ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il Parlamento riapra il cantiere sulla ratifica del Protocollo n.16 annesso alla CEDU -Gruppo Area Cassazione-
Sommario: 1. I prodromi - 2. L’esame della dottrina dopo lo stop al Prot.n.16 - 3. La riflessione avviata all’interno del gruppo Area Cassazione - 4. Che fare? - 5. Il convegno di Area Cassazione su “Protocollo n.16. Riaprire il cantiere in Parlamento” del 22 giugno 2021 - 6. La proposta del gruppo Area-Cassazione: il Parlamento riparta dal Prot.n.16!
Gruppo Area Cassazione
1. I prodromi
Il 23 settembre 2020 si arenava, innanzi alle Commissioni riunite II e III della Camera dei Deputati, il progetto di legge relativo alla ratifica del Protocollo n.16 annesso alla CEDU, iniziato con l’esame del disegno di legge C. 1124 Governo e C. 35, Schullian, relativo alla Ratifica ed esecuzione del Protocollo n. 15 recante emendamento alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, fatto a Strasburgo il 24 giugno 2013, e del Protocollo n. 16 recante emendamento alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, fatto a Strasburgo il 2 ottobre 2013, entrato in vigore per effetto delle ratifiche operate da 15 Paesi del Consiglio d’Europa.
Nel corso dei lavori assembleari relativi al testo licenziato dalle Commissioni innanzi all’Assemblea della Camera la relatrice del provvedimento dichiarava che il rinvio della ratifica del Protocollo n.16 era sorto a “causa di profili di criticità connessi al rischio di erosione del ruolo delle alti Corti giurisdizionali italiane e dei principi fondamentali del nostro ordinamento.” Il Senato, successivamente, approvava in via definitiva il ddl n.1958 relativo alla ratifica del Protocollo n.15 contenente modifiche della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo nella seduta del 12 gennaio 2021.
2. L’esame della dottrina dopo lo stop al Prot.n.16
Nel silenzio dell’Accademia, dei gruppi associativi della magistratura, dell’Avvocatura e dell’Accademia, Giustizia insieme segnalava, con un editoriale dell’ottobre 2020, gli effetti negativi che quella decisione parlamentare avrebbe provocato sul ruolo delle Alte Corti nazionali italiane, private della possibilità di richiedere, se ritenuto necessario rispetto al giudizio pendente, un parere non vincolante alla Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo ed invitava ad accendere i riflettori sul tema ed a riaprire il dibattito nell'Accademia e nelle giurisdizioni.
Particolarmente vivace è risultato il successivo dialogo a distanza sviluppatosi fra studiosi prestigiosi provenienti da diversi settori accademici - costituzionalisti, processualcivilisti, filosofi del diritto, internazionalisti e studiosi del diritto UE -.
Questo dibattito è stato studiato ed esaminato dai componenti del gruppo Cassazione, i quali hanno realizzato dei report volti a sintetizzare le posizioni assunte dalla dottrina - Antonio Ruggeri, Cesare Pinelli, Elisabetta Lamarque, Carlo Vittorio Giabardo, Enzo Cannizzaro, Paolo Biavati, Sergio Bartole, Andreana Esposito e Bruno Nascimbene- all’indomani della decisione parlamentare di sospendere l’esame del Protocollo n.16.
La premessa dalla quale sono partiti alcuni degli interpreti (Ruggeri, Bartole) è stata quella del principio di apertura al diritto internazionale e sovranazionale voluto dalla Costituzione, aprendosi il diritto interno ai sistemi di protezione dei diritti sovranazionali che a loro volta si integrano nei primi, essendo comunemente ispirati al meta-principio che è la massimizzazione della tutela dei diritti fondamentali, vera e propria Grundnorm della costruzione inter-ordinamentale.
È infatti difficile comprendere come la vocazione universale del discorso sui diritti dell’uomo (e, dunque, la sua naturale inclinazione al dialogo comparatistico) possa costringersi entro i ristretti confini di una singola dimensione politica nazionale (Giabardo).
In questa prospettiva i commentatori si sono ritrovati d’accordo nell’evidenziare le potenzialità “buone” dello strumento rappresentato dalla richiesta di parere preventivo alla Corte edu.
Si è subito sgombrato il campo dai dubbi in ordine alla ritualità dello strumento legislativo ordinario per ratificare il Protocollo, messa in dubbio nel corso dei lavori preparatori, è smentita dall’ordinamento costituzionale ‘vivente’ secondo il quale la conformazione dell’ordinamento interno agli obblighi derivanti dalla adesione a Trattati o Convenzioni internazionali tramite legge ordinaria è del tutto pacifica e la – ipotizzata – rivalutazione di tale assetto appare del tutto strumentale ed eversiva -Bartole -.
Si è poi convenuto sull’improduttività del sovranismo costituzionale che sembra avere ispirato la decisione del Parlamento (Ruggeri) dovendosi scongiurare, attraverso il sostegno alla ratifica del protocollo 16, l’ingiustificata esclusione o l’emarginazione delle Corti italiane da un dialogo culturale al quale il nostro paese non può permettersi di rinunciare (Pinelli, Giabardo). Senza nemmeno dimenticare il valore “filosofico” dell’istituzionalizzazione del dialogo tra le diverse Corti europee (Giabardo).
Non si tratta, dunque, secondo Pinelli, di depotenziare il ruolo della Corte costituzionale o di restringere la capacità interpretativa del giudice nazionale, come sostenuto dal Prof. Luciani, ma, al contrario, dell’attivazione del ruolo istituzionale della Conv. edu che proprio la Corte costituzionale riconosce per prima, vale a dire quello dell’interpretazione della Convenzione. Né il giudice nazionale può ritenersi impedito, dopo il parere, dal rivolgersi alla Corte costituzionale - osserva Cannizzaro - ove non sia convinto della conformità del suo contenuto all’assetto costituzionale dei valori. Senza dire che le sentenze della Corte costituzionale hanno carattere vincolante, come quelle della Corte di giustizia, il che impedisce che il giudice nazionale possa ad esse ribellarsi formulando successivamente una richiesta di parere alla Corte edu (Cannizzaro).
Del resto, le posizioni contrarie alla ratifica del protocollo 16 finiscono con l’ipotizzare un effetto vincolante del parere per il giudice interno che non solo non è nella formulazione del testo (Nascimbene), ma che tradisce il senso di sfiducia verso il senso di responsabilità e lo spirito di indipendenza delle alte Corti nazionali posto a base del meccanismo pregiudiziale (Bartole, Lamarque).
Non si è mancato poi di sottolineare come il parere Cedu possa offrire preziosi elementi per verificare se l’interpretazione della Cedu e della Carta di Nizza-Strasburgo offerta, in parallelo, dalla CGUE sia in linea con la Convenzione edu (Ruggeri).
Inoltre, sul piano delle possibili interferenze, in caso di plurime pregiudizialità, Ruggeri, Pinelli e Cannizzaro si sono ritrovati nel respingere le preoccupazioni di quanti hanno intravisto in questo strumento un pericolo per la centralità della Corte costituzionale, soprattutto nell’ipotesi in cui la richiesta di parere preceda l’incidente di legittimità costituzionale.
Più articolata la posizione espressa da Nascimbene sui rapporti fra richiesta di parere preventivo e rinvio pregiudiziale. I problemi nascerebbero dal vincolo per il giudice nazionale rispetto alla pronunzia resa in sede di rinvio pregiudiziale dalla Corte di giustizia ove il parere reso dalla Corte edu fosse con lo stesso contrastante. Ipotesi che, secondo Nascimbene, determinerebbe la necessità di un nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE per chiedere chiarimenti ovvero un rinvio alla Corte costituzionale, considerato il possibile contrasto fra obblighi che discendono da due fonti diverse, la CEDU e i Trattati UE, e considerato il precetto contenuto nell’art. 117, 1° comma Cost., che impone il rispetto, quanto all’esercizio della potestà legislativa, “dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. Quanto all’ulteriore ipotesi di rinvio contemporaneo alla Corte di giustizia – in sede di rinvio pregiudiziale – ed alla Corte edu – in seno ad una richiesta di parere preventivo – la stessa non appesantirebbe la durata del processo, ma creerebbe maggiori incertezze per il giudice nazionale qualora le due interpretazioni fossero divergenti, pur non essendo vincolante quella della Corte EDU.
Pinelli, Bartole e Lamarque si sono poi trovati d’accordo nell’escludere che sia solo formale il potere del giudice nazionale di dissentire dal parere reso dalla Corte, se si considera, per un verso, la “circolarità della produzione normativa fra le Corti (Esposito) e la continua interazione fra giurisprudenza della Corte di Strasburgo e quella prodotta dalla giurisdizione italiana e, per altro verso, il ruolo che la Corte costituzionale ha rivendicato quale unico risolutore del potenziale conflitto fra l’interpretazione della Convenzione e quella dei principi costituzionali del nostro ordinamento.
Riguardo all’argomento inerente al paventato “rischio di erosione del ruolo delle alte Corti giurisdizionali italiane”, i timori sono stati considerati privi di rilievo ed espressione di sovranismo giurisdizionale, perché la mancata partecipazione attiva di alcune Corti al dialogo con la Corte edu rischia di renderne alcune mute e passive rispetto ad altre (Lamarque, Esposito).
Nemmeno può ritenersi che l’adesione al Protocollo “eroda i principi fondamentali dell'ordinamento”, secondo un’ottica di sovranismo ordinamentale, lasciando impregiudicato il principio dell’interpretazione conforme della legge italiana al sistema Cedu, come pure il sistema dei contro-limiti (Lamarque).
Molti interpreti hanno poi insistito sulle potenzialità della richiesta di parere preventivo in termini di negoziabilità reciproca fra Corti nazionali e Corte edu, cogliendosi nel dialogo diretto e non mediato dal ricorso della parte a Strasburgo un mezzo capace, nella fase ascendente, non solo di veicolare i cardini del sistema interno all’interno della Corte edu e di esporre la propria visione della questione al giudice che poi dovrà rispondere, ma anche, nella fase discendente, di avere l’ultima parola sulle modalità di attuazione del parere (Lamarque).
La manifestazione di sfiducia verso forme di utilizzo non corrette dei contenuti del protocollo tradisce, secondo Bartole, non confessate paure di alterazione di un desiderato equilibrio di tipo gerarchico – nell’esercizio della giurisdizione - in realtà costantemente contraddetto dalle concrete e costanti forme di interazione tra gli ordinamenti e tra le Corti (Bartole).
Il Protocollo n. 16 sarebbe così divenuto un altro fantasma persecutorio del “sovranismo simbolico” (Pinelli), con il risultato, certamente opposto a quello voluto, di privare le Corti italiane dell’opportunità di giocare un ruolo attivo nella formazione della giurisprudenza europea e di dover eventualmente accettare il parere reso dalla Corte EDU su istanza delle Corti dei paesi che lo hanno ratificato (Pinelli, Ruggeri,Giabardo, Bartole, Biavati e Lamarque).
È dunque la libertà di attivare o meno la richiesta di parere preventivo a rappresentare il dato distintivo tra rinvio pregiudiziale e richiesta di parere preventivo (Biavati).
Infatti, a differenza che per il rinvio pregiudiziale, per cui le parti hanno diritto di arrivare a Lussemburgo orientando la discrezionalità del giudice nazionale, la richiesta di parere ai sensi del Protocollo 16 può al massimo essere sollecitata, ma non pretesa dalle parti.
Quanto poi al rischio del grave ritardo che il processo subirebbe nell’attesa del parere, è stata evidenziata la strumentalità di tale critica - altrimenti estensibile ad altri strumenti di dialogo (Ruggeri) - ipotizzandosi in ogni caso la possibilità di adottare meccanismi volti a favorire la trattazione rapida dei processi interessati dalla richiesta di parere o la introduzione di un divieto di sospensione del processo (Biavati e Lamarque).
In definitiva, il rischio di isolamento dell’ordinamento italiano e delle sue alte Corti dal circuito di dialogo con la Corte edu che deriva dalla mancata ratifica è già palpabile, una volta che si è già da subito riconosciuta piena valenza ai pareri resi dalla Corte edu, anche da parte della Corte costituzionale (sent.n.230/2020, par.6) e dalla stessa prima sezione civile della Corte di Cassazione n.8325/2020 in materia di trascrizione dell'atto di nascita canadese conseguente a gestazione per altri.
3. La riflessione avviata all’interno del gruppo Area Cassazione
L’esame del tema ha condotto il gruppo Cassazione di Area ad una riflessione ampia.
È sembrato opportuno evidenziare, in termini generali, che lo scopo del Protocollo n.16 non era stato adeguatamente valutato dal legislatore, essendo indirizzato non già a sottrarre nicchie di sovranità e di potere giurisdizionale agli organi interni, quanto ad introdurre uno strumento destinato a recuperare segmenti di certezza e prevedibilità al sistema di tutela dei diritti fondamentali, addirittura accentuando il ruolo di autonomia e indipendenza delle giurisdizioni superiori nazionali.
La discrezionalità nel chiedere il parere e la piena autonomia nel disattenderne i contenuti denotano in maniera inequivocabile i tratti caratterizzanti del meccanismo dialogico che sta alla base del Protocollo 16, il quale tanto nella fase ascendente che in quella discendente offre alle giurisdizioni nazionali di ultima istanza la possibilità di sfruttare a fondo il loro ruolo di protagonisti del sistema di garanzia a presidio dei diritti imposto dalla Costituzione.
Le considerazioni appena espresse si accentuano in modo particolare se si pensa al ruolo della Corte di Cassazione nel sistema di protezione dei diritti fondamentali e la sua centralità nell’applicazione uniforme del diritto.
Prospettiva, quella fissata dall’art.65 della legge sull’ordinamento giudiziario che, riletta ed attualizzata alla luce dell’entrata in vigore della Costituzione e della sua apertura alle fonti sovranazionali, agli obblighi internazionali ed alla limitazioni di sovranità finalizzate alla garanzia di pace e sicurezza delinea in modo marcato la funzione di nomofilachia europea che la nostra Corte è andata assumendo e che proprio grazie agli strumenti di dialogo sempre più sfruttati con la Corte costituzionale e con la Corte di Giustizia consente ad essa di essere rappresentata anche all’esterno come organo centrale nel sistema di protezione dei diritti.
Ciò che non intende in alcun modo rivendicare posizioni di primazia o di egemonia nei confronti di altre giurisdizioni interne né di quelle sovranazionali, ma soltanto attestare che proprio attraverso le forme di dialogo la strada di una cooperazione equiordinata fra le giurisdizioni nazionali e sovranazionali deve essere implementata e non già impoverita o erosa secondo una prospettiva ben presente nella mancata ratifica del Protocollo n.16.
Si tratta di una prospettiva necessitata dal fatto che il diritto è sempre più affidato ai principi costituzionali, interni, dell’Unione europea e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e dunque collegato a tecniche di argomentazione giuridica che proprio attraverso il dialogo si costruiscono continuamente e progressivamente, in un ordine giuridico che non è più dato e fissamente orientato su scale gerarchiche, ma si compone, seppur con accenti di complessità sicuramente elevati, anche grazie all’opera del giudici interni e di quelli sovranazionali, parte attiva di un processo costituzionale nel quale il ruolo dagli stessi svolti di garanti della legalità è espressione democratica dello Stato costituzionale. Ciò perché si considerano tutti i giudici come “orizzontali”, siccome distinti tra di loro unicamente per le funzioni esercitate o, se si preferisce, per la tipicità dei ruoli, senza dunque alcuna “graduatoria” tra di loro: siano giudici comuni e siano pure giudici costituzionali o materialmente costituzionali, quali ormai in modo sempre più marcato e vistoso vanno conformandosi le stesse Corti europee. Dunque, la logica ispiratrice non può che essere quella della leale cooperazione, essa riuscendo a perseguire il miglior risultato possibile per chi si trova davanti al giudice.
Non può tacersi che l’avvento della protezione dei diritti fondamentali in chiave convenzionale da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo è stato per lunghi anni vissuto a livello nazionale come una sorta di aggressione di una giurisdizione altra ed esterna al perimetro dei plessi giurisdizionali riconosciuti dalla Costituzione.
La progressiva assimilazione del corretto ruolo della CEDU nel sistema interno e dei suoi rapporti con la Costituzione, dispiegatosi anche attraverso l’intervento della Corte costituzionale, a partire dalle sentenze gemelle del 2007 e poi via via che i vari seguiti, ha consentito però di comprendere appieno le finalità e potenzialità della Convenzione dei diritti umani, anche grazie all’opera di conoscenza svolta dai protocolli conclusi fra le Corti nazionali e la Corte edu. E non può essere senza significato che sia stata la Corte di Cassazione italiana a concludere, seconda in Europa, un protocollo d’intesa con la Corte edu nel dicembre del 2015, alla quale hanno fatto seguito le altre Corti apicali italiane e la stessa Corte costituzionale nel gennaio 2019.
Anzi, è stato sottolineato che proprio in occasione della firma del Protocollo fra Corte costituzionale e Corte edu al Palazzo della Consulta l’11 gennaio 2019 si auspicò la rapida ratifica del Protocollo n.16, come emerge dal comunicato stampa della Corte costituzionale reso l’11 gennaio 2019 in cui si afferma testualmente che “…dalla discussione è emersa anzitutto la necessità che le Corti europee – in una fase storica di debolezza, in alcuni Paesi, dei diritti fondamentali – dialoghino tra loro per la piena tutela di questi diritti, anche assicurando l’armonizzazione delle rispettive giurisprudenze. A questo scopo è stata sottolineata l’urgenza dell’approvazione, da parte del Parlamento italiano, del Disegno di legge di ratifica e di attuazione del “Protocollo 16”, che consente un effettivo dialogo con la Corte di Strasburgo attraverso la richiesta di pareri sulle questioni oggetto di giudizio nelle Corti italiane”.
Posizione, quest’ultima, che del resto trova piena conferma in quanto già ritenuto dalla Corte costituzionale nella sentenza n.49/2015, allorché si chiarì che “…È perciò la stessa CEDU a postulare il carattere progressivo della formazione del diritto giurisprudenziale, incentivando il dialogo fino a quando la forza degli argomenti non abbia condotto definitivamente ad imboccare una strada, anziché un’altra. Né tale prospettiva si esaurisce nel rapporto dialettico tra i componenti della Corte di Strasburgo, venendo invece a coinvolgere idealmente tutti i giudici che devono applicare la CEDU, ivi compresa la Corte costituzionale. Si tratta di un approccio che, in prospettiva, potrà divenire ulteriormente fruttuoso alla luce del Protocollo addizionale n. 16 alla Convenzione stessa, ove il parere consultivo che la Corte EDU potrà rilasciare, se richiesta, alle giurisdizioni nazionali superiori è espressamente definito non vincolante (art. 5). Questo tratto conferma un’opzione di favore per l’iniziale confronto fondato sull’argomentare, in un’ottica di cooperazione e di dialogo tra le Corti, piuttosto che per l’imposizione verticistica di una linea interpretativa su questioni di principio che non hanno ancora trovato un assetto giurisprudenziale consolidato e sono perciò di dubbia risoluzione da parte dei giudici nazionali.”
In definitiva, si avverte sempre di più l’esigenza di cercare modalità operative e tecniche decisorie che, anche in ragione della pluralità di fonti che governano i diritti, tanto in chiave nazionale che in prospettiva sovranazionale, attenuino o riducano le possibilità di conflitti fra i diversi plessi giurisdizionali, proprio in una prospettiva che prima ancora di essere orientata all’alleggerimento del contenzioso da parte di un sistema giudiziario sempre più in crisi sul versante dei tempi, offra a chi ha a che fare con la giustizia risposte tendenzialmente prevedibili proprio grazie alla conoscenza della posizione della Corte edu.
Se, dunque, il meccanismo del ricorso a Strasburgo contro le decisioni dei giudici nazionali costituisce la valvola di sfogo finale consentita dalla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, il Protocollo n.16 intende prevenire quella possibile ulteriore lungaggine processuale alla quale sarebbe sottoposta la persona che reclama la protezione dei suoi diritti consentendo al giudice nazionale che, nell’esercizio delle sue prerogative dovesse ritenere rilevante un parametro convenzionale, di interloquire prima che l’eventuale conflitto fra le Corti diventi manifesto per effetto dell’accoglimento del ricorso da parte della Corte edu.
4.Che fare?
Al termine di questa prima ricognizione del panorama dottrinario e della successiva riflessione che ha ripercorso buona parte delle ragioni espresse da autorevole dottrina contro la ratifica del Prot.n.16 (cfr, per tutti, M. Luciani, Note critiche sui disegni di legge per l’autorizzazione alla ratifica dei Protocolli n. 15 e n. 16 della CEDU, 26 novembre 2019, in www.SistemaPenale.it; F. Vari, Sulla (eventuale) ratifica dei Protocolli n.15 e16 alla CEDU, in Dirittifondamentali.it,2019,6; G. Cerrina Feroni, Il disegno di legge relativo alla ratifica dei Protocolli 15 e 16 alla CEDU, in Federalismi), la scelta di chiudere le porte al Protocollo 16 era già parsa fortemente inopportuna, tralasciando di considerare le finalità virtuose sottese al varo di tale strumento e l’idea stessa di un diritto che si compone della legge e della sua applicazione e attuazione nel caso concreto.
Da qui, l’organizzazione del convegno da parte del gruppo Area Cassazione sulla piattaforma Zucchetti dal titolo Riaprire il cantiere in Parlamento” del 22 giugno 2021, al quale hanno preso parte esponenti dell’Accademia, dell’Avvocatura e del Parlamento.
5. Il convegno di Area Cassazione su “Protocollo n.16. Riaprire il cantiere in Parlamento” del 22 giugno 2021
Il convegno si è rivelato un serbatoio di idee e di preziosi spunti ricostruttivi.
Il Segretario generale Luigi Marini, in rappresentanza del Primo Presidente della Cassazione, ha evidenziato la centralità dell’incontro sul Protocollo n.16 rispetto al ruolo della Corte di Cassazione, inserita stabilmente nel circuito delle Corti sovranazionali, e l’importanza di avere tenuto acceso l’interesse sul tema, contribuendo a favorire anche prese di posizione diverse da quelle che legittimamente sono state fin qui espresse dalle forze parlamentari.
L’Avvocato generale Luigi Salvato, in rappresentanza del Procuratore generale della Cassazione, ha evidenziato la centralità del tema del convegno, ritenendo che la riapertura dei lavori parlamentari sulla ratifica del Protocollo n.16 sarà un logico e naturale sbocco, volto a rafforzare il confronto fra le Corti. Ha sottolineato l’opportunità di superare logiche ideologiche, evidenziando che l’affermazione del diritto giurisprudenziale non può che determinare l’approfondimento dei meccanismi che ne consentano la formazione. Nessuna preoccupazione può sorgere sulla questione dell’erosione della sovranità nazionale, inoltre auspicando che i problemi connessi all’attuazione del Protocollo n.16 non potranno essere tutti risolti in fase parlamentare, dovendo l’elaborazione giurisprudenziale e proprio l’attività di sollevazione delle richieste di parere e dei pareri stessi contribuire, progressivamente, alla soluzione dei problemi concreti.
Dopo i saluti di Paola Filippi e di Roberto Conti, Maria Cristina Ornano, segretaria generale di Area, dopo avere evidenziato i rischi di marginalizzazione della giurisprudenza italiana nel processo di costruzione di un sistema di tutela dei diritti fondamentali che deve essere sempre più improntato ad una dimensione sovranazionale, ha auspicato la pronta ripresa dei lavori parlamentari sul Prot.n.16, evidenziandone l'importanza e la centralità rispetto al tema dei valori dell'uomo.
Il Presidente Guido Raimondi, che ha coordinato i lavori del convegno, ha messo in evidenza i notevoli vantaggi connessi all’attuazione del Prot.n.16, in ragione della finalità che esso incarna. La ratifica del Prot. 16, secondo Raimondi, non può pregiudicare l’autonomia delle giurisdizioni nazionali, né tanto meno la sovranità del Parlamento ritenendo al contrario che il dialogo fra le giurisdizioni non potrà che sortire effetti positivi attraverso i principi di sussidiarietà e di responsabilità condivisa fra livello europeo e livello nazionale nell’applicazione della CEDU, i quali costituiscono stimolo e violano della giurisprudenza della Corte edu ed alla accresciuta volontà di offrire alle Corti nazionali la possibilità di fare corretta applicazione del diritto vivente della Corte edu, altresì consentendo nel medio periodo uno sgravio del peso dell’arretrato sulla corte di Strasburgo. Un’ultima considerazione è stata espressa da Raimondi a proposito del ruolo centrale che la giurisprudenza consultiva assumerà rispetto alle nuove frontiere dei diritti dell’uomo per le quali non esiste una giurisprudenza della Corte stessa, sicché è proprio un peccato tagliar fuori la sapienza giuridica italiana da questo dialogo, inoltre sottolineando che i problemi che pure si porranno in sede di applicazione del Protocollo non possono incidere in alcun modo sull’opportunità che esso sia comunque celermente ratificato.
Particolarmente rilevanti sono risultati gli interventi degli esponenti del mondo politico, ai quali è mancato, per l’insorgenza di seri problemi di natura familiare, l’apporto dell’On.Pierantonio Zanettin (Forza Italia).
La senatrice Anna Rossomando (PD) si è espressa in modo esplicito nel senso di auspicare il ritorno in aula del progetto di ratifica del Prot.n.16 non confondendo le criticità esistenti con l’opportunità di ratificare tale strumento.
Il riferimento alla sovranità, sventolato come valore da difendere con il vento sovranazionale è secondo la senatrice un feticcio, non cogliendo la realtà delle politiche dei paesi europei, sempre più condizionate da aspetti che oltrepassano i confini nazionali. Anzi, proprio l’universalità dei diritti fondamentali e la prospettiva che questi ultimi facciano capo alla persona non indefettibilmente legata al concetto di cittadinanza rende evidente l’opportunità di scelte di politica giudiziaria dotate di sano realismo che antepongano la protezione dei diritti fondamentali rispetto ad altri interessi non primari.
Occorrerà dunque affrontare i nodi della sospensione del processo interna, del tempo connesso al rilascio del parere ed al ruolo della Corte costituzionale.
Anche la senatrice Grazia D’Angelo (Mov.5 Stelle) ha messo in evidenza come l’idea che deve essere sviluppata, ben lungi dal rappresentare un attacco alla sovranità, finisce con l’esaltarla proprio per effetto della possibilità delle Corti nazionali di ultima istanza di interagire con la Corte edu, dovendosi escludere che tale strumento costituisca una “perdita di tempo”, anzi, dimostrando l’utilità del dialogo
Il Prof. Guido Alpa, anche a nome dell’Associazione civilisti italiani, si è detto ampiamente favorevole alla ratifica del Protocollo n.16, esso inscrivendosi all’interno di una prospettiva che anche nell’ambito del diritto civile tende a favorire l’immediata efficacia dei diritti umani nell’ordinamento interno. Il fatto che all’interno dell’Accademia si discuta sulle modalità con le quali attuare tale esigenza e cioè ricorrere alle forme della tutela diretta dei diritti fondamentali ovvero attraverso forme di tutela mediata- attraverso la clausola generale dell’ordine pubblico – non elide la centralità del meccanismo teso a favorire il dialogo fra le Corti ed un clima di feconda cooperazione.
Anche il Prof. Filippo Donati si è espresso con l’auspicio di una celere riapertura dei lavori parlamentari sul Protocollo n.16 ritenendo errata la prospettiva volta a sostenere la postulata lesione della sovranità che dallo stessa deriverebbe, ricordando come già la giurisprudenza costituzionale tiene conto dei pareri resi dalla Corte in sede consultiva-Corte cost. nn-32 e 33 del 2021-.
Né occorre attendere la ratifica di altri stati, già delineandosi l’erosione di possibilità di dialogo con la Corte edu. Ha poi ricordato la diversità ontologica fra il parere preventivo della Corte edu e la decisione della Corte di giustizia in sede di rinvio pregiudiziale, sottolineando il carattere non vincolante del primo e la sua efficacia affidata all’interpretazione del giudice nazionale in fase discendente.
Il Prof. Bruno Nascimbene, dopo aver messo in evidenza i fattori strettamente giuridici che già oggi, in assenza della ratifica del Preot.n.16, comunque sottoscritto dall’Italia anche se non ratificato, rendono rilevante dal punto di vista del diritto internazionale e dei Trattati detto strumento- già pienamente considerato anche dalla Corte costituzionale italiana in diverse recenti occasioni, ha stigmatizzato l’atteggiamento di alcuni esponenti politici volto a sostenere che il Prot.n.16 costituisce un vulnus alla sovranità del nostro Paese ed alla autonomia ed indipendenza delle autorità giurisdizionali, in ogni caso sottolineando che se critica andava fatta al sistema di tutela convenzionale, si dovrebbe avere il coraggio di denunciare al Consiglio d’Europa la Convenzione europea, della quale il Protocollo n.16 è semplice gemmazione dotata peraltro di ridotta portata. Richiamando i contenuti del suo approfondimento già ricordato, Nascimbene ha quindi auspicato la riapertura dei lavori parlamentari proprio ripartendo dal parere reso dalla Commissioni politiche comunitarie della Camera, peraltro sottolineando che non solo il parere lasciano un naturale margine di apprezzamento al giudice nazionale, come dimostrato nel primo caso fatto oggetto di richiesta di parere preventivo.
L’Avv. Anton Giulio Lana, pur evidenziando la fragilità delle ragioni esposte da una parte della dottrina costituzionalistica in ordine ai pericolo derivanti dalla ratifica del Prot.n.16, non ha mancato di sottolineare l’esistenza di alcune ombre, collegate essenzialmente ai tempi dei processi, destinati ad allungarsi, all’assenza di una richiesta di parere in favore dei giudici di merito che sono più legati al fatto rispetto al giudice di ultima istanza, al rischio che il parere non sia rispondente rispetto alla vicenda concreta, l’esistenza di nodi irrisolti in ordine alle modalità di redazione della richiesta, alla traduzione della stessa e del parere eventualmente reso dalla Corte edu. Elementi che potrebbero anch’essi porsi in antitesi con l’esigenza di una pronta definizione dei processi.
Lana ha peraltro sottolineato che in ogni caso dal varo del Protocollo n.16 non potrebbe che derivare l’esigenza di una formazione continua e comune fra Avvocatura e giurisdizione attorno al tema dei diritti fondamentali e della CEDU.
Il Prof. Cesare Pinelli si è detto favorevole all’immediata riapertura dei lavori parlamentari, ricordando che gli argomenti evocato da chi ha espresso l’auspicio della mancata ratifica del Protocollo n.16 trovano evidente smentita nella finalità dello stesso, visto che la Corte edu non sarà verosimilmente più chiamata a pronunziarsi sulle questioni decise con i pareri. Pinelli ha poi radicalmente escluso che il parere costituisca un nuovo strumento decisorio nelle mani della Corte edu, non potendosi disconoscere che esso, per un verso, è meno incisivo di altre decisioni della Corte edu- sentenze pilota- che pure vanno verso la direzione di rendere più funzionale l’operato della Corte edu. Pinelli si chiede poi come possa sostenersi che i pareri siano vincolanti se la sentenza n.49/2015 della Corte costituzionale ha chiarito la rilevanza della sola giurisprudenza consolidata della Corte edu.
Né assume specifico rilievo il richiamo al tema del margine d di apprezzamento che, seguendo le coordinate della Corte edu, è riferito alla discrezionalità politica nell’interpretare un diritto come garantito dalla CEDU. In definitiva, secondo Pinelli sarebbe grave escludere l’Italia dal processo di confronto con le Corti sovranazionali già dimostratosi assai fecondo in altre occasioni, nelle quali i giudici italiani hanno dimostrato di avere ben chiaro il loro ruolo di cooperazione con le altre giurisdizioni senza rinunziare ad esprimere posizioni collidenti con le altre istanze giudiziarie sovranazionali.
Il Prof. Giorgio Spangher ha insistito sul fatto che il Prot.n.16 rappresenta un tassello fondamentale della costruzione di un nuovo ordine costituzionale europeo che, pur evidentemente contrastato da più parti, non può che rappresentare il modello virtuoso e l’obiettivo del nostro tempo, nel quale la prospettiva di protezione sovranazionale dei diritti umani ed il dialogo fra le Corti appaiono esigenze prioritarie e necessarie. Malgrado le condanne ripetutamente inflitte dalla Corte edu e malgrado la diversità di vedute che spesso emerge fra giurisdizione nazionale e giudici sovranazionali rispetto alle modalità di tutela dei diritti fondamentali, secondo Spangher occorre investire nelle forme di dialogo e di cooperazione, senza che esiste un concreto rischio circa il fatto che la Corte costituzionale possa perdere il suo ruolo nella protezione dei diritti fondamentali.
II rimedio del parere consultivo potrebbe in definitiva deflazionare i ricorsi stabilizzare il consolidamento degli orientamenti giurisprudenziali quando c’è una autorità e diventa vincolante ecco il senso della facoltatività e nulla esclude che sia recepito
Il Presidente Vladimiro Zagrebelsky, per esordendo col dire che il protocollo n.16 non ha la capacità di realizzare lo scopo primario che lo stesso intende perseguire- ridurre il carico di lavoro della Corte edu- né si porrebbe in coerenza con lo scopo della CEDU- essenzialmente collegato alla reazione del ricorrente danneggiato nei propri diritti sul piano nazionale, ha comunque sottolineato l’erroneità delle argomentazioni espresse contro la ratifica del protocollo, destinate ad avere un effetto suicidario nei confronti dei giudici italiani, tagliati fuori dal dialogo con la Corte edu – che si alimenterà dei pareri r
Il Presidente Valerio Onida nel trarre le conclusioni del dibattito, ha evidenziato che l’esistenza di problemi pratici sulle modalità di attuazione del Protocollo n.16 non elidono l’anima dell’istituto, che non è diversa da quello che emerge dai rapporti costruiti fra Costituzioni nazionali, legislazione e giurisprudenza della Corte edu. Due elementi base sono rappresentati dalla pluralità di ordinamenti che supera la logica del singolo ordinamento. Ciò che orienta verso una logica di universalità dei diritti dell’uomo. Vi è la necessità di mettere insieme la pluralità degli ordinamenti con l’universalità dei diritti umani che riguardano l’universalità delle persone. La soluzione dei possibili conflitti richiede dunque l’apprestamento di tecniche di tutela diverse. Per il diritto convenzionale, dopo che il nostro sistema ha trovato un equilibrio quanto alle relazioni fra diritto interno e diritto UE .
L’obiezione politica di fondo circa la lesione della sovranità è dunque mal posta e fuori luogo.
Universalità dei diritti fondamentali non vuol dire che la declinazione dei diritti in ogni ordinamento debba essere la stessa in ogni sistema. Ci possono dunque essere conflitti, ha ricordato Onida, ma non si può rimanere meravigliati da questi conflitti, essendo questi fisiologici, occorre elaborare la soluzione dei conflitti nel modo migliore possibile. Il coordinamento fra le Corti è dunque fisiologico senza che un clima di incertezza debba disturbare, richiedendo anzi il confronto dialogico fra le Corti e senza che si possa individuare una figura giudiziaria capace di risolvere in forma piramidale il conflitto. Il Protocollo n.16 introduce dunque un parere su una “questione di principio” ed in questo vi è un’evidente novità rispetto alle forme di tutela dei diritti fondamentali rispetto alle ipotesi ordinarie, innovazione capace di arricchire il dialogo fra le Corti.
Il senso dell’intervento del Prof. Onida è dunque di guardare con ottimismo al Protocollo n.16, non potendosi immaginare una soluzione di chiusura al Protocollo, se non giungendo alla negazione stessa del ruolo della CEDU.
6. La proposta del gruppo Area-Cassazione: il Parlamento riparta dal Prot.n.16!
A leggere gli esiti del convegno e le opinioni espresse quasi unanimemente in punto di ratifica o meno del Protocollo n.16, appare chiaro come il richiamo alla lesione di sovranità connessa all’erosione del ruolo delle Corti nazionali sia risultato fuori bersaglio, imponendo di ricercare il senso ultimo, probabilmente non del tutto manifestato apertamente, che ha condizionato la discussione accademica ed anche parlamentare già ricordata.
Le accuse di lesione alla sovranità attengono dunque, se colte nella loro intrinseca essenza e nemmeno tanto celata prospettiva, al modo con il quale le Corti nazionali hanno fin qui favorito l’ingresso del diritto vivente della Corte edu, vissuto in termini di forte contrazione del diritto interno e del giudice naturalmente chiamato ad applicarlo, finendo con l’apparire strumentali nel porre in discussione l’architrave sulla quale si fondano i rapporti fra ordinamento interno e CEDU.
Ed in questo non è tanto in discussione l’autonomia – espressiva di sovranità interna - delle Istituzioni giudiziarie verso le quali sembrerebbero venire in difesa i critici del protocollo n.16 quanto, ancora una volta, il “modo” con il quale tale autonomia viene esercitata.
Quel che non appare gradito, in termini ancora più chiari, non è la Corte edu, il suo Protocollo n.16 e la sua giurisprudenza, quanto l’uso che se ne fa nel diritto interno. Un uso che va al contrario vigorosamente protetto.
Il gruppo Area Cassazione, alla luce delle premesse e dei contenuti del convegno svoltosi lo scorso 22 giugno, si rivolge alle più alte cariche istituzionali del Parlamento e del Governo affinché esse si attivino, ciascuno nel proprio ruolo istituzionale, per riprendere l’iter di approvazione del progetto di ratifica del Protocollo n.16.
Un’idea, quella alla base del Prot.n.16, nella quale una singola vicenda processuale contribuisce alla costruzione di un nuovo ordine costituzionale europeo, marginalizzando una concezione statica del diritto, uno e primo, rispetto a ciò che, alimentandosi delle pronunzie di una
Una prospettiva, quella sottesa al Prot.n.16, secondo cui tutti i giudici, in tutte le loro articolazioni- nazionali e sovranazionali- partecipano attivamente, senza scale gerarchiche, ad un’idea di giurisdizione al servizio dei diritti improntata ad un principium cooperationis, al cui interno implementare le occasioni di reciproca conoscenza e confronto, seguendo l’idea di una nuova nomofilachia che, nel tentativo di rimediare alle fisiologiche incertezze nascenti dalla prospettiva universale propria dei diritti fondamentali, tende a divenire sempre più orizzontale, discorsiva, dialogica, circolare con i giudici sovranazionali e con quelli di merito.
La pretesa di risolvere i nodi problematici che in tema di richiesta di parere preventivo alla Corte edu non ratificando il Protocollo n.16 già entrato in vigore risulta fallace per plurimi motivi, il primo dei quali correlato al fatto che i pareri resi dalla Corte edu confluiscono comunque all’interno della giurisprudenza della Corte di Strasburgo e dovranno, pertanto, essere presi in considerazioni ed utilizzati dai giudici italiani, allo stesso modo di qualunque altro precedente di quella Corte sovranazionale.
Sicché indicare la prospettiva della ratifica del Protocollo non vuol dire prospettare una strada di automatica trasposizione di tale strumento ma, al contrario, prefigurare una ripresa parlamentare della discussione sul progetto di legge, al cui interno le forze parlamentari avrebbero dovuto offrire eventuale soluzione ad aspetti problematici o tesi a rendere ancor più utile e proficuo lo strumento di cui qui si discute.
Molti sembrano essere gli vantaggi sottesi alla richiesta di parere preventivo alla Corte edu da parte delle Alte giurisdizioni.
Per un verso, la possibilità che esso offra preziosi elementi per verificare se l’interpretazione della CEDU e della Carta di Nizza-Strasburgo fatta propria, in parallelo, dalla Corte di Giustizia -sia in linea con la CEDU e con la stessa Costituzione attraverso uno strumento che esalta, piuttosto che comprimere, la indipendenza e la sovranità delle autorità giudiziarie nazionali, dovendo poi escludersi, che sia solo formale il potere del giudice nazionale di dissentire dal parere reso dalla Corte se si considera, per un verso, la continua interazione fra giurisprudenza della Corte di Strasburgo e quella prodotta dalla giurisdizione italiana e, per altro verso, il ruolo che la Corte costituzionale ha rivendicato quale unico risolutore del potenziale conflitto fra l’interpretazione della CEDU e quella dei principi costituzionali del nostro ordinamento.
Nemmeno può ritenersi che l’adesione al Protocollo 16 eroda i principi fondamentali dell' ordinamento, secondo un’ottica che nulla a che vedere con la salvaguardia della sovranità invece inscrivendosi in quel poco commendevole sovranismo ordinamentale, lasciando impregiudicato il principio dell’interpretazione conforme della legge italiana al sistema Cedu, come pure il sistema dei contro-limiti.
Troppo intensi risultano i benefici di un confronto in fase ascendente e discendente dall’attivazione del dialogo fra giudice nazionale e Corte edu per anestetizzare il Protocollo n.16 e, con esso, il valore del diritto praticato in Italia, come si è detto capace di contribuire in modo determinante alla formazione di un “diritto vivente europeo” improntato al rispetto dei diritti fondamentali in favore delle persone.
D’altra parte, proprio l’intervenuta ratifica, nel febbraio 2021, del Protocollo n.15 appena ricordato dimostra come proprio le preoccupazioni circa la deriva europeista e le pesanti limitazioni di sovranità che deriverebbero dalla ratifica del Protocollo n.16 avrebbero dovuto risuonare anche nei confronti dello strumento ratificato, nel quale si riconosce apertamente il ruolo primario della Corte edu nella protezione dei diritti fondamentali di matrice convenzionale, e si insiste sul margine di apprezzamento attribuito ai Paesi aderenti, “sotto il controllo della Corte edu”.
Il gruppo Area è dunque persuaso del fatto che proprio la natura non vincolante del parere non incida affatto sulla sovranità dello Stato e dei suoi giudici, rappresentando piuttosto un complemento alla CEDU, la cui ratifica portò ad una rinunzia parziale alla sovranità in presenza di ragioni giustificatrici, rappresentate dapprima dall’art. 11 Cost. e, successivamente, dall’art. 117, 1°comma Cost. Come si è convinti che nessun rischio di marginalizzazione della Corte costituzionale dal Protocollo n.16 che si innesta in uno scenario ormai svezzato rispetto a quello descritto dalle remote sentenze gemelle quanto ai rapporti fra ordinamento interno e CEDU.
Privare le Corti italiane di ultima istanza dell’opportunità di giocare un ruolo attivo nella formazione della giurisprudenza europea e di dover eventualmente accettare il parere reso dalla Corte EDU reso su istanza di altre Corti europee significa impedire le contaminazioni fra gli organi nazionali e sovranazionali che hanno per statuto il compito di salvaguardare i diritti fondamentali nella loro proiezione universale, arginandone le possibilità di contatto, erigendo i muri, invece che costruendo ponti e porti capaci di accogliere i diversi naviganti, rendendo effettivo il rischio di isolamento del nostro sistema ordinamentale.
Tutte queste circostanze dimostrano quanto ampi siano gli spazi per riannodare i fili del ragionamento, depurandolo da precondizioni che, come emerso dal dibattito dottrinario, sembrano poco solide e scarsamente persuasive.
L’attenzione mostrata da ampi settori della dottrina italiana e di un gruppo di consiglieri della Corte di Cassazione costituisce già un elemento sul quale le Istituzioni potranno riflettere in modo proficuo, superando preconcetti e logiche ideologiche ed invece imboccando la via della più ampia tutela dei diritti fondamentali.
E' dunque il clima costruttivo sul tema "riforme della giustizia" che sembra animare l’intero Parlamento dopo l’intervento del Presidente della Repubblica Matterella reso a Camere riunite in occasione della sua rielezione a favorire la riattivazione del circuito parlamentare su una riforma anch'essa “ineludibile” per una giustizia che potrà essere più efficace e giusta con la ratifica del Prot.n.16. Una riforma che, insieme alle altre in cantiere, assume valore parimenti centrale per la difesa dei diritti nella loro vocazione naturalmente universale.
Roberto Giovanni Conti
Paola Filippi
Giacinto Bisogni
Gabriella Cappello
Gaetano De Amicis
Marco Dell’Utri
Franco De Stefano
Francesca Fiecconi
Raffaello Magi
Anna Rosaria Pacilli
Brevi osservazioni sulla proposta di direttiva relativa al miglioramento delle condizioni di lavoro nel lavoro mediante piattaforme digitali
di Tiziana Orrù
Sommario: 1. Introduzione - 2. Nuovi modelli di organizzazione del lavoro e nuove forme di sfruttamento dei lavoratori - 3. Prospettive di tutela.
1. Introduzione
Il 9 dicembre del 2021 la Commissione Europea ha proposto un pacchetto di misure che mirano a migliorare le condizioni di lavoro nel lavoro mediante piattaforme digitali e a rinforzare la crescita sostenibile delle aziende tra le quali la preparazione di una Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio per la tutela dei lavoratori delle piattaforme digitali.
Contestualmente è stata approvata una comunicazione che definisce l’approccio e le misure dell’Ue sul lavoro mediante piattaforme digitali. Queste ultime sono integrate da azioni che le autorità nazionali, le parti sociali e altri soggetti interessati dovrebbero adottare al loro livello. La Comunicazione mira inoltre a gettare le basi per lavorare a future norme globali per un lavoro di alta qualità mediante piattaforme digitali.
Infine è stato presentato un progetto di orientamenti che chiariscono l’applicazione del diritto dell’Ue in materia di concorrenza ai contratti collettivi dei lavoratori autonomi individuali che cercano di migliorare le loro condizioni di lavoro, compresi coloro che lavorano mediante piattaforme di lavoro digitali.
L’iniziativa della Commissione segue ed accompagna il contenuto di altri significativi interventi volti a regolare il lavoro nell’era della rivoluzione digitale caratterizzata da una società in rapida evoluzione nella quale nuove opportunità e nuove sfide emergono dalla globalizzazione, dal mutamento dell’organizzazione del lavoro e dagli sviluppi sociali e demografici.
Una prima risposta alle nuove sfide è sicuramente inserita nella c.d. Direttiva trasparenza - DIRETTIVA (UE) 2019/1152 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 20 giugno 2019 relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione europea.
Più di recente la Commissione Europea ha adottato, il 28 Giugno del 2021, La strategia Ue per la salute e sicurezza sul lavoro (Ssl)[1] che prevede tre obiettivi principali:
1) Anticipare e gestire il cambiamento nel mondo del lavoro determinato dalle transizioni verde, digitale e demografica.
2) Migliorare la prevenzione agli incidenti e alle malattie sul lavoro.
3) Accrescere la preparazione per ogni potenziale futura crisi sanitaria.
La Commissione ha messo l’accento sulla circostanza che la robotizzazione, l'uso dell'intelligenza artificiale e la maggiore prevalenza del lavoro a distanza riducono i rischi di attività pericolose, ma pongono anche una serie di criticità dovute sia all’aumento dell'irregolarità nel momento e nel luogo in cui viene svolto il lavoro, sia ai rischi relativi a nuovi strumenti e macchinari ed anche ai rischi psico-sociali.[2]
La situazione di fatto che l’Unione Europea sta tentando di regolare è legata in sintesi alla nascita di nuove forme organizzative, modelli aziendali e tipologie di contratto che hanno determinato un mutamento radicale del concetto stesso di lavoro determinando la necessita di un impegno globale per gestire il cambiamento garantendo dignità al lavoro e maggiori diritti alle persone che lavorano soprattutto quando si chiede ai lavoratori di adattarsi alle innovazioni ed alle rapide trasformazioni che investono il mondo del lavoro.
2. Nuovi modelli di organizzazione del lavoro e nuove forme di sfruttamento dei lavoratori
L’ingresso massiccio dell’utilizzo delle tecnologie digitali ha incoraggiato l’espansione delle imprese, soprattutto nel settore logistico dove è attualmente presente un processo di estrazione del profitto dal lavoro in grado di catalizzare la precarietà dell’occupazione. È sempre più attuale il fenomeno dell’intermediazione illegale della forza lavoro e del meccanismo delle finte cooperative costituite ed estinte per la durata di un appalto o di un subappalto e la spasmodica ricerca di risparmio dei costi attuata a svantaggio della sicurezza sul lavoro.
Occasioni illecite sfruttate soprattutto dalle multinazionali del settore della logistica, alle quali occorre prestare particolare attenzione vista la loro rapida estensione anche ad altri settori quali quello manufatturiero e dei servizi, tutti accomunati dall’utilizzazione di manodopera irregolare o dall’applicazione di contratti collettivi che garantiscono ai lavoratori meno diritti e meno tutele di quelli previsti dal contratto nazionale di categoria[3].
Sono ambiti socio-economici nei quali la figura del datore di lavoro, sempre più evanescente, costituisce spesso l’occasione favorevole per la nascita di nuovi fenomeni di sfruttamento del lavoro quale ad esempio il caporalato digitale dove i lavoratori della gig economy hanno sostituito i braccianti agricoli.
Il luogo e l’orario di lavoro sono oggi concetti fluidi, affrancati dalle classiche nozioni normative che necessitano di una disciplina specifica in grado di tutelare le nuove esigenze di sicurezza. [4]
Le nuove tecnologie stanno mutando radicalmente la dimensione spaziotemporale dei luoghi di lavoro. Per i rider, i luoghi di lavoro sono le città, per i nuovi operai dell’Industria 4.0 vi sono i cosiddetti cyberphysical workplace – luoghi di lavoro in cui software ed algoritmi sono complementari agli hardware: macchine, robot, computer, braccialetti o visori di realtà aumentata. Per entrambi, il tempo di lavoro è ormai calcolato minuziosamente sul tempo effettivamente lavorato e valutato da scrupolosi ed invasivi strumenti di performance metrics.
Ma il pericolo più profondo è che l’algoritmo e, più in generale, l’intelligenza artificiale possano diventare uno strumento prescrittivo senza controllo.
Gli algoritmi funzionano principalmente come sistemi atti a produrre canoni da considerare lo standard al quale adeguarsi per massimizzare le performance dei lavoratori. Questi congegni, inoltre, utilizzano i medesimi standard anche per dirigere, controllare ed eventualmente sanzionare i lavoratori.
Nell’organizzazione dei fattori di produzione l’utilizzo dell’algoritmo si traduce sostanzialmente in una gestione dei lavoratori affidata quasi totalmente ai computer che assicurano processi di selezione e gestione del lavoro più efficaci poiché riducono drasticamente i tempi ed evitano l’intervento umano.
3. Prospettive di tutela
L’automazione del lavoro prodotta dalle nuove tecnologie, un fenomeno che investe l’economia mondiale e travalica i confini nazionali riguardando perlopiù imprese multinazionali, necessita senz’altro di una disciplina idonea a tutelare i prestatori di lavoro garantendo loro condizioni migliori in termini di diritti e garanzie.
E’ la nuova sfida che impone di aggiornare la disciplina vigente a salvaguardia della dignità e salute dei lavoratori sia, con specifico riguardo al momento ed al luogo in cui viene svolto il lavoro per i rischi connessi ai nuovi strumenti e macchinari, sia con riferimento alle possibili problematiche psico-sociali derivanti dallo stress generato nell’ambiente di lavoro dalla connessione continua, dalla mancanza d’interazione sociale, dall’espansione dell’uso delle tecnologie d’informazione e comunicazione, tutti fenomeni in grado di generare l’insorgere di rischi addizionali.
In Italia e nei Paesi dell’Unione il tema non è stato sinora affrontato con interventi generali di disciplina sistematica ma, attraverso interventi settoriali dedicati essenzialmente ai ciclofattorini, che sono diventati la figura emblematica del conflitto sociale accesosi attorno al lavoro su piattaforma. [5]
In ambito nazionale nella Gazzetta Ufficiale n. 257 del 2 novembre 2019 è stata pubblicata la L. n. 128/2019, di conversione del D.L. n. 101/2019 (cd. “D.L. tutela lavoro e crisi aziendali”). La disciplina interviene in particolar modo in favore di alcune categorie di lavoratori particolarmente deboli, quali i riders qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme digitali. Le tutele prevedono la copertura assicurativa obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali e la previsione di una retribuzione di base, senza tuttavia garantire che la situazione occupazionale delle persone che lavorano nelle piattaforme di lavoro digitali corrisponda, a livello giuridico, ai loro effettivi contratti lavorativi.[6]
Ma è soprattutto in ambito eurounitario che si sta cercando di affrontare i cambiamenti determinati dalla trasformazione digitale nei mercati del lavoro con interventi più generali volti a migliorare le condizioni di lavoro e i diritti sociali delle persone che lavorano con piattaforme (art. 1, par. 1).[7]
A questo proposito, la Proposta di Direttiva individua tre obiettivi specifici: 1) garantire che le persone che lavorano mediante piattaforme digitali abbiano, o possano ottenere, la corretta situazione occupazionale alla luce del loro effettivo rapporto con la piattaforma di lavoro digitale e abbiano accesso ai diritti applicabili in materia di lavoro e protezione sociale;
2) garantire l'equità, la trasparenza e la responsabilità nella gestione algoritmica nel contesto del lavoro mediante piattaforme digitali; e
3) accrescere la trasparenza, la tracciabilità e la consapevolezza degli sviluppi nel lavoro mediante piattaforme digitali e migliorare l'applicazione delle norme pertinenti per tutte le persone che lavorano mediante piattaforme digitali, comprese quelle che operano a livello transfrontaliero.
L’intervento europeo è volto innanzitutto ad escludere ai lavoratori su piattaforma il riconoscimento di un terzo status speciale rispetto al lavoro subordinato e a quello autonomo, garantendo a tutti la corretta qualificazione giuridica del rapporto di lavoro con la previsione di una presunzione relativa di subordinazione se la piattaforma di lavoro digitale controlla determinati elementi dell'esecuzione del lavoro. [8]
È previsto, a tal fine un elenco di criteri di controllo volti a determinare in concreto l’ambito della presunzione: nel caso in cui la piattaforma soddisfi almeno due dei criteri specificamente indicati, si presume che si sia in presenza di un “worker” ossia, nel linguaggio nazionale, di un lavoratore subordinato.[9]
La Proposta chiarisce inoltre che spetta al presunto datore di lavoro dimostrare l’assenza di un rapporto di lavoro subordinato alla luce delle definizioni nazionali sancite dalla legislazione o dagli accordi collettivi del rispettivo Stato membro.[10]
La piattaforma dovrà dimostrare la sussistenza dell’autonomia della prestazione fornendo alle autorità giurisdizionali o amministrative tutte le informazioni pertinenti con un palese obiettivo di contrasto oltre che allo sfruttamento lavorativo anche all’evasione e all’elusione fiscale e contributiva.
In maniera ancora più significativa la direttiva prevede un aumento della trasparenza nell’uso degli algoritmi da parte delle piattaforme di lavoro digitali, garantendo che l’insieme dei parametri che regolano l’algoritmo usato per “valutare” il lavoratore vengano resi pubblici con una comunicazione formale. Un modo per rendere consapevole il lavoratore del metro con cui il suo lavoro viene giudicato con conseguente garanzia di contestazione delle decisioni automatizzate.[11]
Gli artt. 7 e 8 pongono un altro importante principio circa la sorveglianza dei sistemi automatici basati su algoritmi vietando, tra l’altro alle piattaforme di usare sistemi di gestione algoritmica idonei ad esercitare una pressione indebita sui lavoratori della piattaforma o a mettere altrimenti a rischio la salute fisica e mentale dei lavoratori della piattaforma. Inoltre è garantito al lavoratore di ottenere dalla piattaforma di lavoro digitale una spiegazione o una rettifica di una decisione presa o sostenuta da sistemi automatizzati che incida significativamente sulle sue condizioni di lavoro.
All’obiettivo della trasparenza sono dedicati gli artt. 11 e 12 della Proposta di Direttiva. Il primo obbliga le piattaforme a condividere con le autorità pubbliche dello Stato membro in cui la prestazione di lavoro è seguita il lavoro affidato ai lavoratori delle piattaforme e ogni dato pertinente, secondo le previsioni dei diritti nazionali. Il secondo specifica che le informazioni in questione, da rendere semestralmente sia alle autorità pubbliche vigilanti sul lavoro sia alle rappresentanze sindacali dei lavoratori e delle lavoratrici con piattaforma, attengano al numero delle persone che lavorano continuativamente con la piattaforma e alla qualificazione giuridica del loro rapporto, nonché i termini e le condizioni contrattuali applicati, e possano essere oggetto di richieste di chiarimento cui le piattaforme hanno obbligo di rispondere.
Infine la Proposta di Direttiva dedica gli artt. 13-19 agli aspetti processuali e rimediali, tra i quali viene in rilievo per l’assoluta novità la legittimazione alla sostituzione processuale delle organizzazioni sindacali rispetto ai lavoratori rappresentati, con il consenso di questi ultimi, per le violazioni della Direttiva (art. 14).
Altri creano diritti inediti sul piano sostanziale, come quello di usufruire della infrastruttura della piattaforma per comunicazioni tra i lavoratori, e tra i lavoratori e i loro rappresentanti (art. 15); o sul piano processuale, come l’obbligo per gli Stati di consentire alle autorità che giudichino della corretta qualificazione del rapporto di lavoro di ordinare alle piattaforme di fornire ogni elemento di prova rilevante, anche di natura riservata: con una significativa applicazione del principio di vicinanza della prova, e un notevole allargamento rispetto alle previsioni dell’art. 210 c.p.c. (art. 16).
Sono inoltre previste tutele per le persone che lavorano con piattaforme, e per i loro rappresentanti, contro rappresaglie per aver invocato l’applicazione delle disposizioni della Direttiva (art. 17), e in particolare contro il licenziamento, tra le quali ultime vi è il passaggio dell’onere della prova in capo alla piattaforma (art. 18).[12]
Infine l’art. 19 richiede agli Stati membri di prevedere un sistema sanzionatorio effettivo, proporzionato e dissuasivo, oltre ad indicare la responsabilità delle autorità che vigilano sull’applicazione del Regolamento (EU) 2016/679, cioè il Regolamento privacy, per l’imposizione di sanzioni amministrative nei casi di violazioni degli att. 6, 7, parr. 1 e 3, 8 e 10.
La sia pur superficiale analisi dei contenuti e degli scopi della Proposta di Direttiva, fa emergere con tutta chiarezza la volontà di creare un apparato normativo completo ed efficace, sicuramente idoneo a superare nel nostro ordinamento quello contenuto nella legge 128/2019.
Il fine di tutelare e porre in sicurezza al più presto una parte cospicua e finora trascurata di lavoratori è inoltre garantito dall’art. 21, par. 1 delle disposizioni transitorie della Proposta di Direttiva che pongono il termine biennale per il recepimento da parte degli Stati membri ma, nulla impedisce al nostro legislatore nazionale di anticipare i tempi dell’emanazione della Direttiva e così adeguare le norme italiane alle aspettative eurounitarie.
[1] Con l’obiettivo di anticipare e gestire il cambiamento, la Commissione dedica particolare attenzione alla necessità per la Ssl di rispondere alle innovazioni generate dalle transizioni verde e digitale, accelerate anche dai piani di ripresa e resilienza, nonché dalle dinamiche demografiche che stanno già determinando un invecchiamento della popolazione lavorativa. In proposito, richiama a riferimento il proprio studio Industria 5.0 - verso un’industria più sostenibile, resiliente, incentrata sull’umano del 7 gennaio 2021 che propone una visione per conciliare diritti e bisogni dei lavoratori con i processi di transizione verde e digitale e il libro verde sull’invecchiamento demografico del 27 gennaio 2021.
[2] Attualmente si stima che i problemi di salute mentale affliggano 84 milioni di europei, metà dei lavoratori considerano lo stress una criticità comune del loro ambiente di lavoro. Si valuta che lo stress genera il 50% delle giornate lavorative perse in Ue.
Gli effetti della pandemia hanno portato il 40% dei lavoratori a lavorare da remoto a tempo pieno con l’effetto di confondere la separazione tra tempo di vita privata e tempo del lavoro, generando problemi quali la connessione continua, la mancanza d’interazione sociale, l’espansione dell’uso delle tecnologie d’informazione e comunicazione (Tic), che hanno generato l’insorgere di rischi addizionali per gli aspetti psicosociali ed ergonomici.
[3] L’articolo 29 D.lgs 276/03 che disciplina la responsabilità solidale nell’ambito dell’appalto ampliando la previsione dell’art. 1667 c.c., appare ora – dopo innumerevoli modifiche - insufficiente a salvaguardare i lavoratori utilizzati all’interno di processi produttivi frammentati che prevedono il frequente ricorso a catene di appalti e subappalti.
La norma, infatti, contrariamente a quanto prevedeva l’abrogato art.3 della legge 1369/60 per gli appalti interni, non prevede alcuna garanzia di parità di trattamento per i lavoratori impiegati nell’appalto diversamente da quanto previsto dall’art. 23 d.lgs. 276/03 per i lavoratori somministrati e da quanto ora disposto dal D.L. n. 77/2021 (convertito dalla legge n. 108/2021) nella regolamentazione degli appalti in ambito pubblico. In particolare il comma 1 lett. b punto 2 dell'art. 49 che ha modificato il comma 14 dell'art. 105 del D.lgs n. 50/2016, ha previsto che “il subappaltatore, per le prestazioni affidate in subappalto, deve garantire gli stessi standard qualitativi e prestazionali previsti nel contratto di appalto e riconoscere ai lavoratori un trattamento economico e normativo non inferiore a quello che avrebbe garantito il contraente principale, inclusa l'applicazione dei medesimi contratti collettivi nazionali di lavoro, qualora le attività oggetto di subappalto coincidano con quelle caratterizzanti l'oggetto dell'appalto ovvero riguardino le lavorazioni relative alle categorie prevalenti e siano incluse nell'oggetto sociale del contraente principale”.
[4] Il 7 dicembre 2021, è stato sottoscritto – all’esito di un approfondito confronto con le Parti sociali promosso dal Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, il “Protocollo nazionale sul lavoro in modalità agile” con lo scopo di fornire a imprese e lavoratori del settore privato le linee guida con cui disciplinare, nella contrattazione collettiva, il lavoro agile. I punti di principale attenzione del protocollo sono: - accordo individuale; - organizzazione del lavoro agile e regolazione della disconnessione; - luogo di lavoro; - strumenti di lavoro; - salute e sicurezza sul lavoro; - infortuni e malattie professionali; - diritti sindacali; - parità di trattamento e pari opportunità; - lavoratori fragili e disabili; - welfare e inclusività; - protezione dei dati personali e riservatezza; - formazione e informazione; - osservatorio bilaterale di monitoraggio; - incentivo alla contrattazione collettiva. Di particolare rilevanza l’abbandono della nozione di orario di lavoro, e quindi di lavoro straordinario nei periodi di smart working, l’obbligo di individuare sempre, in ogni caso, la fascia di disconnessione, la possibilità per il lavoratore sospendere la prestazione lavorativa fruendo di permessi, la libertà per il lavoratore Il lavoratore di individuare il luogo ove svolgere la prestazione in modalità agile, purché lo stesso abbia caratteristiche tali da consentire condizioni di sicurezza e riservatezza lasciando alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare i luoghi inidonei per motivi di sicurezza personale o protezione, segretezza e riservatezza dei dati. Restano in ogni caso confermati gli obblighi del datore di lavoro, già previsti dalla legge, in tema di salute e sicurezza, di formazione e di informazione, di divieto di discriminazione.
[5] Finora la risposta più rilevante a questa naturale conflittualità è venuta dalla giurisprudenza della maggior parte dei Paesi Europei interessati dal fenomeno: Cass. 24 gennaio 2020, n. 1663; Tribunale di Bologna 31 dicembre 2020 in materia di discriminazione; Cour de Cassation, Chambre social, 28 novembre 2018, n. 1737, per i riders di Takeaway, e Cour de Cassation, Chambre sociale, 4 marzo 2020, n. 374, per i drivers di Uber in Francia; BundesArbeitsGericht (Bag), 1° dicembre 2020, 9 AZR 102/20, a proposito dei crowdworkersin Germania; Tribunal Supremo Sala de lo Social, Pleno, 25 settembre2020, n. 805, per i repartidores di Glovo in Spagna.
[6] Secondo una stima, contenuta nella relazione (Explanatory memorandum) alla Proposta di Direttiva, fino a cinque milioni e mezzo di persone che lavorano mediante piattaforme di lavoro digitali potrebbero essere a rischio di errata classificazione della situazione occupazionale.
[7] La relazione (stima che circa 28 milioni di persone lavorino attualmente su piattaforme digitali nell’Unione Europea come lavoratori autonomi, con una previsione di crescita di circa 43 milioni di addetti entro il 2025. Le piattaforme di lavoro digitali sono presenti in diversi settori economici. Alcune offrono servizi "in loco", come ad esempio servizi di trasporto a chiamata, consegna di merci, servizi di pulizia o di assistenza. Altre operano esclusivamente online fornendo servizi quali la codifica di dati, la traduzione o il design.
[8] Le disposizioni relative sono contenute negli artt. 3-5 della Proposta di Direttiva: l’art. 3, par. 1 impone agli Stati di prevedere una procedura di qualificazione del rapporto di lavoro delle persone che svolgono un lavoro mediante piattaforme digitali, in modo da consentire alle persone che potrebbero essere erroneamente classificate come lavoratori autonomi, di essere riclassificate come lavoratori subordinati in base ad una valutazione dei fatti relativi all'effettiva esecuzione del lavoro e alla retribuzione (art.3, par. 2).
[9] Art. 4, par. 1. Va ricordato che la presunzione relativa non si applica a qualunque piattaforma, ma soltanto a quelle (digital labour platforms) che controllino l’esecuzione del lavoro, intendendo per controllo, ai sensi dell’art. 4, par. 2, quello che comporti la presenza di almeno due degli indici seguenti: a) determinando effettivamente o fissando limiti massimi per il livello di remunerazione; (b) imponendo alla persona che esegue il lavoro di piattaforma di rispettare specifiche norme vincolanti per quanto riguarda l’aspetto, il comportamento nei confronti del destinatario del servizio o l'esecuzione del lavoro; (c) controllando l'esecuzione del lavoro o verificando la qualità dei risultati del lavoro anche con mezzi elettronici; (d) limitando di fatto la libertà, anche mediante sanzioni, di organizzare il proprio lavoro, in particolare la discrezionalità di scegliere il proprio orario di lavoro o i periodi di assenza, di accettare o rifiutare compiti o di ricorrere a subappaltatori o sostituti; (e) limitando efficacemente la possibilità di crearsi una clientela o di eseguire lavori per terzi.
[10] L’art. 5 pone a carico delle piattaforme l’onere della prova dell’autonomia del lavoro prestato a loro vantaggio: anche nel caso di sussistenza di tutti gli indici che, ex art. 4, evidenziano il controllo sul lavoro da parte della piattaforma, specificando l’irrilevanza dell’eventuale accordo tra le parti del rapporto di lavoro per escludere la subordinazione.
[11] Nella proposta di Direttiva, l’art. 6 prevede l’obbligo degli Stati membri di introdurre un diritto di informazione in capo ai singoli lavoratori sia sui sistemi di controllo delle prestazioni lavorative, sia su quelli che prendono decisioni sulle condizioni di lavoro, come l’accesso alle singole prestazioni di lavoro, la loro retribuzione, la sicurezza e salute sul lavoro, l’orario di lavoro, il loro orario di lavoro, e il rapporto di lavoro in genere, compresa, la limitazione, la sospensione o la cessazione del loro account (par. 1).
[12] Con previsione analoga a quella italiana contenuta nell’art. 5 della legge 604/1966.
Attribuzione al figlio del (solo) cognome materno (nota a App. Potenza, sez. civ., ord. 12 novembre 2021)
di Maria Alessandra Iannicelli
Sommario: 1. Il caso. – 2. L’attribuzione del cognome al figlio. – 3. Gli orientamenti della giurisprudenza. – 4. L’opportunità di una soluzione legislativa.
1. Il caso
Nell’ordinamento italiano la vicenda del cognome familiare e, più precisamente, dell’attribuzione del cognome al figlio, può ritenersi una questione ancora tutta chiarire.
Concorrono in tale direzione il vivace dibattito dottrinale, le insistenti e costanti pressioni della giurisprudenza, nonché il confronto con le esperienze statali europee[1].
Il cognome – quale elemento costitutivo del nome unitamente al prenome, ai sensi dell’art. 6, comma 2, c.c. – non si limita ad assolvere una funzione pubblicistica preordinata a garantire la certezza delle relazioni giuridiche ed un ordinato vivere civile, quale espressione dell’interesse della collettività a poter identificare i propri componenti[2], ma ha anche e soprattutto una funzione privatistica, quale segno identificativo della discendenza familiare, finalizzata alla tutela dell’identità personale di ciascun individuo[3].
A differenza del prenome, il cognome – oltre a svolgere una funzione identificativa – è dunque elemento che caratterizza il singolo in ambito sociale, poiché espressivo dell’identità della persona sotto il profilo della discendenza (biologica o affettiva). Motivo per cui il cognome, quale strumento idoneo non soltanto ad identificare una data persona ma anche a ricollegare ad essa una determinata identità, deve essere attribuito tenendo conto del fatto che ciascun individuo discende da una determinata coppia di genitori. Cosicché può affermarsi che ogni persona ha diritto non ad un cognome qualsiasi, ma a “quel” cognome che testimoni il legame con i genitori. E di conseguenza, che ciascuno dei genitori ha diritto a che il cognome del figlio testimoni tale legame[4].
Nella fattispecie in esame, la Corte di appello di Potenza, con ordinanza del 12 novembre 2021, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 237, 262, 299 c.c. e 33 e 34 d.P.R. n. 396/2000, nella parte in cui non consentono ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, il solo cognome materno, per violazione degli artt. 2, 3, 29, comma 2, oltre che dell’art. 117, comma 1°, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritto dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU).
La questione di legittimità con riferimento alle norme suindicate è stata sollevata nell’ambito di un procedimento di reclamo avverso decreto del Tribunale di Lagonegro del 4 novembre 2020, con cui si dichiarava inammissibile il ricorso proposto da una coppia di coniugi che aveva richiesto, in via principale – previa disapplicazione della «norma consuetudinaria» che dava prevalenza al cognome paterno in quanto contra legem – che si ordinasse al proprio Comune di residenza di iscrivere il figlio presso i registri dello stato civile con il solo cognome materno (già proprio delle altre figlie, nate quando i ricorrenti non erano ancora coniugati, e riconosciute dalla madre per prima); iscrizione, invece, denegata dall’ufficiale di stato civile, il quale aveva registrato il neonato con il cognome di entrambi i genitori.
In subordine, i ricorrenti chiedevano – ove si aderisse alla tesi della «natura legislativa» della norma in base alla quale il figlio assume il cognome del padre – che ne fosse sollevata la questione di legittimità costituzionale nella parte in cui prevede la prevalenza del cognome paterno e (per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 286/2016)[5] il doppio cognome in caso di accordo dei coniugi, residuando la preclusione di attribuire il solo cognome della madre.
Il giudice di prime cure basava fondamentalmente la propria decisione sul rilievo che la «norma consuetudinaria» dell’attribuzione del cognome paterno al figlio nato in costanza di matrimonio potesse essere superata esclusivamente da un intervento legislativo, non potendo il giudice sostituirsi al legislatore in un ambito riservato a scelte di politica legislativa; inoltre, non poteva rimettersi la questione alla Corte costituzionale, non ravvisandosi profili di illegittimità nel vigente assetto normativo.
Avverso il decreto del Tribunale di Lagonegro, i coniugi hanno proposto tempestivo reclamo.
In primo luogo, i reclamanti si sono doluti della mancata disapplicazione della “regola del patronimico”, pur avendo essa natura consuetudinaria e non legislativa.
La Corte di appello di Potenza ha ritenuto il suindicato motivo infondato.
2. L’attribuzione del cognome al figlio
Sebbene nel nostro ordinamento non esista una previsione normativa espressa in base alla quale al figlio (nato da genitori coniugati) è attribuito il cognome del padre, si tratta senza alcun dubbio di una regola operativa, osservata e fatta rispettare dalle istituzioni preposte. Ci si è allora interrogati in ordine alla natura di questa disposizione[6].
Sull’alternativa tra norma consuetudinaria (fondata sulla risalente tradizione dell’attribuzione ai figli del cognome paterno) e norma implicita di sistema (presupposta da una serie di disposizioni regolatrici di fattispecie diverse), l’orientamento privilegiato dalla giurisprudenza prevalente aderisce alla seconda tesi[7].
La soluzione elaborata dai giudici identifica una serie di previsioni normative, pur eterogenee e regolatrici di fattispecie diverse, dalle quali «si desume (…) l’immanenza di una norma che non ha trovato corpo in una disposizione espressa, ma che è pur presente nel sistema e lo completa» e che «si configura come traduzione in regola dello Stato di un’usanza consolidata nel tempo», alla stregua della quale «il cognome del figlio legittimo non si trasmette di padre in figlio, ma si estende ipso iure da quello a questo»[8].
Le norme che, in combinato disposto fra loro, porterebbero a ritenere che esista una regola di sistema ovvero un principio desumibile da diverse disposizioni dell’ordinamento, conformi agli usi, in base al quale il figlio assume il cognome del padre, sono gli artt. 143-bis, 236, 237, comma 2, 262, 299, comma 3, c.c. nonché gli artt. 33, 34, d.P.R. n. 396/2000, sia pure con le rilevanti modifiche introdotte dalla riforma della filiazione[9].
Secondo l’ordinanza della Corte di appello di Potenza in esame, la regola del patronimico desumibile dai suindicati articoli non è evidentemente suscettibile di una diversa interpretazione costituzionalmente orientata. Siffatta regola è infatti caratterizzata da «automatismo» e, d’altronde, la Corte costituzionale nel 2016 è intervenuta su analoga questione con sentenza di accoglimento: il che presuppone, appunto, l’impossibilità di una diversa interpretazione della norma denunciata.
3. Gli orientamenti della giurisprudenza
Con il secondo motivo i reclamanti si sono doluti del mancato accoglimento da parte del giudice di prime cure della eccezione di legittimità costituzionale della norma “implicita” di sistema in materia di attribuzione del cognome al figlio e ne hanno ribadito la rilevanza e la fondatezza.
Secondo la Corte di appello di Potenza il motivo deve essere accolto e la controversia non può essere decisa indipendentemente dalla risoluzione della suddetta questione di legittimità costituzionale.
A ben vedere, come sopra segnalato, la questione è analoga a quella sollevata dinanzi alla Consulta dalla Corte di appello di Genova nel 2013[10] ed accolta dalla Corte costituzionale con la suindicata sentenza n. 286/2016[11]. Mentre, in quel caso, era in esame la legittimità della regola del patronimico, ma limitatamente alla parte che non consentiva ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere “anche” il cognome materno, nella fattispecie qui considerata è invocato il diritto dei coniugi di attribuire concordemente al figlio “soltanto” il cognome della madre.
Negli anni, la copiosa giurisprudenza in materia di attribuzione del cognome ha espresso orientamenti volti a corrodere progressivamente l’intangibile regola dell’attribuzione al figlio del cognome del padre[12]. È particolarmente indicativo come la Consulta, chiamata a pronunciarsi sull’automatica attribuzione al figlio del cognome paterno – dopo aver originariamente statuito, alla fine degli anni Ottanta[13], che la regola era rispondente all’interesse alla conservazione dell’unità familiare tutelata dall’art. 29 Cost. e profondamente radicata nel costume sociale come criterio di tutela della famiglia fondata sul matrimonio[14] – abbia manifestato, quasi un ventennio dopo[15], la consapevolezza di come la tematica in esame non sia avulsa dai profondi mutamenti culturali intervenuti nel corso degli anni. Pertanto, pur dichiarando inammissibile la questione prospettata, perché una decisione positiva avrebbe costituito una «operazione manipolativa» esorbitante dai poteri della Corte costituzionale[16], nel 2006 affermava espressamente che «l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna».
Dopo circa un decennio dalla sentenza del 16 febbraio 2006, n. 61, la Corte costituzionale è tornata a pronunciarsi in materia di cognome del figlio con la nota sentenza sopra richiamata dell’8 novembre 2016, n. 286[17].
In quell’occasione, la Consulta ha accolto la questione di legittimità costituzionale – sollevata dalla Corte di appello di Genova con riferimento agli artt. 2, 3, 29, comma 2, e 117, comma 1°, Cost.[18] – della norma “implicita”, desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 c.c. e dagli artt. 33 e 34 del d.P.R. n. 396/2000, nella parte in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di attribuire al figlio, al momento della nascita, anche il cognome materno, prevedendo così l’automatica attribuzione del solo cognome del padre pur in presenza di una diversa volontà dei genitori.
Il caso era nato dal rigetto della richiesta, presentata all’ufficiale dello stato civile, da una coppia di coniugi di nazionalità italo-brasiliana residenti a Genova, di poter registrare il proprio figlio – avente doppia cittadinanza – con il cognome di entrambi i genitori, considerato che il minore sarebbe stato identificato diversamente: in Italia, con il solo cognome del padre e, in Brasile, con il doppio cognome, paterno e materno.
La pronuncia si è – purtroppo – rivelata parzialmente risolutiva, poiché l’attribuzione del cognome materno al figlio (non soltanto nato nel matrimonio ma anche a quello nato fuori dal matrimonio e a quello adottivo, considerato che la dichiarazione di illegittimità costituzionale si estende in via consequenziale alle norme di cui all’art. 262, comma 1, c.c. in caso di riconoscimento del figlio effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori, e di cui all’art. 299, comma 3, c.c. in caso di adozione compiuta da entrambi i coniugi) è attualmente possibile soltanto in caso di comune accordo dei genitori e “in aggiunta” al cognome del padre automaticamente imposto.
Nella controversia in esame, invece – ove si invoca il diritto dei coniugi di trasmettere concordemente il “solo” cognome della madre – la volontà dei ricorrenti nel giudizio di primo grado e, successivamente, reclamanti dinanzi alla Corte di appello di Potenza, coincide con la volontà espressa oltre venti anni fa da una coppia di coniugi milanesi, i quali, entrambi concordi e favorevoli ad attribuire alla propria figlia il solo cognome materno, si erano visti respingere la loro richiesta dalle autorità italiane, secondo la prassi che imponeva l’attribuzione automatica e senza eccezioni del cognome del padre ai figli nati nel matrimonio.
I coniugi Cusan e Fazzo – desiderosi di onorare la memoria del nonno paterno, grande benefattore che aveva improntato la propria esistenza ad alti valori morali – adirono, pertanto, la Corte europea dei diritti dell’uomo che, nell’accogliere le richieste dei ricorrenti, ha evidentemente sollecitato l’apertura della strada al riconoscimento in Italia del diritto dei genitori di attribuire il cognome materno ai figli, pronunciando la storica sentenza del 7 gennaio 2014[19], con cui ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 8 («Diritto al rispetto della vita privata e familiare»)[20] in combinato disposto con l’art. 14 («Divieto di discriminazione»)[21] CEDU, a causa dell’impossibilità di derogare alla regola dell’attribuzione del cognome paterno ai figli anche laddove vi sia una diversa volontà concorde dei coniugi, ritenendo tale regola basata su una discriminazione fondata sul sesso dei genitori.
Sebbene, nelle more del giudizio dinanzi alla Corte europea, i suindicati coniugi avessero ottenuto dal Prefetto di Milano – mediante il procedimento amministrativo di cui al d.P.R. n. 396/2000 – l’aggiunta del cognome materno a quello paterno per tutta la loro prole, tuttavia tale cambiamento non corrispondeva al desiderio iniziale degli stessi, i quali avrebbero voluto attribuire alla figlia il solo cognome della madre.
La Corte EDU ravvisava, pertanto, nella prassi italiana il verificarsi di una discriminazione tra marito e moglie nell’esercizio del loro diritto di determinazione del cognome della figlia in quanto, pur trovandosi in una situazione simile (essendo padre e madre della bambina), erano trattati in maniera diversa: a differenza del padre, la madre non poteva attribuire il proprio cognome alla figlia. Questa distinzione, non poteva – ad avviso della Corte europea – giustificarsi in considerazione dell’interesse pubblico che ha lo Stato di preservare l’unità della famiglia mediante l’attribuzione automatica del cognome del padre a tutti i suoi membri. L’esigenza dell’unità familiare è insufficiente a giustificare una discriminazione siffatta; ne derivava, dunque, una violazione dell’art. 14 in combinato disposto con l’art. 8 CEDU[22].
Non si può sottacere come, sia pure trattandosi di una coppia non coniugata, la medesima volontà di attribuire unicamente alla figlia minore il cognome della madre sia stata recentemente espressa da due genitori desiderosi di trasmettere il solo cognome materno (e non già, di aggiungerlo a quello del padre) per esigenze di eufonia, giacchè nella lingua tedesca il cognome della madre “suona” meglio di quello paterno.
In questo caso, la Procura della Repubblica di Bolzano ha proposto ricorso, ex art. 95, d.P.R. n. 396/2000, al fine di ottenere la rettificazione dell’atto di nascita di una bambina i cui genitori non uniti in matrimonio, hanno concordemente espresso la volontà di attribuire alla minore unicamente il cognome della madre.
Non potendo, nel caso di specie, procedersi ad una interpretazione orientata dell’art. 262, comma 1, c.c., sulla scorta della precedente sentenza della Consulta n. 286/2016, evidentemente inapplicabile, il giudice a quo ha dubitato della legittimità costituzionale del rigido automatismo di attribuzione del cognome paterno al figlio in caso di contestuale riconoscimento da parte di entrambi i genitori ex art. 262 c.c., non derogabile neppure in caso di concorde diversa volontà dei genitori di attribuire il solo cognome della madre.
Secondo il Tribunale di Bolzano, siffatta disciplina sarebbe in contrasto sia con l’art. 2 Cost., sotto il profilo della tutela dell’identità personale, sia con l’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’eguaglianza tra uomo e donna; e violerebbe altresì l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, per mancato rispetto, da parte del legislatore statale, dei vincoli derivanti da obblighi assunti a livello internazionale.
Ai fini della definizione del giudizio sollevato dal rimettente, il Collegio ha ritenuto di non potersi esimere dal risolvere pregiudizialmente la questione di legittimità costituzionale dell’art. 262, comma 1, c.c., nella parte in cui – in mancanza di diverso accordo dei genitori – impone l’acquisizione del solo cognome paterno, anziché dei cognomi di entrambi i genitori, in ragione del rapporto di presupposizione e continenza tra la questione specifica dedotta dal Tribunale di Bolzano e la più ampia questione avente ad oggetto la generale disciplina dell’automatica attribuzione del cognome paterno. Pertanto, con ordinanza dell’11 febbraio 2021, n. 18[23], la Consulta ha sollevato dinanzi a sé la questione di legittimità costituzionale della suindicata disposizione, di cui si attende l’esito decisorio.
La non manifesta infondatezza della questione pregiudiziale è – ad avviso della Corte – rilevabile nel contrasto della vigente disciplina, impositiva di un solo cognome e ricognitiva di un solo ramo genitoriale, con la necessità, costituzionalmente imposta dagli artt. 2 e 3 Cost., di garantire l’effettiva parità dei genitori nonché la pienezza dell’identità personale del figlio e di salvaguardare l’unità della famiglia[24]. Il dubbio di legittimità costituzionale che investe l’art. 262, comma 1, c.c., attiene anche alla violazione dell’art. 117, comma 1, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU.
Parimenti, con riferimento alla fattispecie qui in commento sottoposta a disamina dalla Corte di appello di Potenza, la questione di legittimità costituzionale della norma desumibile dalle disposizioni di cui agli artt. 237, 262, 299 c.c. e 33, 34 d.P.R. n. 396/2000, sollevata dai coniugi reclamanti, non può ritenersi manifestamente infondata. E infatti, la suindicata norma – ad avviso del collegio potentino – si pone innanzitutto in contrasto con l’art. 2 Cost., che tutela il diritto alla formazione dell’identità personale in maniera omogenea tra i figli e il diritto all’unità familiare. A tal riguardo, non si può sottacere che nel caso concreto la scelta dei genitori di attribuire il solo cognome materno al terzogenito non sia riconducibile ad un “capriccio”, bensì all’esigenza di tutelare l’interesse dei tre figli minori ad un armonico sviluppo della personalità e alla formazione dell’identità personale in maniera omogenea, contribuendo all’unità familiare mediante l’adozione del medesimo cognome. Seguendo il ragionamento del decreto impugnato, i reclamanti sarebbero stati costretti ad attribuire al terzogenito un cognome differente in ragione del matrimonio della coppia intervenuto successivamente alla nascita delle sorelle, riconosciute dalla madre per prima; in alternativa, avrebbero potuto dare anche alle prime due figlie il doppio cognome, con evidente pregiudizio per l’identità di queste ultime (in particolare per la figlia undicenne e, dunque, con identità pienamente formata nella comunità, innanzitutto scolastica).
Secondo la Corte di appello di Potenza, la regola del patronimico si pone altresì in contrasto con gli artt. 3 e 29, comma 2, Cost., poiché «…la diversità di trattamento tra i coniugi, in quanto espressione di una concezione patriarcale della famiglia e dei rapporti tra coniugi ormai superata, non è compatibile né con il principio di eguaglianza, né con quello della loro pari dignità morale e giuridica»[25].
Anche in questo caso, il dubbio di legittimità della norma implicita di sistema in materia di cognome investe l’art. 117, comma 1 Cost. in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU risolvendosi in una discriminazione fondata sul sesso dei genitori e, comunque, in una ingiustificata compressione delle scelte familiari. A tal proposito, il collegio potentino richiama espressamente la sentenza della Corte EDU, Cusan e Fazzo c. Italia, nella parte in cui si afferma che l’impossibilità per i genitori di attribuire al figlio, alla nascita, il cognome della madre, anziché quello del padre, deriva da una lacuna del sistema giuridico italiano, per superare la quale «dovrebbero essere adottate riforme nella legislazione e/o nelle prassi italiane».
La Corte di appello di Potenza, dunque, per violazione dei suindicati articoli della Costituzione, ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 237, 262, 299 c.c. nonché degli artt. 33 e 34 d.P.R. n. 396/2000, nella parte in cui non consentono ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, il solo cognome materno, ritenendo di non poter decidere la presente controversia indipendentemente dalla risoluzione della suddetta questione.
In attesa che la Corte costituzionale si pronunci, non si può certo ignorare che l’esito di un giudizio volto ad erodere una regola[26] non consente di conseguire il medesimo risultato a cui perverrebbe, invece, il legislatore disciplinando in modo organico e sistematico la materia e ponendo, così, fine ad aporie e difficoltà interpretative[27].
4. L’opportunità di una soluzione legislativa
Un intervento legislativo volto a riformare una normativa obsoleta, che non tutela adeguatamente le istanze privatistiche connesse all’uso del cognome quale riflesso dell’identità personale e che tollera, ancora oggi, la vigenza di norme in cui il principio di parità tra i coniugi e, più generale, il principio di eguaglianza dei genitori risultano mortificati, appare quanto mai opportuno.
Del resto, già quindici anni fa, anche la Corte di Cassazione[28] – pochi mesi dopo la nota pronuncia della Corte costituzionale del 16 febbraio 2006, n. 61[29] – segnalava espressamente la necessità di un intervento del legislatore, affermando che la sussistenza di una norma di sistema automaticamente attributiva del solo cognome paterno, oltre che retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, era in contrasto con le fonti sovranazionali, che impongono agli Stati membri l’adozione di misure idonee alla eliminazione delle discriminazioni di trattamento nei confronti della donna.
Non resta dunque che confidare nel superamento dell’immobilismo legislativo italiano in materia di attribuzione del cognome ai figli affinché il nostro ordinamento si adegui alle legislazioni degli altri paesi europei che consentono l’attribuzione al figlio del cognome del padre e/o della madre, secondo un modello non solo aderente al disegno costituzionale, ma conforme ai principi convenzionali[30] e agli orientamenti giurisprudenziali europei ed italiani.
L’ordinamento francese ha aperto alla possibilità che i genitori si esprimano anche per il doppio cognome[31], collocandosi evidentemente a metà strada tra la soluzione tedesca e quella spagnola, che ha fatto dell’imposizione ex lege del cognome secondo entrambe le linee genitoriali il cuore della propria tradizione[32].
In Germania, invece, permane il rifiuto del cd. Doppelname e, pertanto, ai figli viene in ogni caso attribuito un unico cognome (ovvero quello del padre o della madre secondo la libera volontà dei genitori) oppure un cognome familiare comune (c.d. Ehename)[33].
A ben vedere, le diverse soluzioni adottate in Europa[34] lasciano affiorare l’esigenza di creare in futuro un meccanismo unitario che, inserendosi nel solco del processo di armonizzazione del diritto europeo della famiglia, non ingeneri discriminazioni tra i cittadini appartenenti ai diversi paesi dell’Unione europea. Evidentemente, i tempi non sono maturi per una disciplina uniforme a livello europeo, il cui perseguimento – in ragione della diversa cultura e sensibilità dei legislatori nazionali – è senza dubbio caratterizzato da un iter lungo e complesso.
Se, tuttavia, i tempi non sembrano tali da consentire la previsione di una disciplina uniforme in ambito europeo, alla luce delle brevi riflessioni sin qui svolte appaiono ormai mature le circostanze per approvare in Italia una legge in materia di attribuzione del cognome ai figli che si adegui alle normative vigenti in altri paesi europei ove – come sopra accennato – sia pure con soluzioni diverse, si è approdati ad un regime meno discriminatorio nei confronti della donna e più coerente con l’esigenza di tutelare il diritto all’identità personale del minore ad essere identificato sin dalla nascita anche con il cognome della madre[35].
[1] In argomento, v. G. Passarelli, Note sulla attribuzione del cognome materno. Una questione (ancora de iure condendo), in Fam. dir., 2021, 551 ss.
[2] Sul punto, v. A. Conti, Note intorno all’attribuzione del cognome paterno, in Giur. mer., 2011, p. 2392.
[3] Superata la concezione pubblicistica che considera esclusivamente la finalità identificativa di ordine pubblico, è dato incontrovertibile che il nome – composto da prenome e cognome – sia il più rilevante segno distintivo della persona nella sua vita di relazione, attributo proprio dell’individuo, espressione delle sue qualità personali, la cui funzione identificativa attribuita dalla legge e preordinata alla tutela dell’identità personale è tutelata anche nei confronti dello Stato (art. 22 Cost.). A tal riguardo, si vedano M. Nuzzo, Nome, in Enc. dir., Milano, 1978, p. 304 ss.; L. Lenti, Nome e cognome, in Digesto IV, disc. priv., sez. civ., XII, Torino, 1995, p. 135 ss. e in Digesto IV, disc. priv., sez. civ., Aggiornamento, II, Torino, 2003, p. 928 ss.
[4] In questi termini si esprime, condivisibilmente, M. Trimarchi, Diritto all’identità e cognome della famiglia, in Jus civile, 2013, p. 36.
[5] Corte cost., 8 novembre 2016, n. 286, in Gazz. Uff., 1ª serie speciale, 28 dicembre 2016, n. 52; in Fam. e dir., 2017, p. 213 ss.; in Corriere giur., 2017, p. 165 ss.; in Nuova giur. civ. comm., 2017, p. 818 ss..
[6] Sul punto, si segnalano in giurisprudenza numerose pronunce di merito: v. ex multis Trib. Lucca, decreto 1° ottobre 1984, in Dir. fam. pers., 1984, p. 1068; in Giust. civ., 1985, I, p. 876 e in Giur. mer., 1985, I, p. 288 (nel decreto si legge che: «è in base ad una consuetudine secolare, fondata sul regime patriarcale, che l’ufficiale dello stato civile attribuisce al figlio legittimo il solo cognome del padre»); Trib. Palermo, 17 marzo 1993, in Dir. fam. pers., 1994, p. 640; App. Milano, 4 giugno 2002, in Fam. dir., 2003, p. 173.
In dottrina, v. A. Giusti, Il cognome del figlio legittimo di fronte alla Corte costituzionale, in Giust. civ., 1985, I, p. 1471 ss.; E. Pazè, Verso un diritto all’attribuzione del cognome materno, in Dir. fam. pers., 1998, p. 324 ss.; F. De Scrilli, Il cognome dei figli, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da P. Zatti, II, Filiazione, Milano, 2002, p. 472 ss.; G. Grisi, L’aporia della norma che impone il patronimico, in Europa dir. priv., 2010, p. 649 ss.; G. Alpa e A. Ansaldo, Le persone fisiche. Artt. 1-10, in Il Codice civile. Commentario, fondato P. Schlesinger, diretto da F. D. Busnelli, 2ª ed., Milano, 2013, p. 405 ss.; M. Moretti, Il cognome del figlio, in G. Bonilini (a cura di), Trattato di diritto di famiglia, IV, Milano, 2016, p. 4078 ss.; C. Caricato, L’attuale normativa italiana in materia di attribuzione del cognome, in A. Fabbricotti (a cura di), Il diritto al cognome materno, Napoli, 2017, p. 9 ss..
[7] In particolare, Cass. civ., sez. I, 26 maggio 2006, n. 12641, in Foro it., 2006, I, p. 2314 ss.; in Giust. civ., 2006, I, p. 1698 ss.; in Familia, 2006, p. 951 ss.; in Dir. fam. pers., 2006, p. 1649 ss.; in Fam. dir., 2006, p. 469 ss.; in Giur. it., 2007, p. 2198 ss..
[8] Così, Cass. civ., sez. I, ord. 17 luglio 2004, n. 13298, in Foro it., Rep. 2004, voce Filiazione, n. 29; in Fam. dir., 2004, p. 457 ss.; in Dir. giust., 2004, 32, p. 27 ss.; in Europa dir. priv., 2005, p. 829 ss.. Nello stesso senso, anche la più recente Corte cost., 8 novembre 2016, n. 286, cit., ove si afferma espressamente che: «Non vi è ragione di dubitare dell’attuale vigenza e forza imperativa della norma in base alla quale il cognome del padre si estende ipso iure al figlio. Sebbene essa non abbia trovato corpo in una disposizione espressa, essa è presupposta e desumibile dalle disposizioni, regolatrici di fattispecie diverse, individuate dal rimettente (artt. 237, 262 e 299 c.c., 33 e 34 del d.P.R. n. 396/2000; nonché solo a fini esplicativi, art. 72, primo comma, del r.d. n. 1238 del 1939, abrogato dall’art. 110 del citato d.P.R.), e la sua perdurante immanenza nel sistema, come traduzione in regola dello Stato di un’usanza consolidata nel tempo, è stata già riconosciuta sia dalla giurisprudenza costituzionale, sia dalla giurisprudenza di legittimità».
[9] L. 10 dicembre 2012, n. 219, recante «Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali», Gazz. Uff., Serie Generale, n. 293, 17 dicembre 2012 e d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, recante «Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’art. 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219», Gazz. Uff., Serie Generale, n. 5, 8 gennaio 2014.
[10] App. Genova, sez. III, ord. 28 novembre 2013.
[11] V. nota 5.
[12] Per quanto riguarda la giurisprudenza nazionale di merito e di legittimità, v. ex multis: Trib. Bologna, decreto 9 giugno 2004, in Fam. dir., 2004, p. 441 ss., secondo cui «la doppia cittadinanza del minore legittima i suoi genitori a pretendere che vengano riconosciuti nell’ordinamento italiano il diritto e la tradizione spagnoli per cui il cognome dei figli si determina attribuendo congiuntamente il primo cognome paterno e materno»; Cass. civ., sez. I, 14 luglio 2006, n. 16093, in Giust. civ., 2007, I, p. 149 ss.; in Vita not., 2007, p. 203 ss.; in Fam. dir., 2006, p. 469 ss., ove si afferma che l’attribuzione al figlio del solo cognome paterno è antistorica oltre che in contrasto con le norme sovranazionali e si segnala, pertanto, la necessità di un intervento del legislatore; Cass. civ., sez. I, ord. 22 settembre 2008, n. 23934, in Fam. dir., 2008, p. 1093 ss.; in Foro it., 2008, I, p. 3097 ss.; in Dir. fam. pers., 2008, p. 1931; in Nuova giur. civ. comm., 2009, I, p. 11 ss.; in Giust. civ., 2009, I, p. 2178 ss.; in Dir. fam. pers., 2009, p. 1074 ss..
Con riferimento alla giurisprudenza europea, invece, v. in particolare: Corte di Giustizia UE, 2 ottobre 2003, causa C-148/02, Carlos Garcia Avello c. Belgio, secondo cui costituisce discriminazione in base alla nazionalità il rifiuto da parte dell’autorità amministrativa di uno Stato membro di consentire che un minore avente doppia nazionalità possa essere registrato con il cognome cui avrebbe diritto secondo le leggi applicabili nell’altro Stato membro, in Giur. it., 2004, 2009 ss.; in Fam. dir., 2004, p. 437 ss.; in Europa dir. priv., 2004, p. 217 ss.; Corte EDU, 16 novembre 2004, ric. n. 29865/96, Ünal Tekeli c. Turchia; Corte di Giustizia UE, 14 ottobre 2008, causa C-353/06, Grunkin e Paul c. Germania, in Nuova giur. civ. comm., 2009, I, p. 268 ss.; in Corriere giur., 2009, p. 489 ss.; in Giur. it., 2009, p. 299 ss..
[13] Corte cost., ord. 11 febbraio 1988, n. 176, in Rass. dir. civ., 1991, p. 190; in Foro it., 1988, I, p. 1811; in Giur. cost., 1988, I, p. 605; in Dir. fam. pers., 1988, p. 670; e Corte cost., ord. 19 maggio 1988, n. 586, in Dir. fam. pers., 1988, p. 1206; in Giust. civ., 1988, I, p. 1649.
[14] Nella motivazione si legge che: «l’interesse alla conservazione dell’unità familiare, tutelata dall’art. 29 Cost., sarebbe gravemente pregiudicato se il cognome dei figli nati dal matrimonio non fosse prestabilito fin dal momento dell’atto costitutivo della famiglia».
[15] Corte cost., 16 febbraio 2006, n. 61, in Foro it., 2006, I, p. 1673 ss.; in Giur. cost., 2006, p. 543 ss.; in Familia, 2006, p. 931 ss.; in Dir. giust., 2006, 10, p. 14 ss.; in Dir. fam. pers., 2006, p. 927 ss.; in Dir. comm. internaz., 2006, p. 341 ss.; in Giust. civ., 2006, I, p. 1124 ss..
[16] Alla stessa conclusione perveniva la Consulta nel 2007, quando – chiamata a pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 262, comma 1, secondo periodo, c.c., sollevata con riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost., nella parte in cui, per il caso di contestuale riconoscimento del figlio operato da entrambi i genitori, anziché consentire ai genitori una scelta libera e concordata, dispone che il figlio assume il cognome del padre – dichiarava la questione manifestamente inammissibile, «poiché l’intervento richiesto, lasciando aperta una serie di opzioni riservate alla discrezionalità del legislatore, impone una operazione manipolativa esorbitante dai poteri della Corte costituzionale» (così, Corte cost., ord. 27 aprile 2007, n. 145, in Giust. civ., 2007, I, p. 1306 ss.).
[17] V. nota 5.
[18] V. nota 10.
[19] Corte EDU, 7 gennaio 2014, ric. n. 77/07, Cusan e Fazzo c. Italia, in Foro it., 2014, IV, p. 57 ss.; in Dir. fam. pers., 2014, p. 537 ss.; in Fam. dir., 2014, p. 205 ss.; in Nuova giur. civ. comm., 2014, I, p. 515 ss..
[20] Ai sensi dell’art. 8 CEDU, rubricato «Diritto al rispetto della vita privata e familiare»: «1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui».
[21] Ai sensi dell’art. 14 CEDU, rubricato «Divieto di discriminazione»: «Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione».
[22] La Corte ha condannato l’Italia, non in quanto la norma implicita sia di per sé in contrasto con la Convenzione europea, ma sulla base di una lacuna assiologica del sistema normativo italiano ovvero perché non prevede la facoltà di derogarvi anche laddove la volontà dei coniugi sia concorde (in francese la Corte usa, al paragrafo 81 della sentenza Cusan e Fazzo c. Italia, il termine più evocativo di «défaillance du système juridique italien»).
[23] Corte cost., ord. 11 febbraio 2021, n. 18, in Gazz. Uff., 1ª serie speciale, 17 febbraio 2021, n. 7. A commento della pronuncia, v. M. N. Bugetti e F. G. Pizzetti, (Quasi) al capolinea la regola della trasmissione automatica del patronimico ai figli, in Fam. dir., 2021, p. 461 ss.; L. Olivero, Cognome dei figli: i rischi dell’autonomia e dell’alfabeto, in Giur. it., 2021, p. 1811 ss; E. Repetto, La trasmissione del cognome ai figli: fine di un’era?, in Familia, 2021, p. 544 ss..
[24] Sin da epoca ormai risalente, la Consulta ha espressamente osservato che la prevalenza attribuita al ramo paterno nell’attribuzione del cognome non può ritenersi giustificata dall’esigenza di salvaguardia dell’unità familiare, poiché «è proprio l’eguaglianza che garantisce quell’unità e, viceversa, è la diseguaglianza a metterla in pericolo», in quanto l’unità «si rafforza nella misura in cui i reciproci rapporti fra coniugi sono governati dalla solidarietà e dalla parità» (così, Corte cost., 13 luglio 1970, n. 133).
[25] Riprendendo le parole di Corte cost., 8 novembre 2016, n. 286, cit., par. 3.4.2.
[26] In caso di accoglimento della questione, non si configurerebbe un vuoto normativo, ma la sola apertura all’accordo dei coniugi sulla scelta del cognome materno.
[27] S. Troiano, Cognome del minore e identità personale, in Jus civile, 2020, p. 580, sottolinea «la fragilità di un quadro complessivo che affida la garanzia di diritti fondamentali e, al contempo dell’interesse pubblico all’identificazione delle persone, a regole basate sulle mutevoli letture degli interpreti e all’instabile contributo offerto da fonti normative sparse e, in buona misura, anche gerarchicamente sottordinate». A tal riguardo, un esempio significativo è dato proprio dalla sentenza della Corte costituzionale n. 286/2016, considerato che il Ministero dell’Interno aveva recepito il decisum di detta pronuncia con Circolare del 19 gennaio 2017, n. 1, limitandosi a stabilire che «l’applicazione della sentenza della Corte costituzionale è immediata… e che l’ufficiale dello stato civile dovrà accogliere la richiesta dei genitori che, di comune accordo, intendano attribuire il doppio cognome, paterno e materno, al momento della nascita o dell’adozione». Restavano, così, irrisolti i dubbi interpretativi originati dalla sentenza n. 286/2016 – applicabile dal giorno successivo alla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale ovvero dal 29 dicembre 2016 (Gazz. Uff., 1ª serie speciale, 28 dicembre 2016, n. 52) – in caso di richiesta concorde dei genitori di attribuzione al figlio del doppio cognome (a titolo esemplificativo: “Quale forma deve avere l’accordo dei genitori per l’attribuzione del doppio cognome: dichiarazione resa personalmente da entrambi i genitori o anche comunicazione scritta recante sottoscrizione autenticata? I cognomi devono attribuirsi secondo l’ordine prescelto dai genitori o il cognome della madre deve essere soltanto aggiunto a quello del padre e, quindi, sempre attribuito per secondo? E nel caso di accordo tra uno o addirittura entrambi i genitori che già recano un doppio cognome, si attribuiranno tutti o soltanto il primo dei due o uno dei due scelto discrezionalmente dai genitori?”).
[28] Cass. civ., sez. I, 14 luglio 2006, n. 16093, in Giust. civ., 2007, I, p. 149 ss.; in Vita not., 2007, p. 203; in Fam. dir., 2006, p. 469 ss..
[29] V. nota 15.
[30] Si segnalano, in particolare, l’art. 16, comma 1, lett. g, della Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, adottata a New York il 18 dicembre 1979 e ratificata dall’Italia con l. 14 marzo 1985, n. 132, che espressamente impegna gli Stati contraenti ad assicurare «gli stessi diritti personali al marito e alla moglie, compreso il diritto alla scelta del cognome»; gli artt. 21 e 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, che vietano ogni forma di discriminazione basata sul sesso (art. 21) nonché l’obbligo di assicurare la parità tra uomini e donne (art. 23); le Raccomandazioni del Consiglio d’Europa nn. 1271/1995 e 1362/1998 e, ancor prima, la risoluzione n. 37/1978, relative alla piena realizzazione dell’eguaglianza tra madre e padre nell’attribuzione del cognome ai figli; gli artt. 8 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), che sanciscono rispettivamente il diritto al rispetto della vita privata e familiare e il divieto di ogni forma di discriminazione.
[31] Loi n. 2002-304 du 4 mars 2002 relative au nom de famille, successivamente modificata dalla Loi n. 2003-516 du 18 juin 2003 relative à la dévolution du nom de famille, e dall’Ordonnance n. 2005-759 du 4 juillet 2005 portant réforme de la filiation; artt. 311-21, 311-22, 311-23, 311-24 del Code civil.
[32] Nell’ordinamento spagnolo, vige la regola del doppio cognome. Secondo la Ley 40/1999, de 5 de noviembre, sobre nombre y apellidos y orden de los mismos, i figli assumono il cognome di entrambi i genitori, secondo l’ordine da questi stabilito. Inizialmente, la legge prevedeva che, in caso di difetto di accordo sull’ordine di precedenza, quest’ultima fosse automaticamente accordata al cognome paterno. Da ultimo, la disciplina è stata tuttavia modificata, nell’ambito della più ampia riforma del Registro civil (Ley 20/2011, de 21 de julio, entrata in vigore – per la parte che qui interessa – il 30 giugno 2017), prevedendosi che se i genitori non stabiliscono l’ordine dei cognomi o non vi è accordo tra loro su quale debba essere, decorso il termine di tre giorni, sarà l’ufficiale del Registro civil a dover stabilire il predetto ordine. Il criterio che l’ufficiale dello stato civile deve seguire è quello del interés superior del menor.
[33] Ai sensi del paragrafo 1355 BGB, i coniugi possono decidere con una dichiarazione resa all’ufficiale dello stato civile al momento del matrimonio o successivamente con una dichiarazione autenticata, se adottare un cognome familiare comune (c.d. Ehename), scelto tra i propri cognomi, da assegnare alla prole o mantenere i rispettivi cognomi di nascita. In quest’ultima ipotesi, ai figli dovrà comunque essere attribuito un unico cognome (quello del padre o della madre) secondo la libera volontà dei genitori. In caso di disaccordo, secondo quanto previsto dal paragrafo 1616 BGB, compete al Giudice Tutelare scegliere il genitore a cui affidare la determinazione e, ove il genitore designato vi si sottragga, ai figli è attribuito il suo cognome.
[34] Per una compiuta disamina delle normative vigenti in Europa in materia di attribuzione del cognome ai figli, v. R. Peleggi, Il cognome dei figli: esperienze statali a confronto, in A. Fabbricotti (a cura di), Il diritto al cognome materno, Napoli, 2017, p. 115 ss..
[35] Nel corso dell’attuale XVIIIª legislatura, tra i più recenti progetti di legge presentati in materia di cognome si segnalano il d.d.l. n. 2293 (intitolato «Nuove disposizioni in materia attribuzione del cognome ai coniugi e ai figli», presentato al Senato in data 22 giugno 2021 e non ancora assegnato) e il d.d.l. n. 2276 (intitolato «Modifiche al codice civile in materia di cognome», presentato in data 10 giugno 2021 e assegnato alla 2ª Commissione Giustizia del Senato in sede redigente il 10 novembre 2021). Entrambi i suindicati progetti di legge – che modificano anche la normativa in materia di cognome dei coniugi e presentano evidenti analogie con la disciplina francese – riconoscono ampia discrezionalità ai genitori rimettendo loro la scelta del cognome (unico o doppio) dei figli, potendosi discrezionalmente attribuire al figlio il cognome del padre o quello della madre o quelli di entrambi, nell’ordine concordato. Il testo dei disegni di legge in questione ricalca il più risalente d.d.l. n. 286 (assegnato alla 2ª Commissione Giustizia del Senato in sede redigente l’11 luglio 2018) nonché il d.d.l. n. 1628 della precedente legislatura, con riferimento al quale, per un’attenta disamina sia consentito rinviare a M. A. Iannicelli, Prospettive di riforma in materia di attribuzione del cognome ai figli, in A. Fabbricotti (a cura di), Il diritto al cognome materno, Napoli, 2017, p. 157 ss.; M. A Iannicelli, Il cognome del figlio: brevi note de iure condendo, in Familia, 2017, p. 34 ss..
Diversamente, il d.d.l. n. 2102 (intitolato «Modifiche al codice civile in materia di cognome dei figli», presentato in data 17 febbraio 2021 e assegnato alla 2ª Commissione Giustizia del Senato in sede redigente il 9 marzo 2021) – più aderente al modello spagnolo – prevede un’indicazione vincolante a favore del doppio cognome, stabilendo che, su accordo dei genitori, sia attribuito al figlio al momento della dichiarazione di nascita presso gli uffici di stato civile il cognome di entrambi nell’ordine concordato secondo la loro volontà.
In caso di mancato accordo tra i genitori, tutti i disegni di legge suindicati prevedono che sia attribuito al figlio il cognome di entrambi in ordine alfabetico.
L’applicazione delle misure di sicurezza detentive e il “malfunzionamento strutturale” del sistema delle REMS, secondo C. Cost., sentenza n. 22 del 2022: un punto di svolta nel percorso di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari[1]
di Francesco Gualtieri
Il percorso di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, avviato ormai dieci or sono ai sensi dell’art. 3-ter del decreto-legge 22 dicembre 2011, n. 211, non può ancora dirsi compiuto e continua ad essere attraversato da criticità e contraddizioni, che riguardano, in primo luogo, l’attuale sistema di assegnazione dei pazienti psichiatrici autori di reato alle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (R.E.M.S.) attivate sul territorio nazionale dal 2015 in poi. Con la sentenza n. 22 del 2022, la Corte costituzionale, pur dichiarando inammissibili le questioni poste alla sua attenzione, ha tuttavia rivolto un fondamentale monito affinché vengano prontamente individuate soluzioni di carattere strutturale per le numerose problematiche, giuridiche ed organizzative, che connotano la materia. Il presente contributo, oltre a commentare i contenuti della sentenza, intende affrontare il merito delle complesse questioni oggi “sul tappeto”, a partire da una disamina delle cause che hanno determinato l’attuale situazione di stallo nel sistema di applicazione delle misure di sicurezza detentive nei confronti delle persone non imputabili.
Sommario: 1. Il contesto di riferimento - 2. La questione di legittimità costituzionale posta all’attenzione della Consulta e l’ordinanza istruttoria n. 131 del 2021 - 3. I contenuti della sentenza della Corte costituzionale, n. 22 del 2022. Il ritorno alle direttrici giuridiche fondamentali in materia di misure di sicurezza detentive destinate alle persone non imputabili - 4. Il corretto dimensionamento della rete delle REMS ed il problema delle liste di attesa per i ricoveri - 5. I reali termini del problema: dal superamento degli OPGP alla neutralizzazione, praeter legem, delle misure di sicurezza detentive. La necessità, non più eludibile, di potenziare adeguatamente la rete delle REMS e i sistemi territoriali di tutela della salute mentale dei pazienti psichiatrici autori di reato - 6. Il tema della “appropriatezza” della misura di sicurezza detentiva. 7. Conclusioni.
1. Il contesto di riferimento
Lo scorso 27 gennaio la Corte costituzionale ha depositato l’attesa sentenza n. 22 del 2022, concernente il giudizio di legittimità dell’art. 3-ter del decreto legge 22 dicembre 2021, n. 211, convertito, con modificazioni, nella legge 17 febbraio 2012, n. 9, con il quale venivano formalmente istituite le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (cosiddette R.E.M.S.), nell’ambito del travagliato percorso di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari.
La Consulta ha ritenuto di dichiarare inammissibili tutte le questioni poste alla sua attenzione ma tale dispositivo non deve trarre in inganno, collocandosi nell’ambito di una pronuncia che, pur non essendo sfociata in una decisione demolitoria, si distingue tuttavia per l’estrema chiarezza dei principi che il Giudice delle leggi ha ritenuto di riaffermare e per la severità dei moniti rivolti senz’altro al legislatore, ma anche a tutti gli altri attori istituzionali coinvolti nelle procedure giurisdizionali e amministrative di individuazione, presa in carico, cura e custodia dei pazienti psichiatrici autori di reato.
La ricostruzione della disciplina di riferimento, rinvenibile nelle premesse in fatto della sentenza in commento, consente agevolmente di notare quanto accidentato, contraddittorio e per certi versi timido sia stato il percorso riformatore che, per il suo impatto nel sistema sanzionatorio italiano, avrebbe senz’altro dovuto essere oggetto di interventi ben più ordinati ed organici.
Al riguardo, oltre a quanto puntualizzato dalla Consulta, deve anzitutto sottolinearsi come, in modo francamente anomalo, l’obiettivo del superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari sia comparso ex abrupto nell’ordito normativo nazionale, in particolare nell’ambito di un decreto-legge che, in modo non del tutto coerente rispetto a quanto previsto in precedenza, introduceva il tema della soppressione degli OPG, sebbene la normativa primaria approvata pochi anni prima si fosse limitata a delineare il semplice trasferimento delle funzioni in materia di OPG dallo Stato alle Regioni[2].
Al di là di tale circostanza, ciò che maggiormente desta sorpresa – e su cui, non a caso, si sono appuntate le più decise critiche del Giudice delle leggi – è la persistente assenza di una normativa esplicita di rango ordinario concernente la gestione concreta delle REMS, con un vero e proprio “scarico” di responsabilità su fonti giuridiche secondarie, quali i decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, i decreti ministeriali e gli Accordi da stipularsi in sede di Conferenza Unificata Stato-Regioni, nella sostanziale assenza di indicazioni esplicite all’interno della cornice normativa di riferimento.
In questo contesto, il sistema delle assegnazioni dei pazienti psichiatrici alle REMS è da sempre rimasto in un limbo di ambiguità che, peraltro, tuttora persiste, determinando l’insorgere di gravi problematiche applicative e gestionali.
Tutto ciò, inoltre, si è verificato nell’ambito di un sistema riferito non già a prestazioni di carattere esclusivamente sanitario, bensì alla esecuzione di misure di sicurezza aventi una chiara natura giurisdizionale; ed ancora, la configurazione dei rapporti organizzativi tra i diversi livelli di governo si è perfezionato, in modo evidentemente approssimativo, a fronte dell’ostinato silenzio del legislatore il quale, con l’art. 3-ter, co. 3, lett. a), d.l. 211/2011, conv. in legge n. 9/2012, si è limitato a prevedere la “gestione esclusivamente sanitaria” delle REMS, senza null’altro aggiungere in merito al riparto delle competenze tra lo Stato e le Regioni nella fondamentale materia delle assegnazioni dei pazienti destinatari di misure giudiziarie.
In questo senso, la principale disciplina di riferimento può in effetti rinvenirsi nell’Accordo del 26 febbraio 2015, stipulato in sede di Conferenza Unificata tra Governo, Regioni, Province autonome di Trento e Bolzano e Autonomie locali, recante le “disposizioni per il definitivo superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari”[3].
La lettura di detto documento, che a tutt’oggi governa la materia, dimostra in particolare come, in seguito al lungo processo di trasferimento delle funzioni relative alle misure di sicurezza detentive in capo ai sistemi sanitari regionali, all’Amministrazione penitenziaria sia stato di fatto riservato un ruolo di spettatrice passiva di ciò che accade nel sistema delle REMS, risultando la stessa privata di eventuali poteri di intervento, sia pure in via sostitutiva o sussidiaria, onde supplire ad eventuali difetti del sistema medesimo.
Vero è, infatti, che, formalmente, l’art. 1 dell’Accordo parrebbe assegnare al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria il potere-dovere di effettuare le assegnazioni e i trasferimenti degli internati e degli internandi presso le singole REMS, nel rispetto del principio di territorialità di cui all’art. 3 ter, co. 3, lett. c) d.l. 211/2011 e, dunque, in ragione della residenza anagrafica degli interessati, come già precisato il 26 novembre 2009, in seno ad un precedente Accordo stipulato in sede di Conferenza Unificata[4]. Tuttavia, il medesimo articolo precisa che le assegnazioni e i trasferimenti siano disposti in base alla disponibilità di posti-letto nelle strutture e, soprattutto, attribuisce in via esclusiva alle Regioni e alle Province autonome il compito di verificare la progressiva disponibilità di posti-letto all’interno delle singole REMS, per poi comunicare tempestivamente dette disponibilità all’Amministrazione penitenziaria, affinché quest’ultima possa procedere alle assegnazioni e ai trasferimenti degli internandi e degli internati nei casi previsti dalla legge.
Ancora, deve rammentarsi come l’Accordo del 26 febbraio 2015, sia pure nelle sue premesse, abbia definito come inderogabile il limite dei 20 posti-letto da attivare in ciascuna REMS, il che, nella prassi, al presumibile fine di scongiurare qualsivoglia fenomeno di sovraffollamento, ha indotto le Regioni a palesare nei confronti dell’Autorità giudiziaria e del DAP una tendenziale rigidità nella gestione delle liste di accesso alle singole Residenze, negando sostanzialmente l’accesso degli internandi una volta raggiunto il limite massimo dei posti-letto disponibili all’interno delle strutture presenti nel territorio regionale.
Pare dunque inevitabile che, in siffatto contesto, in assenza di posti-letto effettivamente disponibili e delle conseguenti comunicazioni inoltrate dalle Regioni, il potere di assegnazione e trasferimento degli internandi e degli internati formalmente assegnato all’Amministrazione penitenziaria sia stato de facto abrogato.
2. La questione di legittimità costituzionale posta all’attenzione della Consulta e l’ordinanza istruttoria n. 131 del 2021
È dunque questo lo scenario in cui si è innestata la questione di legittimità costituzionale definita con la sentenza in commento.
Segnatamente, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Tivoli, con ordinanza dell’11 maggio 2020[5] sollevava d’ufficio la questione di legittimità costituzionale degli articoli 206 e 222 cod. pen. e 3-ter, d.l. n. 211/2011, con riguardo proprio alla sopravvenuta assegnazione alle Regioni di ogni concreta competenza in merito all’ammissione in REMS dei destinatari delle misure di sicurezza detentive.
Il remittente segnalava il potenziale contrasto di tale assetto normativo, da un lato, con l’art. 110 della Costituzione che, com’è noto, assegna al Ministro della giustizia i compiti relativi all’organizzazione e al funzionamento dei servizi relativi alla giustizia e, d’altro lato, con le norme costituzionali, prime fra tutte l’articolo 25, che, prevedendo il principio della riserva di legge anche in materia di misure di sicurezza, osterebbero a norme ordinarie che consentono l’adozione con atti amministrativi di disposizioni generali in relazione alle REMS.
Oltre ad avere avuto l’obiettivo merito di ravvivare il dibattito sulla materia[6], disvelando expressis verbis l’esistenza di chiari problemi nell’attuale sistema di esecuzione delle misure di sicurezza detentive, l’ordinanza in questione ha senz’altro sollevato perplessità sulla legittimità costituzionale dell’attuale assetto organizzativo meritevoli di approfondimento e non affatto peregrine.
Tuttavia, come correttamente evidenziato e come infine riconosciuto dalla stessa Corte costituzionale, è da subito apparso arduo ipotizzare che i nodi “di sistema” che attualmente affliggono le modalità di accoglienza in REMS potessero risolversi mediante l’eventuale revisione costituzionale della normativa di riferimento, senza affrontare nel merito questioni di carattere più sostanziale[7].
In tale contesto, non pare un caso che taluni commentatori abbiano da subito “sospettato” che dietro l’eventuale trasferimento in capo al Ministero della giustizia di più pregnanti competenze nella materia delle assegnazioni in REMS, tramite l’accoglimento della questione posta dal Giudice di Tivoli, si celasse il reale intento di “derubricare” le esigenze di cura dei pazienti accolti nelle Residenze in modo da privilegiare interessi di tipo più securitario. È inoltre sembrato piuttosto chiaro che il timore maggiormente diffuso in ambito sanitario fosse quello che l’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale potesse determinare il superamento del principio del “numero chiuso” in relazione alla disponibilità dei posti-letto in REMS[8].
In realtà, al di là del pregiudizio che parrebbe permeare una siffatta impostazione, laddove si sostiene che “solo con l’esclusiva gestione sanitaria una struttura può infatti avere come criteri organizzativi quelli finalizzati alla cura dei pazienti, senza essere sottoposta a pressioni dettate da altre esigenze”[9], risulta tuttavia altrettanto chiaro che, indipendentemente dal riparto di competenze tra Amministrazione centrale e Regioni e pur non rimettendo in discussione il principio della esclusiva gestione sanitaria delle strutture, tale tipologia di gestione dovrà comunque cominciare ad essere conciliata con le peculiarità delle misure di sicurezza detentive, aventi natura pacificamente giudiziaria e che, come tali, devono essere suscettibili di pronta esecuzione.
L’estrema complessità delle questioni poste dal remittente resta comprovata dalla decisione interlocutoria che la Corte costituzionale ha ritenuto di assumere all’esito della camera di consiglio celebrata il 26 maggio 2021, adottando[10] l’ordinanza “istruttoria” n. 131, depositata il 24 giugno 2021[11].
Infatti, al fine di decidere in merito alle questioni promosse dal Giudice di Tivoli, la Consulta ha ritenuto necessario acquisire una serie di approfondite informazioni dal Ministro della giustizia, dal Ministro della salute, dal Presidente della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome e, limitatamente alla lettera m) del dispositivo, dal Presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio, per quanto di rispettiva competenza.
Le richieste, peraltro, non riguardavano esclusivamente i dati statistici inerenti al numero di REMS realizzate sul territorio nazionale (lett. a) del dispositivo), il numero dei pazienti inseriti nelle singole liste di attesa [(lett. b), c) e d)], con specifico riguardo per coloro che si trovassero detenuti in Istituto di pena in attesa di ricovero (lett. f), e la tipologia dei reati contestati agli internandi (lett. e), ma concernevano altresì questioni che si caratterizzano per una consistenza squisitamente politica.
Le istanze istruttorie si addentravano infatti in tutte le più spinose problematiche che connotano la formazione delle liste di attesa per l’ingresso in R.E.M.S., riguardando in particolare: l’accertamento in ordine alle difficoltà di funzionamento dei luoghi di cura per la salute mentale esterni alle R.E.M.S. per i pazienti psichiatrici autori di reato (lett. g); l’esistenza di forme di coordinamento tra il Ministero della giustizia, il Ministero della salute, le aziende sanitarie locali e i Dipartimenti di salute mentale, volte ad assicurare la pronta ed effettiva esecuzione, su scala regionale o nazionale, dei provvedimenti di applicazione, in via provvisoria o definitiva, delle misure di sicurezza detentive (lett. h); quali specifiche competenze esercitino, in particolare, il Ministro della giustizia e il Ministro della salute rispetto all’obiettivo di cui alla lettera h) (lett. i); se il ricovero nelle R.E.M.S., nonché i trattamenti sanitari conseguenti all’applicazione della libertà vigilata, rientrino nei livelli essenziali di assistenza (L.E.A.) che le Regioni sono tenute a garantire (lett. j); se sia attualmente effettuato dal Governo uno specifico monitoraggio sulla tempestiva esecuzione dei provvedimenti di applicazione delle misure di sicurezza detentive (lett. k); se sia prevista la possibilità dell’esercizio dei poteri sostitutivi del Governo nel caso di riscontrata incapacità di assicurare la tempestiva esecuzione di tali provvedimenti nel territorio di specifiche Regioni (lett. l); se le riscontrate difficoltà siano dovute a ostacoli applicativi, all’inadeguatezza delle risorse finanziarie, ovvero ad altre ragioni (lett. m); se siano attualmente allo studio progetti di riforma legislativa, regolamentare od organizzativa per ovviare alle predette difficoltà e rendere complessivamente più efficiente il sistema di esecuzione delle misure di sicurezza applicate nei confronti delle persone inferme di mente (lett. n).
Orbene, così sintetizzati i quesiti posti dal Giudice delle leggi, pare a chi scrive che, con l’ordinanza de qua, la Consulta abbia ritenuto di inscrivere la questione di legittimità costituzionale posta alla sua attenzione entro un quadro giuridico, fattuale e politico ben più ampio, indicando alle amministrazioni coinvolte – ed in ultima istanza al decisore politico – gli ambiti in cui gli interventi organizzativi e finanziari risultano ormai non più rinviabili, al fine di restituire efficacia ed efficienza al sistema di esecuzione delle misure di sicurezza, detentive e non.
Dalle parole della ordinanza traspare dunque la consapevolezza di quanto sopra accennato a proposito del riparto di competenze tra Stato e Regioni, in quanto problematica giuridico-organizzativa che di per sé sola non ha determinato la situazione di stallo nella quale in atto versa l’apparato delle misure di sicurezza e che, in ogni caso, non può continuare ad essere impropriamente utilizzata come schermo per continuare a rinviare sine die la concreta individuazione delle soluzioni.
3. I contenuti della sentenza della Corte costituzionale, n. 22 del 2022. Il ritorno alle direttrici giuridiche fondamentali in materia di misure di sicurezza detentive destinate alle persone non imputabili
Queste ultime considerazioni, invero, hanno trovato piena conferma nelle motivazioni della sentenza n. 22 del 2022, da ultimo depositate.
A dispetto della declaratoria di inammissibilità delle questioni, la Corte ha con evidenza individuato dei punti fermi nella ricostruzione giuridica ed organizzativa della materia, che costituiranno un ineludibile riferimento nella integrale revisione del sistema per tutti coloro che – in tempi auspicabilmente rapidi – saranno chiamati a rendere più fluida ed organica l’applicazione delle misure di sicurezza nei confronti dei pazienti psichiatrici autori di reato.
In estrema sintesi, i principi affermati dalla Consulta possono così riassumersi:
- malgrado la “gestione esclusivamente sanitaria” delle Residenze sancita dal legislatore, “l’assegnazione a una REMS – così come oggi concretamente configurata nell’ordinamento – non può essere considerata come una misura di natura esclusivamente sanitaria”; l’assegnazione a una REMS va dunque a tutti gli effetti considerata una nuova misura di sicurezza, ispirata ad una ratio profondamente diversa rispetto al ricovero in OPG o all’assegnazione a casa di cura e di custodia, ma applicabile in presenza degli stessi presupposti, salvo il nuovo requisito della inidoneità di ogni misura meno afflittiva introdotto dall’art. 3-ter, comma 4, del d. l. n. 211 del 2011 (punto 5.1 del “Considerato in diritto”);
- in quanto misura di sicurezza espressamente “limitativa della libertà personale”, l’assegnazione a una REMS merita altresì di essere tenuta distinta da ogni ordinario trattamento della salute mentale, ed in particolare dal trattamento sanitario obbligatorio per malattia mentale disciplinato dagli articoli 33 a 35 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, in ragione, tra l’altro, sia dei noti presupposti penalistici, di rango sostanziale processuale, che ne legittimano l’applicazione in concreto, sia della sua schietta natura giurisdizionale, comprovata dai penetranti poteri di costante vigilanza nella fase esecutiva, pacificamente assegnati al Magistrato di Sorveglianza (punto 5.1 del “Considerato in diritto”);
- secondo l’autorevole avviso della Corte, dunque, l’assegnazione a una REMS non può ritenersi connotata esclusivamente da una finalità di tipo terapeutico, trovando “la propria peculiare ragion d’essere – a fronte della generalità dei trattamenti sanitari per le malattie mentali – in una specifica funzione di contenimento della pericolosità sociale di chi abbia già commesso un reato, o sia gravemente indiziato di averlo commesso, in una condizione di vizio totale o parziale di mente”; le due finalità sottese all’applicazione della misura di sicurezza detentiva, del resto, non rappresentano affatto un novum nel panorama interpretativo relativo all’istituto di cui si discute, come stratificatosi nei decenni secondo chiavi di letture costituzionalmente orientate; evidenzia sul punto la Corte come “le misure di sicurezza nei riguardi degli infermi di mente incapaci totali si muovono inevitabilmente fra queste due polarità, e in tanto si giustificano, in un ordinamento ispirato al principio personalista (art. 2 della Costituzione), in quanto rispondano contemporaneamente a entrambe queste finalità, collegate e non scindibili (cfr. sentenza n. 139 del 1982), di cura e tutela dell’infermo e di contenimento della sua pericolosità sociale. Un sistema che rispondesse ad una sola di queste finalità (e così a quella di controllo dell’infermo “pericoloso”), e non all’altra, non potrebbe ritenersi costituzionalmente ammissibile (sentenza n. 253 del 2003)” (punto 5.2 del “Considerato in diritto”);
- sulla base di tali premesse, la Consulta indica dunque la necessità che l’assegnazione ad una REMS, per la sua natura “ancipite” di misura di sicurezza a spiccato contenuto terapeutico, si conformi ai principi costituzionali dettati, da un lato, in materia di misure di sicurezza e, dall’altro, in materia di trattamenti sanitari obbligatori; ed in questo senso, i riferimenti costituzionali pressoché obbligati, nel percorso argomentativo seguito dalla Corte, debbono individuarsi nell’art. 13 della Costituzione relativo alla salvaguardia della libertà personale, nonché negli articoli 25, terzo comma e 32, secondo comma, rispettivamente dedicati all’applicazione delle misure di sicurezza e dei trattamenti sanitari obbligatori, assoggettando entrambi gli istituti alla riserva di legge; di peculiare interesse risultano peraltro le considerazioni svolte a proposito del citato art. 25, terzo comma, reinterpretato dalla Corte secondo una logica rinforzata, in nome della quale il legislatore non può comunque limitarsi alla sola individuazione dei “casi” in cui possa applicarsi una misura di sicurezza detentiva, dovendo altresì farsi carico di delineare i “modi” con cui la misura possa restringere la libertà personale degli individui, “ed anzi di privarli della loro libertà, spesso per periodi duraturi o – addirittura – per l’intera vita residua” (punto 5.3.1 del “Considerato in diritto”);
- dato un siffatto perimetro costituzionale, la Corte annota come l’attuale disciplina in materia di assegnazione alle REMS riveli “evidenti profili di frizione” con i principi di rango sovra-ordinario illustrati nella sentenza (punto 5.3.2 del “Considerato in diritto”);
- in particolare, nel prosieguo della pronuncia si sottolinea come, attualmente, l’unica norma ordinaria che regoli la materia sia rinvenibile nello scarno art. 3-ter, d.l. 211/2011, conv. in legge n. 9/2012, oltre che nelle datate norme codicistiche che, tuttavia, si limitano a regolare i “casi” in cui le misure di sicurezza detentive – ancora impropriamente denominate ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e in casa di cura e custodia – possono trovare applicazione in concreto; manca, d’altro canto, una disciplina primaria dei “modi” mediante i quali dette misure, e dunque, le assegnazioni alle REMS, debbono essere eseguite, posto che, come ribadito dalla Corte, la regolamentazione puntuale dei ricoveri è stata affidata a fonti secondarie, quali i decreti ministeriali e gli Accordi intercorsi tra Amministrazioni centrali ed autonomie territoriali; ed un tale assetto, per quanto detto, non può che entrare in potenziale conflitto con il principio della riserva di legge in materia di misure di sicurezza, sancito dall’art. 25, terzo comma della Costituzione (punto 5.3.2 del “Considerato in diritto”);
- a proposito degli ambiti in cui viene appunto invocato un organico intervento del legislatore, concernenti i “modi” di esecuzione delle misure in parola, la Corte segnala anzitutto l’esigenza che la norma primaria stabilisca se ed in che misura sia legittimo l’uso della contenzione all’interno delle REMS, ed eventualmente quali ne siano le ammissibili modalità di esecuzione; in secondo luogo, la legge ordinaria dovrà farsi carico di disciplinare “in modo chiaro e uniforme per l’intero territorio italiano, il ruolo e i poteri dell’autorità giudiziaria, e in particolare della magistratura di sorveglianza, rispetto al trattamento degli internati nelle REMS e ai loro strumenti di tutela giurisdizionale nei confronti delle decisioni delle relative amministrazioni” (punto 5.2.3 del “Considerato in diritto”);
- è a questo punto della pronuncia che la Corte costituzionale, ben lungi dall’arrestare la propria analisi ai profili prettamente giuridici della questione, ritiene di compiere una lucida disamina su quello che definisce “grave malfunzionamento strutturale del sistema di applicazione dell’assegnazione in REMS” (punto 5.4 del “Considerato in diritto”), evidentemente non al fine di sconfinare dalle proprie prerogative istituzionali, ma onde verificare se ed in che termini una eventuale pronuncia demolitoria potesse essere idonea a garantire il risultato perseguito dal remittente, ossia la corretta allocazione in REMS per la persona sottoposta al procedimento penale nel cui alveo era stata promossa la questione di legittimità costituzionale (punto 6 del “Considerato in diritto”);
- a quest’ultimo proposito, il Giudice delle leggi prende le mosse dagli esiti della istruttoria intrapresa con la citata ordinanza n. 131 del 24 giugno 2021, da cui si evince che un numero di persone almeno pari a quelle attualmente ospitate in REMS – compreso tra le 670 (secondo i calcoli effettuati dal Ministero della Salute e dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome) e le 750 (secondo i calcoli del Ministero della giustizia) – si trovano allo stato in attesa di essere collocate in una REMS; la permanenza media in una lista di attesa è pari a circa dieci mesi ma in alcune Regioni i tempi di attesa possono essere ancora più lunghi; le persone in attesa di ricovero sono spesso accusate, o risultano ormai in via definitiva essere autrici di “reati assai gravi”, il più delle volte commessi contro la persona (punto 5.4 del “Considerato in diritto”);
- ciò premesso, pur non entrando nel merito delle possibili soluzioni prospettate dalle Amministrazioni interpellate con la citata ordinanza istruttoria, la Corte non ha potuto fare a meno di rilevare la “problematicità” della situazione venutasi a creare e a consolidare nel tempo, con riguardo appunto all’esistenza di liste d’attesa per l’esecuzione di provvedimenti emessi dall’autorità giudiziaria nei confronti di autori di reato, sul presupposto della loro pericolosità sociale; sul punto, si sottolinea opportunamente nella sentenza come “per loro natura, simili provvedimenti dovrebbero essere immediatamente eseguiti, così come destinate a essere immediatamente eseguite sono le misure cautelari previste dal codice di procedura penale che si fondano sulla necessità di prevenire rischi quale – in particolare – il pericolo di commissione di gravi reati da parte dell’imputato (art. 274, comma 1, lettera c, del codice di procedura penale)”; ad autorevole avviso della Corte, del resto, l’esigenza di immediata esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali di cui si discute non corrisponde ad una sterile petizione di principio, costituendo semmai il passaggio indispensabile per dare effettività alla “tutela dell’intero fascio di diritti fondamentali che l’assegnazione a una REMS mira a tutelare”; spiega al riguardo la Corte come “da un lato, un diffuso e significativo ritardo nell’esecuzione dei provvedimenti in esame comporta un difetto di tutela effettiva dei diritti fondamentali delle potenziali vittime di aggressioni, che il soggetto affetto da patologie psichiche, e già autore spesso di gravi o gravissimi fatti di reato, potrebbe nuovamente realizzare, e che l’ordinamento ha il dovere di prevenire. Dall’altro, la mancata tempestiva esecuzione di questi provvedimenti lede, al contempo, il diritto alla salute del malato, al quale nell’attesa non vengono praticati i trattamenti – rientranti a pieno titolo tra i LEA (Ritenuto in fatto, punto 5.9) – che dovrebbero essergli invece assicurati, per aiutarlo a superare la propria patologia e a reinserirsi gradualmente nella società” (punto 5.4 del “Considerato in diritto”);
- detto che la soluzione alla problematica illustrata non potrà evidentemente risiedere nell’assegnazione in soprannumero delle persone in attesa di ricovero, la Corte invita con forza ad affrontare “senza indugio” il problema delle liste di attesa, attraverso le differenti strategie prospettate dalle competenti Amministrazioni, allo scopo di ridurre gradatamente, “sino ad azzerare, l’attuale divario tra il numero di posti disponibili e il numero dei provvedimenti di assegnazione”; nel merito, nella sentenza si invoca in particolare di adottare ogni strategia opportuna specialmente presso le Regioni rivelatesi più indietro nell’attuazione del processo riformatore: “compreso l’esercizio degli ordinari poteri sostitutivi da parte del Governo, ai sensi dell’art. 120, secondo comma, Cost., in caso di riscontrata inadempienza di quelle Regioni che fossero venute meno al proprio dovere costituzionale di tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali nei confronti dei destinatari dei provvedimenti di assegnazione alle REMS” (punto 5.4 del “Considerato in diritto”);
- da ultimo, la Corte si sofferma sulla compatibilità dell’attuale assetto organizzativo con l’art. 110 della Costituzione che, com’è noto, affida al Ministro della giustizia l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia; al riguardo, nel ricomprendere pacificamente l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive nel novero dei servizi giudiziari, nella pronuncia si giudica non del tutto conforme al dettato costituzionale l’attuale apparato organizzativo delle REMS, nella parte in cui di fatto estromette proprio il Ministro della giustizia dalle attività inerenti l’applicazione in concreto delle misure di sicurezza, detentive e non (punto 5.5 del “Considerato in diritto”);
- in conclusione, nel dichiarare inammissibili le questioni poste dal remittente, il cui eventuale accoglimento sarebbe palesemente inidoneo a garantire il risultato pratico cui egli mira, la Corte evidenzia l’ “urgente necessità di una complessiva riforma di sistema, che assicuri, assieme: un’adeguata base legislativa alla nuova misura di sicurezza, secondo i principi poc’anzi enunciati; la realizzazione e il buon funzionamento, sull’intero territorio nazionale, di un numero di REMS sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni, nel quadro di un complessivo e altrettanto urgente potenziamento delle strutture sul territorio in grado di garantire interventi alternativi adeguati rispetto alle necessità di cura e a quelle, altrettanto imprescindibili, di tutela della collettività (e dunque dei diritti fondamentali delle potenziali vittime dei fatti di reato che potrebbero essere commessi dai destinatari delle misure); forme di adeguato coinvolgimento del Ministro della giustizia nell’attività di coordinamnto e monitoraggio del funzionamento delle REMS esistenti e degli altri strumenti di tutela della salute mentale attivabili nel quadro della diversa misura di sicurezza della libertà vigilata, nonché nella programmazione del relativo fabbisogno finanziario, anche in vista dell’eventuale potenziamento quantitativo delle strutture o degli strumenti alternativi” (punto 6 del “Considerato in diritto”).
Si comprende dalla sentenza come la Corte costituzionale si sia opportunamente fatta carico di offrire una sistemazione, anzitutto teorica e conseguentemente pratica, ad una materia estremamente delicata, in relazione alla quale la perdurante tensione dal sapore ideologico tra istanze contrapposte aveva di fatto determinato negli ultimi anni, tra gli stessi operatori, una sorta di smarrimento delle direttrici giuridiche fondamentali.
Ed è proprio a tali “fondamentali” – che d’ora in avanti non potranno più essere ignorati – che si riferisce la Corte nel momento in cui riafferma la natura pienamente bifronte dell’assegnazione in REMS quale misura di sicurezza detentiva, dalla cui corretta esecuzione dipende la compiuta attuazione di diritti fondamentali concomitanti e di pari rango, consistenti, da un lato, nella doverosa tutela della posizione giuridica delle vittime di reato e, d’altro lato, nell’altrettanto doverosa cura dell’autore del reato affetto da infermità psichica.
Ed è sempre ai “fondamentali” che si rifà la Corte, allorquando rammenta la “problematicità” di un sistema di liste di attesa venutosi impropriamente ad alimentare non già in relazione a misure aventi un contenuto esclusivamente terapeutico, ma con riguardo a misure disposte dall’Autorità giudiziaria con la finalità di prevenire la commissione di reati ad opera di persone che, già avendo commesso reati, siano state giudicate socialmente pericolose.
In questo senso, allorquando equipara a chiare lettere l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive a quella delle misure cautelari personali sul piano della necessariamente immediata attuazione del relativo ordine giurisdizionale, la Consulta addita implicitamente come insostenibile un sistema che, nel silenzio della normativa di riferimento, pretenda di subordinare al lento scorrimento di liste di attesa l’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali con cui sia stato disposto il ricovero in REMS. E tale insostenibilità viene evidenziata in modo ancor più netto nel momento in cui la Corte ammonisce il legislatore e gli operatori ad adottare strategie volte non già ad attenuare la consistenza di dette liste, bensì ad arrivare all’ “azzeramento” delle stesse. Siffatte valutazioni, operate dal più autorevole consesso giurisdizionale dello Stato, non sembrano ammettere né deroghe, né tantomeno soluzioni una tantum che, ove adottate in modo disorganico, potrebbero in prima battuta determinare un rapido assottigliamento degli attuali elenchi, seguito subito dopo da un altrettanto rapido e rinnovato incremento degli stessi.
È dunque verso soluzioni e strategie di carattere strutturale che la Corte sembra chiaramente indirizzare, così da portare finalmente ad effettivo compimento l’irreversibile percorso di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, avviato ormai più di dieci anni or sono.
4. Il corretto dimensionamento della rete delle REMS ed il problema delle liste di attesa per i ricoveri
Per ciò che concerne l’individuazione in concreto delle soluzioni, non pare un caso che, nelle conclusioni della pronuncia, la Corte invochi, tra l’altro, “la realizzazione e il buon funzionamento, sull’intero territorio nazionale, di un numero di REMS sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni, nel quadro di un complessivo e altrettanto urgente potenziamento delle strutture sul territorio in grado di garantire interventi alternativi adeguati rispetto alle necessità di cura e a quelle, altrettanto imprescindibili, di tutela della collettività (e dunque dei diritti fondamentali delle potenziali vittime dei fatti di reato che potrebbero essere commessi dai destinatari delle misure)”.
Ebbene, considerando che la sentenza in commento è pervenuta all’esito di una istruttoria volta, tra l’altro, ad accertare il numero di posti in REMS attualmente disponibili sul territorio nazionale, è lecito ipotizzare che l’appena citato monito della Corte a dotare il paese di “un numero di REMS sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni” implichi un indiretto giudizio di insufficienza rispetto al numero di REMS attualmente funzionanti, formalmente comunicato alla Consulta in risposta all’ordinanza n. 131/2021.
Pare dunque doveroso interrogarsi sulla congruenza del quantitativo di strutture programmato nel momento in cui il percorso riformatore veniva avviato.
In tal senso, quanto verificatosi nel corso degli ultimi anni, con la formazione e l’inarrestabile incremento di consistenti liste di attesa per i ricoveri in REMS in buona parte del territorio nazionale, permette oggi di affermare che, all’indomani della riforma entrata a regime nel 2015, si sia prevista la realizzazione di un numero di REMS sostanzialmente insufficiente rispetto alle effettive esigenze di internamento derivanti dall’applicazione di misure di sicurezza detentive da parte dell’Autorità giudiziaria, applicazione che, nei fatti, è rimasta tendenzialmente costante ed allineata ai numeri antecedenti all’introduzione delle REMS ed al superamento degli OPG.
Al riguardo, in linea generale, si è sottolineato come, per lo meno a partire dal 2005, si sia registrato un netto aumento nell’applicazione delle misure di sicurezza detentive, anche per gli effetti prodotti dalla nota sentenza “Raso” emessa dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione[12] (sentenza n. 9163 del 25 gennaio 2005), con la quale si è specificato che, ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i disturbi della personalità, che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di “infermità”, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale[13]. Come nel prosieguo si vedrà, peraltro, tale importante apertura in merito alla rilevanza dei “disturbi di personalità” avrebbe ricevuto negli anni successivi non poche critiche, anche a causa dei concreti effetti che si sarebbero prodotti sul sistema delle REMS, una volta entrato a regime, risultando in molti casi destinatari delle misure di sicurezza detentive soggetti affetti da patologie psichiatriche con caratteristiche tali da non poter essere adeguatamente trattate e contenute presso strutture, quali le REMS, a vocazione esclusivamente sanitaria[14].
Ad ogni modo, al di là delle motivazioni anche giuridiche da cui è derivato l’aumento del ricorso alle misure di sicurezza detentive, consta il dato per cui, a fronte di una media di circa 1.250 pazienti accolti nei vecchi OPG, per lo meno tra gli anni 2008 e 2011[15], siano stati ad oggi realizzati 652 posti-letto nelle 36 REMS attivate sul territorio nazionale dal 2015 in poi, a fronte dei circa 740 posti di dotazione originariamente programmata agli albori della riforma (punto 5.1 del “Ritenuto in fatto” della sentenza in commento)[16].
Con ogni probabilità, la scelta di creare una rete di Residenze dimensionata al ribasso in termini di posti-letto non è stata casuale o dettata esclusivamente da ragioni finanziarie ma si poneva in linea con il presupposto politico, oggi concretizzato nel noto art. 3-ter, co. 4, d.l. 211/2011 ma già da tempo conosciuto nella giurisprudenza costituzionale riferita agli OPG[17], secondo cui il ricovero in REMS sarebbe dovuto realmente diventare una extrema ratio, cui ricorrere solo nel caso in cui qualsiasi altra misura non detentiva si fosse rivelata inappropriata o inefficace nei confronti del singolo paziente autore di reato; ciò posto, le Residenze di nuova istituzione non avrebbero dovuto considerarsi sic et simpliciter come dei sostituti dei vecchi O.P.G.[18]
Inoltre, sin da quanto previsto nell’ “Allegato C” del D.P.C.M. primo aprile 2008[19], si era in effetti stabilito che, in vista del transito della gestione degli ospedali psichiatrici giudiziari in capo ai sistemi sanitari regionali, si procedesse “alla restituzione ad ogni Regione italiana della quota di internati in OPG di provenienza dai propri territori e dell’assunzione della responsabilità per la presa in carico”. In tale contesto normativo, una volta approvato il d.l. n. 211/2011, tra il 2012 e il 2015, si è dato impulso, d’intesa con l’Autorità giudiziaria, a numerose dimissioni dal circuito degli ospedali psichiatrici giudiziari[20], così da poter realizzare il trasferimento di un più contenuto numero di pazienti all’interno delle neonate REMS che, come detto, erano state istituite in un’ottica di accoglienza molto meno “massiva” rispetto a quanto non fosse accaduto con l’esperienza degli O.P.G.
D’altro canto, nell’ambito di siffatta operazione, come opportunamente sottolineato, non si è adeguatamente tenuto conto del tasso di nuovi ingressi, essendosi appunto parametrato il numero dei posti-letto teoricamente necessari su una media di presenze in O.P.G. anormalmente bassa, in quanto appunto proveniente da una importante campagna di dimissioni[21].
Inoltre, deve considerarsi che buona parte dei posti-letto realizzati nelle REMS sono stati inizialmente destinati all’accoglienza dei pazienti già ricoverati in OPG e ritenuti non suscettibili di dimissioni da parte dell’Autorità giudiziaria, dal che è derivata una rapida saturazione delle nuove strutture con l’inevitabile creazione di liste di attesa per il perfezionamento dei ricoveri a partire già dal mese di dicembre 2015[22].
Del resto, neppure il transito dei pazienti dagli OPG alle REMS si è svolto in maniera realmente efficiente. Deve rammentarsi, al riguardo, come la realizzazione delle Residenze rientrava nella attuazione dei complessi programmi organizzativi regionali previsti dall’art. 3-ter, co. 6, d.l. n. 211/2011, conv. in legge n. 9/2012, attuazione che, com’è noto, non è avvenuta in tutte le Regioni secondo la medesima tempistica ed ha anzi subito in alcuni casi consistenti rallentamenti, al punto da giustificare la nomina, nel febbraio 2016, da parte del Consiglio dei Ministri, di un Commissario unico per il definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari.
I ritardi registratisi nella concretizzazione del processo riformatore hanno comportato finanche difficoltà nella allocazione degli internati in OPG alla data di formale chiusura degli stessi. Costoro, infatti, non essendo stati ritenuti suscettibili di dimissioni da parte dell’Autorità giudiziaria, hanno continuato ad essere ristretti nelle strutture penitenziarie, pur dopo il primo aprile 2015, in attesa che le Residenze competenti per la loro accoglienza venissero realizzate e comunque dichiarassero la disponibilità di posto-letto; solo agli inizi del 2017, si è infine giunti alla completa dimissione degli internati dagli ospedali psichiatrici giudiziari, potendosi così procedere alle loro effettive chiusure o riconversioni[23].
In siffatto contesto, la creazione e il progressivo incremento delle liste di attesa per i ricoveri in R.E.M.S. dei vecchi internati e dei nuovi internandi avrebbe dovuto considerarsi come una disfunzione ampiamente prevedibile.
Ancora, come si vedrà meglio nel prosieguo, la previsione normativa del principio della REMS come extrema ratio non è stata accompagnata da adeguati investimenti nei servizi psichiatrici territoriali, sicché, nella maggior parte dei casi e per lo meno nell’ambito di alcune realtà regionali, le Autorità giudiziarie si sono trovate nella pratica impossibilità di prendere in considerazione valide alternative ai ricoveri in REMS, cui ricorrere nei casi in concreto portati alla loro attenzione; vi è anche da dire che, a fronte di taluni territori in cui si sono innescati meccanismi virtuosi di collaborazione tra Magistratura, Aziende sanitarie e Dipartimenti di salute mentale, nell’ambito di altre Regioni sono verosimilmente mancati adeguati canali di comunicazione tra le varie istituzioni coinvolte nella cura e nel contenimento dei pazienti psichiatrici autori di reato, il che ha determinato inevitabili ripercussioni anche sulla corretta individuazione, da parte delle Autorità giudiziarie, delle misure di sicurezza più appropriate per i singoli destinatari. Analoghe problematiche, peraltro, parrebbero affiorare, sempre con livelli di gravità sensibilmente differenziati tra i singoli territori regionali, in relazione al corretto espletamento di un adeguato turn-over tra soggetti già internati in REMS che, raggiunto un buon livello di compenso psichico, potrebbero essere dimessi, e soggetti internandi che, al contrario, trovandosi talora in situazioni di maggiore gravità clinica, meriterebbero una più immediata accoglienza nelle Residenze[24].
A quest’ultimo riguardo, peraltro, non si registra un pieno accordo tra i commentatori; alcuni, infatti, più che sui difetti di coordinamento tra REMS, dipartimenti di salute mentale e strutture alternative di accoglienza, si sono espressi con toni fortemente critici sul tema della valutazione di appropriatezza del ricovero in REMS operato nei confronti di taluni dei pazienti psichiatrici autori di reato che giungono alla loro attenzione. In questo senso, si è segnalato come, in molti casi, i pazienti delle REMS si troverebbero sottoposti alla misura di sicurezza detentiva, pur avendo commesso reati “tutto sommato modesti” e come, talora, le liste di attesa per l’accesso nelle Residenze sarebbero infoltite da persone che, oltre ad essere affette da disturbi psichiatrici, versano in situazioni di disagio socio-economiche che dovrebbero essere meglio trattate con risposte diverse da quella sanzionatoria di tipo penale[25].
Nello stesso contesto interpretativo si è inoltre rilevato come il problema della tendenziale scarsità dei posti-letto disponibili deriverebbe da un uso troppo disinvolto dei ricoveri in REMS di tipo provvisorio, a norma dell’art. 206, cod. pen., peraltro spesso destinati a soggetti connotati da alta e persistente pericolosità sociale e criminale e che, come tali, trarrebbero giovamento da percorsi giudiziari ordinari e non dall’applicazione di misure di sicurezza detentive[26]. Secondo tale impostazione, sarebbe dunque fondamentalmente errato auspicare un maggiore ricambio nell’accoglienza in REMS tra pazienti “compensati” e pazienti che si trovano invece in stati di acuzie, posto che le Residenze di nuova concezione non dovrebbero proprio considerarsi adatte a soggetti che mostrano più spiccati profili di pericolosità anche in ragione dello scompenso psicopatologico in cui versano.
Ad ogni modo, pur prendendosi atto delle illustrate divergenze di opinioni, e con particolare riguardo per il principio affermato dall’art. 3-ter, co. 4, d.l. 211/2011, si ritiene che non sempre, nella disamina della problematica, si tengano nella dovuta considerazione i principi posti dal diritto vivente, con i quali tutti gli operatori non possono esimersi dal confrontarsi, e che però, oggi, grazie alla sentenza in commento, sono stati opportunamente ricollocati dalla Corte costituzionale al centro del dibattito pubblico.
In tal senso, in relazione ai variegati spunti problematici connessi al giudizio di “appropriatezza” della misura di sicurezza detentiva, dovrebbe pur sempre rammentarsi come, a prescindere dall’innesco di buone pratiche e dalla esistenza di adeguati circuiti di accoglienza alternativi alle R.E.M.S., il citato art. 3-ter, co. 4, pur indicando le Residenze come una extrema ratio, affidi comunque alla esclusiva responsabilità dell’Autorità giudiziaria la scelta non solo sull’an, ma anche sulla tipologia della misura di sicurezza da adottare in concreto; tale giudizio, peraltro, per espressa previsione normativa, deve essere parametrato alla pericolosità sociale del destinatario della misura, previo specifico accertamento da eseguirsi sulla base delle qualità soggettive della persona e senza tenere conto delle sue “condizioni di vita individuale, familiare e sociale”, prese in considerazione dall’art. 133, co. 2, n. 4, c.p. E’ noto del resto che, trattandosi di giudizio connotato anche da una importante componente tecnica, lo stesso è di norma svolto con il supporto di consulenti e periti esperti in psichiatria investiti di fondamentali compiti ausiliari; ma è altresì noto che, per espressa previsione normativa, il giudizio in merito all’adeguatezza della misura è destinato a colorarsi anche di valutazioni giuridiche, aventi ad oggetto la gravità del reato in contestazione, dalle modalità di esecuzione dello stesso, oltre che i precedenti penali e giudiziari del soggetto interessato; ancora, un ruolo cruciale nella valutazione di “adeguatezza” circa la misura da applicare è inoltre rivestito dalla compliance che il paziente abbia dimostrato rispetto alla eventuale precedente irrogazione di misure non detentive ed in particolare dalla sussistenza di pregresse violazione delle prescrizioni che, di norma, vengono impartite con la misura gradata della libertà vigilata.
Va da sé, dunque, che non sempre le valutazioni giudiziarie potranno combaciare con le indicazioni provenienti dai servizi psichiatrici territoriali circa l’appropriatezza della misura da applicare o, eventualmente, da prorogare.
Ne consegue che, pur ipotizzandosi maggiori sforzi anche di tipo finanziario per dare concretezza al principio della R.E.M.S. quale extrema ratio, con ogni probabilità, ci si dovrà comunque continuare a confrontare con un rilevante numero di misure di sicurezza detentive che le Autorità giudiziarie riterranno di continuare ad applicare in forza di valutazioni strettamente giuridiche legate alla pericolosità sociale del paziente psichiatrico autore di reato.
Quest’ultimo dato di fatto non pare sia stato adeguatamente ponderato dai decisori pubblici e le conseguenze di tutto quanto sopra esposto non possono che risultare di rilevante gravità.
Basti pensare che, alla data del 28 ottobre 2020, risultava all’Amministrazione penitenziaria l’esistenza di 813 persone in attesa di ricovero in R.E.M.S., in quanto destinatarie di provvedimenti applicativi di misura di sicurezza detentiva, in via provvisoria o definitiva; delle persone in attesa di ricovero, 98 si trovavano ristrette in istituti penitenziari, mentre le restanti 715 si trovavano in stato di libertà con tutto ciò che intuitivamente ne consegue in termini di rischi per la sicurezza pubblica e privata, trattandosi evidentemente di soggetti infermi di mente che hanno già commesso reati ed attualmente giudicati socialmente pericolosi.
In tale contesto, deve peraltro segnalarsi che, sempre sulla base dei dati a disposizione dell’Amministrazione penitenziaria, le situazioni più critiche in termini di consistenza delle liste di attesa, alla data del 28 ottobre 2020, si registravano nelle Regioni Calabria, Campania, Lazio, Lombardia, Puglia e Sicilia che, da sole, assorbivano circa il 72% delle persone in attesa di ricovero. Ad ogni modo, seppure con numeri più contenuti, alla predetta data quasi tutte le Regioni italiane risultavano interessate dal fenomeno delle liste di attesa per l’ingresso in REMS.
Nell’ultimo anno la situazione si è evoluta positivamente solo con riguardo al numero complessivo delle persone che attendono il ricovero dall’interno degli istituti penitenziari, essendosi passati a 35 persone che si trovavano in tale condizione al 25 ottobre 2021 (punto 5.5 della sentenza in commento), con una evidente flessione rispetto al dato della precedente rilevazione; di scarso rilievo appare invece la diminuzione del numero complessivo delle misure di sicurezza detentive rimaste ineseguite, essendosi passati, alla data del 31 luglio 2021, secondo le rilevazioni comunicate alla Corte costituzionale, ad un totale compreso tra le circa 670 persone, secondo i calcoli del Ministero della salute e della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, e le 750 persone, secondo i calcoli del Ministero della giustizia (punto 5.4 della sentenza in commento).
Né, peraltro, risulta che la difficoltà sia recente, essendosi appunto detto come, sin dalla inaugurazione delle REMS, le stesse abbiano sofferto di una carenza di posti-letto divenuta esponenziale e cronica nel corso degli anni.
Ed al riguardo, pare senz’altro utile richiamare i moniti che, già nell’aprile 2017, il Consiglio Superiore della Magistratura aveva divulgato a proposito delle criticità che, già all’epoca, affliggevano il sistema delle REMS, all’esito di un’articolata indagine conoscitiva condotta presso tutti gli uffici giudiziari italiani[27].
Né, evidentemente, come del resto sottolineato dalla stessa Corte costituzionale (punto 5.4 della sentenza in commento), può sottacersi il crescente interesse che per la materia sta manifestando la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, quanto meno nei confronti dei soggetti che, in attesa del ricovero in REMS si trovino ad essere ristretti in istituto di pena e, dunque, in contesti detentivi notoriamente non appropriati alla loro condizione psicopatologica.
Constano al riguardo almeno due provvedimenti cautelari emessi dalla C.E.D.U. ai sensi dell’art. 39 del Regolamento della Corte concernenti altrettanti detenuti ristretti in due diversi penitenziari, nei confronti dei quali il Giudice sovranazionale ha ordinato l’immediato ricovero in strutture idonee. Stante peraltro la peculiarità di tali provvedimenti, la più attenta dottrina non ha mancato di rilevare come gli stessi possano verosimilmente costituire il “prologo” per più consistenti decisioni idonee a mettere in mora il Governo italiano per l’adozione di provvedimenti di carattere più strutturale[28].
5. I reali termini del problema: dal superamento degli OPG alla neutralizzazione, praeter legem, delle misure di sicurezza detentive. La necessità, non più eludibile, di potenziare adeguatamente la rete delle REMS e i sistemi territoriali di tutela della salute mentale dei pazienti psichiatrici autori di reato
L’introduzione di strumenti normativi ed organizzativi finalmente funzionali ad una vera e propria risistemazione della materia, da cui possano scaturire circuiti realmente virtuosi nella cura, nel trattamento ed anche nel contenimento dei pazienti psichiatrici autori di reato, non è dunque più rinviabile, come da ultimo opportunamente ribadito dalla Corte costituzionale.
A distanza di quasi sette anni dall’entrata in vigore della riforma che ha sancito il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, si è venuta a creare una situazione “patologica” per cui non solo è da considerarsi “superata” l’esperienza degli OPG, ma risultano di fatto non più utilmente applicabili – per lo meno in alcune realtà regionali – le norme che, a tutt’oggi, in presenza di determinati presupposti, continuano a prevedere la possibilità di sottoporre gli infermi di mente a misure di sicurezza di tipo detentivo.
L’esistenza delle liste di attesa pocanzi indicate, almeno in alcune parti del territorio nazionale, fa sì che l’applicazione di una misura di sicurezza detentiva nei confronti di un infermo di mente si presenti ormai come un’opzione non più utilmente esperibile, sebbene, in concreto, nella pratica, continuino ovviamente a presentarsi svariati casi in cui, essendosi verificati i presupposti previsti dalla legge, l’adozione di tali misure risulterebbe chiaramente necessitata, tanto più in considerazione della persistente vigenza delle norme penali relative all’applicazione ed all’esecuzione delle misure di sicurezza detentive.
Tale situazione, com’è noto, produce evidenti distorsioni.
Considerando il numero dei soggetti destinatari di misura di sicurezza detentiva ed in attesa di internamento, si ravvisa il rischio che il processo di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari si traduca non già nella individuazione di istituti di cura e custodia realmente adeguati alle necessità degli infermi di mente giudicati socialmente pericolosi, bensì in una sorta di rinuncia, da parte dei pubblici poteri, a soddisfare il dovere, loro assegnato, di sostenere e contenere i cittadini che abbiano commesso reati in uno stato di non imputabilità, derivante da un vizio totale di mente.
E questa sorta di dismissione di competenze, come detto, si è concretizzata nella formazione di liste di attesa per l’ingresso in REMS, più o meno nutrite, in tutte le Regioni italiane.
Il concetto di “lista d’attesa”, peraltro, non è affatto sconosciuto ed è anzi connaturato all’ambito sanitario, per ciò che concerne l’erogazione delle prestazioni mediche di carattere esclusivamente pubblicistico e, a distanza di oltre sei anni dall’attuazione della riforma di cui si discute, può oggi ragionevolmente affermarsi che i sistemi sanitari regionali abbiano tendenzialmente accettato il rischio che anche per i ricoveri nelle REMS si creassero per l’appunto dei tempi di attesa più o meno prolungati.
Tale scelta, tuttavia, come lucidamente sottolineato dalla Corte costituzionale, non appare compatibile con l’erogazione di prestazioni che, a differenza di ogni altro trattamento sanitario, corrispondono non solo ad una finalità di tipo terapeutico ma dipendono direttamente da un ordine impartito dall’Autorità giudiziaria, dotato per definizione di esecutorietà e, dunque, meritevole di una esecuzione che, seppur non immediata, deve senz’altro potersi effettuare in tempi ragionevoli e, soprattutto, prevedibili. Al riguardo, riprendendo sul punto le considerazioni svolte dalla Consulta, giova rammentare come proprio dalla compiuta esecuzione di tali ordini giurisdizionali dipenda la salvaguardia di irrinunciabili valori costituzionali, attinenti, da un lato, alla tutela della salute degli infermi di mente destinatari delle misure di sicurezza e, dall’altro, alla protezione dei diritti – concernenti nella maggior parte dei casi la sicurezza pubblica e l’incolumità individuale – di cui sono titolari le vittime dei reati per cui si procede.
Ne consegue che, in assenza di riforme normative con un carattere più pervasivo, la “gestione esclusivamente sanitaria” delle Residenze introdotta con il d.l. n. 211/2011 non avrebbe dovuto, né potuto, interpretarsi come produttiva di un inedito sistema di applicazione delle misure di sicurezza detentive, che, allo stato, e per lo meno in alcune realtà regionali, parrebbe basarsi su una sorta di impropria condivisione del potere di internamento tra Autorità giudiziarie e Autorità sanitarie locali.
Per quanto sinora detto, infatti, ben lungi dal voler espungere o ridimensionare l’istituto delle misure di sicurezza detentive, il legislatore ha semplicemente previsto forme e modalità di esecuzione delle stesse diverse e maggiormente incentrate sull’obiettivo del recupero psichiatrico dei pazienti autori di reato, senza tuttavia attribuire ai rappresentati dei sistemi sanitari regionali poteri di veto o di inibizione delle decisioni adottate dalle Autorità giudiziarie. E tali riflessioni, peraltro, paiono tanto più vere, ove si consideri quanto detto poc’anzi a proposito dell’attuale contesto normativo che, pur con l’importante novità costituita dalla positivizzazione del principio della R.E.M.S. come extrema ratio, continua stabilmente a considerare come atto giudiziario l’applicazione dell’internamento.
In questo contesto, pare piuttosto chiaro che, accanto ad una realizzazione di un numero complessivo di posti-letto in REMS evidentemente sottodimensionato rispetto alla domanda effettiva, un ruolo di peso nella formazione delle liste di attesa sia stato esercitato anche dal principio del “numero chiuso” degli accessi, introdotto peraltro, come detto, neppure per via normativa, bensì nell’ambito degli accordi intervenuti tra lo Stato e gli enti territoriali.
È bene precisare, tuttavia, anche qui rifacendosi alle considerazioni della Consulta, come, indipendentemente dalle singolari modalità con cui detto principio ha fatto la sua comparsa nell’ordinamento, non pare affatto auspicabile un suo superamento, con la contestuale accettazione di rinnovate dinamiche di sovraffollamento delle REMS oggi presenti sul territorio nazionale.
Né, tanto meno, le considerazioni sin qui svolte mirano a sottrarre ai rappresentanti dei sistemi sanitari ogni potere di interlocuzione con l’Autorità giudiziaria in merito alla effettiva appropriatezza dei singoli ricoveri in REMS, oltre che della permanenza nelle Residenze dei soggetti già internati e che, a giudizio dei responsabili sanitari, abbiano raggiunto buoni livelli di compenso psichico.
Tuttavia, (e senza revocare in dubbio l’introduzione delle R.E.M.S. quali luoghi non penitenziari ove dare esecuzione alle misure di sicurezza detentive, la valorizzazione del contenuto sanitario di dette misure e la qualificazione delle stesse come extrema ratio) si ritiene che la vera attuazione della riforma passi necessariamente per un rinnovato investimento nella stessa, anche in termini finanziari[29].
Continuare a mantenere una dimensione artificiosamente contenuta del numero dei posti-letto in R.E.M.S. lascerebbe invero supporre la surrettizia finalità di indirizzare forzatamente le scelte dell’Autorità giudiziaria verso l’applicazione di misure di sicurezza di tipo non detentivo, il che, tuttavia, si presenza come un’operazione in alcun modo conforme all’attuale contesto normativo.
Il principio del “numero chiuso” degli accessi in REMS, semmai, potrà conciliarsi con i provvedimenti giurisdizionali, solo nel momento in cui tutte le Regioni saranno dotate di un numero di posti-letto effettivamente adeguato e pienamente parametrato ai requisiti tecnici individuati con il D.M. primo ottobre 2012[30]; si ritiene, infatti, che solo in tal modo l’ordinamento potrà produrre una efficace risposta, in termini di cura e contenimento, per quei pazienti psichiatrici autori di reato nei cui confronti sia ineludibile l’applicazione delle misure di sicurezza detentive al fine di fronteggiarne la pericolosità sociale, pur nella piena considerazione del principio del ricovero in R.E.M.S. quale extrema ratio.
Del resto, già l’Accordo del 26 febbraio 2015 esplicitava nelle premesse lo specifico impegno, in capo alle Regioni ed alle Province Autonome, a provvedere “ad una idonea programmazione che tenga conto delle esigenze in corso e a venire, con specifico riguardo alla evoluzione del numero dei propri pazienti”.
Preso atto della situazione sin qui descritta, deve constatarsi come, almeno in talune Regioni, detta programmazione non sia stata adeguatamente effettuata.
Le risorse non dovrebbero peraltro destinarsi alla sia pur ineludibile implementazione della rete delle Residenze, ma anche al rafforzamento del complessivo sistema di cura ed accoglienza dei pazienti psichiatrici autori di reato, incentrato sui dipartimenti di salute mentale presenti sull’intero territorio nazionale.
Infatti, il principio della REMS come extrema ratio è sinora sostanzialmente rimasto lettera morta anche per la limitatezza di soluzioni alternative all’applicazione delle misure di sicurezza detentive. In questo senso, da più parti, si è anche denunciata una certa tendenza dell’Autorità giudiziaria nel ricorrere al ricovero in REMS anche in casi in cui l’applicazione di misure gradate, quali la libertà vigilata con prescrizioni, potrebbe rivelarsi sufficiente ai fini della corretta instaurazione di percorsi di cura e contenimento dei singoli pazienti. D’altro canto, si è anche rilevato come la mancata applicazione delle misure di sicurezza non detentive sia talora derivata dall’assenza di adeguate risposte operative da parte dei dipartimenti di salute mentale, specialmente per quanto concerne l’individuazione di strutture cliniche di assistenza ove prevedere l’esecuzione di progetti riabilitativi di tipo residenziale o semi-residenziale.
Ne consegue che, accanto al potenziamento della rete delle REMS, come d’altra parte segnalato anche dalla Corte costituzionale, andranno necessariamente implementati anche i servizi psichiatrici territoriali, così da poter mantenere fermo il principio del “numero chiuso” per l’accesso nelle Residenze, dotando contestualmente i Giudici competenti di misure alternative applicabili nei confronti dei pazienti connotati da pericolosità più attenuata, nonché per coloro che, già ristretti in REMS, abbiano raggiunto buoni livelli di compenso psichico. Proprio in questo modo, infatti, si favorirebbe un più accentuato turn-over tra i pazienti già accolti in REMS e quelli da accogliere, scongiurando il rischio che il fenomeno delle liste di attesa si riproduca nuovamente in futuro, anche nel momento in cui dovesse incrementarsi la dotazione di posti-letto nel territorio nazionale.
6. Il tema della “appropriatezza” della misura di sicurezza detentiva
Un’altra problematica, non sempre chiaramente esplicitata e che, come sopra accennato, sembra agitarsi nel dibattito relativo al sistema delle REMS, è quella relativa all’appropriatezza di tali strutture nei confronti di talune specifiche categorie di pazienti psichiatrici autori di reato. La questione risulta peraltro in più punti affacciarsi anche nell’ambito della sentenza della Corte costituzionale in commento (si vedano, tra gli altri, i punti 5.12 del “Ritenuto in fatto” e 5.3.2 del “Considerato in diritto”).
Al riguardo, si è precisato come le Residenze, in quanto strutture votate in modo pressoché esclusivo alla recovery sanitaria dei loro ospiti, si connoterebbero per requisiti di sicurezza non particolarmente elevati e comunque adatti solo per una utenza selezionata, composta da pazienti che abbiano dimostrato un’adeguata consapevolezza di malattia e, soprattutto, una buona accettazione di percorsi terapeutici di tipo residenziale; e si è anche sottolineato, nella medesima ottica, come le REMS, proprio perché non meramente succedanee dei vecchi ospedali psichiatrici giudiziari, dovrebbero caratterizzarsi per la predisposizione di piani terapeutici evoluti e senz’altro distinti dai vecchi principi della “contenzione” fisica degli internati[31].
Si è quindi puntualizzato come determinate categorie di soggetti, in atto stabilmente destinati alle REMS, non sarebbero in realtà clinicamente idonei per il ricovero nelle Residenze, in quanto gravemente dipendenti dalle sostanze stupefacenti, ovvero connotati da personalità violente ed anti-sociali, intolleranti alle regole, minacciosi, “tendenti a mentire”, “prevaricatori, oppositivi, aggressivi verso il personale e gli altri malati”[32]. Secondo alcuni studi, i pazienti con queste caratteristiche costituirebbero addirittura il 20-30% dell’utenza delle REMS, andando così ad alimentare numerose problematiche, sia in termini di incremento delle liste di attesa con soggetti che, da un punto di vista clinico, non sarebbero da considerarsi idonei per i percorsi di cura erogabili in REMS, sia in termini di sicurezza interna alle Residenze, nei casi in cui si sia proceduto al loro effettivo internamento[33].
Orbene, anche quest’ultimo aspetto del dibattito dimostra in modo obiettivo come le modalità approssimative con cui tra gli anni 2011 e 2015 è stata attuata la riforma abbiano prodotto il “terreno di coltura” ideale per fare affiorare le contraddizioni del sistema di cura e trattamento per i pazienti psichiatrici autori di reato attualmente vigente in Italia.
Pare infatti chiaro che, in assenza di una compiuta riflessione politica e giuridica in merito al sistema delle misure di sicurezza detentive ed alle norme codicistiche che individuano l’ampia platea degli infermi di mente sottoponibili alle stesse, taluni ambiziosi obiettivi sono destinati a rimanere “lettera morta”.
Ed invero, l’affermazione secondo cui le R.E.M.S. dovrebbero strutturarsi in modo diverso dai vecchi OPG, rivolgendosi ad una utenza maggiormente selezionata e che mostri una tendenziale compliance rispetto alle cure proposte, mal si concilia con una norma, quale il citato art. 3-ter, co. 4, d. l. n. 211/2011, a tenore del quale, in modo indistinto, tutte le misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dell’assegnazione a casa di cura e custodia sono da eseguirsi presso le Residenze di nuova concezione, sia pure con il caveat costituito dal principio dell’assegnazione in R.E.M.S. come extrema ratio; peraltro, proprio quest’ultima “valvola di sfogo”, in forza della quale le Autorità giudiziarie dovrebbero sempre prediligere misure di sicurezza non custodiali, neppure pare applicabile ai casi da ultimo presi in considerazione, concernenti i soggetti connotati da profili di pericolosità estremamente elevati i quali, per definizione, non possono che risultare incompatibili con un regime blandamente restrittivo, quale è quello della libertà vigilata.
È dunque coerente che taluni degli operatori che sottolineano l’inappropriatezza delle REMS per la tipologia di utenza più pericolosa, contestualmente auspichino un rinnovato ricollocamento di questi pazienti all’interno delle strutture penitenziarie, sia pure ipotizzando nello stesso tempo un congruo rafforzamento delle aree che erogano prestazioni sanitarie negli Istituti di pena[34]. Quest’ultima opzione presupporrebbe però una radicale rivisitazione della normativa che regola la materia della imputabilità, verosimilmente anche sul piano costituzionale, essendo ben noto che, allo stato, i principi e le norme dedicate agli infermi di mente autori di reato esprimano una insofferenza sia per il loro ingresso in carcere, sia, tanto più, per la loro permanenza negli ambienti inframurari[35]. Del resto, la tendenziale inappropriatezza del contesto carcerario per il trattamento delle infermità psichiatriche, per lo meno nelle loro forme più severe, è stata di recente riaffermata dalla stessa Corte costituzionale, con la nota sentenza della Corte costituzionale 14 aprile 2019, n. 99[36].
Chiamato a valutare la legittimità dell’art. 47-ter, co. 1-ter, ord. pen. nella parte in cui non prevedeva che il tribunale di sorveglianza, in caso di grave infermità psichica sopravvenuta, potesse concedere al condannato la detenzione domiciliare anche in deroga ai limiti di cui al comma 1 del medesimo art. 47-ter, il Giudice delle leggi ha colto l’occasione per soffermarsi su varie problematiche di sistema relative al trattamento delle patologie psichiatriche all’interno degli Istituti di pena; ed al riguardo, pur non escludendo aprioristicamente che anche i penitenziari possano essere sede di aree specificamente destinate alla cura delle infermità mentali, ha comunque chiaramente riconosciuto come, per lo meno per i casi patologici connotati da maggiore gravità, debba ravvisarsi una sostanziale incompatibilità tra carcere e disturbo mentale[37].
Peraltro, l’ipotesi di ricondurre una parte dei pazienti psichiatrici autori di reato all’interno dei penitenziari, sia pure presso aree ad esclusiva gestione sanitaria, parrebbe obiettivamente contraddire il percorso di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari[38], al netto delle annose problematiche che, peraltro, tutt’oggi continuano ad affliggere il sistema di tutela della salute psichica delle persone detenute, nonostante gli sforzi profusi dall’Amministrazione penitenziaria e dai sistemi sanitari regionali.
Ad ogni modo, dal 2011 ad oggi, non si è registrata l’approvazione di alcuna riforma organica né del sistema delle misure di sicurezza detentive, né, tanto meno, dei criteri che regolano l’imputabilità e ciò si è inevitabilmente ripercosso sul sistema delle REMS, nella misura in cui si è dovuto disporre il ricovero in dette strutture di tutti i pazienti psichiatrici autori di reato, giudicati incapaci di intendere e di volere al momento del fatto e socialmente pericolosi in grado tale da meritare la misura custodiale, indipendentemente dalle specificità delle loro condizioni psicopatologiche e dalla effettiva appropriatezza del percorso di cura esperibile in REMS rispetto alle situazioni cliniche individuali.
Se dunque è questo il contesto entro cui confrontarsi, è bene però nuovamente precisare che neppure la problematica da ultimo esaminata potrà adeguatamente fronteggiarsi mantenendo artificiosamente bassi i numeri dei posti-letto disponibili in REMS, così da indurre l’Autorità giudiziaria, in modo pressoché forzato, a ricercare percorsi di cura alternativi per i pazienti affetti da patologie non correttamente trattabili nelle Residenze.
In questo senso, deve infatti ricordarsi che, a legislazione invariata, continua a mancare qualsivoglia criterio organizzativo o normativo che consenta legittimamente alla Magistratura o alle Amministrazioni sanitarie regionali di effettuare una selezione in entrata dei soggetti non imputabili attinti da misura di sicurezza detentiva, sicché gli stessi, allo stato, continuano inevitabilmente ad essere indirizzati nelle REMS prescindendo da specifiche valutazioni in merito alla loro compatibilità personologica con l’ambiente residenziale. Né, come detto, tendenzialmente, tali valutazioni riescono ad effettuarsi in modo efficace prima della emissione dei provvedimenti che dispongono l’applicazione della misura detentiva, a causa dell’assenza di offerte terapeutiche alternative alla REMS parimenti rassicuranti con riguardo alle possibilità di contenimento dei pazienti.
Dunque, il sotto-dimensionamento della rete delle Residenze presenti sul territorio nazionale, ben lungi dall’innescare meccanismi virtuosi di ricerca di soluzioni alternative, finisce semplicemente, almeno in alcune realtà regionali, per privare di adeguate forme di assistenza i pazienti psichiatrici autori di reato, determinando contestualmente la mancata esecuzione dei provvedimenti che li riguardano.
Una più efficace selezione in entrata dei pazienti da ammettere in REMS potrebbe al più prefigurarsi – ed auspicarsi – con riguardo ai soli soggetti connotati da una ridotta pericolosità sociale e, come tali, adeguatamente trattabili nel regime tipico della libertà vigilata, ma non anche in relazione ai pazienti più aggressivi che, con ogni probabilità, dovrebbero comunque continuare ad indirizzarsi verso soluzioni terapeutiche extracarcerarie ma comunque di tipo detentivo.
Reputando auspicabile non già un abbandono dell’esperienza delle REMS bensì un reale potenziamento della stessa, dovrebbe semmai rivalutarsi il tema della sicurezza interna ed esterna delle Residenze, tenendo in adeguata considerazione le problematiche gestionali che l’esperienza degli ultimi anni ha lasciato affiorare in relazione al trattamento dei soggetti più violenti e pericolosi e, dunque, ipotizzando di coniugare in modo diverso e più efficace le esigenze di cura di tutti i soggetti sottoposti a misura di sicurezza detentiva con la domanda di sicurezza proveniente dagli operatori e dagli ospiti delle strutture connotati da profili di aggressività più attenuata.
7. Conclusioni
Com’è noto, nessuno dei progetti di riforma del sistema delle misure di sicurezza elaborati nel corso degli ultimi anni ha superato il vaglio dell’approvazione parlamentare[39]; e ciò dimostra come, da ormai troppo tempo, su alcuni nodi problematici della materia di cui si discute gli esperti non riescano a trovare una soluzione equilibrata che soddisfi in egual misura le “esigenze” della giustizia e le istanze dei sistemi sanitari dedicati al trattamento delle patologie psichiatriche.
Si è dunque tentato di illustrare le ragioni per cui si ritiene che tale compromesso difficilmente potrà mai raggiungersi, qualora si continuerà a non cogliere la specificità di una materia in cui, comunque, viene in rilievo la necessaria esecuzione di provvedimenti giurisdizionali che trovano la propria giustificazione non solo nelle doverose esigenze di cura dei pazienti psichiatrici autori di reato, ma anche nella domanda di sicurezza pubblica e privata connaturata nella collettività e chiaramente rilevante sul piano costituzionale, al pari del diritto alla salute riconosciuto ai pazienti.
Ad avviso di chi scrive, dovrà necessariamente prendersi atto del fatto che, nella materia in questione, le ontologiche competenze giudiziarie potranno senz’altro essere rimodellate, così da assicurarsi meccanismi di più ampia collaborazione con gli specialisti della salute mentale, ma non potranno continuare ad essere neutralizzate, né direttamente, né, tanto meno, indirettamente, mediante la eccessiva compressione del numero complessivo dei posti-letto in R.E.M.S., sinora verificatasi.
In questo senso, stante la molteplicità degli obiettivi perseguiti e la complessità delle problematiche accumulatesi in ragione di riforme approssimative e disorganiche, in definitiva, si ritiene che il decisore politico debba finalmente rivolgere uno sguardo attento e convinto sui pazienti psichiatrici autori di reato, con la piena consapevolezza – come opportunamente segnalato dai più attenti commentatori – che le questioni sin qui poste non potranno risolversi “a costo zero” e sulla base di clausole di invarianza finanziaria[40], ravvisandosi la necessità di investimenti che siano effettivamente proporzionati all’ambizione delle riforme che ci si proporrà di attuare.
Su questi ed altri temi ha da ultimo espresso la sua autorevole posizione anche la Corte costituzionale con la sentenza in commento e di tale posizione non potrà, evidentemente, non tenersi conto nell’immediato futuro.
[1] Il presente contributo costituisce un estratto aggiornato dell’articolo Il sistema delle R.E.M.S. Limiti, contraddizioni e prospettive di una riforma, pubblicato dallo stesso Autore in Temi di esecuzione penale (rivista della Scuola Superiore dell’Esecuzione Penale “Piersanti Mattarella”), dicembre 2021.
[2] In questo senso, l’art. 3-ter, co. 1, d. l. 211/2011 fa esplicito riferimento al “termine per il completamento del processo di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari già previsto dall’allegato C del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 1° aprile 2008 (…) e dai conseguenti accordi sanciti dalla Conferenza unificata (…)”. Il legislatore del 2011 ha dunque ritenuto di introdurre un termine perentorio per il compimento di un “percorso di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari”, in realtà sino a quel momento mai indicato come obiettivo dalla normativa primaria, ma solo nell’Allegato C del D.P.C.M. primo aprile 2008, a sua volta dedicato non già al “superamento degli O.P.G.”, bensì al trasferimento delle funzioni gestionali in materia di O.P.G. al servizio sanitario nazionale, al pari di ogni altra funzione in materia di medicina penitenziaria.
[3] Accordo concernente disposizioni per il definitivo superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari in attuazione al D.M. 1 ottobre 2012, emanato in applicazione dell’articolo 3ter, comma 2, del decreto legge 22 dicembre 2011, n. 211 convertito, con modificazioni, dalla legge 17 febbraio 2012, n. 9 e modificato dal decreto legge 31 marzo 2014 n. 52, convertito in legge 30 maggio 2014, n. 81 – Rep. Atti n. 17/CU del 26/02/2015.
[4] Accordo, ai sensi dell’articolo 9 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, concernente la definizione di specifiche aree di collaborazione e gli indirizzi di carattere prioritario sugli interventi negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) e nelle Case di Cura e Custodia (CCC) di cui all’Allegato C al D.P.C.M. 1° aprile 2008 – Rep. n. 81 – CU del 26 novembre 2009, pubblicato in Gazzetta Ufficiale – Serie Generale n. 2, del 04/01/2010.
[5] Pubblicata sul sito www.dirittopenaleuomo.org, con il commento di A. Calcaterra, Misura di sicurezza con ricovero in R.E.M.S.: il ritorno al passato no!
[6] Tra i commenti, si segnala l’interessante dibattito a più voci intercorso tra M. Patarnello, Le Rems: uscire dall’inferno solo con le buone intenzioni, in Questione Giustizia, 02/06/2020; G. Nicolò, Rems, oltre le buone intenzioni, no al ritorno al passato e problema di legittimità costituzionale. Quindi quale futuro?, in Questione Giustizia, 04/02/2021; P. Pellegrini, Il superamento degli OPG e le REMS. Oltre le buone intenzioni, in www.sossanità.org.
[7] In questi termini, si esprime M. Patarnello, Le Rems: uscire dall’inferno solo con le buone intenzioni, cit.
[8] Tale evenienza è rappresentata da P. Pellegrini, Il superamento degli OPG e le REMS. Oltre le buone intenzioni, cit.
[9] K. Poneti, La Consulta e le pulsioni neo-manicomiali, in www.sossanità.it.
[10] Ai sensi dell’art. 12 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
[11] Segnalata in www.giurisprudenzapenale.com.
[12] Cass., Sez. Un., sent. 8 marzo 2005, n. 9163, in Dir. pen. proc., 2005, 837 ss., con nota di M. Bertolino, L’infermità mentale al vaglio delle Sezioni unite.
[13] Date queste premesse, le Sezioni Unite hanno anche aggiunto che, d’altro canto, nessun rilievo, ai fini dell'imputabilità, deve essere dato ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di "infermità".
[14] In linea generale, il tema è trattato da A. Massaro, Tutela della salute mentale e sistema penale: dalla possibile riforma del doppio binario alla necessaria diversificazione della risposta “esecutiva”, in Questione Giustizia, 13 maggio 2021; della stessa Autrice, sempre sul tema della tutela della salute mentale degli autori di reato, si veda altresì in questa Rivista, 17 aprile 2021, La pazza gioia: il “cinema folle”, la società civile e il diritto penale.
[15] Dati acquisiti presso la Direzione generale dei detenuti e del trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.
[16] A. Cardinali, Rems: una riforma in divenire, in Rivista Italiana di Medicina Legale (e del Diritto in campo sanitario), fasc. 1, 1 febbraio 2019, 405 ss. indica in 1.700-1.800 la media dei pazienti presenti negli OPG in epoca anteriore alla riforma.
[17] Tra le altre, può ricordarsi la sentenza della Corte costituzionale n. 253 del 18 luglio 2003, con la quale veniva dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 222, cod. pen., nella parte in cui non consente al giudice, nei casi previsti, di adottare, in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, una diversa misura di sicurezza, prevista dalla legge, idonea ad assicurare adeguate cure dell’infermo di mente e a far fronte alla sua pericolosità sociale.
[18] Il tema risulta ampiamente sviscerato, tra gli altri, da A. Cardinali, Rems: una riforma in divenire, in Rivista Italiana di Medicina Legale (e del Diritto in campo sanitario), cit.
[19] Recante “Modalità e criteri per il trasferimento al Servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di sanità penitenziaria”.
[20] I dati acquisiti presso la Direzione generale dei detenuti e del trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria comprovano in effetti come, in netta controtendenza rispetto alle medie annuali precedenti, si sia passati dai 1.276 pazienti ospitati in O.P.G. nel 2011 ai 689 presenti al 31 marzo 2015.
[21] In questi termini si esprime G. Nicolò, Rems, oltre le buone intenzioni, no al ritorno al passato e problema di legittimità costituzionale. Quindi quale futuro?, cit.
[22] Sempre dai dati acquisiti presso la Direzione generale dei detenuti e del trattamento, risulta che al 14 dicembre 2015 erano già 96 provvedimenti giurisdizionali in attesa di esecuzione. Questo numero è aumentato esponenzialmente nel corso degli anni, passandosi a 265 provvedimenti in attesa di esecuzione al 31 dicembre 2016, a 457 al 28 novembre 2017, a 667 al 9 gennaio 2019, a 705 al primo aprile 2019, a 813 al 27 ottobre 2020 ed infine a 762 al 27 settembre 2021. È bene ad ogni modo rammentare che, sulla base della normativa vigente che prevede la gestione esclusivamente sanitaria delle REMS, la responsabilità istituzionale circa la corretta tenuta delle singole liste di attesa non può che ricadere sulle Autorità regionali.
[23] Dati acquisiti presso la Direzione generale dei detenuti e del trattamento.
[24] In linea generale, una effettiva diversificazione delle misure sanzionatorie, quale strumento per alleggerire la pressione sulle REMS, viene invocata, tra gli altri, da A. Massaro, Tutela della salute mentale e sistema penale: dalla possibile riforma del doppio binario alla necessaria diversificazione della risposta “esecutiva”, cit., laddove è appunto definita “urgente” la “diversificazione delle misure sanzionatorie, in modo da rendere effettiva la natura residuale ed eccezionale delle misure custodiali”.
[25] In questi termini si esprime P. Pellegrini, Il superamento degli OPG e le REMS. Oltre le buone intenzioni, cit., il quale appunto segnala come, a fronte di un buon livello di turn-over attuato nelle Residenze nel periodo 31 marzo 2015-11 marzo 2019 (essendo stato dimesso il 65,1% dei complessivi 1.580 pazienti internati nel periodo in disamina), il 35% dei pazienti ospitati in REMS avrebbe commesso reati di scarso rilievo, nei cui confronti dovrebbero auspicarsi altre tipologie di intervento.
[26] Si veda, sul punto, sempre P. Pellegrini, Il superamento degli OPG e le REMS. Oltre le buone intenzioni, cit.
[27] Ci si riferisce alla delibera del Consiglio Superiore della Magistratura, “Fasc. 37/PP/2016”, pubblicata nell’aprile del 2017, avente ad oggetto “Direttive interpretative e applicative in materia di superamento deli Ospedali psichiatrici giudiziari e di istituzione delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS), di cui alla legge n. 81 del 2014”. Tra l’altro, nel documento si legge quanto segue:
“Per esigenze di sintesi non è possibile riportare integralmente la molteplicità di informazioni pervenute dai diversi uffici interessati, pur dovendosi dare atto che le problematiche evidenziate dalla maggior parte degli uffici attengono, principalmente, alla carenza di posti presso le nuove strutture REMS, con inevitabile formazione di liste di attesa per l’accettazione di nuovi pazienti e conseguente dilatazione dei tempi di esecuzione delle misure disposte; alla collocazione territoriale di alcune REMS, negativamente incidente sulla possibilità per le forze dell’ordine di intervenire tempestivamente nell’ipotesi in cui uno o più internati pongano in essere atti aggressivi o si diano alla fuga; all’individuazione dei soggetti deputati ad assicurare il trasferimento degli internati dalla Rems ai Presidi Sanitari Territoriali; nonché alla inadeguatezza della sorveglianza interna ed esterna alle strutture”.
[28] Tale valutazione è stata di recente espressa da A. Massaro, Tutela della salute mentale e sistema penale: dalla possibile riforma del doppio binario alla necessaria diversificazione della risposta “esecutiva”, cit.
[29] Al riguardo, M. Patarnello, Le Rems: uscire dall’inferno solo con le buone intenzioni, cit., evidenzia condivisibilmente quanto segue: “A ben vedere, in un mondo attento ed avveduto, il dibattito culturale intorno al tema avrebbe dovuto creare la condizione per un inevitabile e indispensabile intervento correttivo o integrativo del Legislatore (forse anche regionale) o almeno per l’impegno senza risparmio di risorse da parte della politica e delle amministrazioni regionali per il reperimento – quanto meno – di un numero di posti vagamente comparabile alle esigenze concrete, per la realizzazione di soluzioni architettoniche e immobiliari adatte alle diverse esigenze e per l’individuazione di una forza di polizia o di personale finalizzato a garantire la sicurezza interna”. Anche sul “fronte” della psichiatria, il tema della implementazione dei posti-letto in R.E.M.S. risulta preso in considerazione, per lo meno da parte di taluni esponenti; tra questi si segnala G. Nicolò, Rems, oltre le buone intenzioni, no al ritorno al passato e problema di legittimità costituzionale. Quindi quale futuro?, cit. che, tra le soluzioni auspicabili per il superamento dei problemi connessi al sistema delle R.E.M.S., prospetta appunto “l’implementazione dei posti letto forensi adeguandoli agli standard europei ovvero di 1 ogni 15.000 abitanti. Non solo posti REMS, ma percorsi strutturati a gradiente di sicurezza progressivamente ridotto, come REMS attenuate fino a gruppi appartamento per chi conclude il percorso strettamente monitorate da equipe forensi. Ogni dipartimento di salute mentale dovrebbe avere delle equipe e dei percorsi dedicati con specifiche competenze forensi”.
[30] Decreto primo ottobre 2012 adottato dal Ministro della salute, di concerto con il Ministro della giustizia, venivano delineati i “requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi delle strutture residenziali destinate ad accogliere le persone cui si applicate le misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dell’assegnazione a casa di cura e custodia”.
[31] Sul punto, si rinvia alle considerazioni di A. Cardinali, Rems: una riforma in divenire, in Rivista Italiana di Medicina Legale (e del Diritto in campo sanitario), cit.
[32] A. Cardinali, Rems: una riforma in divenire, in Rivista Italiana di Medicina Legale (e del Diritto in campo sanitario), cit.
[33] Le considerazioni sono di A. Cardinali, Rems: una riforma in divenire, in Rivista Italiana di Medicina Legale (e del Diritto in campo sanitario), cit., il quale, a sua volta, sul punto, richiama P. Pellegrini, La chiusura degli OPG è vicina e quella delle REMS?, in www.quotidianosanità.it, 03/11/2016. Quest’ultimo Autore, nell’articolo da ultimo citato, a distanza di circa un anno e mezzo dalla entrata a regime della riforma, già ammoniva sui rischi connessi ad un uso troppo disinvolto della misura di sicurezza di sicurezza detentiva, declinata nel ricovero in REMS; segnatamente, da un lato, invitava ad introdurre metodiche volte a prevenire gli ingressi nelle Residenze, così da evitare la creazione di liste di attesa che già all’epoca contavano “circa 200” persone in attesa di internamento. E, sul punto, segnalava che, a suo avviso, “la magistratura che prima aveva remore verso la collocazione in OPG, oggi sembra non averne per il ricovero in REMS”. Ancora, esprimeva forti perplessità in merito alla possibilità di conciliare le funzioni della cura e quelle della custodia all’interno delle R.E.M.S., che, appunto, risultavano istituite in modo da rendere “fortemente presenti” le funzioni di custodia, “contrastando fino a soffocare quelle di cura”, posto che queste ultime hanno “bisogno di respiro, consenso, libertà o una prospettiva di libertà”. Il problema della sicurezza all’interno delle R.E.M.S. e della compatibilità con tali strutture di soggetti connotati da elevati tratti di pericolosità è affrontato anche da G. Nicolò, Rems, oltre le buone intenzioni, no al ritorno al passato e problema di legittimità costituzionale. Quindi quale futuro?, cit., nei termini che seguono: “La ridotta capienza delle strutture al massimo 20 posti, fa sì che all’interno della stessa struttura si ritrovino utenti con necessità assistenziali completamente diverse e con livello di pericolosità completamente diversi. Quando in questi contesti capita un utente fisicamente dotato e con tratti psicopatici e antisociali per tutti, utenti e operatori, sarà un problema. Potrà serenamente minacciare operatori, personale e infrangere le poche regole di convivenza, difficilmente si ha la capacità di fermarlo. Sarà il boss della struttura inducendo una regressione totale dei processi di cura a danno di tutti. In alcuni casi, commetterà dei reati, e come è già successo, dovrà essere curato dagli stessi operatori che lo hanno denunciato, contro ogni buon senso e codice deontologico”.
[34] Ci si riferisce, tra l’altro, alla proposta di legge n. 2939, presentata l’11 marzo 2021 alla Camera dei Deputati, di iniziativa del deputato Magi, il cui testo è disponibile nel sito www.societadellaragione.it. La proposta si snoda attraverso plurime direttrici, tra le quali, anzitutto, l’eliminazione della non imputabilità e della semi-imputabilità per vizio di mente, con la conseguente abolizione delle misure di sicurezza correlate; logico presupposto di tale scelta è quello di riconoscere soggettività e responsabilità al malato di mente, anche autore di reato, valutando l’attribuzione della responsabilità, anche penale, come un atto che può rivestire anche una valenza terapeutica. Da tali premesse discende la sostanziale abolizione del sistema del doppio binario, con l’eliminazione dell’attuale divaricazione di trattamento tra soggetti capaci di intendere e di volere ed incapaci e prevedendo la soggezione alla sanzione penale anche nei confronti di questi ultimi. In tale contesto, si promuoverebbe l’introduzione di una nuova circostanza attenuante per le condizioni di svantaggio determinate da disabilità psicosociale e si delineano inoltre vari strumenti finalizzati a scongiurare l’ingresso in carcere dei soggetti affetti da patologie psichiatriche, così da indirizzarli verso misure dal più elevato contenuto terapeutico. In accordo con le sopra richiamate premesse, tuttavia, viene contemplata la possibilità che i pazienti psichiatrici autori di reato siano condannati ad espiare le pene detentive presso gli Istituti di pena ed a questo proposito si precisa nella relazione illustrativa che “all’esito di una lunga discussione, è emersa la necessità di non prevedere alcuna istituzione speciale per i detenuti con disabilità psicosociale, i quali dovranno essere curati dai dipartimenti di salute mentale, in locali ad esclusiva gestione sanitaria all’interno degli istituti penitenziari”. Infine, per quanto concerne le REMS, evidentemente non più utilizzabili quali luoghi di esecuzione delle misure di sicurezza detentive, se ne propone la riconversione in “strutture ad alta integrazione socio-sanitaria quali articolazioni dei dipartimenti di salute mentale delle aziende sanitarie locali”. Sul tema, P. Pellegrini, Il superamento degli OPG e le REMS. Oltre le buone intenzioni, cit., evidenzia come, a suo avviso, per le persone con alta pericolosità, a prescindere dalla presenza o meno di un disturbo mentale, “sono possibili altre impostazioni, centrate sulla limitazione della libertà personale, sulla tutela della comunità sociale, sulla costrizione che vedono precise leggi e competenze. In questa ambiti la cura psichiatrica è quella possibile, talora quasi nulla o solo sintomatica”.
[35] È noto, in questo senso, che l’ordinamento italiano riserva agli infermi di mente socialmente pericolosi un percorso di sostanziale irresponsabilità penale – sancita anzitutto dall’art. 85, cod. pen. – tuttavia contemperato dall’applicazione della misura di sicurezza detentiva del manicomio giudiziario (in seguito denominato ospedale psichiatrico giudiziario) in ciò perseguendo almeno due finalità: da un lato, quella di contenere la pericolosità sociale dei soggetti incapaci resisi autori di reati e, d’altro lato, quella di promuoverne il trattamento psichiatrico, tanto più a seguito della introduzione dei principi di rango costituzionale che impongono allo Stato di perseguire la finalità rieducativa e trattamentale nell’ambito di qualsiasi percorso di tipo sanzionatorio. Al riguardo, pur senza pretesa di esaustività, pare utile richiamare F. Mantovani, Diritto penale – parte generale, Padova, 686 ss., il quale, in merito al soggetto non imputabile, fa riferimento alla categoria generale del “delinquente irresponsabile”, sottolineando come il problema della imputabilità vada risolto non solo sulla base dell’art. 85 del codice penale, “ma alla luce del superiore principio della responsabilità personale, la quale richiede per potersi punire sia l’imputabilità sia la colpevolezza”. Ancor più incisive appaiono al riguardo le parole di F. Antolisei, Manuale di diritto penale, Milano, 2000, 614, parole a cui pare utile ed opportuno affidarsi: “A nostro avviso la ragione giustificatrice dell’istituto (l’imputabilità, n.d.r.) deve reperirsi nella concezione comune della responsabilità umana. Secondo l’opinione che nell’epoca attuale è profondamente radicata nella coscienza collettiva, affinché un uomo possa essere chiamato a rispondere dei propri atti di fronte alla legge penale è necessario che sia in grado di rendersi conto del valore sociale degli stessi e non sia affetto da anomalie psichiche che gli impediscano di agire come dovrebbe: si richiede, in sostanza, che egli abbia un certo sviluppo intellettuale e sia sano di mente. La pena è una sofferenza; implica una notevole restrizione dei beni della persona e importa degli effetti che ne ledono l’onore, ripercuotendosi anche sul suo avvenire. (…). In conseguenza la reazione psico-sociale che nasce dai delitti commessi dagli individui di cui trattasi è diversa da quella che si verifica nei casi ordinari: può sorgere, bensì, allarme e, quindi, il riconoscimento della necessità di provvedimenti cautelativi nell’interesse della comunità, ma non si ha quella riprovazione morale che giustifica l’inflizione di un castigo”.
[36] V., fra gli altri, M. Bortolato, La sentenza n. 99/2019 della Corte costituzionale: la pari dignità del malato psichico in carcere, in Cass. pen., 9/2019.
[37] Pare utile, sul punto, riportare testualmente le parole della Corte: “La malattia psichica è fonte di sofferenze non meno della malattia fisica ed è appena il caso di ricordare che il diritto fondamentale alla salute ex art. 32 Cost., di cui ogni persona è titolare, deve intendersi come comprensivo non solo della salute fisica, ma anche della salute psichica, alla quale l’ordinamento è tenuto ad apprestare un identico grado di tutela (tra le molte, sentenze n. 169 del 2017, n. 162 del 2014, n. 251 del 2008, n. 359 del 2003, n. 282 del 2002 e n. 167 del 1999), anche con adeguati mezzi per garantirne l’effettività. Occorre, anzi, considerare che soprattutto le patologie psichiche possono aggravarsi e acutizzarsi proprio per la reclusione: la sofferenza che la condizione carceraria inevitabilmente impone di per sé a tutti i detenuti si acuisce e si amplifica nei confronti delle persone malate, sì da determinare, nei casi estremi, una vera e propria incompatibilità tra carcere e disturbo mentale. Come emerge anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (tra le altre, Corte EDU, seconda sezione, sentenza 17 novembre 2015, Bamouhammad contro Belgio, paragrafo 119, e Corte EDU, grande camera, sentenza 26 aprile 2016, Murray contro Paesi Bassi, paragrafo 105), in taluni casi mantenere in condizione di detenzione una persona affetta da grave malattia mentale assurge a vero e proprio trattamento inumano o degradante, nel linguaggio dell’art. 3 CEDU, ovvero a trattamento contrario al senso di umanità, secondo le espressioni usate dall’art. 27, terzo comma, della Costituzione italiana”.
[38] Sul tema, è utile rinviare ai contenuti delle varie circolari emanate dall’Amministrazione penitenziaria negli ultimi anni e degli Accordi in materia di sanità penitenziaria stipulati in sede di Conferenza Unificata Stato-Regioni, segnalando, tra le altre, la circolare 6 giugno 2007, n. 0181045-2007 avente ad oggetto “I detenuti provenienti dalla libertà: regole di accoglienza”, nonché l’Accordo del 19 gennaio 2012, relativo alle “Linee di indirizzo per la riduzione del rischio autolesivo e suicidiario dei detenuti, degli internati e dei minorenni sottoposti a provvedimento penale” ed infine l’ulteriore Accordo, approvato dalla Conferenza il 27 luglio 2017, recante il “Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidiarie nel sistema penitenziario per adulti”. Si rinvia altresì alle considerazioni svolte in questa Rivista, 7 luglio 2020, da F. Gianfilippi, Citraro e Molino c. Italia. La responsabilità dello Stato per la vita delle persone detenute ed un suicidio di venti anni fa.
[39] Oltre al già citato disegno di legge “Magi”, e per limitarsi alle proposte più recenti, ci si riferisce ai lavori del Tavolo tematico n. 11, dedicato alle misure di sicurezza, nell’ambito degli Stati generali dell’esecuzione penale i cui documenti finali sono tuttora reperibili sul sito internet del Ministero della giustizia; alle previsioni contenute nelle lettere c) e d) del punto 16 dell’art. 1, della legge-delega 23 giugno 2017, n. 103, recante modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario, attuata peraltro solo in parte e non nelle porzioni dedicate alle misure di sicurezza; ed infine ai lavori della “Commissione per la riforma del sistema normativo delle misure di sicurezza personali e dell’assistenza sanitaria in ambito penitenziario, specie per le patologie di tipo psichiatrico, e per la revisione del sistema delle pene accessorie”, istituita con D.M. 19.07.2017, presieduta dal Prof. Marco Pelissero, i cui elaborati finali sono rinvenibili, tra l’altro, in archiviodpc.dirittopenaleuomo.org. Proprio i lavori della Commissione “Pelissero” sono stati da ultimo ripresi ed esplicitamente condivisi dalla “Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario”, istituita con D.M. 13 settembre 2021 e presieduta dal Prof. Marco Ruotolo, la cui relazione finale è attualmente disponibile sul sito internet del Ministero della giustizia.
[40] In questi termini si esprime, condivisibilmente, A. Massaro, Tutela della salute mentale e sistema penale: dalla possibile riforma del doppio binario alla necessaria diversificazione della risposta “esecutiva”, cit.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.