Il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria: un’autonomia da consolidare
di Giacinto della Cananea*
Sommario: 1. Premessa problematica - 2. Varietà di organi di garanzia della magistratura - 3. I tratti distintivi del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria - 4. Questioni concernenti la composizione del Consiglio di presidenza - 5. L’incompleta disgiunzione del Consiglio dal Ministero delle finanze: le funzioni - 6. L’incompleta disgiunzione del Consiglio dal Ministero delle finanze: i mezzi - 7. La cultura dei magistrati - 8. Conclusioni.
1. Premessa problematica
All’inizio del terzo decennio del secolo, l’Italia presenta scostamenti anche sensibili rispetto ai principali partner europei. Essi sono evidenti in rapporto alle politiche di bilancio, dove l’introduzione della moneta comune e l’adozione di parametri qualitativi e quantitativi hanno reso più agevole il confronto tra gli obiettivi e soprattutto tra i risultati conseguiti, cioè la performance. Sono non meno evidenti in rapporto alla giustizia, che un antico e prestigioso filone di teoria – che annovera tra i suoi esponenti Adam Smith, professore di jurisprudence a Edimburgo ([1]) – include tra le compétences régaliennes, in ragione dell’inerenza al nucleo essenziale della sovranità. Rispetto all’epoca in cui la giustizia era riguardata come un affare esclusivamente interno agli ordinamenti giuridici a fini generali da tempo noti, cioè gli Stati moderni, i mutamenti intervenuti non sono pochi, né di trascurabile rilievo: segnatamente, gli Stati che fanno parte dell’UE hanno rinunciato alla pretesa all’esclusività nell’esercizio della giurisdizione; hanno accettato, altresì, una serie di principi e criteri direttivi, primi tra tutti il giusto processo, la speditezza dei giudizi e l’effettività della tutela giurisdizionale ([2]).
Valutati alla luce di tali principi e criteri direttivi, non pochi fra gli scostamenti che contraddistinguono il sistema italiano si configurano come punti di debolezza. Altri, meno numerosi ma pur sempre significativi, si configurano, al contrario, come punti di forza. Nel novero di tali punti di forza, vi sono l’accessibilità delle corti (non incrinata dal recente incremento dei costi, tuttora incommensurabile con altri ordinamenti, come il Regno Unito) e la protezione accordata, al livello normativo e nello svolgersi della “esperienza giuridica” - per usare l’espressione cara a Giuseppe Capograssi e Riccardo Orestano ([3])– all’indipendenza della magistratura. Tra i punti di debolezza, due vanno quanto meno richiamati. Il primo concerne il divario tra l’offerta e la domanda di giustizia sul piano quantitativo. I dati fattuali sono noti, grazie a resoconti recenti e accurati: vi sono circa sei milioni di cause pendenti; i tempi medi della giustizia civile sono superiori a sette anni, eccedendo quindi i sei anni ai quali la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ricollegato la speditezza della giustizia; nel solo ambito tributario – quello che qui interessa – vi sono 55.000 ricorsi pendenti presso la Corte di Cassazione ([4]). Questi dati sono di per sé assai significativi, perché qualunque studioso delle scienze sociali sa che, oltre una certa soglia, i dati di ordine quantitativo assumono rilievo qualitativo, denotando l’effettività delle funzioni pubbliche, non importa se in senso positivo o negativo. Essi sono confermati da ulteriori dati. Nell’ambito tributario, quasi la metà delle sentenze delle commissioni tributarie regionale per le quali è proposto ricorso per Cassazione sono annullate da quest’ultima, pur se va ricordato – per completezza – che il ricorso per Cassazione è esperito per una frazione quantitativamente limitata delle sentenze di appello. Inoltre, all’arretrato accumulato nel passato si aggiunge ogni anno un flusso di 10.000 di ricorsi in entrata, sicché non è seriamente pensabile che la Corte di Cassazione possa esercitare in modo adeguato la funzione di nomofilachia che l’ordinamento le attribuisce (articolo 65 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12), per assicurare, per quanto possibile, la certezza del diritto.
Questa premessa problematica serve a sottolineare fin dall’inizio – a fini di chiarezza – che un’indagine sugli organi di garanzia della magistratura (l’espressione è qui utilizzata in alternativa a quella, più frequente ma imprecisa, di “organi di autogoverno”) non può prescindere dal contesto, relativamente al quale la situazione in cui l’Italia versa non è più avanzato di quello di altri paesi. È, anzi, discutibile, se tale situazione sia in linea con gli assetti e i requisiti elaborati e affinati all’interno del Consiglio d’Europa.
2. Varietà di organi di garanzia della magistratura
Può essere di qualche utilità cominciare con il segnalare che, per quanto concerne gli organi di garanzia della magistratura, la tendenza delle democrazie liberali è a divergere e a convergere sotto due principali profili. Il quadro dei principali ordinamenti, anche a volersi limitare all’Europa, è variegato per quanto concerne l’allocazione della competenza. Essa è attribuita a volte a organi ampiamente modellati dalla prassi, come il Judges’ Council inglese, almeno fino alla riforma del 2002. Altre volte, sono istituiti da disposizioni formalmente costituzionali, come il nostro Consiglio Superiore della Magistratura. Tra tali estremi, ma più prossimi al secondo, si situano vari, come la Germania. Ovunque, peraltro, si è diffusa la consapevolezza che affidare tale funzione esclusivamente ai magistrati, non importa come essi siano scelti a tal fine, non è la soluzione più rispondente all’interesse della collettività ([5]). Non lo è, anzitutto, per la natura tendenza di ogni gruppo sociale all’autoreferenzialità. Non lo è, inoltre, perché per assicurare il buon funzionamento della giustizia, hanno una precisa importanza i principi costituzionali, ma ne hanno anche i criteri di buon funzionamento, dalla determinazione dei carichi di lavoro alla loro distribuzione e alla verifica delle attività svolte.
L’assetto istituzionale italiano è reso più complesso dalle modalità con cui è stato attuato il principio cui si attengono tutti gli ordinamenti avanzati, ossia la specializzazione. Il luogo comune secondo cui le scelte organizzative effettuate in Italia, come in Francia e in Germania, hanno unicamente una ragion d’essere storica – e solo perciò giuridica – si rivela infondato non appena ci si accorge che perfino nell’ordinamento inglese si è fatta strada la distinzione tra la risoluzione delle dispute tra i soggetti privati e la risoluzione delle dispute riguardanti l’esercizio di funzioni e potestà pubbliche, ed essa è stata rinsaldata dalla decisione di porre fine alla tradizione di far ruotare i giudici nelle due componenti della Queen’s Bench Division. Da noi, l’articolo 103 della Costituzione ha confermato l’esistenza della distinzione tra la giurisdizione ordinaria e le giurisdizioni che all’epoca erano ancora solite dirsi “speciali”: quella amministrativa e quella contabile, all’epoca correlate a due istituzioni secolari, il Consiglio di Stato e la Corte dei conti. Ma la Costituzione ha stabilito soltanto le norme d’apice riguardanti il CSM, negli articoli 104 e 105. Per le altre magistrature, ha provveduto il Parlamento, con norme separate e non di rado assai diverse nei contenuti. Insomma, la legislazione italiana non realizza, né presuppone che debba esservi una fattispecie generale di organizzazione delle istituzioni adibite alla vigilanza sull’indipendenza della magistratura e alla promozione del buon andamento nell’amministrazione della giustizia.
Ciò ha fatto sì che nella prassi operativa si sia rivelato tutt’altro che facile delineare criteri direttivi comuni. A ciò si è cercato di porre rimedio, da una parte, facendo tesoro dei principi costituzionali. Essi impongono per tutti gli atti delle autorità che adempiono una funzione amministrativa il controllo giurisdizionale. Sconsigliano, inoltre, di utilizzare – per il CSM e per altri organi – espressioni che facciano riferimento al “cosiddetto autogoverno (espressione, anche questa, da accogliere piuttosto in senso figurato che in una rigorosa accezione giuridica)” ([6]). Dall’altra parte, faute de mieux, si è cercato di estendere in via di analogia taluni precetti definiti per il CSM. Quest’ultima è una tendenza non solo comprensibile, ma per alcuni versi anche condivisibile, per il rango del Consiglio e per la natura giuridica delle regole che ne disciplinano l’organizzazione e il funzionamento ([7]). Essa si spiega anche alla luce di un fatto ben noto: i giudici ordinari fanno parte sia del CSM, sia del CPGT e non pochi tra i giudici amministrativi, contabili e anche militari provengono dalla magistratura ordinaria. Ma, come Tocqueville aveva finemente osservato con riferimento all’Antico regime, la naturale tendenza a perseguire l’uniformità dispensa dall’occuparsi d’una infinità di dettagli, ma distoglie dalla comprensione delle diversità esistenti, che rendono quei dettagli così importanti. Si pensi, per esempio, che per i procedimenti disciplinari, sono del tutto diverse le attribuzioni riguardanti l’esercizio della funzione disciplinare. Esse spettano al Ministro della giustizia e al Procuratore generale presso la Corte di Cassazione per i magistrati ordinari; al solo Procuratore generale della Corte dei conti per i magistrati contabili; al Ministro della difesa e al Procuratore generale militare presso la Corte di cassazione per i giudici militari; infine, al presidente della commissione tributaria regionale e al Consiglio dei ministri per i giudici tributari. Inoltre, mentre la potestà disciplinare nei confronti dei magistrati ordinari è esercitata all’interno di sequenze processuali, per i magistrati amministrativi, contabili e tributari, è previsto lo svolgimento di procedimenti amministrativi, che si presentano più d’un tratto di specie.
La conclusione che discende dalle notazioni fin qui effettuate è che sulla configurazione dei vari organi di garanzia hanno influito sia la storia, sia decisioni politiche occasionali, assai di rado sorrette da una rigorose visione sistematica. Se sia desiderabile, sul piano normativo o prescrittivo, una disciplina tendenzialmente uniforme o addirittura comune è un’altra questione. L’esperienza delle cosiddette autorità amministrative indipendenti, tra le quali è stata a volte annoverata anche la Banca centrale, dimostra che si tratta di un “vasto programma”, nel senso che all’espressione venne dato da Charles De Gaulle.
3. I tratti distintivi del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria
Anche per i motivi appena indicati, l’assetto istituzionale che riguarda specificamente la giustizia tributaria mal si presta a essere giudicato con riferimento a paradigmi astratti. Esso va giudicato sui risultati, ovviamente tenendo conto dei principi costituzionali, segnatamente l’indipendenza della magistratura e il buon andamento dei pubblici uffici. Nei due paragrafi che seguono, verrà fatto riferimento, quindi, ad alcuni dati normativi e fattuali che mal si conciliano con quei principi, relativamente alle funzioni e all’organizzazione.
Prima di illustrarli, può essere di qualche utilità segnalare brevemente alcuni tratti che denotano il CPGT. Creato nel 1992, esso non è soltanto l’organo di garanzia di più fresca costituzione (quelli per la giustizia amministrativa e contabile sono stati istituiti, rispettivamente, nel 1982 e nel 1988; quello militare nel 1988). E’ anche l’unico a gestire un corpo disomogeneo di giudici, dal momento che delle commissioni tributarie provinciali e regionali fanno parte sia magistrati (ordinari, amministrativi, contabili e militari), sia professionisti, e una magistratura onoraria. Ne discendono alcune conseguenze di cui non sempre vi è adeguata consapevolezza. Una concerne la legittimazione dei giudici ad assumere gli uffici di tipo direttivo, che attualmente è riservata ai magistrati da una disposizione di dubbia legittimità costituzionale. Un’altra riguarda i procedimenti disciplinari. Quanto osservato poc’anzi va integrato constatando che possono esservi, a volte vi sono, procedimenti – per dir così – “paralleli”, che si svolgono cioè dinanzi al CSM e al CPGT per i medesimi fatti, ma possono concludersi con diverse valutazioni. Il meno che si possa dire è che si tratta d’una situazione foriera d’incertezza sul piano giuridico.
Un secondo tratto distintivo riguarda la potestà regolamentare. In via preliminare, è bene ricordare che la tesi secondo cui l’articolo 108 della Costituzione configura una riserva di legge di tipo assoluto è stata confutata nella giurisprudenza costituzionale e amministrativa ([8]). Detto ciò, tutti gli uffici pubblici dotati di attribuzioni aventi rilevanza esterna dispongono della potestà di darsi regole circa il funzionamento delle proprie articolazioni interne e il disbrigo degli affari amministrativi. In ciò, il CPGT non si differenzia dagli altri organi di garanzia della magistratura. Se ne differenzia, invece, per quanto concerne i regolamenti aventi efficacia (almeno potenzialmente) esterna. Per esempio, l’articolo 18 del codice sulla protezione dei dati personali (decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196), dopo aver fissato il principio di fondo in base al quale qualunque trattamento di dati personali da parte di soggetti pubblici è consentito soltanto per lo svolgimento delle funzioni istituzionali, dispone che tali soggetti pubblici agiscono nel rispetto dei limiti “stabiliti dal presente codice …nonché dalla legge e dai regolamenti”. Ma, quando è divenuto pienamente applicabile il regolamento dell’UE n. 2016/679 e il CPGT ha predisposto un regolamento volto ad applicarlo nelle materie di propria competenza, è sorta un’incertezza con il Garante per la protezione dei dati personali quanto all’esistenza di un’apposita potestà regolamentare, con la paradossale conseguenza che le uniche regole sono quelle predisposte diversi anni addietro.
4. Questioni concernenti la composizione del Consiglio di presidenza
Per valutare in modo appropriato un terzo tratto distintivo, riguardante la composizione del CPGT, si possono trarre alcuni spunti dai criteri enunciati nel parere del consiglio consultivo sulle magistrature istituito all’interno del Consiglio d’Europa ([9]). Tre meritano particolare attenzione. Il primo, e fondamentale, è il favore per gli organi a composizione mista, sia per evitare che essi siano percepiti come volti alla tutela di privilegi, sia che possa allignare una qualsivoglia forma di clientelismo. Il secondo, che costituisce un correttivo del primo, è che all’interno di tali organi, vi sia una “sostanziale maggioranza di giudici”. Il terzo è che i componenti non tratti dalla magistratura, se designati dal Parlamento, non ne facciano parte, siano scelti da una maggioranza qualificata e rispecchino, nel complesso, la diversa composizione della società.
Nell’ordinamento italiano, tutti gli organi di garanzia della magistratura si conformano al primo criterio. D’altronde, rapporti di tipo dialettico sono in grado di condurre a soluzioni di norma migliori di quelle consentite da rapporti di tipo endogeno. Non a caso, la composizione mista è stata avallata dalla Corte costituzionale fin dalla sentenza n. 142 del 1973, prima richiamata. Quanto al secondo, vi è una varietà di soluzioni. Nel CSM, che è presieduto dal Capo dello Stato e ha due componenti che ne fanno parte di diritto, l’articolo 104 della Costituzione stabilisce che degli altri componenti due terzi sono eletti dai magistrati ordinari e un terzo - i componenti detti impropriamente “laici” – sono designati dal Parlamento, tra i quali dev’essere scelto il vicepresidente. Nella magistratura amministrativa e in quella contabile, il collegio è guidato – rispettivamente dal presidente del Consiglio del Consiglio di Stato e dal presidente della Corte dei conti, ma nel primo caso la componente elettiva è pari a tre quinti del collegio, nel secondo caso ha la medesima consistenza numerica di quella di designazione parlamentare. Nel Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, infine, il presidente è scelto all’interno di quest’ultima, pur se essa ha una consistenza numerica inferiore rispetto agli altri casi (quattro componenti su quindici).
Non è privo d’importanza che, storicamente, la scelta iniziale dell’Assemblea costituente, fortemente sostenuta da Meuccio Ruini, fosse nel senso della composizione paritaria tra le due categorie di membri del CSM ([10]). Inoltre, l’esperienza dimostra che la soluzione più appropriata per raggiungere gli obiettivi sottesi al primo criterio, tenendo conto del secondo, è costituita dalla disciplina riguardante la Corte dei conti, che ha superato il vaglio di costituzionalità ([11]). Per un verso, le due componenti elettive sono equivalenti, ciò che rende difficile approvare scelte non sufficientemente argomentate. Per un altro verso, la presenza di ben tre componenti ratione officii garantisce che i magistrati abbiano comunque una prevalenza. Per un altro verso, ancora, il regolamento interno dispone che la presidenza della commissione competente per i procedimenti disciplinari spetti a un componente designato dal Parlamento ed è una scelta congrua proprio in rapporto agli obiettivi sottesi al primo dei criteri definiti in sede europea.
Resta da dire del terzo criterio. La prassi finora seguita si conforma opportunamente sia all’indicazione riguardante l’incompatibilità dell’incarico di componente del CPGT con quella di membro del Parlamento, sia all’indicazione concernente il ricorso alla maggioranza qualificata. Nel periodo più recente, però, la designazione parlamentare di un componente che era già un giudice tributario ha rappresentato una deviazione rispetto al criterio europeo e, a ben vedere, anche rispetto al criterio nazionale secondo dev’esservi un determinato rapporto tra la componente tratta dai giudici tributari e la componente avente un’altra provenienza (articolo 17, primo comma, decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 545), proprio in vista d’una più equilibrata composizione, anche in relazione al corpo sociale. L’auspicio, quindi, è che in futuro le istituzioni parlamentari rettifichino tale deviazione.
5. L’incompleta disgiunzione del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria dal Ministero delle finanze: le funzioni
Si è osservato in precedenza che non esiste un decalogo operativo cui attenersi per valutare le funzioni e l’organizzazione degli organi di garanzia della magistratura. Non lo offre la legislazione: essa ha mancato di rivolgere attenzione a tali organi in via generale, concentrandosi invece sulle questioni specifiche riguardanti ciascuno di essi. Non li offrono nemmeno gli ordinati documenti predisposti all’interno del Consiglio d’Europa, che d’altronde – diversamente dall’UE – è contraddistinto da una base sociale assai diversificata, in cui alcune tra le più antiche e consolidate democrazie liberali convivono con regimi apertamente autoritari. E tuttavia dalla Costituzione e dall’esperienza giuridica è possibile estrarre un numero ristretto di criteri, sia pure d’ordine molto generale. Spicca la duplice esigenza di garantire l’indipendenza della magistratura - che, giova ricordarlo, è posta a presidio dell’eguaglianza dei cittadini - e il buon andamento dei pubblici uffici.
È alla luce di questi criteri molto generali che vanno considerate, per prima cosa, le funzioni spettanti agli organi di garanzia. Si possono distinguere le funzioni necessarie da quelle accessorie. Le prime includono le decisioni riguardanti le assunzioni, le assegnazioni e i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati (articolo 105 della Costituzione) e le situazioni di ineleggibilità e incompatibilità, nonché il monitoraggio, che costituisce il presupposto indefettibile di molte scelte. Fanno parte delle funzioni accessorie le attività ordinate all’adeguamento e all’ammodernamento dei servizi messi a disposizione dei magistrati e – secondo alcuni – quelle relative alla formazione e all’aggiornamento dei magistrati. Alla luce dei criteri prima enunciati, è essenziale che le decisioni riguardanti le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, i provvedimenti disciplinari e quelli sulle incompatibilità non muovano da scelte aprioristiche per questo o quel magistrato: non importa se di segno favorevole o sfavorevole, né se suggerite o imposte dal potere politico. In questo senso, la decisione dev’essere presa all’esito di un procedimento, com’è tratto precipuo degli ordinamenti democratici (Lavagna), e deve attenersi a un criterio di rigorosa neutralità ex ante, d’indifferenza per le opinioni e posizioni politiche, per l’inerenza a questo o a quel centro di riferimento d’interessi sezionali.
Consideriamo, esemplificativamente, la disciplina legislativa delle incompatibilità. Le norme primarie definiscono in modo sufficientemente chiaro le circostanze che danno luogo a incompatibilità (articoli 8, primo comma, e 12 del decreto legislativo n. 545 del 1992). Individuano con chiarezza anche l’esito dell’attività volta ad accertare – in modo obiettivo - la sussistenza di tali circostanze, cioè la decadenza dall’ufficio di giudice tributario. Però, quando si tratta di attribuire la competenza, la normazione effettua una scelta a dir poco ambigua, stabilendo che “la decadenza è dichiarata con decreto del Ministro delle finanze previa deliberazione del Consiglio di presidenza”. La distinzione è, con ogni evidenza, figlia non soltanto della storia, nella quale la magistratura tributaria si è configurata (ed è forse tuttora agli occhi di alcuni) come una magistratura “domestica”, ma anche dell’impianto complessivo della normazione amministrativa, in virtù della quale il Consiglio di presidenza “ha sede presso il Ministero delle finanze” (articolo 17, primo comma, del decreto legislativo n. 545 del 1992). Ma la storia, se fissa le condizioni iniziali, non sempre fornisce lezioni valide in ogni fase dell’evoluzione di un ordinamento giuridico. E’ stato proprio per sottrarre le decisioni riguardanti l’acquisizione e la perdita dello status di giudice tributario al solo rischio di essere percepite come non adeguatamente neutrali, per assicurare l’indipendenza della magistratura tributaria nel suo insieme, che il legislatore ha istituito il CPGT, assegnandogli varie competenze. Ciò avrebbe richiesto di portare fino alle logiche conseguenze la disgiunzione funzionale tra il Consiglio e il Ministro, cioè attribuendo al primo, oltre al potere di deliberare sulla decadenza, la potestà di disporla.
Così non è stato, invece, e i problemi che ne derivano non sono purtroppo meramente astratti. Può darsi, infatti, non solo che dopo la deliberazione assunta dal Consiglio di presidenza trascorrano alcuni mesi prima che il Ministro emani il decreto, ma anche che i suoi uffici ritengano di dover compiere un’istruttoria, al fine d’individuare eventuali disfunzioni. Beninteso, nei moderni ordinamenti giuridici tutte le potestà suscettibili d’incidere sfavorevolmente sugli interessi protetti sono astrette dal principio di legalità e il loro esercizio è sottoposto – come notato – al controllo giurisdizionale. Quest’ultimo non va visto come una delle possibili soluzioni cui ricorrere nel caso in cui una funzione amministrativa non sia esercitata in modo legittimo (perché – poniamo – non sono state rispettate le garanzie procedurali): è “la” soluzione, rispetto alla quale la decisione di non adottare il decreto – magari senza contestare la deliberazione assunta dal CPGT - è il peggiore degli esiti possibili. Lo è per più di un motivo: per l’assenza di una qualsivoglia trasparenza sui criteri idonei a escludere che la decisione scada nell’arbitrio; per lo svolgimento di un controllo non previsto dalle norme primarie; per l’assenza d’una correlativa assunzione di responsabilità sul piano istituzionale. È un vulnus, quindi, da rimuovere prontamente.
6. L’incompleta disgiunzione del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria dal Ministero delle finanze: i mezzi
Due ulteriori profili problematici riguardano i mezzi di cui il CPGT dispone per l’adempimento delle funzioni amministrative attribuite dalla disciplina legislativa, ossia le risorse finanziarie e il personale.
Di fronte allo scarso interesse mostrato da una parte della cultura giuridica per le norme contabili, converrà ribadire le ragioni per le quali non è solo l’esistenza di un bilancio preventivo – diversamente dalle aziende private – con una determinata dotazione di risorse finanziarie, ma l’autonomia nella gestione di tali risorse ad assumere rilievo, soprattutto quando si tratta di un’istituzione funzionale all’indipendenza della magistratura, nel caso di specie quella tributaria. Come la ragioneria ha costantemente sottolineato che sotto il profilo contabile è necessario che le risorse finanziarie attribuite o trasferite siano stabili, almeno nelle grandezze fondamentali, così nella riflessione giuridica – segnatamente nei contributi di Santi Romano e di Massimo Severo Giannini ([12]) - è assodato che, in presenza d’una norma che riconosce l’autonomia di un’istituzione ([13]), non possano stabilirsi, nel suo bilancio, vincoli e corrispondenze biunivoche tra singole poste dell’attivo e del passivo, tali da svuotare di contenuto le decisioni che essa è chiamata ad assumere. Una volta entrate nel bilancio dell’istituzione, le varie risorse hanno quindi una varietà di potenziali impieghi. Gli obiettivi e i progetti che l’istituzione dichiara di voler realizzare e per i quali chiede il finanziamento rappresentano altrettanti elementi aggiuntivi di informazione per le istituzioni rappresentative, che determinano l’allocazione delle risorse finanziarie stanziate nel bilancio. Di rado un singolo progetto è di entità e qualità tali, in rapporto alla varietà di obiettivi da perseguire, da condizionare in modo decisivo la sorte delle funzioni attribuite all’istituzione pubblica. Questo è forse il caso del finanziamento dell’informatizzazione del processo tributario, per il quale non vi è stata continuità nell’arco di un triennio. In ciò, può rinvenirsi un problema ulteriore, dal momento che di quel processo l’amministrazione finanziaria è parte.
Non occorre ribadire per il personale quanto si è appena osservato per il bilancio. Può essere di qualche utilità, piuttosto, richiamare almeno due accezioni del buon andamento. Al netto dell’interpretazione, riduttiva e fuorviante, che non lo distingueva dall’imparzialità, ritenendo che si trattasse di un’endiadi, può parlarsi di buon andamento in almeno tre accezioni, tutte rilevanti per il diritto (articolo 1, primo comma, legge 7 agosto 1990, n. 241): efficienza, economicità ed efficacia. È soprattutto relativamente a quest’ultima che la disciplina dell’impiego con le pubbliche amministrazioni individua uno degli elementi qualificanti degli organi di direzione politica la scelta delle risorse umane da destinare agli uffici di livello dirigenziale generale e, quanto ai dirigenti, fa espresso riferimento ai poteri di gestione del personale (articolo 4, decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165). Nessuno di questi tratti è riscontrabile, in modo pieno, nell’ordinamento del CPGT. Nell’assenza di una previsione legislativa relativa a un autonomo contingente di personale si può rinvenire un tratto distintivo – un altro – rispetto agli altri organi di garanzia della magistratura e, inoltre, un punto di debolezza dell’istituzione, che finisce per servirsi delle risorse umane messe a disposizione dall’amministrazione finanziaria. È un punto di debolezza così rilevante, e privo d’una giustificazione, da giustificare il riferimento che vi è stato effettuato nella relazione conclusiva della commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria.
7. La cultura dei magistrati
L’aver indicato in premessa, in chiave fortemente problematica, che il sistema italiano soffre sia di uno squilibrio quantitativo tra la domanda e l’offerta di giustizia, sia dell’assenza delle precondizioni indispensabili affinché funzioni pubbliche della massima importanza possano essere convenientemente svolte serviva a far intendere che, per occuparsi degli organi cui spetta assicurare il buon funzionamento dei pubblici uffici adibiti alla giustizia, bisogna sgombrare il campo da alcune idee ricevute, diffuse tra i magistrati italiani: che le disposizioni costituzionali relative alla magistratura assumano rilievo principalmente nella loro componente assiologica, più che come obiettivi intermedi rispetto alle aspettative dei cittadini, considerati come individui e nelle formazioni sociali in cui essi agiscono, incluse le imprese; che il diritto si collochi su un livello più alto rispetto alle discipline che studiano i metodi e gli strumenti per rendere efficiente ed efficace lo svolgimento delle attività dei pubblici poteri; che affiancare ai giuristi gli esperti di bilanci sia sviante rispetto ai valori consacrati dalla Costituzione o, quanto meno, che questi ultimi debbano essere collocati in una posizione ben distinta. Il problema è, quindi, anche culturale ([14]), per cui l’analisi incentrata sugli aspetti funzionali e organizzativi dev’essere integrata su tale piano. I tempi non saranno brevi, ovviamente. Bisognerà individuare e coltivare nei corsi di laurea e nelle attività di formazione un’integrazione più stretta tra il diritto e le altre scienze sociali, oltre a una maggiore attenzione per i canoni deontologici, così legati alla componente prescrittiva della giurisprudenza.
Si è detto che il problema è “anche” culturale. E’ una componente importante, da non trascurare. Si consideri che, per la magistratura tributaria, l’accesso agli incarichi di tipo direttivo è riservato ai magistrati, sebbene a volte essi siano digiuni di conoscenze riguardanti i profili economici delle liti tributarie e non possiedano il background indispensabile per organizzare in modo efficiente l’attività di un ufficio, per verificare l’operato di quanti vi sono addetti. La prassi conferma l’esistenza del problema, non mancano situazioni nelle quali è possibile intervenire soltanto al momento della decisione sul rinnovo dell’incarico. Vicende recenti, nelle quali la decisione di non rinnovare tale incarico è stata avallata dal giudice amministrativo ([15]), sono istruttive per comprendere l’evidente difficoltà cui taluni magistrati vanno incontro nell’impostare la definizione dei carichi di lavoro e delle verifiche sulle attività svolte (e non svolte).
Per completezza - e per obiettività - va detto anche che occorrerebbe anche una revisione dei criteri di cui il Parlamento si serve per selezionare i componenti degli organi di garanzia, poiché la conoscenza degli ambiti nei quali una magistratura esercita le proprie funzioni non è, di per sé, sufficiente per fornire un supporto ai giudici e per controllarne l’operato. Sotto entrambi i profili, l’auspicio è che questo contributo possa servire a contribuire a un dibattito che non dovrebbe essere circoscritto alla ristretta cerchia degli addetti ai lavori, perché la giustizia riguarda tutti.
8. Conclusioni
Le conclusioni discendono dall’analisi. Una visione d’insieme degli organi di garanzia della magistratura mostra non solo l’assenza di norme a contenuto generale, ma anche la difficoltà di rinvenire criteri e parametri che consentano di orientarne l’azione. Pure, quei criteri esistono e, se ben impiegati, permettono di discernere una serie di problemi riguardanti il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria. A questi problemi, nell’imminenza della riforma della giustizia tributaria o in attesa che essa sia quanto meno messa in cantiere, la Politica dovrebbe dare soluzione al più presto, nell’interesse del buon funzionamento della giustizia.
*L’autore desidera ringraziare Francesco Lucifora e Angela Tomasicchio per i commenti su una prima versione di questo scritto, ma resta – ovviamente - l’unico responsabile per eventuali errori od omissioni. Le opinioni espresse sono personali e non impegnano in alcun modo il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria.
[1] A. Smith, An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations (1764), libro IV, cap. 9. Per l’osservazione che, più di altri concetti giuridici, la sovranità richiede un’accurata indagine storica, G. Jellinek, Allgemeines Staatslehre (1900), tr. it. La dottrina generale del diritto dello Stato, I, Milano, Giuffrè, 1949, p. 42.
[2] Nel senso del testo, A. Manzella, Lo Stato “comunitario”, in Quaderni costituzionali, 2003, p. 273. Per la tesi che la nozione di Stato sia storicamente data, S. Cassese, Fortuna e decadenza della nozione di Stato, in Scritti in onore di Massimo Severo Giannini, Milano, Giuffrè, 1988, vol. I, p. 93.
[3] G. Capograssi, Studi sull’esperienza giuridica (1932), in Opere, Milano, Giuffrè, 1959, vol. II, p. 288; R. Orestano, Della 'esperienza giuridica' vista da un giurista, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1980, p. 1173.
[4] I dati, tratti dalle statistiche giudiziarie predisposte dalla Corte di Cassazione, sono riportati nella relazione della Commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria, pubblicata sul sito internet del Ministero della giustizia: https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_36_0.page?contentId=COS351377#.
[5] Nella letteratura scientifica, si vedano, p. es., D. Kosai, Beyond Judicial Councils: Forms, Rationales and Impact of Judicial Self-Governance in Europe, in German Law Journal (19), 2019, p. 1567; A. Vauchez, The Strange non-Death of Statism: Tracing the Ever Protracted Rise of Judicial Self-Government in France, ivi, p. 1613; F. Wittreck, German Judicial Self-Government – Institutions and Constraints, ivi, p. 1932, in cui si constata che il modello tedesco è solitamente contrapposto a quello italiano, pur se vi sono vari congegni giuridici volti ad assicurare il coinvolgimento dei giudici nell’amministrazione della giustizia.
[6] Corte costituzionale, sentenza n. 142 del 1973. In senso conforme, A. Pizzorusso, Problemi definitori e prospettive di riforma del C.S.M. (1989), ora in L’ordinamento giudiziario, Napoli, ES, 2019, p. 1065.
[7] Ai fini che qui interessano, non occorre prendere posizione sulla questione se il CSM sia un organo costituzionale o di rilievo costituzionale: non hanno perso valore le riflessioni di Temistocle Martines: Organi costituzionali: una qualificazione controversa (o, forse, inutile), in Studi in onore di Feliciano Benvenuti, Modena, Mucchi, 1996, III, p. 1058, il quale giungeva alla conclusione che la scienza del diritto non era “giunta a dare una definizione certa e univoca di organo costituzionale” e, sul piano pratico, non si poteva negare l’esistenza di altri soggetti che esercitano poteri di decisione politica, sicché erano di scarsa utilità le “definizioni retoriche degli organi costituzionali che si avviluppano in se medesime”.
[8] Corte costituzionale, sentenza n. 72 del 1991; Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 7 marzo 2007, n. 1069; 9 aprile 2014, n. 3859.
[9] CCJE Opinion n. 24 (2021), Evolution of the Councils for the Judiciary and their role in independent and impartial judicial systems, in www.coe.int.
[10] M. Luciani, Il Consiglio superiore della magistratura nel sistema costituzionale, in AIC – Osservatorio sulle fonti, 2020, n. 1, p. 10.
[11] Corte costituzionale, sentenza n. 16 del 2011, riguardante la disposizione della legge 4 marzo 2009, n. 15 che ha ridotto il numero dei componenti del consiglio di presidenza della Corte dei conti.
[12] S. Romano, Autonomia, in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1947, p. 14 (per la notazione che l’autonomia si sviluppi mediante consuetudini); M.S. Giannini, Autonomia (saggio sui concetti di autonomia), in Studi di diritto costituzionale in memoria di Luigi Rossi, Milano, Giuffrè, 1952, p. 197 (per la distinzione tra più nozioni di autonomia).
[13] L’articolo 29 bis del decreto legislativo n. 545 del 1992 dispone che il CPGT “provvede all’autonoma gestione delle spese per il proprio funzionamento”, sotto il controllo della Corte dei conti.
[14] M. Luciani, Il Consiglio superiore della magistratura nel sistema costituzionale, cit., p. 18 critica la cultura dei magistrati da un diverso, duplice angolo visuale: quando la magistratura requirente non si mostra pienamente consapevole “dell’immensità del proprio potere” e quando il giudice si fa legislatore, senza peraltro attivare il giudizio sulle leggi.
[15] Tar Lazio, sez. II-bis, sentenza 19 novembre 2021, n. 11979, in cui si constata che, in base alla disciplina vigente, le “capacità organizzative … vanno dimostrate per il tramite dell’adozione di specifiche misure”.