ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Siglata la pace tra Corte di giustizia e Corte costituzionale sul difficile terreno della sicurezza sociale
di Amelia Torrice
I giudici europei rispondono ai dubbi della Consulta in ordine all’accesso dei cittadini di Paesi terzi non soggiornanti di lungo periodo alle prestazioni dell’assegno di maternità e dell’assegno di maternità, (anche) rispetto all’art. 34 della Carta di Nizza. La sentenza, dando continuità a un orientamento recente, ma già consolidato, è l’occasione per riannodare definitivamente i fili del dialogo tra le massime Corti.
Sommario: 1. La vicenda. - 2. La Corte di Cassazione e la costituzionalità del bilanciamento legislativo. - 3. La Corte Costituzionale e la leale collaborazione tra sistemi di garanzia. - 4. La Corte di Giustizia: il perimetro dell’intervento. - 5. Il tema dell’efficacia nella causa della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione. - 6. Il diritto agli assegni di natalità e maternità nel segno dell’integrazione dei cittadini di Paesi terzi. - 7. Riflessioni conclusive.
1. La vicenda
Alcuni cittadini di Paesi terzi, legalmente soggiornanti in Italia, ma privi del permesso di soggiorno di lungo periodo[1], si sono visti negare il beneficio dell’assegno di maternità[2], ovvero dell’assegno di natalità[3] da parte dell’INPS. Tanto perché non erano titolari dello status di soggiornanti di lungo periodo.
La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sulle impugnazioni proposte avverso le varie decisioni delle Corti di Appello, si è posta nel solco tracciato dalle sentenze della Corte Costituzionale (successive alla sentenza n. 269 del 2017)[4], le quali hanno circoscritto i poteri di accentramento in capo alla medesima Corte Costituzionale quando vengono in rilievo i diritti fondamentali e si pone la questione della cosiddetta doppia pregiudizialità[5].
2. La Corte di Cassazione e la costituzionalità del bilanciamento legislativo
Con le ordinanze del 17 giugno 2019 n. 16163 e n. 16167[6], il giudice di legittimità ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del d.lgs. n. 151 del 2001, art. 74, in relazione agli artt. 3 e 31 Cost. e all’ art. 117 cost., comma 1, quest'ultimo in relazione agli artt. 20, 21, 24, 31 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, nella parte in cui richiede ai soli cittadini extracomunitari, ai fini dell'erogazione dell'indennità di maternità, anche la titolarità del permesso unico di soggiorno, anziché la titolarità del permesso di soggiorno e di lavoro per almeno un anno, in applicazione della disposizione generale contenuta nel d.lg. n. 286 del 1998, art. 41.
Nel corso della medesima udienza del 17 giugno 2019 con le ordinanze nn. 16164, 16165, 16168, 16170, 16171 e 16172[7], la Corte di Cassazione ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della l. n. 190 del 2014, art. 1, comma 125, in relazione agli artt. 3 e 31 Cost., e art. 117 Cost., comma 1, quest' ultimo in relazione agli artt. 20, 21, 24, 31 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, nella parte in cui richiede ai cittadini extracomunitari ai fini dell'erogazione dell'assegno di natalità anche la titolarità del permesso unico di soggiorno, anziché la titolarità del permesso di soggiorno e di lavoro per almeno un anno in applicazione del d. lgs. n. 286 del 1998, art. 41.
Nelle ordinanze in cui l’oggetto della domanda era costituito dall’assegno di natalità, nelle quali veniva in rilievo la direttiva UE 2011/98, la Corte di Cassazione ha precisato che la rilevanza della questione di legittimità costituzionale “non è impedita dalla pur concreta possibilità di procedere alla disamina del motivo di ricorso privilegiando la finalità, perseguita dai giudici di merito, diretta esclusivamente alla verifica di compatibilità della norma denunciata con la previsione dell'art. 12, paragrafo 1 lett. e), della direttiva UE 2011/98, che impone la parità di trattamento in favore dei "lavoratori dei paesi terzi di cui all'art. 3 paragrafo 1, lett. b) e c)”.
L'interpretazione delle disposizioni attributive del beneficio dell’assegno di natalità, che richiamavano, testualmente, il d. lgs. n. 286 del 1998, art. 9, che, attraverso le modifiche apportate dai due articoli del d. lgs. n. 40 del 2014, aveva recepito la direttiva UE 2011/98, a giudizio della Corte di Cassazione rendeva necessaria la disamina sul piano della conformità a Costituzione delle disposizioni relative a tale prestazione.
Tanto, sul rilievo che il peculiare meccanismo di funzionamento della non applicazione dell’art. 1, c. 125, l. n. 190 del 2014 “ovviamente limitato all'inciso che richiede per cittadini extra comunitari anche il possesso di permesso di lungo soggiorno”, non avrebbe potuto “realizzare effetti analoghi a quelli derivanti dalla pronuncia di incostituzionalità per violazione degli artt. 3 e 31 Cost., e art. 117 Cost., comma 1, quest' ultimo in relazione agli artt. 20, 21, 24, 31 e 34, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea (CDFUE)”.
Nella prospettiva della Corte di Cassazione, solo in sede di giudizio costituzionale sarebbe stato possibile, valutare la ragionevolezza della scelta discrezionale legislativa, frutto di bilanciamento dei contrapposti interessi e considerare gli indici normativi che avrebbero dovuto condurre il legislatore a riconoscere quale unico criterio selettivo giustificato e ragionevole il possesso della carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno, previsto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 41, quale espressione di un principio generale, al fine di riconoscere ai titolari la piena equiparazione ai cittadini italiani ai fini della fruizione delle provvidenze e delle prestazioni, anche economiche, di assistenza sociale.
“Per tali ragioni”, continua la Corte, “legate ai diversi effetti che potrebbero derivare dalla pronuncia della Corte Costituzionale rispetto al sistema al cui interno si colloca la disposizione sospettata di illegittimità costituzionale, l'applicabilità alla fattispecie della direttiva UE 2011/98 non determina l'irrilevanza della questione di costituzionalità…”.
Nelle ordinanze concernenti l’assegno di natalità sono stati ribaditi i principi affermati dalla Corte Costituzionale in virtù dei quali[8]: 1) a quest’ultima non può ritenersi precluso l'esame nel merito delle questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento sia a parametri interni, anche mediati dalla normativa interposta convenzionale, sia - per il tramite dell'art. 11 Cost., e art. 117 Cost., comma 1, - alle norme corrispondenti della Carta che tutelano, nella sostanza, i medesimi diritti; 2) rimane, comunque, il potere del giudice comune di procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, e - ricorrendone i presupposti - di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla CDFUE; 3) “...laddove però sia stato lo stesso giudice comune a sollevare una questione di legittimità costituzionale che coinvolga anche le norme della Carta, questa Corte non potrà esimersi, eventualmente previo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, dal fornire una risposta a tale questione con gli strumenti che le sono propri: strumenti tra i quali si annovera anche la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione ritenuta in contrasto con la Carta (e pertanto con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.), con conseguente eliminazione dall'ordinamento, con effetti erga omnes, di tale disposizione”.
Nelle ordinanze concernenti l’assegno di maternità, ricostruita la portata dell’art.74 del d. lgs. n. 151 del 2001, la Corte di cassazione ha spiegato le ragioni per le quali ha ritenuto non manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale della disposizione, per violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo della irragionevolezza e della disparità di trattamento, dell’art. 31 Cost., e dell’art. 117 Cost., comma 1, quest'ultimo in relazione agli artt. 20, 21, 24, 31 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea.
Precisato che non era richiamabile la direttiva 2011/98/CE, in quanto all'epoca dei fatti che avevano riguardato gli originari ricorrenti, tale direttiva non era stata ancora recepita dallo Stato italiano ed anzi ancora non era scaduto il termine fissato per il suo recepimento (25/12/2013), ha osservato che non occorreva esaminare se il diniego della corresponsione dell'indennità di maternità fosse valutabile in relazione all’art. 12 della direttiva[9].
3. La Corte Costituzionale e la leale collaborazione tra sistemi di garanzia
La Corte Costituzionale con l’ordinanza 30 luglio 2020, n. 182, si è rivolta alla Corte di Giustizia, ai sensi dell’art. 267 TFUE, come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, ed ha posto la seguente questione pregiudiziale: “se l’art. 34 CDFUE debba essere interpretato nel senso che nel suo ambito di applicazione rientrino l’assegno di natalità e l’assegno di maternità, in base all’art. 3, par. 1, lett. b) e j), del regolamento (CE) n. 883/2004, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, richiamato dall’art. 12, par. 1, lett. e), della direttiva 2011/98/UE, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico, e se, pertanto, il diritto dell'Unione debba essere interpretato nel senso di non consentire una normativa nazionale che non estende agli stranieri titolari del permesso unico di cui alla medesima direttiva le provvidenze sopra citate, già concesse agli stranieri titolari di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo”.
In particolare, è stato chiesto se l’art. 34 della Carta, come attuato dal pertinente diritto derivato, comprenda nel suo ambito di applicazione gli assegni di natalità e di maternità e se, pertanto, osti a una normativa nazionale che non estenda agli stranieri titolari del permesso unico di lavoro le suddette provvidenze, già concesse agli stranieri titolari dello status privilegiato di soggiornanti UE di lungo periodo.
La Corte Costituzionale ha spiegato che non poteva esimersi dal valutare se la disposizione “infranga in pari tempo i principi costituzionali e le garanzie sancite dalla Carta: l’integrarsi delle garanzie della Costituzione con quelle sancite dalla Carta determina, infatti, un concorso di rimedi giurisdizionali, arricchisce gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali e, per definizione, esclude ogni preclusione”.
Ha ribadito di dovere esperire il rinvio pregiudiziale “ogniqualvolta ciò sia necessario per chiarire il significato e gli effetti delle norme della Carta; e potrà, all’esito di tale valutazione, dichiarare l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata, rimuovendo così la stessa dall’ordinamento nazionale con effetti erga omnes”.
Richiamando la sua precedente sentenza n. 269 del 2017[10], ha tenuto a riaffermare, in maniera chiara ed inequivocabile, il ruolo della Corte di Giustizia quale unico interprete del diritto dell’UE[11].
E, per tal via, ha collocato il rinvio pregiudiziale “in un quadro di costruttiva e leale cooperazione fra i diversi sistemi di garanzia, nel quale le Corti Costituzionali sono chiamate a valorizzare il dialogo con la Corte di Giustizia .. affinché sia assicurata la massima salvaguardia dei diritti a livello sistemico (art. 53 della CDFUE) ed ha precisato che l’intervento chiarificatore che si richiede alla Corte di Giustizia è funzionale, altresì, alla garanzia di uniforme interpretazione dei diritti e degli obblighi che discendono dal diritto dell’UE, e ravvisa una connessione inscindibile tra i principi e diritti costituzionali evocati dalla Corte di Cassazione e quelli riconosciuti dalla Carta , arricchiti dal diritto secondario , tra loro complementari e armonici”.
In conclusione, il rinvio pregiudiziale è stato ritenuto necessario per la “connessione inscindibile tra i principi e i diritti costituzionali (…) e quelli riconosciuti dalla Carta”, legati da un “rapporto di mutua implicazione e di feconda integrazione” e per il “grave stato di incertezza sul significato da attribuire al diritto dell’Unione”.
È evidente, che, ponendo al centro del rinvio pregiudiziale l’art. 34 della CDFUE, la Corte costituzionale ha evitato di affrontare il tema della efficacia della direttiva n. 2011/1998, questione che veniva in rilievo nelle vicende relative all’assegno di maternità, maturate tutte prima della scadenza del termine per il suo recepimento (25.12.2013). Essa, inoltre, non ha interrogato la Corte di Giustizia sulla questione ben più complessa e spinosa, dell’efficacia diretta o meno dell’art. 34[12].
Temi, questi, men che lambiti dal riferimento, effettuato nella richiesta di decisione con procedimento accelerato, ai sensi dell’art. 105 del Regolamento di procedura della CGUE, a quella parte della giurisprudenza di merito che ha riconosciuto efficacia diretta all’art. 12 della direttiva 2011/98/UE.
4. La Corte di Giustizia: il perimetro dell’intervento
La Corte di Giustizia, con la sentenza 2 settembre 2021 causa C-350/20, richiamando la propria giurisprudenza (p.34 e 35), ha respinto la domanda del giudice di rinvio di sottoposizione della causa al procedimento accelerato, previsto dall’art. 105, par. 1, del regolamento di procedura della CGUE.
Tanto sul rilievo che, secondo la sua giurisprudenza[13], il numero rilevante di persone o di situazioni giuridiche potenzialmente coinvolte dalla decisione che il giudice del rinvio è chiamato ad adottare, dopo avere adito la Corte in via pregiudiziale, e la necessità di uniformare la giurisprudenza nazionale non costituiscono circostanze eccezionali tali da giustificare il ricorso ad un procedimento accelerato, che costituisce uno strumento procedurale destinato a rispondere a una situazione di straordinaria urgenza.
Su richiesta della Repubblica Italiana, la causa è stata giudicata dalla Grande Sezione, ai sensi dell’art. 16, terzo comma, dello Statuto della Corte di Giustizia.
La Commissione aveva contestato la ricevibilità della questione oggetto del rinvio pregiudiziale, nella parte concernente l’assegno di maternità, sul rilievo che i fatti di cui al procedimento principale erano anteriori al 25 dicembre 2013, data di scadenza del termine di recepimento della direttiva 2011/98.
Il Governo italiano aveva, a su volta, prospettato dubbi sul fatto che i ricorrenti nel procedimento principale fossero titolari di un permesso unico di lavoro e aveva rilevato che essi risultavano titolari di un permesso di soggiorno a diverso titolo, riservato alle persone che non possono essere qualificate come «lavoratori» e aveva osservato che l'articolo 12, par. 1, della direttiva 2011/98 è applicabile ai soli cittadini di paesi terzi che hanno una siffatta qualità.
La Corte di Giustizia ha riaffermato il principio[14], per il quale, nell’ambito della cooperazione tra la Corte e i giudizi nazionali prevista dall’art. 267 TFUE, spetta ai giudici nazionali, cui è sottoposta la controversia, valutare alla luce delle particolari circostanze di quest’ultima sia la necessità di una pronuncia pregiudiziale sia la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte.
Ha anche chiarito che il rigetto di una domanda proposta dal giudice nazionale è possibile soltanto ove appaia manifesto che l’interpretazione richiesta del diritto dell’Unione non ha alcuna relazione con la realtà effettiva o con l’oggetto del procedimento, ovvero nei casi di questioni meramente ipotetiche o, ancora, quando la Corte non abbia a disposizione elementi di fatto e di diritto necessari per rispondere in modo utile alle questioni sottoposte.
Per eliminare, poi, ogni dubbio sulla ricevibilità del ricorso, per la parte relativa all’assegno di maternità, in ragione della inapplicabilità della direttiva 2011/98 per mancata scadenza del termine per il suo recepimento alla data di verificazione dei fatti oggetto del procedimento, la Corte di Giustizia [15] ha osservato che il giudice del rinvio non era il giudice chiamato a decidere sulle controversie, ma la Corte Costituzionale, chiamata a dare una risposta, con effetti erga omnes, non solo al proprio giudice del rinvio ma a tutti i giudici italiani, alla luce sia delle norme di diritto nazionale che delle norme del diritto dell’Unione.
Sulla base di siffatta considerazione, la Corte di Giustizia ha affermato che l’interpretazione del diritto dell’Unione, richiesta dal giudice del rinvio (Corte Costituzionale), presentava un “rapporto con l’oggetto della controversia di cui è investito, che riguarda esclusivamente la legittimità costituzionale di disposizioni nazionali rispetto al diritto costituzionale nazionale alla luce del diritto dell’Unione”.
Diversa, in ragione della diversità dei giudizi innanzi alla CGUE e alla Corte Costituzionale, la giurisprudenza della Corte Costituzionale[16] che, in merito ai presupposti di ammissibilità dell’incidente di costituzionalità, con riferimento all’art. 51 della Carta, ha elevato a presupposto di invocabilità della Carta, nel giudizio di legittimità costituzionale, l’inerenza della fattispecie, oggetto di legislazione interna, ad ambiti disciplinati dal diritto europeo.
La Corte Costituzionale ha, altresì, sottolineato la necessità che la norma nazionale oggetto di scrutinio ricada nell’ambito applicativo di una norma europea diversa da quelle del catalogo sovranazionale, e non ha ritenuto, comunque, sufficiente il mero riscontro di un settore nel quale l’Unione è competente secondo i Trattati, nei casi in cui le sue istituzioni non hanno in concreto esercitato tale competenza ovvero non hanno adottato, mediante direttive, prescrizioni minime.
Ha, in particolare, escluso che la sussistenza di una “fattispecie europea” possa essere desunta dal generico riferimento a politiche perseguite dall’Unione o a raccomandazioni del Consiglio prive di forza vincolante ed ha affermato che il rimettente è perciò “chiamato a dare contezza delle ragioni per cui la disciplina censurata vale ad attuare il diritto dell’Unione. In mancanza, la prospettazione dei motivi di asserito contrasto tra la norma denunciata e il parametro costituzionale risulta generica, con conseguente inammissibilità della relativa questione”[17].
Ha evidenziato[18] di essere solita operare “una rigorosa ricognizione dell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione”, di avere costantemente affermato che “la CDFUE può essere invocata, quale parametro interposto, in un giudizio di legittimità costituzionale soltanto quando la fattispecie oggetto di legislazione interna sia disciplinata dal diritto europeo” ed ha rammentato che la Corte di giustizia ha puntualizzato che il collegamento “tra un atto di diritto dell’Unione e la misura nazionale in questione”, richiesto dall’art. 51, par. 1, della Carta, “non si identifica nella mera affinità tra le materie prese in esame e nell’indiretta influenza che una materia esercita sull’altra”.
5. Il tema dell’efficacia nella causa della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Riprendendo l’analisi della sentenza della Corte di Giustizia, e per concludere sulla ricevibilità, va rilevato che i dubbi in proposito prospettati dal Governo Italiano sono stati disattesi perché in realtà attenevano al merito della causa.
La Corte di Giustizia nella sentenza in commento non risponde alla domanda della Corte Costituzionale sulla portata dell’art. 34 della CDFUE, ma riqualifica o, meglio, precisa il quesito (p. 50), invertendo i termini della questione posta dal giudice del rinvio. Essa, infatti, pone la sua attenzione sul diritto derivato (art. 12 par. 1 lett. e della direttiva 2011/98 e art. 3, par. 1, lett. b e j, del regolamento 883/2004).
E ciò fa in sintonia con la sua precedente giurisprudenza[19], che, nella prospettiva di cooperazione tra i giudici nazionali e la Corte, afferma che quest’ultima ha il compito di fornire al giudice nazionale una risposta utile che gli consenta di dirimere la controversia di cui è investito e, dunque, di interpretare “tutte le norme dell’Unione che possono essere utili ai giudici nazionali….anche qualora tali disposizioni non siano espressamente indicate nelle questioni ad essa sottoposte dal giudice del rinvio…”.
Essa spiega (cfr. p. 46) che, attraverso il rinvio al Regolamento, “l’art. 12 par. 1, lett. e) della direttiva 2011/98, dà espressione concreta al diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale di cui all’ art. 34, paragrafi 1 e 2 della Carta” e, nel richiamare la propria sentenza dell’11 novembre 2014, causa C-530/13, p. 23 (cfr. p. 47), chiarisce che, “quando adottano misure rientranti nell’ambito di applicazione di una direttiva che concretizza un diritto fondamentale previsto dalla Carta, gli Stati membri devono agire nel rispetto di tale direttiva”.
Per vero, la Corte di Giustizia aveva già avuto modo di chiarire che “allorché stabiliscono le misure di previdenza sociale, di assistenza sociale e di protezione sociale definite dalla loro legislazione nazionale e soggiacenti al principio della parità di trattamento sancito all’articolo 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109, gli Stati membri devono rispettare i diritti ed osservare i principi previsti dalla Carta, segnatamente quelli enunciati all’articolo 34 di quest'ultima. Ai sensi del paragrafo 3 di tale articolo 34, al fine di lottare contro l'esclusione sociale e la povertà, l’Unione - e dunque gli Stati membri quando attuano il diritto di quest’ultima - riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all'assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti, secondo le modalità stabilite dal diritto dell'Unione e le legislazioni e prassi nazionali”[20].
Questa, dunque, è la ragione per la quale l’art. 34 della Carta rimane in secondo piano rispetto al diritto derivato: è alla direttiva che occorre avere riguardo per dare risposta al quesito del giudice del rinvio.
Alla Corte non è addebitabile alcuna ritrosia ad affrontare il tema della efficacia diretta della Carta e, in particolare, del suo articolo 34. V’è, piuttosto, per la Corte di Giustizia, la necessità di dare atto dell’esistenza di una disciplina derivata del diritto dell’Unione (direttiva 2011/98, regolamento 884/2004) nelle situazioni concernenti l’accesso dei cittadini di Paesi terzi all’assistenza sociale.
E, d’altra parte, non è privo di importanza il fatto che i diritti fondamentali garantiti nell’ordinamento giuridico dell’Unione si applicano, ai sensi dell’art. 51 della Carta e dell’art. 6 del Trattato, in tutte le situazioni disciplinate dal diritto dell’Unione, ma non al di fuori di esse[21].
6. Il diritto agli assegni di natalità e maternità nel segno dell’integrazione dei cittadini di Paesi terzi
La Corte ribadisce (p. 47) che gli Stati membri, quando adottano misure rientranti nell’ambito di applicazione di una direttiva che concretizza un diritto fondamentale previsto dalla Carta, devono agire nel rispetto di tale direttiva[22].
La sentenza in commento contiene (p. 48) l’importante affermazione secondo cui l’articolo 12, par. 1, della direttiva 2011/98, la quale concerne la procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico, che consente ai cittadini di Paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e stabilisce un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro, si applica sia ai cittadini di Paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi a norma del diritto dell'Unione o nazionale, sia ai cittadini di Paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini diversi dall'attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del regolamento n. 1030/2002[23].
La portata della disposizione viene ricostruita (p. 49) valorizzando il considerando 20 della direttiva 2011/98, che, come osserva la Corte, non si limita a garantire la parità di trattamento ai titolari di un permesso unico di lavoro, ma si applica anche ai titolari di un permesso di soggiorno per fini diversi dall’attività lavorativa, che siano autorizzati a lavorare nello Stato membro ospitante.
L’ambito di applicazione del diritto alla parità di trattamento nell’ambito della sicurezza sociale è determinato, spiega la Corte (p. 47, 2° cpv), avuto riguardo al considerando 24 dal regolamento n. 883/2004, oggetto di esplicito richiamo dall’art. 12, par. 1, lett. e) della direttiva.
Come è noto, il regolamento[24], all’art. 3, par. 1, precisa l’ambito di applicazione ratione materiae dei settori di sicurezza sociale elencandoli puntualmente.
Ebbene, in ordine alla possibilità di ricomprendere nei settori della sicurezza sociale l’assegno di natalità e l’assegno di maternità, la Corte ricorda di avere già affermato che: 1) il criterio di distinzione tra prestazioni che rientrano nell’ambito di applicazione del Regolamento e quelle che ne sono escluse è basato “essenzialmente sugli elementi costitutivi di ciascuna prestazione, in particolare sulle sue finalità e sui presupposti per la sua concessione e non sul fatto che una prestazione sia qualificata o meno come previdenziale da una determinata normativa nazionale” (p. 52)[25]; 2) “una prestazione può essere considerata previdenziale se, da un lato, è attribuita ai beneficiari, prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle loro esigenze personali, in base ad una situazione definita ex lege e se, dall'altro, si riferisce ad uno dei rischi espressamente elencati all'articolo 3, paragrafo 1, del regolamento n. 883/2004” (p. 53)[26]; 3) “prestazioni attribuite automaticamente alle famiglie che rispondono a determinati criteri obiettivi riguardanti in particolare le loro dimensioni, il loro reddito e le loro risorse di capitale, prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle esigenze personali, e destinate a compensare gli oneri familiari, devono essere considerate prestazioni previdenziali” (p.54)[27]; 4) “riguardo a prestazioni che siano accordate o negate o il cui importo sia calcolato tenendo conto dei redditi del beneficiario, che la concessione di prestazioni di tal genere non dipende dalla valutazione individuale delle esigenze personali del richiedente, trattandosi di un criterio oggettivo e legalmente definito che determina l'insorgere del diritto a tale prestazione senza che l'autorità competente possa tenere conto di altre circostanze personali” (p.55)[28]; 5) “affinché si possa escludere la sussistenza di detta condizione, occorre che la discrezionalità della valutazione, da parte dell'autorità competente, delle esigenze personali del beneficiario di una prestazione si riferisca anzitutto al sorgere del diritto alla prestazione stessa. Dette considerazioni valgono, mutatis mutandis, per quanto concerne il carattere individuale della valutazione, da parte dell'autorità competente, delle esigenze personali del beneficiario di una prestazione” (p. 56)[29].
Con riguardo alla questione se una data prestazione rientri tra le prestazioni familiari di cui all’articolo 3, par. 1, lett. j), del reg. 883/2004, la Corte osserva (p.57) che, ai sensi dell’articolo 1, lettera z), del medesimo regolamento, “l’espressione «prestazione familiare» indica tutte le prestazioni in natura o in denaro destinate a compensare i carichi familiari, ad esclusione degli anticipi sugli assegni alimentari e degli assegni speciali di nascita o di adozione menzionati nell'allegato I a tale regolamento. La Corte ha statuito che l’espressione «compensare i carichi familiari» deve essere interpretata nel senso che essa fa riferimento, in particolare, a un contributo pubblico al bilancio familiare, destinato ad alleviare gli oneri derivanti dal mantenimento dei figli”[30].
Con specifico riguardo all’assegno di natalità, la Corte, alla luce degli elementi forniti dal giudice del rinvio, rileva (p. 58) che esso è concesso automaticamente ai nuclei familiari che rispondono a determinati criteri oggettivi definiti ex lege, prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle esigenze personali del richiedente, senza che l'autorità competente, anche nella vigenza delle leggi che avevano ancorato la prestazione al mancato superamento di precisi limiti di reddito, possa (o potesse) tener conto di altre circostanze personali.
Inoltre, osserva (p. 59) che la prestazione si compendia nell’erogazione di una somma di denaro versata mensilmente dall'INPS ai suoi beneficiari e mira “segnatamente a contribuire alle spese derivanti dalla nascita o dall'adozione di un figlio. Si tratta, di conseguenza, di una prestazione in denaro destinata in particolare, mediante un contributo pubblico al bilancio familiare, ad alleviare gli oneri derivanti dal mantenimento di un figlio appena nato o adottato ai sensi della giurisprudenza richiamata al punto 57 della presente sentenza”.
E afferma, inoltre, che, poiché non ha mai figurato nella parte II dell’allegato I al Regolamento n. 883/2004, dedicata agli assegni speciali di nascita e di adozione, l’assegno di natalità non rientra nell’ambito di applicazione di tale allegato e che, pertanto, non può essere escluso dalla nozione di prestazioni familiari.
La Corte di Giustizia giunge, così, alla conclusione (p. 60) che l’assegno di natalità deve ricomprendersi tra le prestazioni familiari di cui all’art. 3, par. 1, lett. j), reg. 883/2004, escludendo ogni rilievo al fatto che esso assolva alla duplice funzione, evidenziata dal giudice di rinvio, di contributo alle spese derivanti dalla nascita o dall’adozione di un figlio e premiale (diretta ad incentivare la natalità), “posto che una di tali funzioni si riferisce al settore previdenziale di cui a tale disposizione”[31].
In ordine all’assegno di maternità, la Corte evidenzia , sulla scorta degli elementi forniti dal giudice del rinvio, che: “esso è concesso per ogni figlio nato o adottato, o per ogni minore in affidamento preadottivo, alle donne residenti in Italia, cittadine della Repubblica italiana o di un altro Stato membro o che siano titolari dello status di soggiornante di lungo periodo, a condizione che esse non beneficino di un'indennità di maternità connessa a rapporti di lavoro subordinato o autonomo o allo svolgimento di una libera professione e che le risorse del nucleo familiare di appartenenza della madre non siano superiori a un determinato importo” (p.61);
Rileva, poi, che l’assegno di maternità “è concesso automaticamente alle madri che rispondono a determinati criteri obiettivi definiti ex lege, prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle esigenze personali dell'interessata. In particolare, l'assegno di maternità è concesso o negato tenendo conto, oltre che dell'assenza di un'indennità di maternità connessa a un rapporto di lavoro o allo svolgimento di una libera professione, delle risorse del nucleo di appartenenza della madre sulla base di un criterio obiettivo e definito ex lege, vale a dire l'indicatore della condizione economica, senza che l'autorità competente possa tener conto di altre circostanze personali. Dall'altro lato, esso si riferisce al settore della sicurezza sociale di cui all'articolo 3, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 883/2004” (p. 62)[32].
In conclusione, dopo avere affermato (p. 63) che sia l’assegno di natalità sia l’assegno di maternità rientrano nei settori della sicurezza sociale per i quali i cittadini dei paesi terzi di cui all’art. 3, par. 1, lett. b) e c), beneficiano del diritto alla parità di trattamento di cui all’art. 12 , par. 1, lett. e), di tale direttiva e (p.64), e dopo avere precisato che la Repubblica Italiana non si era avvalsa della facoltà concessa agli Stati membri di limitare la parità di trattamento, secondo quanto previsto dall’art. 12 , par. 2, lett. b), dir. 2011/98[33], giunge all’affermazione (p. 65) che l’articolo 12, par. 1, lett. e), dir. 2011/98 deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale che esclude i cittadini di paesi terzi di cui all’articolo 3, par. 1, lett. b) e c), di tale direttiva dal beneficio di un assegno di natalità e di un assegno di maternità previsti da detta normativa.
7. Riflessioni conclusive
È indubbio che nell’ordinanza della Corte Costituzionale 182/2020 sia stato sottolineato, ancora una volta, in modo energico, risoluto e fiero, che alla Corte costituzionale spetta il compito di salvaguardare i diritti nella estensione massima, garantita dalla lettura delle disposizioni della Costituzione che vietano le discriminazioni arbitrarie e tutelano la maternità e l’infanzia (artt. 3 e 31 della Costituzione).
È, però, altrettanto innegabile che l’ordinanza abbia messo in risalto, con altrettanto fervore e genuina convinzione, come tale compito si svolga sotto la luce delle indicazioni vincolanti (artt. 11 e 117, c. 1, Cost.) offerte dal diritto dell’Unione Europea “che si riverberano sul costante evolvere dei precetti costituzionali in un rapporto di mutua implicazione e di feconda integrazione”.
È evidente, poi, che nella sentenza della Corte di Giustizia del 2 settembre 2021, l’applicazione non rigorosa dei presupposti di ricevibilità, effettuata in considerazione del ruolo della Corte Costituzionale, si salda con la manifestata intenzione di quest’ultima di collocarsi nel quadro “di costruttiva e leale cooperazione fra i diversi sistemi di garanzia, nel quale le Corti sono chiamate a valorizzare il dialogo con la Corte di Giustizia ..affinché sia assicurata la massima salvaguardia dei diritti a livello sistemico…” e di garantire, attraverso l’intervento chiarificatore della Corte di Giustizia la “uniforme interpretazione dei diritti e degli obblighi che discendono dal diritto dell’Unione”.
La pace tra le due Corti è fatta e il filo del dialogo, logorato dalla sentenza n. 269 del 2017 della Corte Costituzionale, già riannodatosi per effetto delle sentenze successive, si è irrobustito e impreziosito della riconosciuta “feconda integrazione e mutua implicazione” tra il diritto dell’Unione e i precetti costituzionali che si evolvono alla luce offerta dal primo.
Non è di poco conto il fatto che la pace sia intervenuta nel territorio difficile della sicurezza sociale perché soltanto la “feconda integrazione” e la “mutua implicazione” tra il diritto dell’Unione e quello nazionale, nelle applicazioni giurisprudenziali della Corte di Giustizia e delle Corti Costituzionali, sono in grado di rendere meno accidentato il percorso di riconoscimento dei diritti fondamentali in un settore, quale quello della sicurezza sociale, nel quale la CDFUE molto spazio di manovra lascia agli Stati membri.
Ed è proprio questo margine di manovra, a giudizio di chi scrive, che ha impedito alla Corte di Giustizia di dare al quesito posto dalla Corte Costituzionale una risposta storica, o se si vuole epocale, carattere ravvisato[34], invece, nelle recenti sentenze della Corte di Giustizia sulle ferie, che sono giunte alla dichiarata applicabilità diretta, anche a livello orizzontale dell’art. 31 par. 2 della Carta.
Con riguardo alle ferie, infatti, l’applicabilità diretta ed orizzontale poteva farsi derivare ex se dalla natura incondizionata e precisa dalla norma, caratteri non ravvisabili in nessuna delle disposizioni contenute nell’art. 34 che utilizzano la formula “secondo le modalità stabilite dal diritto dell’Unione e le legislazioni e prassi nazionali” (par. 1 e 3) ovvero “conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali” (par. 2).
Infine, alla sentenza della Corte di Giustizia va riconosciuto il merito di avere aggiunto un importante tassello nella tutela del diritto alla parità di trattamento dei cittadini di Paesi terzi legalmente soggiornanti quanto all’accesso alle prestazioni sociali di cui al Regolamento n. 883/2004. Essa, infatti, dà continuità alle precedenti sentenze che hanno posto l’accento “sul fatto che l’integrazione dei cittadini di paesi terzi si realizza anche garantendo loro un trattamento equo grazie alla previsione di un insieme comune di diritti, basato sulla parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro ospitante” e hanno riconosciuto che i cittadini di paesi terzi contribuiscono all’economia dell’Unione con il loro lavoro e i loro versamenti di imposte e che la parità di trattamento nel settore della sicurezza sociale è in grado di fungere “da garanzia per ridurre la concorrenza sleale tra i cittadini di uno Stato membro e i cittadini di paesi terzi derivante dall’eventuale sfruttamento di questi ultimi” [35].
[1] Il d. lgs. 25 luglio 1998, n. 286 - Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero. all’art. 9 Permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo dispone al comma 1 che “1. Lo straniero in possesso, da almeno cinque anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità, che dimostra la disponibilità di un reddito non inferiore all'importo annuo dell'assegno sociale e, nel caso di richiesta relativa ai familiari, di un reddito sufficiente secondo i parametri indicati nell'articolo 29, comma 3, lettera b) e di un alloggio idoneo che rientri nei parametri minimi previsti dalla legge regionale per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica ovvero che sia fornito dei requisiti di idoneità igienico-sanitaria accertati dall'Azienda unità sanitaria locale competente per territorio, può chiedere al questore il rilascio del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, per sé e per i familiari di cui all'articolo 29, comma 1.
Il medesimo decreto all’ art. 41 - Assistenza sociale - (Legge 6 marzo 1998, n. 40, art. 39) : prevede “ 1. Gli stranieri titolari della carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno, nonchè i minori iscritti nella loro carta di soggiorno o nel loro permesso di soggiorno, sono equiparati ai cittadini italiani ai fini della fruizione delle provvidenze e delle prestazioni, anche economiche, di assistenza sociale, incluse quelle previste per coloro che sono affetti da morbo di Hansen o da tubercolosi, per i sordomuti, per i ciechi civili, per gli invalidi civili e per gli indigenti”.
[2] Il d. lgs. 26 marzo 2001 n. 151 , art. 74 - Assegno di maternità di base - dispone che “Per ogni figlio nato dal 1 gennaio 2001, o per ogni minore in affidamento preadottivo o in adozione senza affidamento dalla stessa data, alle donne residenti, cittadine italiane o comunitarie o in possesso di carta di soggiorno ai sensi dell'articolo 9 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, che non beneficiano dell'indennità di cui agli articoli 22, 66 e 70 del presente testo unico, è concesso un assegno di maternità pari a complessive L. 2.500.000. 2. Ai trattamenti di maternità corrispondono anche i trattamenti economici di maternità corrisposti da datori di lavoro non tenuti al versamento dei contributi di maternità”.
[3] La legge 23 dicembre 2014, n. 190, art. 1 c. 125 ha riconosciuto, “per ogni figlio nato o adottato tra il 1º gennaio 2015 e il 31 dicembre 2017 un assegno di importo pari a 960 euro annui erogato mensilmente a decorrere dal mese di nascita o adozione, da corrispondersi sino compimento del terzo anno di età ovvero del terzo anno di ingresso nel nucleo familiare a seguito dell'adozione, per i figli di cittadini italiani o di uno Stato membro dell'Unione europea o di cittadini di Stati extracomunitari con permesso di soggiorno di cui all'articolo 9 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni, residenti in Italia e a condizione che il nucleo familiare di appartenenza del genitore richiedente l'assegno sia in una condizione economica corrispondente a un valore dell'indicatore della situazione economica equivalente (ISEE), stabilito ai sensi del regolamento di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 5 dicembre 2013, n. 159, non superiore a 25.000 euro annui. Ove il nucleo familiare di appartenenza del genitore richiedente l’assegno sia in una condizione economica corrispondente ad un valore ISE non superiore ai 7.000,00 annui, l’importo di €860,00 è raddoppiato”.
Norme di legge successive (art. 1 c. 248 L 27 dicembre 2017 n. 205, art. 23-quater d.l. 23 ottobre 2018 n. 119 conv. con mod. in l. 17 dicembre 2018, art. 1 c. 340 legge 27 dicembre 2019 n. 160), hanno confermato l’ attribuzione del beneficio per il più limitato periodo di un anno (dalla nascita o dall’ingresso nella famiglia di adozione) , per i figli nati da ultimo dal 1 gennaio 2020 al 31 dicembre 2020, di importo variabile in relazione alle condizioni economiche del nucleo familiare. L’art. 1, comma 362, legge 30 dicembre 2020, n. 178 ha confermato la prestazione, istituita dalla legge 23 dicembre 2014, n. 190, anche per ogni figlio nato/adottato/in affidamento preadottivo nel corso del 2021.
[4] Cfr. Corte cost. n. 20/2019; Corte cost. 63/2019; Corte cost. 112/2019; Corte cost. 117/2019, antecedenti alle ordinanze della Corte di Cassazione; successivamente cfr. Corte cost. 146/2020; Corte cost. 152/2020; Corte cost. 173/2020; Corte cost. 182/2020, tutte in Italgiureweb.
[5] Sulle affermazioni contenute nella sentenza n. 269 del 2017, tra gli innumerevoli commenti, cfr. A. Cosentino, La Carta di Nizza nella giurisprudenza di legittimità dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 269 del 2017, in http://www.osservatoriosullefonti.it; A. Cosentino, Doppia pregiudizialità, ordine delle questioni, disordine delle idee, in http://questione giustizia.it; F. De Stefano, Diritto dell’Unione europea e doppia pregiudizialità nel dialogo tra le corti (seconda parte), in http://giustiziainsieme.it; R. Conti, Giudice comune e diritti protetti dalla Carta UE: questo matrimonio s’ha da fare o no?, in http://giustiziainsieme.it. .
[6] Tutte in Italgiureweb.
[7] Tutte in Italgiureweb.
[8] Corte costit. n. 269/2017; Corte cost. n. 20/2019, tutte in Italgiurewe.b
[9] CGUE 15 aprile 2008 C-268/08, Impact, pp.41 e 42, ha chiarito che, nel periodo di tempo che intercorre tra l’entrata in vigore della direttiva e la scadenza del termine per la sua attuazione, sui giudici interni grava l’obbligo di astenersi da qualunque forma di interpretazione ed applicazione del diritto nazionale da cui possa derivare, dopo la scadenza del termine di attuazione, la messa in pericolo della realizzazione del risultato voluto dalla direttiva; si legga anche CGUE 5 ottobre 2004, Cause riunite da C-397/01 a C-403/01, Bernhard Pfeiffer e altri, p. 111, entrambe in https://eur-lex.europa.eu. .
[10] Si leggano anche Corte cost. n. 5/2019; Corte cost. n. 13/2019; Corte Cost. n. 20/2019; Corte Cost. n. 117/2019, in Italgiureweb.
[11] Sul punto, cfr. CGUE 10 dicembre 2020 causa C-220/20; CGUE 26 febbraio 2013, causa c-617/10, in https://eur-lex.europa.eu.
[12] Sul punto cfr. S.Giubboni - L’accesso all’assistenza sociale degli stranieri alla luce (fioca) dell’art. 34 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (a margine di un recente rinvio pregiudiziale della Corte Costituzionale), in Giur. Cost., fasc. 4, 2020. L’autore manifesta perplessità sulla formulazione del quesito che pone al centro l’art. 34 della Carta, definite tra le più neglette e, nel contestare, condivisibilmente a parere di chi scrive, la correttezza della formulazione del quesito che ha invertito i termini della questione, opina, in termini dubitativi (probabilmente), che la decisione della Corte Costituzionale e, prima, della Corte di Cassazione, è stata ispirata dall’uso dell’art. 34 della Carta nella sentenza fatto da CGUE 24 aprile 2012, C-571/10, Kamberaj.; D. Gatto e A. Nato L’accesso agli assegni di natalità e maternità per i cittadini di Paesi terzi titolari di permesso unico nell’ordinanza n. 182/2020 della Corte Costituzionale, in http://www.rivista.eurojus.it n. 4/2020, che, alla luce dell’ art. 51 della Carta, manifestano seri dubbi sulla opportunità della scelta della Corte Costituzionale di non limitarsi al diritto derivato ma di porre al centro del rinvio l’art. 34 della stessa Carta; S. Giubboni, L’accesso alle prestazioni di sicurezza sociale dei cittadini di Paesi terzi nel “dialogo” tra le Corti, in http://www.lavorodirittieuropa.it n. 1/2021.
[13] CGUE 8 dicembre 2020, causa C-584/19, A. e a., pp. da 33 a 36, in https://eur-lex.europa.eu.
[14] CGUE 13 novembre 2018, Cepelnik, C-33/17, richiamata dalla Corte; si legga anche CGUE 24 aprile 2012, causa C-571/10, in materia di parità di trattamento di cittadini terzi con riguardo a prestazioni assistenziali, tutte in https://eur-lex.europa.eu.
[15] La Corte di Giustizia ha richiamato la sentenza CGUE 5 febbraio 2004, C-157/02, Rieser Internationale Transporte , pp 67 e 68 per precisare “che una direttiva non può, certamente essere invocata dai privati per fatti anteriori al suo recepimento al fine di vedere disapplicate disposizioni nazionali preesistenti che sarebbero contrarie a tale direttiva”.
[16] Corte cost. n. 190/2020; Corte cost. 254/2020; Corte cost. 278/2020; Corte costit. 30/2021; Corte cost. n. sentenza 45/2021; Corte cost. 45/2021; Corte cost. 33/2021, in quest’ultima si legge che “L’omessa motivazione del rimettente sulla riconducibilità della questione all’ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea ai sensi dell’art. 51 della Carta dei diritti fondamentali – ciò che condiziona la sua stessa applicabilità – non esclude che le norme del catalogo sovranazionale possano essere comunque tenute in considerazione come criteri interpretativi degli altri parametri, costituzionali e internazionali, invocati dal rimettente”, tutte in Italgiureweb.
[17] Corte cost. n. 190 / 2020, in Italgiureweb.
[18] Corte cost. n. 254/2020; Corte cost. 278/2020; Corte cost. 30/ 2021; Corte cost. 33/2021, tutte in Italgiureweb.
[19] CGUE 18 dicembre 2019, causa C-447/18, UB, par. 35, in https://eur-lex.europa.eu.
[20] CGUE 24 aprile 2012, causa C-571/10, Kamberaj , par. 80, in https://eur-lex.europa.eu.
[21] Sulla interpretazione dell’art. 51 della Carta, cfr. CGUE sentenza 26 ottobre 2013, causa C- 617/10, Åkerberg Fransson (par. 19) che, sulla base delle spiegazioni alla Carta, parla di “applicabilità agli Stati quando agiscono nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, quindi in un contesto disciplinato da questo ma non necessariamente con riferimento alla fattispecie esaminata concretamente in via giudiziaria”, ha ritenuto applicabile la Carta agli Stati membri sulla base della sussistenza tra le norme interne e il diritto dell’Unione di un mero rapporto indiretto, di un collegamento generico e connesso al solo fatto di una di una competenza esercitata dall’Unione; cfr. anche CGUE 16 maggio 2017, causa C -682/2017, Berlios, tutte in https://eur-lex.europa.eu.; in sintonia, cfr. Corte cost. n. 239/2019; Corte cost. 263/2019; Corte cost. 271/2019 precisa che le censure di violazione della Carta dei diritti fondamentali non possono essere esaminate qualora il rimettente non indichi le ragioni per le quali si dovrebbe ritenere che la questione ricada nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione ai sensi dell’art. 51, par. 1, della stessa Carta, tutte in Italgiureweb.
[22] La sentenza in commento richiama CGUE 11 novembre 2014, causa C-530/13, Schmitzer, in https://eur-lex.europa.eu.
[23] Il Regolamento (CE) n. 1030/2002 del Consiglio, del 13 giugno 2002, che istituisce un modello uniforme per i permessi di soggiorno rilasciati a cittadini di paesi terzi, è stato modificato da Regolamento (CE) n. 380/2008 del Consiglio del 18 aprile 2008.
[24] Sulla nozione di prestazioni di sicurezza sociale assoggettate al principio di parità di trattamento e non discriminazione, cfr. CGE, 13 novembre 1974, causa C-39/74, Costa; CGE, 5 maggio 1983, causa C-139/82, Piscitello, CGE, 24 febbraio 1987, cause riunite C-379-381/85 e C-93/86, Giletti, ivi, 1987, I, 955; CGE 20 giugno 1991, causa C-356/89, Stanton-Newton, tutte in https://eur-lex.europa.eu.
[25] La Corte richiama CGUE 21 giugno 2017, causa C-449/16, Martinez Silva (p.20) e CGUE 2 aprile 2020, causa C-802/18, Caisse pour l’avenir des enfants (p. 35), tutte in https://eur-lex.europa.eu.
[26] La Corte richiama CGUE 21 giugno 2017, causa C-449/16, Martinez Silva (p.20) e CGUE 2 aprile 2020, causa C-802/18, Caisse pour l’avenir des enfants (p. 36), tutte in https://eur-lex.europa.eu.
[27] La Corte richiama CGUE 21 giugno 2017, causa C-449/16, Martinez Silva (p.20) e CGUE 2 aprile 2020, causa C-802/18, Caisse pour l’avenir des enfants (p. 37), tutte in https://eur-lex.europa.eu.
[28] La Corte richiama CGUE 12 marzo 2020, Caisse d'assurance retraite et de la santé au travail d'Alsace-Moselle, C-769/18 (p. 28), in https://eur-lex.europa.eu.
[29] La Corte richiama CGUE 12 marzo 2020, Caisse d'assurance retraite et de la santé au travail d'Alsace-Moselle, C-769/18 (p. 29), in https://eur-lex.europa.eu.
[30] La Corte richiama CGUE 2 aprile 2020, Causa C-802/18, Caisse pour l'avenir des enfants (p.38), in https://eur-lex.europa.eu.
[31] La Corte richiama CGUE 16 luglio 1992, causa C -78/91, Hughes, C-78/91 (p.n. 19 e p. n. 20) e CGUE 15 marzo 2001, causa C-85/99, Offermanns (p. 45), in https://eur-lex.europa.eu.
[32] Tale disposizione indica espressamente “le prestazioni di maternità e di paternità assimilate”.
[33] CGUE 25 novembre 2020, cause C -302/19 Istituto Nazionale della Previdenza Sociale-WS, concernente la direttiva 2011/98; CGUE 25 novembre 2020 , C-303/19, Istituto Nazionale della Previdenza Sociale-VR, relativa alla direttiva 2003/109, con le quali la Corte di Giustizia, in continuità con le sentenze 24 aprile 2012, C571/10, Kamberaj, 21 giugno 2017, C-449/16, Martinez Silva, ha affermato che le deroghe al diritto alla parità di trattamento previste dalle direttive 2011/98 e 2003/2019 possono essere invocate solo qualora gli organi competenti nello Stato membro interessato per l’attuazione di tale direttiva abbiano espresso l’intenzione di avvalersene., in https://eur-lex.europa.eu.
[34] G. Bronzini, “Trittico” della Corte di giustizia sul diritto alle ferie nel rilancio della Carta di Nizza, in Federalismi.it, 22 maggio 2019.
[35] CGUE C-302/19 ha affermato che la direttiva 2011/98 “tende a favorire l’integrazione dei cittadini di paesi terzi garantendo loro un trattamento equo grazie alla previsione di un insieme comune di diritti, basato sulla parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro ospitante. La direttiva mira altresì a creare condizioni uniformi minime nell’Unione, a riconoscere che i cittadini di paesi terzi contribuiscono all’economia dell’Unione con il loro lavoro e i loro versamenti di imposte e a fungere da garanzia per ridurre la concorrenza sleale tra i cittadini di uno Stato membro e i cittadini di paesi terzi derivante dall’eventuale sfruttamento di questi ultimi”. CGUE C-303/19, relativa alla direttiva 2003/19 ha affermato che quest’ultima tende a garantire l’integrazione dei cittadini di paesi terzi stabilitisi legalmente e a titolo duraturo negli Stati membri e, a tal fine, ad avvicinare i diritti di tali cittadini a quelli di cui godono i cittadini dell’Unione, in particolare assicurando la parità di trattamento con questi ultimi in una vasta gamma di settori economici e sociali. Lo status di soggiornante di lungo periodo permette quindi alla persona cui è attribuito di godere della parità di trattamento nei settori di cui all’articolo 11 della direttiva 2003/109, alle condizioni previste da tale articolo, tutte in https://eur-lex.europa.eu.
Congresso Mondiale su “Ragionamento Probatorio: 1st. Michele Taruffo Girona Evidence Week”, 23-27 maggio 2022
Giustizia Insieme, in qualità di Istituzione associata dell'evento, intende informare i propri lettori della programmazione del prossimo Congresso Mondiale sul Ragionamento Probatorio, che si svolgerà a Girona nelle date del 23-27 maggio 2022.
L'iniziativa dell'Università spagnola si pone in linea di continuità con il primo Congreso Mundial sobre Razonamiento Probatorio tenuto a Girona nel 2018 ed intende istituzionalizzare la realizzazione a cadenza triennale dell'evento, dedicandolo alla memoria del prof. Taruffo.
Il Congreso, giunto dunque alla sua seconda edizione, vuole essere un punto di incontro tra diverse prospettive nel modo di affrontare i problemi probatori nel processo civile e penale e potrà contare sulla presenza – in qualità di relatori – di alcuni fra i massimi specialisti mondiali della materia.
L'ambizione del progetto investe anche l'organizzazione e le modalità di svolgimento dell'evento, che si allontana dai modelli congressuali canonici, per alternare attività di natura prettamente conferenziale e di duscussione ad attività di didattica nella forma dei corsi brevi e dei workshop, che si svilupperanno in giornate di lezione lungo l'intero arco della settimana.
Il Congreso sarà realizzato in presenza, ma offrirà la possibilità di iscrizione online ai quattro corsi brevi con possibilità di partecipazione anche da remoto.
Si potrà prendere visione di tutte le informazioni consultando la pagina web dedicata, www.gironaevidenceweek.com, dove è possibile anche procedere all’iscrizione ai corsi.
Per maggiori dettagli dell'evento e delle attività di cui si compone si rinvia inoltre al documento informativo allegato.
L’Istituto penitenziario minorile di Nisida
Intervista di Valentina Busiello al Direttore Gianluca Guida
Nisida è una piccola Isola di origine vulcanica, appartenente all'Arcipelago delle Isole Flegree. Ospita l'Istituto Penitenziario Minorile che è uno dei migliori Istituti al mondo nel recupero e nella sicurezza dei minori. Una vista spettacolare a picco sul mare, dove si respira un’aria pura e di rinnovo sociale. A primo impatto salendo i due chilometri di altura si affaccia un panorama mozzafiato, dove si ha l’impressione di trovarsi “in un castello o una fortezza” immerso nella natura, una sensazione di luoghi che parlano.
Abbiamo incontrato il Direttore Gianluca Guida dell’Istituto penitenziario minorile di Nisida.
Direttore Guida, l’Istituto penitenziario si affaccia in un posto strategico dal panorama mozzafiato, dove basta aprire una finestra per poterlo ammirare. Siamo sull’Isola, Nisida nel cuore di chi la vive, soprattutto di chi ogni giorno vi si reca per il lavoro. Ce lo conferma?
Una suggestione gratificante. Per noi è importante chi incontra questa realtà possa capire il lavoro che svolgono i tanti operatori, in particolare operatori di Polizia Penitenziaria. Sottolineo questo ruolo poiché molto spesso viene stigmatizzato in termini negativi, mentre invece la funzione della Polizia Penitenziaria è di fondamentale importanza; chi come loro lavora con i minori, da generazioni sviluppa una grande professionalità, ed un’altissima capacità di entrare in relazione con l’utente, accompagnando la custodia con capacità di accudimento e stimolo.
È bene raccontare soprattutto questo, così come si possono raccontare gli errori o le situazioni meno gratificanti che accadono purtroppo nel nostro ambito di lavoro. Spesso la Polizia Penitenziaria sono dei giovani, e quindi anche loro si confrontano con altri giovani, che hanno avuto storie diverse ovviamente e con esperienze diverse. La bellezza del posto poi è uno strumento attraverso il quale aiutare i ragazzi a riconoscere il valore del bello. Non del bello effimero, ma il bello del profondo, che permette alla persona di star bene con se stesso e con gli altri; un’armonia che si raggiunge anche attraverso la valorizzazione del contesto ambientale.
Nisida è bella perché è stata protetta dalla presenza di un Istituto Penitenziario, altrimenti probabilmente sarebbe stata deturpata e devastata come tante altre aree. Sapere che il bello va protetto e curato sempre. Sono più di 10 anni che portiamo avanti un progetto con i nostri giovani ospiti, che ha permesso di riprendere la cura dell’Isola, da un punto di vista naturalistico abbiamo recuperato percorsi, la memoria dell’Isola, la tradizione storica e la tradizione letteraria.
Direttore, a parte l’istituzione che rappresenta, lei è soprattutto una personalità molta vicina ai giovani. Ci illustra un po’ la funzione dell’Istituto penitenziario minorile di Nisida, soprattutto parlandoci dei bellissimi ed importanti progetti che vengono realizzati insieme ai vostri giovani ospiti?
Partiamo dalla considerazione della particolare posizione di Nisida. L’istituto Penitenziario Minorile di Nisida è sicuramente un Istituto di Pena speciale rispetto a tanti altri, poiché occupa una posizione abbastanza privilegiata, che non è stata nel passato. Nel senso che, per i molti anni l’area antistante. Nisida era una zona ad alta industrializzazione, non ambita e particolarmente inquinata. Per cui la presenza a Nisida di un Istituto di Pena non creava fastidio.
Ad oggi è un’area ad alta prospettiva di sviluppo economico, turistico, e sociale, si sono naturalmente accavallate molte attenzioni sicuramente legittime. Queste attenzioni ci hanno spinto a lanciare una sorta di sfida nel poter dimostrare che un luogo sano, bello, è un’occasione, un’opportunità per favorire il recupero di persone che sicuramente hanno fatto degli errori nei confronti della società, ma che è nostro interesse recuperare al bene comune e collettivo.
Cerchiamo di rimandare un messaggio di utilità generale, una persona detenuta che si abbruttisce o che si incancrenisce nella sua devianza è un cattivo servizio per la collettività, mentre invece una persona che recupera la positività delle dinamiche sociali, la relazione con il bene, e secondo la logica della cultura greca “con il bene e con il bello” inteso naturalmente come bello interiore, il bello che gratifica, è sicuramente una restituzione positiva per la collettività.
Nisida in questa prospettiva da anni cerca di lavorare utilizzando una strategia di intervento che parte dalla considerazione dei bisogni di cui i ragazzi devianti sono portatori, e che sono naturalmente bisogni che cambiano di generazione in generazione tenendo conto che le generazioni ora si susseguono con notevole frequenza.
Notiamo che ogni 3-4 anni la tipologia di utenza presenta caratteristiche diverse, più nuove rispetto al passato. Caratteristiche che naturalmente richiedono delle risposte adeguate, poiché non tutte le forme di devianza si affrontano nello stesso modo. Un esempio, un ragazzo che devia perché ha problemi di dipendenza, naturalmente prima ancora che qualunque intervento contenitivo ha bisogno di risolvere le condizioni del disagio che hanno determinato la dipendenza, così come un ragazzo che cresce in un habitat e in un contesto intriso della cultura dell’appartenenza criminale, prima di qualunque altro intervento ha bisogno di decontestualizzarsi culturalmente, mentalmente, dal modello di riferimento. E questo richiede un altro tipo di intervento e un altro tipo di azione. È sicuramente complesso, richiede tempo, fatiche, competenze, però è un’attività gratificante poiché permette in qualche maniera di dare risposte alle attese della collettività.
Naturalmente noi non usiamo “bacchetta magica” non è che risolviamo qualunque problema, ma proviamo a dare delle risposte che col tempo si rivelano degli strumenti utili per la persona che ha commesso degli errori e per la comunità familiare, ma soprattutto per la comunità sociale che dovrà ritornare ad interagire con il ragazzo stesso. Una competenza importante e fondamentale è la pazienza.
Direttore Guida, questi giovani ospiti quando avranno terminato il loro percorso nell’Istituto Penitenziario Minorile, ritorneranno ovviamente nel loro nucleo familiare?
Naturalmente dobbiamo immaginare che i ragazzi dopo aver terminato il percorso nell’Istituto Penitenziario Minorile rientreranno nelle loro famiglie perché tendenzialmente i ragazzi hanno una estrema povertà relazionale, e l’unica reale ricchezza è rappresentata da quelle poche relazioni affettive che li hanno nutriti, per quanto quelle relazioni potessero essere disfunzionali o in alcuni casi addirittura malate. Però sono le uniche che loro hanno avuto nella loro vita, e sradicare il ragazzo da questo tipo di relazioni sarebbe insano, poiché lascerebbe una ferita ed un vuoto. Aiutare il ragazzo ad affrontare con maturità e con senso critico la qualità di queste relazioni è il nostro obiettivo. Quindi non tanto una decontestualizzazione territoriale la dove il ragazzo non è pronto, ma stimolare la crescita di una capacità di leggere in senso critico riuscendo a mettere in rapporto quella tipologia di relazioni, insieme con altre relazioni dove aiutiamo a costruire attraverso il percorso della detenzione.
Ci illustra i bellissimi progetti realizzati dai giovani ospiti, ma soprattutto i progetti sul recupero a cui dedicate cura ed attenzione?
Tradizionalmente lavoriamo su tre linee di azione. La prima è quella dell’alfabetizzazione culturale, naturalmente nella stragrande maggior parte dei casi, i ragazzi che arrivano a Nisida e che entrano nella devianza sono ragazzi che hanno una notevole povertà culturale e che con fatica hanno preso la licenza media, portandosi dietro dei gravi gap culturali, alle volte anche sin dalle scuole primarie. Questo, da un lato è indicativo di un forte disagio che parte dall’età in cui erano bambini, prima ancora che adolescenti, ma è anche indicativo della difficoltà di questi ragazzi di riuscire a relazionarsi alla pari in una società in cui il livello culturale mediamente è comunque alto. Per cui rimarranno sempre marginali se non riescono a recuperare delle competenze di relazione culturale. Quindi l’alfabetizzazione culturale per noi è una priorità. La seconda linea di azione, è l’acquisizione di competenze nel saper fare.
Molte volte i ragazzi che deviano è come se non avessero mai sperimentato delle capacità, e questo naturalmente fa si che loro guardino alla devianza come l’unico strumento per potersi affermare nel contesto sociale.
Mentre invece non è cosi, molti dei ragazzi hanno veri e propri talenti, qualità che non sono state valorizzate, e non sono mai state nemmeno conosciute. Per cui il nostro compito è quello di dare ed offrire questa occasione, scoprendo soprattutto il valore della competenza professionale, cioè di imparare che un qualunque lavoro c’è una grande richiesta di impegno, costanza, capacità di collaborare in gruppo, fare squadra.
Tutte cose che generalmente non hanno avuto occasione di sperimentare, e che all’Istituto Penitenziario Minorile di Nisida molte volte sperimentano per la prima volta. La terza linea di azione, che a noi preme di più, è quella più delicata che lavora sul se dei ragazzi, va da un accompagnamento sui bisogni personali, magari in natura educativa piuttosto che non psicologica, sino a lavori di gruppo che vanno a toccare temi della loro esperienza un po’ delicati.
Tra questi ad esempio alcuni gruppi lavorano sul fenomeno delle dipendenze che possono essere dipendenze da sostanze stupefacenti, alcol, o ludopatie, che sono fenomeni sempre più frequenti. Altri gruppi lavorano sulle esperienze che hanno a che fare con il tema delle azioni violente. Per cui i reati che più spesso vengono commessi oggi dagli adolescenti che delinquono sono caratterizzati da questa violenza che molte volte non ha una ragione, e che ha bisogno di essere indagata, poiché se loro non riescono a capire perché c’è questa rabbia che diventa violenza, questa frustrazione che diventa agito, difficilmente riusciranno a superare la condizione di devianza e di criminalità.
Per noi questo percorso è estremamente importante. Un ulteriore attività di gruppo che portiamo avanti è quella che rappresenta un po’ il futuro della Giustizia poiché è un’azione di empatizzazione con il mondo delle vittime, propedeutica ad una possibile mediazione. Naturalmente non abbiamo gli strumenti e non siamo il contesto giusto per avviare un discorso tecnico di mediazione penale, però il nostro compito anche su input del nostro Dipartimento va nel senso di educare i ragazzi alla logica dell’incontro con l’altro, in maniera particolare dell’empatia con chi è stato vittima del reato. In modo tale che si possono creare delle precondizioni per ridefinire un collegamento, un ponte, almeno emozionale tra autore e vittima, con la speranza che poi un domani possa anche diventare un’occasione di ricomposizione. Ma naturalmente sono passi che richiederanno gradualità.
Tra le altre attività abbiamo elaborato un progetto chiamato “Percorsi Letterari di Nisida”, a scuola i ragazzi hanno fatto un lavoro di ricerca che gli ha permesso insieme ad insegnanti ingamba, di trovare decine di opere letterarie ispirate a Nisida. Il lavoro ha permesso ai ragazzi di capire il contesto nel quale si trovano, che non è solo un contesto di sofferenza, ma un ambiente di stimolo, poiché lo era per poeti, scrittori, e lo diventa anche per loro.
Tanti ragazzi ,ad esempio, si sono lasciati coinvolgere dalla poesia. Abbiamo nell’ambito del percorso letterario voluto dedicare uno spazio al cosiddetto “Giardino dei Poeti” in cui abbiamo messo insieme poesie scritte da poeti di grande rilievo, a poesie elaborate da ragazzi che sono stati nostri ospiti, perché chiunque in un particolare contesto può lasciarsi suggestionare dalle emozioni che sono indicatori di vita.
Questo lavoro realizzato dai ragazzi, di recupero dell’ambiente, recupero della memoria, recupero delle emozioni, lo mettiamo a disposizione della città attraverso dei percorsi guidati, delle visite aperte al pubblico in occasione delle Giornate Fai, giornate promosse da Associazioni. Naturalmente, con le cautele del caso poiché Nisida è un microcosmo, queste occasioni possono permettere ai napoletani e ai non napoletani di conoscere la bellezza dell’Isola a 360 gradi, la bellezza culturale, quella ambientale e sociale del lavoro realizzato dai nostri giovani ospiti.
Sono stati scritti molti libri con i ragazzi, poiché c’è una linea di azione portata avanti in maniera particolare da alcuni docenti, e cito in particolare la Professoressa Maria Franco che ha lavorato per anni su questo progetto, che ha permesso di portare a Nisida scrittori contemporanei, che gratuitamente hanno scritto con i ragazzi, ogni anno scegliendo un tema diverso. Una sorta di testimonianza e una restituzione del loro vissuto, non in maniera cronachistica per sapere cosa hanno fatto, ma per sapere chi sono questi ragazzi che arrivano a Nisida. Alcuni libri sono stati pubblicati da Guida Editore che è stato molto vicino a noi. Da 10 anni a questa parte e quasi ogni anno esce una pubblicazione nostra.
PSICHE, COLPA E GIUSTIZIA IN SCENA: recensione al film “TRE PIANI” di Nanni Moretti
di Lara Vernaglia Lombardi
Trarre un film da un libro è impresa ardua quanto alla resa visiva di immagini che la lettura rende sicuramente più intellegibili in tutte le sfaccettature e le interpretazioni rese possibili dalla capacità del lettore e dello scrittore.
Quando il libro (“Tre piani” edito in Italia da Neri Pozzi) è scritto da Eshkol Nevo, laureato in psicologia e nato a Gerusalemme, la difficoltà è accresciuta dalla impossibilità di riprodurre, in ambientazione italiana, la storia di Israele facendola coincidere con tante piccole storie familiari e interne come fa lo scrittore senza mai cadere in un’evocazione politica.
Ciò è paradossale se riferito a un regista, quale Nanni Moretti, che ha fatto dell’ideologia politica, con sapiente ironia, l’icona del suo stile e la traccia distintiva della sua filmografia; ironia che, tuttavia, si arresta in occasione del primo Moretti che si cimenta in un soggetto non originale che diventa privo di sarcasmo, denudandosi sino alla narrazione visiva asciutta e distaccata.
La storia è quella di tre famiglie, accomunate da una infelicità latente e pronta a divampare, che abitano tre piani di un condominio borghese romano.
Il primo piano è abitato da un padre, Lucio, una madre, Sara, e una bambina che sovente viene affidata ad una coppia di anziani vicini di casa, al secondo piano vive Monica che si trova a gestire una gravidanza, il parto e la crescita di sua figlia da sola tra videochiamate al marito che lavora in altri luoghi e visite alla propria madre ricoverata per problemi mentali.
Al terzo piano dimora una coppia di magistrati, Dora e Vittorio, e il loro figlio.
La prima scena, muovendo dall’immobilismo e dall’ordine della palazzina, è rappresentata da una deflagrazione, che forse ci preannuncia quella interiore che sconvolgerà i protagonisti del film, causata dall’impatto dell’automobile di Andrea, il giovane figlio dei magistrati, contro la parete dello studio dove svolge la sua attività Lucio, condomino interpretato da Riccardo Scamarcio.
Questo evento dirompente e traumatico, la rottura della parete che “copre” un interno, investe i personaggi e lo stesso fabbricato che li contiene lasciando che i tre piani si disvelino come i tre piani freudiani della personalità.
Così Riccardo Scamarcio, Lucio nella finzione, rappresenta l’ES, il piano istintivo, animalesco e rabbioso, ossessionato da una realtà che il proprio senso di colpa gli crea presentandosi come esclusiva.
L’occasione per dare sfogo a questo aspetto della personalità si invera quando la figlia, affidata per l’ennesima volta agli anziani vicini di casa, Giovanna e Renato, si perderà dopo essere andata a fare una passeggiata con l’anziano e sarà ritrovata dal padre in un parco insieme al vecchio, disarmato, decaduto e debole di fronte al quale Scamarcio creerà un suo mostro personale accusandolo di aver molestato la bambina e scagliandosi a più riprese contro di lui.
L’ossessione e la ricerca di una verità che non esiste se non nella sua mente lo indurranno a commettere nei confronti della giovane nipote dell’anziano lo stesso reato di cui lo accusa e da cui una giustizia (più aderente alla realtà di quanto non sia quella esercitata in privato) lo assolverà per essere risultata la ragazza consenziente al rapporto sessuale.
Monica, invece, rappresenta l’IO, il ponte tra le due altre istanze freudiane, sospesa tra realtà e apparenza, tra la minaccia della malattia mentale e il dovere materno che svolge con esattezza pur tra mille difficoltà.
Confiderà al medico della madre di avere delle visioni, ma verrà rassicurata sulla impossibilità di trasmissione ereditaria della malattia da una scienza che si rivelerà forse fallace, di fronte alla imprescrutabilità della mente umana e al cospetto del corvo nero che spalanca il becco a minaccia del ruolo di madre e dello svolgimento instintivo (ES) e doveroso (SUPER IO) del compito di crescita di un figlio.
Monica, e noi spettatori insieme a lei, verrà avvolta da una dimensione onirica in cui dare sfogo a impulsi trattenuti e repressi anche a causa di una assenza prolungata del marito e sarà alla fine rapita e strappata via dalla malattia o forse dal suo bisogno di vivere appieno solo attraverso la malattia-follia intesa come liberazione e libertà di pirandelliana e shakespeariana memoria.
Infine, Dora e Vittorio, il SUPER IO, il controllo, il divieto, l’inflessibilità, il revisore interno accentuato a tal punto da farne un mestiere che, fin quando viene esercitato nelle aule di giustizia, dove pure è richiesta una buona dose di equilibrio, è gestibile attraverso l’applicazione delle norme e controllabile attraverso la gerarchia delle giurisdizioni.
Quando però si esplica all’interno delle mura domestiche, nei confronti di un figlio che deve affrancarsi dalla strada impostagli per intraprendere la sua strada, rischia di deragliare dai binari dell’equilibrio e della sana educazione per essere travolto da regole etiche soggettive e influenzate da fattori personali.
Così, la giustizia amministrata dal padre Vittorio mette nel mirino un bambino di otto anni che subisce una sorta di processo, per chissà quale marachella, e fatalmente non può non produrre effetti devastanti.
Genera un figlio rabbioso, violento verso il suo stesso padre, richiedente l’intervento del padre-magistrato per eludere una pena sicura contro ogni dettame razionale, legale e morale e che non trova altra via di uscita che la carcerazione e il successivo allontanamento volontario dai genitori.
Il personaggio di Vittorio lascia intravedere un magistrato irreprensibile, fermo e rigido applicatore delle leggi.
Emblematica è la figura di Nanni Moretti in toga sovrastata dalla scritta: la legge è uguale per tutti.
Non si dubita, conoscendolo nel corso delle riprese, che egli incarni, nell'amministrare giustizia, quei caratteri di obiettività e imparzialità che com'è noto sono alla base della professione giurisdizionale.
La questione, che può rivelarsi interessante per chiunque abbia scelto di intraprendere la strada della magistratura, si incentra sul come modulare nella vita e nelle relazioni sociali e familiari quella propensione al giudizio inflessibile che talvolta è connaturato alla persona per svariate ragioni caratteriali, educative, familiari.
Vittorio è giudice implacabile prima di tutto di se stesso e di riflesso del figlio e annienta il senso e il concetto di colpa non solo infliggendo adeguate condanne nelle aule di giustizia, ma anche privando se stesso di qualsivoglia macchia quale può essere un figlio disobbediente.
Non conosce elasticità, flessibilità, comprensione e capacità di mitigare il giudizio e la condanna quando si trova nel perimetro delle mura domestiche e deve seguire un suo codice personale.
Eppure nelle aule del processo penale ci si muove tra scriminanti, attenuanti o aggravanti, strumenti per dosare la pena a seconda del grado di colpa cosi come nelle aule del processo civile la condanna pecuniaria risente di minimi, medi e massimi valori e altre opportunità di azione e variazione nell'irrogazione della sanzione.
Vittorio ne è forse capace quale giudice (non ci è dato osservarlo all'opera, ma solo dedurre le sue modalità professionali), certamente non ne è capace come padre e come giudicante di se stesso.
E ancora, nella giustizia esistono tre gradi di giurisdizione, nella nostra individualità quanti piani abbiamo per controllare gli errori, emendarli e raggiungere la verità?
Ebbene, il mancato appello da parte della ragazza, presunta vittima del reato, alla sentenza di assoluzione di Lucio-Scamarcio ce ne mostra una realizzazione suggellando la verità questa volta non con un provvedimento, ma con una scelta individuale e cosciente che segue regole non codificate in un intreccio tra giustizia formale e sostanziale che si inseguono e si avvicendano nella coscienza umana e, talvolta, anche nelle aule giudiziarie turbando l’apparente inscalfibile serenità nella pur doverosa applicazione della legge.
Sullo sfondo, ma non troppo sullo sfondo, si staglia una magistrale Margherita Buy, Dora, una donna divisa tra il marito e il figlio, tra l’amore materno e quello coniugale, tra l’espressione della propria personalità e quella impostagli dal rigore di suo marito che, pure, lei ama a tal punto da mantenere con lui un collegamento oltre la morte attraverso telefonate indirizzate alla segreteria telefonica di casa in cui la voce di Vittorio riecheggia rendendolo sopravvissuto, ma in maniera diversa, incapace di replicare, fermo e cristallizzato nell’atto della presentazione della famiglia e della casa in cui squilla il telefono e risponde la segreteria.
Così assistiamo, dopo la morte di Vittorio, alla emancipazione dal SUPER IO della parte femminile dello stesso SUPER IO, osserviamo Dora ricongiungersi al figlio, indossare un vestito dalla promettente e germogliante fantasia floreale in luogo delle tuniche di colore scuro e a tinta unita da lei sempre indossate in precedenza in linea con uno stile rigoroso e opaco che caratterizzava la famiglia del terzo piano perché il controllo, il divieto, l’eccesso razionale possono rendere tutto meno trasparente e visibile.
Anche Dora è un magistrato, ma la consapevolezza del suo ruolo professionale è sfocato così come sottordinato rispetto al marito è l’intero personaggio interpretato dalla Buy che acquista un’autonomia solo alla scomparsa del coniuge.
La scena finale è un’altra deflagrazione che tuttavia si ricompone, si colora di allegra anarchia ordinata, di illegalità non punibile perché non dannosa: l’illegal tango che travolge i condomini non più collocati nei piani interni, ma en plein air, mischiati, indifferenziati, livellati dal sorriso che strappa loro un’immagine di ballo a coppie, dunque soggetto a regole di movimento e di linee, ma nello stesso tempo non controllabile, lasciato libero a significare un passaggio dall’interno all’esterno con maggiore consapevolezza delle proprie storie individuali, delle proprie paure, debolezze, dei propri desideri, delle proprie scelte e strade da percorrere, dei propri errori….eppure, mentre si svolge lo spettacolo del ballo, a Beatrice, la bambina neonata che ritroviamo a questo punto cresciuta dal padre dopo l’allontanamento di Monica, appare proprio Monica sorridente, impermeabile alla realtà, libera, se stessa e noi ci chiediamo se non sia l’immaginazione poetica e istintiva della bambina che materializza la figura materna in un momento di gioia o la malattia mentale foriera di visioni che segnerà anche il futuro della piccola……
Così, dopo la speranza liberatoria del ballo, rispettoso delle figure del tango e nello stesso tempo incontrollato nonostante sia “illegal”, ci sovviene la constatazione che forse anche il ballo è una visione alla quale Moretti ci avvicina per alleviare la possibilità di un finale più realistico, duro e ineluttabile….
Corte di Strasburgo e formalismo in Cassazione
di Guido Raimondi
Sommario: 1. La sentenza Succi c. Italia e l’accesso al giudice secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo - 2. Le fattispecie litigiose - 3. L’analisi della Corte europea - 4. Qualche riflessione.
1. La sentenza Succi c. Italia e l’accesso al giudice secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo
La pubblicazione, il 28 ottobre 2021, della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Succi et al. c. Italia (n. 55064/11, 37781/13 e 26049/14) ha suscitato, comprensibilmente, grande attenzione dentro e fuori la Corte di cassazione.
La Corte di Strasburgo si è occupata con questa sentenza di tre vicende giurisdizionali conclusesi con decisioni prese in ultima istanza dalla nostra Corte di legittimità, che in tutti e tre i casi aveva ritenuto inammissibili i ricorsi degli interessati, i quali poi si erano rivolti alla Corte europea.
I ricorrenti lamentavano la violazione del loro diritto di accesso al giudice, garantito dall’art. 6 § 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (in seguito: la Convenzione), sostenendo che le decisioni di inammissibilità prese dalla Corte di cassazione fossero affette da eccessivo formalismo.
Come è noto, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha assegnato al diritto di accesso alla tutela giurisdizionale, implicito nell’art. 6 § 1 della Convenzione (Golder c. Regno Unito, n. 4451/70, 21 febbraio 1975), una posizione sempre più centrale nell’architettura complessiva della Convenzione via via che si è acquisita la consapevolezza che una delle premesse fondamentali del sistema europeo di tutela dei diritti umani, cioè lo Stato di diritto, non può reggersi senza un apparato giurisdizionale credibile, indipendente, imparziale ed accessibile a tutti. Nell’attuale momento storico, nel quale i principi dello Stato di diritto e dell’indipendenza della magistratura sono sottoposti a tensione in alcuni Stati contraenti della Convenzione, anche membri dell’Unione europea, non c’è da stupirsi che la giurisprudenza europea sia particolarmente rigorosa nella tutela di questo aspetto fondamentale. Questo vale sia per la Corte europea dei diritti dell’uomo sia per la Corte di giustizia dell’Unione europea, che davvero, su questo terreno, procedono “mano nella mano”[1].
La Corte europea dei diritti dell’uomo si è occupata in varie occasioni del diritto di accesso al giudice, in particolare relativamente alle Corti supreme, o di ultima istanza. Un riepilogo dei principi elaborati dalla giurisprudenza a questo proposito si trova nella recente sentenza della Grande Camera Zubac c. Croazia (n. 40160/12, GC, 5 aprile 2018, §§ 76-82), alla quale si rinvia.
L’art. 6 della Convenzione non obbliga gli Stati contraenti a dotarsi di Corti di appello o di cassazione, ma se tali giurisdizioni esistono, le garanzie poste da questa disposizione si applicano anche in tali sedi, in particolare relativamente al diritto di accesso al giudice, per le decisioni inerenti ai “diritti ed obbligazioni di carattere civile” presi in considerazione dal § 1 del detto art. 6.
Detto questo, la Corte di Strasburgo considera fisiologiche possibili restrizioni all’accesso presso le Corti supreme, ammettendole se giustificate da un fine legittimo e proporzionate.
La Corte procede in primo luogo a considerare se la restrizione al suo esame persegue un fine legittimo, e poi passa a valutare la proporzionalità della stessa restrizione. Nella valutazione della proporzionalità della restrizione, la Corte procede ad un esame in concreto, prendendo in considerazione normalmente tre fattori: a) la prevedibilità della restrizione; b) la responsabilità – in capo al ricorrente o alle autorità – degli eventuali errori procedurali che abbiano impedito l’accesso alla giurisdizione superiore; e c) se la restrizione applicata riveli un “formalismo eccessivo” (v. Zubac, cit., § 85).
2. Le fattispecie litigiose
Come si è detto, i tre casi considerati dalla sentenza Succi riguardavano, per l’appunto, accuse di “formalismo eccessivo” rivolte alle decisioni di inammissibilità adottate dalla Corte di cassazione.
Nel primo caso (n. 55064/11, Succi), si trattava di una procedura di sfratto. Contro la sentenza a lui sfavorevole della Corte di appello di Catania, il ricorrente si era rivolto alla Corte di cassazione sollevando cinque motivi di impugnazione. La Sesta sezione civile della Corte di cassazione, con ordinanza n. 4977/11, riteneva inammissibile il ricorso perché, in violazione dell’art. 366, primo comma, n. 4 e 6, esso non conteneva la rubrica dei motivi, con la puntuale indicazione delle ragioni per le quali essi motivi erano stati proposti, né la “specifica indicazione” degli atti e documenti posti a fondamento del ricorso.
Nel secondo caso (n. 37781/13, Pezzullo), veniva in rilievo una controversia nella quale il ricorrente chiedeva al Comune di Frattamaggiore un risarcimento per un danno d’acqua subito da un immobile di sua proprietà. Contro la sentenza sfavorevole della Corte di appello di Napoli veniva proposto ricorso per cassazione con quattro motivi. All’epoca si applicava l’art. 366 bis del codice di procedura civile, introdotto dall’art. 6 del d. lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, poi abrogato dall’art. 47, comma 1, lett. d) della l. 18 giugno 2009, n. 69, sui “quesiti di diritto”. Con sentenza n. 3652 del 2013, la Terza sezione civile della Corte di cassazione dichiarava l’inammissibilità del ricorso per diverse ragioni: a) l’inidoneità dei “quesiti di diritto”, allora necessari, redatti in modo “astratto e generico”; b) per difetto di “autosufficienza” del ricorso, alla stregua dell’art. 366, primo comma, n. 6 cod.proc.civ., perché i documenti dei quali si lamentava in ricorso l’erronea valutazione o l’assenza di valutazione erano stati menzionati senza la riproduzione delle parti pertinenti e, laddove queste parti erano state riprodotte, omettendo di citare i riferimenti che avrebbero permesso di reperire gli stessi documenti; c) per il carattere apodittico delle critiche rivolte alla sentenza impugnata; d) relativamente al vizio di motivazione che era stato denunciato, il ricorso non conteneva, in violazione dell’art. 366 bis, secondo comma, cod.proc.civ., applicabile all’epoca, una chiara indicazione delle ragioni di critica.
Nel terzo caso (n. 26049/14, Di Romano et al.) si trattava del risarcimento dei danni richiesto dai familiari della vittima di un incidente stradale mortale. La Corte d’appello dell’Aquila riduceva l’ammontare del risarcimento accordato in primo grado e gli attori proponevano un ricorso per cassazione con quattro motivi. Con ordinanza n. 21232/13, la Sesta sezione civile della Corte di cassazione dichiarava inammissibile il ricorso ritenendo non assolta l’esigenza, posta dall’art. 366, comma primo, n. 3 cod.proc.civ., di una sintetica esposizione dei fatti nel ricorso per cassazione, con riguardo sia alla situazione litigiosa sia allo svolgimento della procedura. La Corte di cassazione osservava che nel ricorso al suo esame la “sintetica esposizione dei fatti” si prolungava per 51 pagine (sulle 80 complessive del ricorso) e riproduceva integralmente una serie di atti di procedura raggruppandoli con la cosiddetta tecnica dell’assemblaggio, senza il minimo sforzo di sintesi che permettesse di ricostruire la cronologia e lo sviluppo della procedura nei suoi snodi essenziali.
3. L’analisi della Corte europea
Dopo aver esposto sinteticamente la giurisprudenza della Corte di cassazione sul principio di autosufficienza del ricorso in cassazione e sull’art. 366 bis cod.proc.civ., la Corte europea ha esaminato i tre casi, giungendo a conclusioni diverse: di violazione nel primo e di non violazione nel secondo e nel terzo.
A parte la questione dei “quesiti di diritto”, che oggi presenta un interesse essenzialmente storico e a proposito della quale la Corte europea ha confermato la propria giurisprudenza (Trevisanato c. Italia, n. 32610/07, 15 settembre 2016), secondo la quale quel meccanismo processuale era compatibile con la Convenzione, sono interessanti le considerazioni della Corte di Strasburgo svolte a proposito del principio di autosufficienza del ricorso in cassazione, principio con il quale la Corte europea ha ritenuto compatibile – affermando in qualche modo la sua riconducibilità ad esso – l’esigenza di sintesi nell’esposizione del fatto, che conduce all’inammissibilità dei ricorsi che fanno uso della cosiddetta tecnica dell’assemblaggio (Succi, cit., § 110).
Svolgendo considerazioni comuni ai tre ricorsi riuniti, la Corte di Strasburgo ha sottoposto ad esame il principio di autosufficienza del ricorso in cassazione per come esso è stato elaborato dalla giurisprudenza, ed è giunta alla conclusione che questo principio, inteso come restrizione al diritto di ricorrere in Cassazione, persegue un fine legittimo, non accogliendo quindi la tesi dei ricorrenti, che tutti lo avevano contestato, denunciandone l’incompatibilità con la Convenzione (Succi, cit., § 74).
La Corte europea ha preso in esame le ragioni del principio quali emergono dalla giurisprudenza, e cioè la sua necessità per facilitare la comprensione dell’affare e delle questioni sollevate nel ricorso e per permettere alla Corte di cassazione di decidere senza dover consultare altri documenti, affinché essa possa preservare il suo ruolo e la sua funzione, che si risolvono nella garanzia, in ultima istanza, dell’applicazione uniforme e della corretta interpretazione del diritto nazionale (nomofilachia). Considerati questi elementi, la Corte europea è giunta alla conclusione, come si è anticipato, che il principio di autosufficienza persegue un fine legittimo, giacché esso tende a semplificare l’attività della Corte di cassazione e, allo stesso tempo, ad assicurare la certezza del diritto (sécurité juridique) e la buona amministrazione della giustizia (Succi, cit., § 74 e 75).
Ci sembra quindi che la sentenza Succi – sebbene si sia espressa in un caso, il primo dei tre ai quali si fatto cenno, caso sul quale subito torneremo, nel senso della violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione – rappresenti un autorevole avallo della giurisprudenza della Corte di cassazione in tema di autosufficienza del ricorso ad essa, con il riconoscimento della meritevolezza dell’esigenza che la giurisdizione di vertice dell’ordinamento italiano sia posta in condizione di assolvere il suo primario compito nomofilattico.
Nei due casi nei quali la Corte europea è giunta ad una conclusione di non violazione dell’art. 6 § 1 essa ha constatato, nell’esame della proporzionalità della restrizione, che ha fatto seguito all’accertamento della legittimità del fine perseguito, accertamento, lo si ripete, che è stato positivo per tutti e tre i casi, che il principio di autosufficienza era stato correttamente applicato.
Se nel primo caso (n. 55064/11) essa è pervenuta ad una soluzione diversa, questo si deve ad un esame in concreto dell’applicazione del principio di autosufficienza, che in questa vicenda è stato impiegato secondo la Corte europea, per l’appunto, “con eccessivo formalismo”.
Perché? Come si ricorderà, nel caso in questione la Corte di cassazione aveva ritenuto inammissibile il ricorso all’esame essenzialmente per due ragioni. Da una parte, perché mancava la rubrica dei motivi, con la puntuale indicazione delle ragioni per cui essi erano stati proposti e, d’altra parte, perché difettava la “specifica indicazione” degli atti e documenti posti a fondamento del ricorso. Procedendo all’esame in concreto degli atti, la Corte di Strasburgo ha invece constatato da un canto che le doglianze relative agli errores in procedendo e in judicando denunciati erano state esposte con sufficiente chiarezza e, d’altro canto, che la lettura del ricorso dimostrava che i passaggi pertinenti della sentenza impugnata erano stati riprodotti e che, nel citare i documenti della procedura di merito utili per sviluppare il suo ragionamento, il ricorrente aveva trascritto i brani pertinenti e indicato i riferimenti ai documenti originali, così permettendone l’identificazione tra quelli depositati con il ricorso.
4. Qualche riflessione
Quindi, compatibilità convenzionale del principio di autosufficienza e violazione dell’art. 6 § 1, in concreto, per la sua applicazione con “eccessivo formalismo”, non giustificabile proprio alla luce della finalità del principio di autosufficienza e dunque del fine perseguito, cioè quello della garanzia della certezza del diritto e della buona amministrazione della giustizia (Succi, cit., § 92).
Tutto bene dunque? Fino ad un certo punto, perché se si può ritenere che la violazione constatata a Strasburgo non metta in discussione la consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione sull’autosufficienza del ricorso davanti ad essa, questa sentenza è comunque un campanello di allarme, specialmente se si considera il monito contenuto nel § 82 della sentenza. Pur senza trarne conseguenze ai fini della decisione, la Corte osserva che “almeno fino alle sentenze n. 5698 e 8077 del 2012,” l’applicazione del principio di autosufficienza del ricorso “rivela una tendenza dell’Alta giurisdizione a porre l’accento su aspetti formali che non sembrano rispondere allo scopo legittimo identificato”, “in particolare per quanto attiene all’obbligo di trascrizione integrale dei documenti considerati nei motivi, e all’esigenza di prevedibilità [corsivo aggiunto] della restrizione.”
In un commento “a caldo” della sentenza Succi Bruno Capponi nota come – probabilmente perché il punto non era stato sollevato nei ricorsi – la pronunzia europea lasci nell’ombra un altro aspetto sovente coltivato nelle decisioni di inammissibilità della Corte di cassazione, quello della esigenza di specificità dei motivi, pure questo strumento di creazione giurisprudenziale e, secondo l’Autore, di applicazione non sempre prevedibile, e che Capponi pure colloca, insieme all’autosufficienza, in una dimensione sanzionatoria e di deterrenza alla quale a suo giudizio la giurisprudenza della Corte di cassazione indulgerebbe eccessivamente e che sarebbe cosa diversa dal formalismo giuridico[2].
Sia come sia, crediamo che questa sentenza europea, che pure, come dicevamo, non mette in discussione, a nostro sommesso avviso, la giurisprudenza della Corte di cassazione, induce comunque alla riflessione, soprattutto a proposito della esigenza di assoluta chiarezza e prevedibilità delle ragioni poste dalla Corte di legittimità alla base delle sue decisioni di inammissibilità.
Come si potrebbe non essere d’accordo con Bruno Capponi quando egli lamenta l’oramai ineludibile e stucchevole messe di eccezioni di inammissibilità che accompagna ogni gravame e le conseguenti, altrettanto stucchevoli, parti delle decisioni che vi rispondono prima di poter passare al merito della causa[3]? E come non sostenere il suo appello al legislatore perché sia lui, con norme chiare, a risolvere i problemi di accesso alla Corte di cassazione, magari con una valutazione scientifica e non approssimativa risorse necessarie[4]?
Nel frattempo, vorremmo dire dunque adelante, ma, beninteso, con juicio, senza mai dimenticare che il processo è uno strumento che deve permettere l’affermazione del diritto, e non una potenziale trappola per i suoi utenti.
[1] F.KRENC, L’État de droit: une exigence à clarifier, un édifice à préserver, in Revue trimestrielle des droits de l’homme (RTDH), 2021, p. 787 ; R.SPANO, Rule of Law: la Lodestar della Convenzione europea dei diritti dlel’uomo. La Corte di Strasburgo e l’indipendenza della magistratura, in questa Rivista, 4 marzo 2021; K.LENAERTS, The Two Dimensions of Judicial Independence in the EU Legal Order, in Fair Trial: Regional and Internaztional Perspectives. Liber Amicorum Linos-Alexandre Sicilianos, Anthemis, Limal, 2020, p. 333-348 ; F.BILTGEN, L’indépendance du juge national vue depuis Luxembourg, in Revue trimestrielle des droits de l’homme (RTDH), 2020, p. 551-566.
[2] B.CAPPONI, Il formalismo in Cassazione, in questa Rivista, 31 ottobre 2021.
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
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