal bene oggetto di una situazione giuridica soggettiva tutelata, determinante peraltro a carico del danneggiato l’onere probatorio circa il sicuro raggiungimento del risultato favorevole, ovvero del nesso di causalità e della ragionevole probabilità della sua verificazione, in base a circostanze certe e allegate[viii].
Nel secondo, invece, la chance è intesa come bene giuridico, presente nel patrimonio del soggetto danneggiato, determinante una perdita in caso di sua lesione, con la conseguenza per cui il danneggiato dovrebbe provare unicamente la mera possibilità di raggiungere il risultato sperato[ix].
Di recente, nell’ambito civilistico, una estesa trattazione dell’istituto in questione è stata condotta dalla medesima giurisprudenza della Suprema Corte, rispetto all’ambito della responsabilità sanitaria, nell’ambito della pronuncia della Sezione Terza n. 28993/2019, ove i giudici hanno rilevato, in particolare, un “duplice paralogismo che ha accompagnato l'evoluzione storica della teoria della chance perduta”, concretizzatosi, da un lato, nella ricostruzione dei suoi tratti caratterizzanti in termini di danno patrimoniale e, dall'altro, nell'avere sovrapposto uno degli elementi essenziali della fattispecie dell'illecito, il nesso causale, con il suo oggetto (ossia il sacrificio della possibilità di un risultato migliore) “tanto da indurre autorevole dottrina a contestarne in radice la legittimità della sua stessa esistenza e della relativa teorizzazione”[x].
Nell’ambito di tale lucida analisi i giudici hanno altresì esplicitato come la chance “patrimoniale” presenti, in apparenza, “le stimmate dell'interesse pretensivo (mutuando tale figura dalla dottrina amministrativa, sia pur soltanto in parte qua, attese le evidenti differenze morfologiche tra l'interesse legittimo e la chance: mentre il primo incarna l'aspirazione - e la pretesa - alla legittimità dell'azione amministrativa e preesiste, dunque, all'azione amministrativa stessa, la chance viene in rilievo quando essa è stata perduta e cioè quando l'attività amministrativa, ormai esauritasi, è irrimediabilmente viziata e il vizio ha cagionato un danno risarcibile), e cioè postula la preesistenza di una situazione "positiva", i.e. di un quid su cui andrà ad incidere sfavorevolmente la condotta colpevole del danneggiante impedendone la possibile evoluzione migliorativa”[xi].
La summenzionata pronuncia appare degna di nota in quanto avrebbe evidenziato, quantomeno nell’ambito civile, un ulteriore – a detta dei giudici – ragionamento fallace in cui incorre la giurisprudenza di legittimità e di merito, oltre che parte della dottrina, fondato sulla contrazione degli elementi “destinati ad integrare diacronicamente la fattispecie dell'illecito”[xii].
La chance, come delineata in tale pronuncia dei giudici di legittimità, si sostanzierebbe pertanto “nell'incertezza del risultato, la cui "perdita", ossia l'evento di danno, è il precipitato di una chimica di insuperabile incertezza, predicabile alla luce delle conoscenze scientifiche e delle metodologie di cura del tempo rapportate alle condizioni soggettive del danneggiato. Tale evento di danno sarà risarcibile a seguito della lesione di una situazione soggettiva rilevante, che pur sempre attiene al "bene salute", sempre che esso sia stato allegato e (…) provato in giudizio nella sua già ricordata dimensione di apprezzabilità, serietà, consistenza, e non già soltanto in base alla pura e semplice relazione causale tra condotta ed evento, in guisa di danno in re ipsa”.
3.2. Il percorso verso la risarcibilità della chance nel diritto amministrativo alla luce della nozione di interesse legittimo e della tutela mediata del bene della vita.
Nell’ambito del diritto privato, come evidenziato, la perdita di chance – istituto a matrice essenzialmente giurisprudenziale, alla luce del silenzio normativo sull’istituto – ha avuto e pare abbia quale modello teorico di riferimento il danno patrimoniale, pur nel dibattito circa la sua forma di danno emergente, ovvero di lucro cessante.
Certamente peculiare appare invece il percorso evolutivo circa la risarcibilità del danno di cui trattasi nel settore del diritto amministrativo, ove la lesione della chance è stata impiegata allo scopo di riconoscere una qualche tutela – seppur per equivalente – a fronte delle aspettative deluse in conseguenza dell’illegittimo espletamento, od anche mancato espletamento, di un procedimento amministrativo[xiii].
Appare chiaro come nelle ipotesi di attività amministrativa caratterizzata da ampia discrezionalità, infatti, l'esito di un giudizio prognostico risulti necessariamente incerto, ragione per cui la stessa giurisprudenza amministrativa ha cominciato ad utilizzare la tecnica risarcitoria della c.d. chance[xiv].
Proprio nel diritto amministrativo, ad ogni modo, la figura della chance ed il suo risarcimento, impiegati perlopiù con riferimento all’ambito della contrattualistica pubblica, hanno da subito mostrato diversi aspetti problematici, certamente connessi alle specificità proprie del diritto amministrativo stesso[xv].
In dettaglio, si può affermare che l’esordio del dibattito sulla risarcibilità del danno da perdita di chance possa essere ricondotto alla storica pronuncia delle sezioni unite della Suprema Corte di Cassazione n. 500 del 1999 mediante la quale, agli effetti della risarcibilità, ai sensi dell'art. 2043 c.c., si è esplicitato dovesse ritenersi "ingiusto" il danno arrecato in difetto di una causa di giustificazione, lesivo di interessi giuridicamente tutelati, in quanto tali comunque presi in considerazione da una norma di protezione anche a fini diversi da quelli risarcitori, quale che sia la qualificazione formale di detti interessi e al di là della strutturazione quali diritti soggettivi perfetti[xvi].
Mediante tale statuizione, in altri termini, si è ritenuto ammissibile il risarcimento della stessa posizione giuridica soggettiva corrispondente all’interesse legittimo, sebbene con la precisazione per cui non si possa approdare ad una indiscriminata risarcibilità degli interessi legittimi come categoria generale, bensì si possa pervenire al risarcimento soltanto ove l'attività illegittima della P.A. abbia determinato “la lesione dell'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega, e che risulta meritevole di protezione alla stregua dell'ordinamento. In altri termini, la lesione dell'interesse legittimo è condizione necessaria, ma non sufficiente, per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c., poiché occorre altresì che risulti leso, per effetto dell'attività illegittima (e colpevole) della P.A., l'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo si correla, e che il detto interesse al bene risulti meritevole di tutela alla luce dell'ordinamento positivo”[xvii].
Uno dei principali profili problematici ed oggetto di ampio dibattito nell’ambito del diritto amministrativo, dunque, a far data dalla suddetta storica pronuncia delle sezioni unite, è stato quello concernente l’ammissibilità del risarcimento del danno da chance perduta in relazione alla posizione giuridica di interesse legittimo[xviii].
Così, sempre nel settore del diritto amministrativo, pronuncia di estrema rilevanza sul tema appare Consiglio di Stato n. 686/2002, sentenza nella quale i giudici hanno rilevato che laddove si dovesse adottare la ricostruzione di cui alla citata pronuncia del Pretore di Roma 27 marzo 1977, ove la perdita di chance veniva riportata alla responsabilità contrattuale, il relativo danno non sarebbe invocabile in tema di risarcibilità degli interessi legittimi, dovendosi ritenere “ius positumche la risarcibilità dell'interesse legittimo è da riportare alla clausola generale di cui all'art. 2043 cod. civ. (Cass. Sez. Un. n. 500/1999) pur essendo stati ipotizzati in dottrina anche percorsi ricostruttivi differenti della responsabilità da interesse legittimo (come responsabilità da "contatto sociale" e quindi "contrattuale")”[xix].
La rilevante statuizione sul tema cui è approdato il Collegio è, dunque, quella per cui “in realtà non può dirsi che la responsabilità da perdita di chance venga in rilievo solo nell'ambito della responsabilità contrattuale”, non essendo la qualificazione della responsabilità come contrattuale a determinare la risarcibilità della chance, quanto “il verificarsi di presupposti significativi per il raggiungimento del risultato sperato”[xx].
Richiamando l’antecedente pronuncia della Corte di Cassazione n. 6506/1985, inoltre, il Consiglio di Stato ha precisato in tale sede come la possibilità di conseguire il risultato utile, per avere la concretezza rammentata, presupponga la sussistenza di una probabilità di successo maggiore del cinquanta per cento, posto che, in caso contrario, diverrebbero risarcibili anche mere possibilità statisticamente non significative.
In particolare, la concretezza della probabilità, secondo quanto affermato dai giudici del Supremo Consesso amministrativo, dovrebbe essere statisticamente valutabile mediante un giudizio sintetico che ammetta – con giudizio prognostico ex ante, secondo l'id quod plerumque accidit, sulla base degli elementi di fatto forniti dal danneggiato – che il pericolo di non verificazione dell'evento favorevole, indipendentemente dalla condotta illecita, sarebbe stato inferiore al cinquanta per cento.
Del resto, in senso generale, non soltanto appare difficoltoso ricondurre la chance nell’ambito di una precisa categoria di danni risarcibili, trattandosi in definitiva di una possibilità, in quanto tale connotata da un evidente margine di aleatorietà, ma l’elemento foriero di incertezze, in aggiunta, pare quello della precisa perimetrazione degli stessi presupposti fondanti la chance.
A conferma della problematicità della questione, di seguito, si sono registrate nel tempo diverse opinioni nell’ambito della giurisprudenza amministrativa, così come della dottrina[xxi], peraltro sviluppatesi attorno a due principali correnti interpretative: l’una favorevole al risarcimento della chance perduta, a prescindere dalla verifica circa le probabilità di successo, ritenendo dunque elemento sufficiente ai fini del risarcimento quello della perdita dell’astratta possibilità di conseguire un bene della vita, negato in conseguenza di atti illegittimi dell’amministrazione e l’altra volta a richiedere, ai fini risarcitori, una prova della sussistenza di un rilevante grado di probabilità di conseguire il bene della vita, nel caso concreto[xxii].
Alla luce del rammentato contrasto presente nell'ambito della giurisprudenza amministrativa sul punto, la specifica questione circa l’opzione tra "teoria ontologica" e "teoria eziologica", con riferimento al problema dell'astratta risarcibilità della chance è anche recentemente risultata oggetto di rimessione alla stessa Adunanza plenaria ad opera della Quinta Sezione del Consiglio di Stato, con specifico riguardo alla materia dei contratti pubblici[xxiii].
Quest’ultima, tuttavia, ha ritenuto la questione non potesse essere utilmente esaminata nell'ambito della controversia, ravvisandosi l'opportunità di restituire gli atti alla Sezione, osservando in particolare come le affermazioni contenute nella sentenza non definitiva della Sezione in ordine alla sussistenza del nesso di causalità ed alla consistenza della chance di aggiudicazione – nel caso di specie calcolata secondo una percentuale correlata al numero dei potenziali concorrenti di una gara virtuale – avrebbe implicato l'utilizzazione di un metodo di accertamento dell'illecito e di liquidazione del danno, la cui correttezza avrebbe potuto apparire strettamente correlata ai quesiti prospettati sulla ricostruzione dell'illecito e sulle conseguenze sull'esistenza e sulla liquidazione del danno da perdita di chance; quesiti, peraltro, giudicati nella pronuncia “risolvibili in astratto anche attraverso l'individuazione di percorsi ricostruttivi alternativi ovvero intermedi e comunque eclettici rispetto alla dicotomia tra "teoria ontologica" e "teoria eziologica"”[xxiv].
Così, di seguito, un filone giurisprudenziale ha definito la perdita di chance quale danno attuale, che non si identifica con la perdita di un risultato utile, differenziandosi dal "danno futuro", ma con il venir meno della possibilità di conseguire il risultato stesso; possibilità che, per configurare una fattispecie di pregiudizio giudizialmente risarcibile, dovrebbe risultare statisticamente rilevante, ovverosia manifestarsi quale rilevante probabilità di raggiungimento del risultato sperato, con la conseguente necessità di distinguere fra la effettiva "probabilità di riuscita" (che dà vita a una fattispecie di chance risarcibile) e la mera "possibilità di conseguire l'utile cui si ambisce" (contrariamente, costituente ipotesi non risarcibile in via giudiziale)[xxv].
D’altra parte, tuttavia, rispetto a tale orientamento sono sorte numerose critiche volte a sconfessare tale tesi, perlopiù nell’ambito del formante dottrinale, le quali hanno ritenuto tale configurazione del danno da perdita di chance, quale danno attuale, incompatibile con gli stessi principi governanti l’azione amministrativa, ritenuto che l’attualità non potrebbe ritenersi insita nella chance, poiché dipenderebbe dall’esercizio del potere amministrativo[xxvi].
In senso generale, cioè, sono state prospettate difficoltà rispetto alla stessa configurazione della chance quale interesse meritevole di tutela, posto che la meritevolezza del predicato interesse dovrebbe ad ogni modo interfacciarsi con la legittimità dell’interesse pubblico perseguito dall’amministrazione pubblica[xxvii].
Tali critiche sono state avanzate, in particolar modo, con riferimento all’ambito dei contratti pubblici e, ad ogni modo, rispetto alle fattispecie caratterizzate dall’esercizio di un potere amministrativo con ampia discrezionalità, laddove si porrebbero rilevanti problematiche in termini di qualificazione della chance quale ipotesi di danno risarcibile poiché facente parte del patrimonio del concorrente: in tal caso, infatti, le valutazioni dell’amministrazione e così delle stazioni appaltanti dovrebbero ritenersi insindacabili, anche in punto di spettanza del bene, cosicchè in caso di giudizio prognostico, richiesto dal meccanismo risarcitorio della chance, il giudice amministrativo andrebbe di fatto a sostituirsi all’autorità, superando la riserva del potere amministrativo[xxviii].
La stessa giurisprudenza in ambito europeo, nel campo del diritto amministrativo e in particolare rispetto alle procedure ad evidenza pubblica al fine della tutela della concorrenza, ha riconosciuto la risarcibilità del danno da perdita di chance quale mancata opportunità di conseguire il bene della vita, in presenza, tuttavia, di precisi presupposti configuranti il danno in questione, tra i quali il nesso di causalità evidente tra condotta illecita del soggetto agente e conseguente evento di danno[xxix].
3.3. Gli approdi giurisprudenziali più recenti.
In termini generali la giurisprudenza amministrativa è approdata, in tempi recenti, perlopiù nell’ambito della contrattualistica pubblica, al riconoscimento del risarcimento del danno da perdita di chance quale schema di reintegrazione patrimoniale riguardo un bene della vita connesso ad una situazione soggettiva che, quando è sostitutiva di una reintegrazione in forma specifica, come nei contratti pubblici, poggia sul fatto che un operatore economico che partecipa ammissibilmente a una procedura di evidenza pubblica, in quanto partecipante e per ciò solo, si può ritenere portatore di un'astratta e potenziale chance di aggiudicarsi il contratto[xxx].
Nel dettaglio, in tale ambito operativo, si è riconosciuta la risarcibilità del danno da perdita di chance in relazione alla fattispecie concreta del mancato espletamento di una procedura competitiva, anche in conseguenza dell’accertato illegittimo affidamento diretto di un contratto d’appalto[xxxi], ovvero nell’ipotesi in cui l'unico esito possibile dell'annullamento degli atti di gara sia l'aggiudicazione in favore dell’operatore economico vittorioso in giudizio, con la conseguenza per cui, ove non sia praticabile il risarcimento in forma specifica, si ritiene dovuto il danno c.d. “da aggiudicazione illegittima”[xxxii].
In tempi più recenti, in particolare, l’orientamento prevalente nell’ambito della giurisprudenza amministrativa è giunto ad affermare la risarcibilità della chance condizionando la stessa ad un preciso presupposto, ossia la sussistenza di una rilevante probabilità del risultato utile, che sia stata vanificata dall'agire illegittimo dell'amministrazione; tale orientamento ha introdotto una sorta di necessaria “misurazione” della probabilità, la quale – si è affermato – non possa identificarsi nella semplice possibilità di conseguire il risultato sperato, ma debba consistere nella perdita attuale di un esito favorevole, anche solo probabile, se non addirittura nella prova certa di una probabilità di successo, almeno pari al cinquanta per cento[xxxiii].
In termini generali, dunque, il danno da perdita di chance è oggi ritenuto risarcibile ad opera della giurisprudenza amministrativa, pronunciatasi di recente non soltanto con riferimento all’ambito della contrattualistica pubblica, bensì anche in relazione ad altri campi quale quello del pubblico impiego privatizzato, peraltro sulla base dei suddetti presupposti.
In proposito, in particolare, si è recentemente evidenziato come in materia di pubblico impiego privatizzato, il danno risarcibile di cui al d.lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, non derivi dalla mancata conversione del rapporto, bensì dalla prestazione in violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori da parte dell’amministrazione, configurabile come perdita di chance di un'occupazione alternativa migliore, con onere della prova a carico del lavoratore, ai sensi dell'art. 1223 c.c.[xxxiv].
Ultimamente sulla specifica questione, a lungo oggetto di ampio dibattito in giurisprudenza, così come in dottrina – come evidenziato – si è espressa nuovamente la stessa adunanza plenaria del Consiglio di Stato precisando come nell'ambito della dicotomia danno emergente - lucro cessante posta dall'art. 1223 cod. civ., l'accertamento del nesso di consequenzialità immediata e diretta del danno con l'evento ponga problemi di prova con riguardo al lucro cessante in misura decisamente maggiore rispetto al danno emergente; infatti, “a differenza del secondo, consistente in un decremento patrimoniale avvenuto, il primo, quale possibile incremento patrimoniale, ha di per sé una natura ipotetica. La valutazione causale ex art. 1223 cod. civ. assume pertanto la fisionomia di un giudizio di verosimiglianza (rectius: di probabilità), in cui occorre stabilire se il guadagno futuro e solo prevedibile si sarebbe concretizzato con ragionevole grado di probabilità se non fosse intervenuto il fatto ingiusto altrui”.
Proprio in questo ambito, pertanto, sarebbe sorta la tematica in esame concernente la risarcibilità della chance, tuttavia, ritenuta ormai sia dalla giurisprudenza civile sia da quella amministrativa – come posto in evidenza proprio nella pronuncia della plenaria in questione – “una posizione giuridica autonomamente tutelabile – morfologicamente intesa come evento di danno rappresentato dalla perdita della possibilità di un risultato più favorevole (e in ciò distinta dall'elemento causale dell'illecito, da accertarsi preliminarmente e indipendentemente da essa) – purché ne sia provata una consistenza probabilistica adeguata e nella quale può quindi essere ricondotta la pretesa risarcitoria connessa al regime tariffario incentivante di cui la società ricorrente chiede il ristoro per equivalente”[xxxv].
In termini di tecnica risarcitoria, inoltre, ai fini della risarcibilità del danno da perdita di chance, il prevalente orientamento nell’ambito della giurisprudenza amministrativa pare ritenga oggi configurabile l'accesso al risarcimento per equivalente solo laddove la chance abbia effettivamente raggiunto un'apprezzabile consistenza, condensata nel concetto di "probabilità seria e concreta", ovvero di "elevata probabilità" di conseguire il bene della vita sperato.
Così, trattando dell’onere probatorio, ai fini dell’accoglimento della domanda di risarcimento, si esigerebbe sia fornita la prova, anche soltanto presuntiva, circa l’esistenza di elementi oggettivi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità, sebbene non di mera potenzialità, l'esistenza di un pregiudizio economicamente valutabile[xxxvi].
4. La ricostruzione interpretativa del Consiglio di Stato nella pronuncia in commento.
La pronuncia in commento, alla luce di quanto sopra esposto, si colloca certamente nell’ambito dell’analizzato percorso interpretativo della stessa giurisprudenza amministrativa a proposito della risarcibilità del danno da perdita di chance – come evidenziato – faticosamente affermatosi proprio nell’ambito del diritto amministrativo e, di seguito, riconosciuto soprattutto in relazione all’ambito delle procedure ad evidenza pubblica, oltre che, di recente, in ulteriori ambiti quali il pubblico impiego privatizzato, ovvero la mancata nomina ad incarichi direttivi[xxxvii].
Meritoria appare pertanto la pronuncia in commento, in primo luogo, laddove afferma chiari principi a proposito della configurabilità di un danno da perdita di chance, peraltro scardinando, con riguardo alla specifica controversia, la tesi sostenuta sul punto dai giudici di primo grado e riconoscendo, inoltre, la stessa risarcibilità della chance perduta nel caso concreto sottoposto all’attenzione del giudice d’appello.
In secondo luogo, la pronuncia appare rilevante posto che, inserendosi nell’evidenziato dibattito circa i presupposti di configurabilità e risarcibilità del danno da perdita di chance nell’ambito amministrativo, assume una precisa posizione anche all’interno di tale disputa sul piano giurisprudenziale.
Il Collegio rileva, in particolare, l’erroneità delle statuizioni del giudice di primo grado, il quale ha sostenuto come la domanda di risarcimento del danno da perdita di chance dovesse ritenersi nella fattispecie preclusa per l'assorbente rilievo per cui il consorzio asseritamente danneggiato non sarebbe stato in grado di dimostrare l'occasione concreta di aggiudicarsi direttamente il servizio, ovvero che sarebbe risultato aggiudicatario, con un elevato grado di probabilità. Tale circostanza, peraltro, non avrebbe potuto essere ricavata in base a elementi certi e obiettivi, potendo l'Amministrazione rivolgersi a tutti gli operatori economici del settore, non necessariamente solo a quelli presenti a livello locale.
I giudici del Tribunale Regionale sarebbero di seguito approdati, secondo il Consiglio di Stato, all’erronea statuizione per la quale al di sotto del livello della elevata probabilità, non sussisterebbe che la "mera possibilità", configurante un danno meramente ipotetico, non meritevole di reintegrazione, in quanto non distinguibile dalla lesione di una mera aspettativa di fatto.
Nel dettaglio, sul piano della stessa esistenza e configurabilità della chance nel diritto amministrativo, la pronuncia in commento afferma, a chiare lettere, come il vizio accertato dal giudice amministrativo consista nella violazione di una norma di diritto pubblico che – non ricomprendendo nel suo raggio di protezione l'interesse materiale – assicura all'istante soltanto la possibilità di conseguire il bene finale. L'"ingiustizia" del danno assumerebbe in tal senso ad oggetto soltanto il 'quid' giuridico, minore, ma comunque autonomo, consistente nella spettanza attuale di una mera possibilità.
A sostegno di tale ricostruzione, peraltro, il Consiglio di Stato fa riferimento al contesto stesso della moderna economia di mercato, nell’ambito del quale anche la diminuzione di una probabilità di eventi patrimoniali favorevoli rileva quale perdita patrimoniale, al pari del nocumento fisico, riferito ad una perdita tangibile.
Rilevante poi il passaggio della sentenza in esame laddove i giudici sconfessano la ricostruzione del giudice di primo grado fondata sulla “elevata probabilità' di realizzazione”, quale condizione affinché la chance acquisti una rilevanza giuridica, posto che in tal modo – ritengono – si va ad assimilare, in maniera fuorviante, il trattamento giuridico della figura nell’ambito amministrativo alla causalità civile ordinaria.
Si tratterebbe, al contrario, di una fattispecie di danno solo “ipotetico”, rispetto al quale “non si può oggettivamente sapere se un risultato vantaggioso si sarebbe o meno verificato”, come a dire che sarebbe certa la contrarietà al diritto della condotta di chi ha cagionato la perdita della possibilità, ma non sarebbe conoscibile l'apporto causale rispetto al mancato conseguimento del risultato utile finale.
Di conseguenza, posto che nell’ambito giurisdizionale compito del giudice sarebbe quello di riconoscere all'interessato il controvalore della mera possibilità – peraltro già presente nel suo patrimonio – di vedersi aggiudicato un determinato vantaggio, l'an del giudizio di responsabilità consisterebbe di fatto soltanto nell'accertamento del nesso causale tra la condotta antigiuridica e l'evento lesivo consistente nella perdita della predetta possibilità.
In sostanza, il Consiglio di Stato giunge nella pronuncia in commento ad una chiara tesi interpretativa, anche in merito alla determinazione del quantum risarcibile, contrapponendosi di fatto all’orientamento affermatosi nell’ambito della più recente giurisprudenza amministrativa sul tema, volto a richiedere ai fini della risarcibilità della perdita di chance la prova certa di una probabilità di successo almeno pari al cinquanta per cento.
Così, la tecnica probabilistica andrebbe impiegata, non per accertare l'esistenza della chance quale bene a sé stante, ma al fine di misurare in modo equitativo il 'valore' economico della stessa, in sede di liquidazione del quantum risarcibile: il risarcimento rappresenterebbe pur sempre “una compensazione (non del risultato sperato, ma) della privazione della possibilità di conseguirlo”[xxxviii].
Mediante tale affermazione, evidentemente, i giudici nella pronuncia in esame operano una evidente riperimetrazione del concetto stesso di chance, aderendo alla tesi della chance “ontologica” e mirando verosimilmente ad un ampliamento della tutela in favore del presunto soggetto danneggiato[xxxix].
In proposito, al fine di non estendere in maniera eccessiva l’area del danno risarcibile, incorrendo in una “forma inammissibile di responsabilità senza danno”, si aggiunge alla ricostruzione un elemento ritenuto necessario al fine di raggiungere la soglia dell'"ingiustizia", ovverosia che “la chance perduta sia “seria'”, presupposto che – si ritiene in sentenza – possa ritenersi sussistente verificando con estremo rigore che la perdita della possibilità di risultato utile sia effettivamente imputabile alla condotta altrui contraria al diritto e appurando che la possibilità di realizzazione del risultato utile rientri nel contenuto protettivo delle norme violate; si esclude altresì dall’area del danno risarcibile il caso in cui le probabilità perdute si attestino ad un livello “del tutto infimo”.
Da ultimo, si rileva come la chance presupponga “una situazione di fatto immodificabile, che abbia definitivamente precluso all'interessato la possibilità di conseguire il risultato favorevole cui aspirava”: il giudizio di ingiustizia può assumere ad oggetto la perdita della possibilità di un vantaggio, cioè, solo laddove il procedimento amministrativo dichiarato illegittimo non sia più in alcun modo 'ripetibile'.
Delineate le coordinate definitorie e di risarcibilità della chance nel diritto amministrativo, in senso generale, il Supremo Consesso amministrativo esplicita poi come, nel caso di specie, la scelta dell'Amministrazione di prorogare per la terza volta le concessioni in essere abbia senza dubbio conculcato le chance acquisitive dell'operatore economico ricorrente, ritenute dotate, nella fattispecie concreta oggetto del giudizio, del carattere della 'serietà'.
In termini del quantum risarcitorio del danno da perdita di chance – non corrispondente al danno da mancata aggiudicazione che si identifica con l'interesse positivo ed il danno curricolare – il collegio ritiene necessario procedere mediante valutazione equitativa, ex art. 1226 c.c., stante l'impossibilità di formulare una prognosi sull'esito di una procedura comparativa mai svolta, peraltro rifacendosi concretamente ai costi, ricavi e proventi esplicitati nell’ambito della impugnata delibera.
5. Alcune riflessioni conclusive.
La pronuncia in commento, come posto in evidenza, concerne un istituto – quello della chance – non considerato sul piano normativo, ampiamente preso in esame da giurisprudenza e dottrina e certamente di difficile inquadramento.
L’istituto, già di difficoltosa perimetrazione a proposito della sua esistenza, configurabilità e risarcibilità nell’ambito del diritto privato, laddove – come messo in luce – si sono affermate le contrapposte tesi “eziologica” ed “ontologica”, pare a maggior ragione connotato da evidente complessità e problematicità nell’ambito del diritto amministrativo.
In quest’ultimo campo, infatti, l’esercizio del potere amministrativo, la corrispettiva posizione di interesse legittimo e l’ampia discrezionalità che connota l’azione amministrativa specialmente in talune ipotesi, rendono effettivamente complessa la definizione del concetto di chance risarcibile e, dunque, la realizzabilità di un giudizio prognostico.
Peraltro, la stessa giurisprudenza amministrativa non ha mostrato un indirizzo interpretativo univoco, ma nel tempo ha presentato diversificate soluzioni, oscillando tra tesi ontologica ed eziologica e adottando molteplici ricostruzioni sotto il profilo della prova richiesta, oltre che della liquidazione del danno; recentemente, in diverse occasioni, i giudici amministrativi hanno ammesso il risarcimento da perdita di chance laddove sia fornita prova certa di una probabilità di successo almeno pari al cinquanta per cento[xl].
In tal senso, significativo appare il ragionamento del Consiglio di Stato nella pronuncia in commento, laddove, trattando dell’istituto della chance, denuncia la confusione presente sul tema nell’ambito della stessa giurisprudenza amministrativa, generatasi peraltro dalla indebita sovrapposizione dei profili ricostruttivi eziologici ed ontologici e, di fatto, aderisce all’impostazione interpretativa della chance c.d. ontologica.
Chiaro lo stesso ragionamento seguito dai giudici nella sentenza, determinante l’approdo ad una netta posizione circa la configurabilità e risarcibilità della chance nell’ambito amministrativo; secondo taluna dottrina, tuttavia, a fronte di un coerente ragionamento il collegio sarebbe giunto, da ultimo, alla conclusione errata per cui il concetto di causalità non potrebbe costituire elemento definitorio del concetto di chance, sostituendo alla causalità probabilistica il parametro di giudizio della “serietà” allo scopo di definire la nozione di chance in questione, peraltro recuperando da ultimo fattori eziologici, quali “accidentalità”, “possibilità di realizzazione del risultato” e “livello infino delle probabilità perdute”[xli].
In definitiva, in assenza di coordinate normative a proposito dell’istituto, si ritiene che l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato – così come avvenuto nel 2018, con esito tuttavia non determinante non essendosi in tale occasione i giudici pronunciati nel merito della questione[xlii] – possa essere nuovamente chiamata a breve ad esprimersi sull’argomento, al fine di dettare un puntuale inquadramento dell’istituto della chance, oltre che dei presupposti richiesti al fine della sua risarcibilità.
Tenendo conto degli approdi della giurisprudenza amministrativa sul tema, anche e soprattutto con riferimento all’ambito dei contratti pubblici, del resto, occorrerebbe delineare una soluzione interpretativa in grado di garantire una adeguata riparazione dei danni subiti, anche nell’ottica della tutela della concorrenza, scongiurando, nondimeno, il rischio di uno sproporzionato ampliamento dell’area dei pregiudizi risarcibili, anche considerando il carattere eccezionale del risarcimento per equivalente in rapporto alla tutela in forma specifica.
[i] Nella presente sede non appare possibile operare una compiuta disamina a proposito dei susseguenti e numerosi interventi normativi che si sono succeduti nella materia del trasporto pubblico locale. Basti dunque rammentare come sino alla seconda metà degli anni Ottanta del secolo scorso non si sia registrata la presenza di un vero e proprio mercato dei servizi pubblici locali di trasporto, considerato che tale servizio veniva erogato perlopiù dall’amministrazione pubblica, direttamente, ovvero per mezzo di aziende municipalizzate. Tale assetto è mutato di seguito in prima battuta con il d.lgs. n. 422/1997, per ragioni finanziarie e per esigenze di sviluppo infrastrutturale. Nel quadro delle previsioni europee, inoltre, ed in particolare alla luce degli stessi principi generali di cui all’art. 14 del TFUE ed il protocollo n. 26 in materia di servizi di interesse generale, si è optato per un modello concorrenziale “regolato” di trasporto pubblico locale, con la possibile attribuzione di diritti esclusivi e la conseguente ammissibilità di compensazioni finanziarie, al fine di garantire sicurezza, qualità e ampia accessibilità del servizio. Di fatto, in ottica organizzativa, si è passati da un sistema essenzialmente fondato su gestioni pubbliche ad uno fondato sull’affidamento in esito a procedure competitive. Così come rilevato nella stessa pronuncia in commento, cioè, si tratta di un modello prescelto e delineato dal legislatore europeo che contempera l’efficienza economico-gestionale, da un lato e l’universalità del medesimo servizio, dall’altro. In ambito europeo, sul piano della disciplina, i servizi nel settore di cui trattasi rimangono disciplinati dal Reg. UE n. 1370/2007, come da ultimo modificato ad opera del Reg. n. 2338/2016. In linea generale, ai sensi del predetto regolamento, le autorità sono chiamate ad assegnare contratti di servizio pubblico sulla base di procedure di aggiudicazione degli appalti in grado di garantire in senso effettivo la concorrenza tra operatori; sono altresì previste talune tassative ipotesi in relazione alle quali può omettersi il ricorso alla gara pubblica, così come nel caso dell’assunzione di provvedimenti di emergenza o nel caso di contratti volti a scongiurare il rischio di interruzione del servizio. Il legislatore nazionale ha recepito le previsioni predette, mediante l’art. 61 della legge n. 99/2009.
[ii] Nel dettaglio, la legge della Provincia di Bolzano n. 15/2015 ha recepito la disciplina di cui al Reg. europeo n. 1370/2007, adottando di fatto un sistema “misto”, il quale prevede per una minima parte, corrispondente ad un lotto, l’affidamento diretto in favore di una società direttamente controllata dalla Provincia, mentre per 10 lotti omogenei l’affidamento mediante gara pubblica. Nella predetta legge della provincia autonoma si trova scritto espressamente come i servizi di trasporto pubblico di linea siano affidati “secondo le procedure previste dall’Unione europea”.
[iii] Così si esprime il Consiglio di Stato nella pronuncia in commento.
[iv] Si v., in particolare, tra le sentenze più recenti sul punto, Cass. civ., sez. lavoro, ord., 14 gennaio 2021, n. 559 e Cass. civ., sez. III, 7 ottobre 2021, n. 27287, entrambe in dejure.it.
[v] Cfr., ex multis, F.D. Busnelli, Perdita di chance e risarcimento del danno, in Foro it, 1965, IV, 50; C. Castronovo, La nuova responsabilità civile, Milano, 2006, 761 ss.; R. Pucella, La causalità incerta, Torino, 2007; M. Bianca, Istituzioni di diritto privato, Milano, 2014, 623 ss.
[vi] Cfr. in tal senso Cass. civ., 27 gennaio 1964, n. 186, in Foro it., 1964, I, 1200.
[vii] V., tra le altre, Cass. civ., sez. lav., 19 dicembre 1985, n. 6506, in Foro it. 1986, I, 383, concernente il caso di un ente pubblico che aveva impedito al lavoratore, che aveva superato la prova scritta di un concorso, di presentarsi a quella orale, privandolo così della possibilità di ottenere un posto più remunerativo. Cfr., altresì, sulla risarcibilità della perdita di chance, intesa quale fattispecie produttiva di un danno attuale e risarcibile sempre che ne sia provata la sussistenza anche secondo un calcolo di probabilità o per presunzioni, Cass. civ., sez. lavoro, 24 gennaio 1992, n. 781, così come le antecedenti Cass. civ., 1° aprile 1987, n. 3139, in Foro it. 1987, I, 2073 e Cass. civ. 17 aprile 1990, n. 3183, in Riv. giur. lav., 1990, II, 255.
[viii] Cfr. in merito alla suddetta tesi, tra le altre, Cass. civ., sez. I, 13 aprile 2017, n. 9571 e Cass. civ., sez. III, 14 marzo 2017, n. 6488, entrambe in Diritto & Giustizia, 2017; in dottrina F. Mastropaolo, voce Danno, in Enc. giur., X, Roma, 1988, 12 ss.
[ix] Su cui si v., tra le altre numerose pronunce, Cass. civ., sez. III, 4 marzo 2004, n. 4400, in Giust. civ., 2005, 9, I, 2115, con nota di Giacobbe, in tema di responsabilità medica; più di recente, Cass. civ., sez. III, 27 marzo 2014, n. 7195, in Foro it. 2014, 7-8, I, 2137, con nota di Palmieri e Pardolesi; Cass. civ., sez. III, ord. 15 febbraio 2018, n. 3691 in dejure.it; Cass. civ., sez. III, 9 marzo 2018, n. 5641, in Foro it. 2018, 5, I, 1579 con nota di Pardolesi e Tassone.
[x] Cfr. Cass. civ., sez. III, 11 novembre 2019, n. 28993, in Foro it., 2020, 1, I, 187.
[xi]La chance patrimoniale divergerebbe, dunque, da quella non patrimoniale anche sul piano degli effetti (i.e., sull'aspetto risarcitorio), posto che il giudice di merito, in sede di accertamento del valore di una chance patrimoniale potrebbe far riferimento a valori oggettivi, così come il giudice amministrativo – come rilevato dai giudici nella sentenza – in alcune sue passate decisioni, ha adottato il parametro del 10% del valore dell'appalto all'atto del riconoscimento di una perdita di chance di vittoria da parte dell'impresa illegittimamente esclusa. Mentre diverso sarà il criterio di liquidazione da adottare per la perdita di una chance a carattere non patrimoniale, ove il risarcimento non potrà essere proporzionale al risultato perduto, ma commisurato, in via equitativa, alla possibilità perduta di realizzarlo. Così, Cass. civ., sez. III, 11 novembre 2019, n. 28993, cit.
[xii] Andrebbe così a scomparire, secondo quanto sostenuto dalla Cassazione nella sentenza in questione, la stessa distinzione spesso foriera di confusione, sul piano concettuale e applicativo, tra chance cd. "ontologica" e chance "eziologica", posto che quest'ultima sovrapporrebbe inammissibilmente la dimensione della causalità con quella dell'evento di danno, mentre la prima evocherebbe una impredicabile fattispecie di danno in re ipsa che prescinde del tutto dall'esistenza e dalla prova di un danno-conseguenza risarcibile.
[xiii] La dottrina sul tema è sterminata; si v., tra gli altri: F. Cortese, Evidenza pubblica, potere amministrativo e risarcimento del danno da perdita di chance, in Giornale dir. amm., 2007, 2, 174; M. Tescaro, Il danno da perdita di chance, in Resp. civ. e prev., 2006, 6, 528; M. Franzoni, La chance nella casistica recente, in Resp. civ. e prev., 2005, 446. M. Feola, Il danno da perdita di chances, Napoli, 2004; A. Mondini, Considerazioni sulla chance di aggiudicazione di un contratto pubblico, in Urb. e app., 2004, 12, 1429; G. Mari, Responsabilità per perdita di chance e domanda di risarcimento in forma specifica implicita nella domanda di annullamento dell'affidamento a trattativa privata di un servizio, in Giust. civ., 2002, 5, 141.
Tra le prime pronunce in ambito amministrativo sul tema si v. Cons. St., sez. V, 5 dicembre 2000 n. 6960.
[xiv] Cfr., in tal senso, tra le pronunce più recenti, Cons. St., sez. V., 15 novembre 2019, n. 7845, in www.giustizia-amministrativa.it. In tale pronuncia, peraltro, si è posto in evidenza come la tecnica risarcitoria della perdita della chance richieda un preciso passaggio, ovverosia il risarcimento per equivalente possa essere garantito solo laddove la stessa abbia effettivamente raggiunto un'apprezzabile consistenza, di solito indicata dalle formule "probabilità seria e concreta" o anche "elevata probabilità" di conseguire il bene della vita sperato. Nell’ipotesi di mera 'possibilità' si registrerebbe soltanto un ipotetico danno, in quanto tale non meritevole di reintegrazione, poiché in concreto non distinguibile dalla lesione di una mera aspettativa di fatto. Così, si v., anche in tema di pubblici concorsi, Cons. St., sez. III, 27 novembre 2017, n. 5559, in www.giustizia-amministrativa.it e Cass. civ., sez. lav., 25 agosto 2017, n. 20408, in Diritto & Giustizia, 2017; mentre in tema di contratti pubblici, Cons. St, sez. V, 7 giugno 2017, n. 2740; Cons. St., sez. VI, 4 settembre 2015, n. 4115; Cons. St., sez. VI, 5 marzo 2015, n. 1099 e Cons. St., sez. VI, 20 ottobre 2010, n. 7593, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[xv] In tal senso L. Di Giovanni, La problematica del risarcimento da perdita di chance nel diritto amministrativo e nella disciplina dei contratti pubblici, in Dir. economia, 2019, 1, 372.
[xvi] Si fa riferimento alla nota pronuncia Cass. civ., sez. un., 22 luglio 1999, n. 500, tra le altre in Giust. civ. 1999, I,2261 con nota di Morelli; in Resp. civ. e prev. 1999, 981; in Corriere giur., 1999, 1367, con nota di Di Majo e Mariconda; in Danno e resp., 1999, 965; in Giorn. dir. amm. 1999, 832 con nota di Torchia e in Urb. e app. 1999, 1067, con nota di Protto.
[xvii] Nella pronuncia delle sezioni unite del 1999, in particolare, i giudici ripercorrono i passaggi salienti dell’evoluzione giurisprudenziale della stessa Suprema Corte di Cassazione nel senso della “progressiva erosione dell'assolutezza del principio che vuole risarcibile, ai sensi dell'art. 2043 c.c, soltanto la lesione del diritto soggettivo, per mezzo di un costante ampliamento dell'area della risarcibilità del danno aquiliano, quantomeno nei rapporti tra privati”: in tal senso, si evidenzia come un primo significativo passo in tale direzione sia rappresentato dal riconoscimento della risarcibilità non soltanto dei diritti assoluti, ma anche dei diritti relativi, cui è seguito “il riconoscimento della risarcibilità di varie posizioni giuridiche, che del diritto soggettivo non avevano la consistenza, ma che la giurisprudenza di volta in volta elevava alla dignità di diritto soggettivo: è il caso del c.d. diritto all'integrità del patrimonio o alla libera determinazione negoziale, che ha avuto frequenti applicazioni ed in relazione al quale è stata affermata, tra l'altro, la risarcibilità del danno da perdita di chance, intesa come probabilità effettiva e congrua di conseguire un risultato utile, da accertare secondo il calcolo delle probabilità o per presunzioni (sent. n. 6506-85; n. 6657-91; n. 781-92; n. 4725-93)”.
[xviii] Sull’istituto v., ex multis, C. Bozzi, Interesse e diritto, in Noviss. dig. it., a cura di A. Azara, E. Eula, VIII, Torino, 1962; E. Cannada Bartoli, voce Interesse (diritto amministrativo), in Enc. dir., XXII, Milano, 1972; A. Romano Tassone, voce Situazioni giuridiche soggettive (diritto amministrativo), in Enc. dir., aggiornamento, II, Milano, 1998, 966 ss.; F.G. Scoca, Risarcibilità e interesse legittimo, in Dir. pubbl., 2000, n. 1, 21 ss.
Peraltro, sullo specifico istituto della chance nel diritto amministrativo e in rapporto all’interesse legittimo, si è osservato come “il pregiudizio sofferto, in caso di illecito della P.A., non è affatto parametrato al bene della vita ex sé inattingibile, bensì alla possibilità di conseguirlo qualora l’azione amministrativa autoritativa fosse stata legittimamente esercitata. In altri termini: il danno da perdita di chance, di scaturigine civile, si candida “per sua natura” a governare il risarcimento per lesione dell’interesse legittimo”, così O. M. Caputo, La perdita di "chance" ontologica approda nelle aule della giustizia amministrativa, Nota a TAR Lazio, Roma, sez. I ter, 12 marzo 2015, n. 4063, in Urb. e app., 2015, 6, 708 ss. Sul punto v., altresì, R. Garofoli, La tutela risarcitoria, in Sandulli - De Nictolis - Garofoli (dir.), Trattato sui contratti pubblici, VI, Il contenzioso, Milano, 2008, 4090.
[xix] Cfr. Cons. St., sez. VI, 7 febbraio 2002, n. 686, in Foro amm. CDS, 2002, 453. Sul tema si v., altresì, Cons. St., sez. VI, 14 settembre 2006, n. 5323, in Foro amm. CDS, 2006, 9, 2585
[xx] Il Consiglio di Stato in tale pronuncia pone in evidenza come “la perdita di chance costituisce un danno derivante ora da responsabilità contrattuale ora da responsabilità extracontrattuale, si identifica con la perdita della possibilità di conseguire un risultato utile non con la perdita di quel risultato, ma richiede che siano stati posti in essere concreti presupposti per il realizzarsi del risultato sperato”.
[xxi] V. tra i numerosi e più recenti contributi sulla tematica: O. M. Caputo, La perdita di "chance" ontologica approda nelle aule della giustizia amministrativa, cit., 708-711; S. Ingegnatti, Risarcibilità del danno da perdita di "chance" nel diritto amministrativo, in Giur.it., 2015, 11, 2508-2514; M. Cortese, Profili della causalità civile e criteri di definizione e liquidazione del danno, in Danno e resp., 2017, 2, 142 ss.; M. Messina, Il danno da perdita di chance per una mancata promozione e le non trascurabili probabilità di successo, in Id., 2018, 3, 336 ss.; L. Tarantino, Il risarcimento del danno da perdita di chance, in Urb. app., 2018, 4, 575 ss.; V. Neri, La “chance” nel diritto amministrativo: una timida proposta, in Urb. app., 2018, 3, 293 ss.; I. Pagani, Il risarcimento della perdita di “chance” nelle gare per affidamenti pubblici, in Giur. it., 2018, 5, 1173 ss.; C. Paolini, Mancata indicazione degli obiettivi dirigenziali, valutazione negativa illegittima e danno da perdita di "chance", Nota a Cass. civ. sez. lav. 12 aprile 2017 n. 9392; in Il lavoro nelle p.a., 2018, 1, 143-151; P. Patrito, La perdita di "chance" nel diritto dei contratti pubblici, Nota a ord. Cons. Stato ad. plen. 11 maggio 2018, n. 7; Cons. Stato sez. V 11 gennaio 2018, n. 118, in Resp. civ. e prev., 2018, 5, 1620-1635; E.G. Napoli, La perdita di chance nella responsabilità civile, in Id.., 2018, 1, 52 ss.; L. La Battaglia, Il danno da perdita di "chance", in Danno e resp., 2019, 3, 349-366; S. Gatti, Riflessioni sulla (risarcibilità e sulla) quantificazione del danno da perdita di chance, in Resp. civ. e prev., 2019, 6, 2113-2134; C. Scognamiglio, Riflessioni in tema di risarcimento del danno per c.d. perdita della "chance", in Resp. civ. e prev., 2020, 6, 1742-1759; L. Viola, Il danno da perdita di 'chances' a vent'anni da Cass. n. 500/1999, in Urb. e app., 2020, 2, 182-200; B. Tassone, La chances nel diritto amministrativistivo (e non solo): riflessioni sistemiche in prospettiva multidisciplinare, in federalismi.it, n. 29/2020, 199-234.
[xxii] Cfr. sul punto L. Di Giovanni, La problematica del risarcimento da perdita di chance nel diritto amministrativo e nella disciplina dei contratti pubblici, cit., 372.
[xxiii] Cons. St., ad. plen., 11 maggio 2018, n. 7, in Foro it., 2018, 12, III, 638 e in Resp. civ. e prev., 2018, 5, 1617, con nota di Patrito.
[xxiv] Rilevata la situazione di incertezza, l’Adunanza plenaria ha evidenziato nella pronuncia come entrando nel merito della questione, da una parte, avrebbe potuto inammissibilmente interferire con profili già esaminati dalla sezione rimettente con la sentenza non definitiva; dall'altra, sarebbe stata in qualche modo condizionata dalle chiavi ricostruttive utilizzate dalla Sezione e dalle scelte già operate con la sentenza, con la conseguenza per cui si è esclusa la possibilità di un esame approfondito dei quesiti prospettati non condizionato da tali scelte, così come la possibilità dell'affermazione di un principio di diritto conseguente ad un esame pieno delle fattispecie.
[xxv] Così Cons. St., sez. IV, 20 luglio 2017, n. 3575, la quale richiama le antecedenti Cons. St., sez. IV, 20 gennaio 2015, n. 131 e 23 giugno 2015, n. 3147, tutte in www.giustizia-amministrativa.it. Sulla necessità di fornire una prova circa la concreta probabilità si v. altresì Cons. St., sez. V, 25 febbraio 21016, n. 762, in Foro it. 2016, 9, III, 468, con nota di Condorelli; sez. V, 22 settembre 2015, n. 4431, in dejure.it; sez. IV, 15 settembre 2014, n. 4674, in Foro it. 2015, 2, III, 106, con nota di Galli; sez. IV, 12 febbraio 2014, n. 674, in Guida al diritto, 2014, 19, 110 (s.m). Di recente, a conferma di tale orientamento che intende la chance quale “perdita attuale di un esito favorevole”, Cons. St., sez. IV, 16 maggio 2018, n. 2907, in Diritto & Giustizia, 2018.
[xxvi] Così L. Di Giovanni, La problematica del risarcimento da perdita di chance nel diritto amministrativo e nella disciplina dei contratti pubblici, cit., 396.
[xxvii] Ibidem, 383. Sui presupposti per la risarcibilità della perdita di chance in concreto si v. altresì F. Trimarchi Banfi, La chance nel diritto amministrativo, in Dir. proc. amm., 2015, 3, 873 ss. e G. Vercillo, La tutela della chance. Profili di diritto amministrativo, Napoli, 2012.
[xxviii] Ibidem, 386.
[xxix] Cfr., sul tema, Corte di giustizia UE, 20 dicembre 2017, C 998/2017.
[xxx] In questo senso, tra le altre, Cons. St., sez. V, 11 luglio 2018, n. 4225, in Resp. civ. e prev., 2018, 5, 1646, la quale conferma l'orientamento per cui il riconoscimento del danno da perdita di chance presuppone “una rilevante probabilità del risultato utile” frustrata dall'agire illegittimo dell'amministrazione, non identificabile nella perdita della semplice possibilità di conseguire il risultato sperato, bensì nella perdita attuale di un esito favorevole, anche solo probabile, se non addirittura la prova certa di una probabilità di successo almeno pari al 50% o quella che l'interessato si sarebbe effettivamente aggiudicato il bene della vita cui aspirava. Così ha previsto che “se, nel corso della procedura, condotte illegittime dell'amministrazione contrastano la normale affermazione della chance di aggiudicazione, viene leso l'interesse legittimo dell'operatore economico e — se è precluso anche il bene della vita cui l'interesse è orientato — è a lui dovuto il risarcimento del danno nella misura stimabile della sua chance perduta”. V. anche sul tema Cons. St., sez. V, 26 aprile 2018, n. 2527, in Foro amm., 2018, 4, 638.
[xxxi] Su cui si v. Cons. St., sez. V, 11 gennaio 2018, n. 118, in Resp. civ e prev., 2018, 5, 1614, cui è seguita, sempre in relazione alla stessa vicenda, Cons. St., sez. V, 17 dicembre 2018, n. 7117, in www.giustizia-amministrativa.it.
[xxxii] Sull’argomento si v. M. C. D'Arienzo, Il risarcimento del danno ingiusto negli appalti pubblici: proroga dell'affidamento illegittimo e perdita di chance, in Riv. giur. edilizia, 6, 2013, 333. Cfr. altresì F. Francario, Inapplicabilità del provvedimento amministrativo ed azione risarcitoria, in Dir. amm., 1, 2002, per un riferimento ai primi casi in cui la giurisprudenza amministrativa ha riconosciuto la risarcibilità della perdita di chance nelle ipotesi di annullamento degli atti della procedura d'evidenza pubblica.
[xxxiii] Rispetto a tale orientamento della giurisprudenza amministrativa si v., tra le più recenti, Cons. St., sez. IV, 16 maggio 2018, n. 2907, cit.; sez. IV, 23 settembre 2019, n. 6319; sez. II, 24 settembre 2020, n. 5604; sez. III, 27 ottobre 2020, n. 6546, tutte in www.giustizia-amministrativa.it, ove si è posto in evidenza come in mancanza della prova circa la probabilità di successo, almeno pari al 50% di quella che il ricorrente avrebbe avuto se non fosse stato emesso il provvedimento lesivo, non si possa fare ricorso alla valutazione equitativa ex art. 1226 c.c.
Hanno adottato tale posizione interpretativa anche taluni Tribunali amministrativi regionali: così T.A.R. Milano, Lombardia, sez. II, 13 novembre 2020, n.2171, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Latina, Lazio, sez. I, 30 aprile 2021, n. 264, in Foro amm., 2021, 4, 684; T.A.R. Napoli, Campania, sez. II, 3 maggio 2021, n. 2902 in www.giustizia-amministrativa.it, laddove si è rilevato come la perdita di chance rappresenti un danno attuale, non corrispondente alla perdita di un risultato utile, ma della possibilità di conseguirlo, la quale ai fini della risarcibilità del pregiudizio, deve essere statisticamente rilevante, ossia almeno pari, e non inferiore, al cinquanta per cento.
[xxxiv] V. in tal senso Cass. civ., sez. VI, ord. 23 ottobre 2019, n. 27011, in Foro it. 2020, 1, I, 261; Cass. civ. ord., 14 gennaio 2021, n. 559, in dejure.it; Cons. St., sez. III, 10 marzo 2021, n. 2021, in dejure.it; Cons. St., sez. VI, 28 aprile 2021, n. 3429, in Guida al diritto, 2021, 20.
[xxxv] Così Cons. St., ad. plen., 23 aprile 2021, n. 7, in Foro it., 2021, 7-08, III, 394 e in Resp. civ e prev. 2021, 4, 1246. Nel caso di specie la questione riguardava il danno derivante dall'impossibilità di fruire degli incentivi tariffari connessi alla produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, attribuibile al mancato rispetto dei termini del relativo procedimento autorizzativo; tale danno si è ritenuto nella pronuncia liquidabile secondo i criteri di determinazione del danno da perdita di chance, ivi compreso il ricorso alla liquidazione equitativa, non potendo corrispondere a quanto l'impresa istante avrebbe lucrato se avesse svolto l'attività nei tempi pregiudicati dal ritardo dell'amministrazione pubblica.
Tale pronuncia si colloca, peraltro, nel solco dell’orientamento giurisprudenziale favorevole al risarcimento del danno da perdita di chance in presenza degli evidenziati presupposti (così, ex multis, Cons. St., sez. II, 20 maggio 2019, n. 3217; Cons. St., sez. IV, 18 luglio 2017, n. 3520, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it).
[xxxvi] V., in tal senso, tra le altre, Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 15 ottobre 2020, n. 914, in Diritto & Giustizia, 2020.
[xxxvii] Cfr., in merito, la recente pronuncia Cons. St., sez. II, 12 marzo 2020, n. 1780, in Foro amm., 2020, 3, 402.
[xxxviii] Secondo i giudici, infatti, “richiedere (come ha fatto il giudice di primo grado) che la possibilità di conseguire il risultato debba raggiungere una determinata soglia di probabilità prima di assumere rilevanza giuridica, significa ricondurre nuovamente il problema delle aspettative irrimediabilmente deluse (con un percorso inverso a quello che ha portato a configurare la 'chance' come bene autonomo, in ragione dell'impossibilità di dimostrare l'efficienza causale della condotta antigiuridica nella produzione del risultato finale) dal 'danno' alla 'causalità'. In questo modo la 'chance' finisce per essere utilizzata quale frazione probabilistica di un risultato finale di cui (poteva essere fornita, ma) è mancata la prova. Ma si tratta di un esito del tutto contraddittorio, in quanto, se la verificazione dell'evento finale può essere empiricamente riscontrata, allora non ricorrono neppure i presupposti per l'operatività della 'chance'”.
[xxxix] Cfr., tra i precedenti in tal senso nella giurisprudenza amministrativa, T.A.R. Liguria, Genova, Sez. II, 14 aprile 2010, n. 165, in Foro amm. TAR, 2010, 1, 109; Cons. St., sez. VI, 11 marzo 2010, n. 1443, in Resp. civ. e prev., 2010, 10, 2080, con nota di Bosetto; Id., V, 2 novembre 2011, n. 5837, in Diritto e Giustizia, 2011; Id., Sez. V, 8 aprile 2014, n. 1672; Id., Sez. V, 1° agosto 2016, n. 3450, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it.
[xl] V. Cons. St., sez. IV, 16 maggio 2018, n. 2907; sez. IV, 23 settembre 2019, n. 6319; sez. II, 24 settembre 2020, n. 5604; sez. III, 27 ottobre 2020, n. 6546, tutte in www.giustizia-amministrativa.it. Cfr., in dottrina, L. La Battaglia, Il danno da perdita di "chance, cit.
[xli] V., in particolare, A. Vacca, commento a Cons. St., sez. VI, 13 settembre 2021, n. 6268, in www.lexitalia.it
[xlii] Su cui si v., L. Giagnoni, Il risarcimento del danno da perdita di 'chance' in caso di selezione competitiva non svolta approda senza successo, all'Adunanza Plenaria, nota a Cons. St., sez. V, 11 gennaio 2018, n. 118, in Urb. e app., 2018, 3, 360-372; P. Patrito, La perdita di chance nel diritto dei contratti pubblici, commento a Cons. St., 11 gennaio 2018, n. 118 e Cons. St., Ad. plen., 11 maggio 2018, n. 7 (Ord), in Resp. civ. e prev., 2018, 5, 1620-1635.
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