ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Diritti fondamentali della persona di minore età e best interests of the child*
di Elisabetta Lamarque
L’autrice mette alla prova della giurisprudenza più recente le due principali conclusioni a cui era giunta in uno scritto di qualche anno fa circa la portata del principio dei best interests of the child come principio di rango costituzionale: a) il principio non impone che l’interesse della persona di minore età debba sempre automaticamente prevalere su tutto e su tutti; b) il principio diffida delle previsioni legislative rigide.
The author tests the most recent case law on the two main conclusions she reached in a booklet written a few years ago regarding the scope of the best interests of the child principle as a constitutional principle: a) the principle does not impose that the interest of the child must always automatically prevail over everything and everyone; b) the principle does not tolerate rigid legislative provisions.
Sommario: 1. Premessa. 2. Nessuna superiorità gerarchica, nessuna automatica prevalenza, nessuna tirannia del principio. 3. Le origini. 4. La giurisprudenza di Strasburgo. 5. Chiarezza concettuale e precisione lessicale nella più recente giurisprudenza costituzionale. 6. Flessibilità delle regole legislative. 7. Cosa ci attende nel prossimo futuro.
1. Premessa
Qualche anno fa avevo scritto un libretto sui best interests of the child nella prospettiva del diritto costituzionale[1]. In quel libretto avevo provato ad andare oltre alle conclusioni nichilistiche allora dominanti, che vedevano l’interesse del minore come una “scatola vuota” che poteva essere riempita di qualunque contenuto a seconda dei parametri culturali, o comunque extragiuridici, di riferimento dell’interprete, ma soprattutto avevo tentato di combattere l’uso retorico che gli operatori del diritto – giudici, avvocati ma anche la dottrina – spesso facevano del principio del preminente, o superiore, interesse del minore, locuzione che allora – ma per fortuna forse non più oggi, come argomenterò più avanti – con poca consapevolezza invariabilmente si preferiva per rendere in italiano il principio appunto dei best interests of the child.
Quel principio, invece, avrebbe richiesto di essere maneggiato dagli giuristi italiani con maggiore attenzione, addirittura con prudenza, essendo nato ed essendosi sviluppato in un ambiente culturale profondamente diverso dal nostro, quello angloamericano, ed essendosi proprio da lì diffuso sulla scena internazionale grazie soprattutto alla Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989, che lo enuncia in via generale all’art. 3[2], per poi consolidarsi in ambito europeo prima tramite la giurisprudenza di Strasburgo e poi attraverso la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Avevo scelto di occuparmi del principio dei best interests, dunque, proprio perché mi ero accorta che il principio era invocato in tutte le occasioni nelle quali veniva in rilievo la posizione di una persona di minore età quasi come formula di stile, in modo indiscriminato e a volte anche a sproposito, e avevo constatato con preoccupazione che troppo spesso gli interpreti ne facevano un uso poco avvertito, superficiale, generico e dunque appunto retorico, se non addirittura strumentale, servendosene da pretesto per ‘coprire’ scelte volte a favorire – nel singolo caso concreto – gli interessi degli adulti.
In effetti, il “superiore” interesse del minore è un’espressione efficace, perché mette tutti a tacere. Chi oserebbe sostenere oggi l’idea opposta, che il bene degli adulti viene prima di quello dei bambini?
Ed è anche un abito buono per tutte le stagioni e per tutte le occasioni. Quanto volte abbiamo visto, soprattutto in passato, nei discorsi politici e giornalistici, ma spesso purtroppo anche in quelli dei giuristi[3], che nel suo nome si vuole giustificare una soluzione a un problema sociale, etico e giuridico, ma anche la soluzione esattamente contraria?
Quanto ai contenuti di quello studio, che risale al 2016, ormai sette anni fa, avevo innanzitutto approfondito un aspetto che già a quei tempi era data per scontata, e cioè la circostanza che nel nostro ordinamento il principio dei best interests si collochi a livello costituzionale, si imponga quindi alla legislazione primaria. Che il principio abbia rango costituzionale si ricava infatti sia da una lettura sistematica ed evolutiva della Costituzione italiana – una lettura che peraltro allora non tutti ricordavano che la Corte costituzionale avesse già offerto nel lontano 1981[4] –, sia da una ricognizione degli effetti sull’ordinamento costituzionale dei bill of rights internazionali e sovranazionali. Su questo punto non serve ora ritornare.
Per il resto, avevo raggiunto alcune conclusioni – due le principali – riguardo alla portata del principio che allora mi parvero non banali, e che qui è utile richiamare per metterle a confronto con i più recenti sviluppi giurisprudenziali.
Erano tuttavia due punti fermi – se di punti fermi è mai possibile parlare, nel campo del diritto – entrambi di segno negativo, relativi a ciò che il principio dei best interests certamente non vuole, non impone, non richiede. Un po’ come nella poesia di Montale: Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo[5].
In primo luogo, avevo concluso che il principio dei best interests non impone affatto all’interprete di far prevalere sempre e comunque i diritti del bambino o dell’adolescente sui diritti degli adulti che si trovano in relazione con lui o su altri beni della collettività del medesimo rango costituzionale, al contrario di ciò che sembrerebbe suggerire l’espressione italiana che lo traduce nei termini di “preminente” o “superiore” interesse del minore.
In secondo luogo, avevo constatato che principio dei best interests non sopporta – o, meglio, male sopporta – gli automatismi, o comunque più in generale diffida delle previsioni legislative rigide, prive di flessibilità, che impediscono all’organo pubblico incaricato di decidere nel caso concreto (un giudice, di solito, ma anche un altro operatore) di compiere una scelta ritagliata, modellata, sulle peculiarità, sulle sfumature, che quel caso presenta.
2. Nessuna superiorità gerarchica, nessuna automatica prevalenza, nessuna tirannia del principio
Prendiamo dunque le mosse dal primo punto: il principio dei best interests of the child non impone che l’interesse della persona di minore età debba sempre automaticamente prevalere su tutto e su tutti.
Ce lo insegnano la nascita e gli sviluppi storici del principio; ce lo fa chiaramente capire la Corte di Strasburgo; ma soprattutto ce lo dice esplicitamente da qualche anno – almeno dal 2017 – la nostra Corte costituzionale.
Motiverò ora brevemente, nell’ordine, tutte e tre queste affermazioni, partendo dalle origini storiche del principio.
3. Le origini
Nella preistoria del principio, nell’Ottocento, la best interests of the child doctrine nasce, nei paesi di common law, per consentire, nel caso di separazione o divorzio, singole eccezioni alla rigida regola, tipica di una società patriarcale, che imponeva di affidare i figli al padre.
L’affidamento alla madre all’inizio era disposto dalle corti in casi rarissimi, se i figli erano molti piccoli e quando il padre legale era all’evidenza del tutto inadatto, ad esempio perché vagabondo, alcolizzato o violento.
A un certo punto, però, e siamo già nella seconda metà del secolo scorso, il principio dei best interests esce dal ristretto ambito del diritto di famiglia – affidamento e adozione – e diventa uno dei cardini del vastissimo dibattito sui children’s rights in ambito nord americano.
Si tratta di un dibattito per noi europei continentali molto difficile da comprendere perché controverte su ciò che da noi è invece dato sempre per scontato, e cioè sulla circostanza che i bambini, in quanto persone umane, siano titolari di diritti fondamentali.
Nel dibattito nord americano sui children’s rights, infatti, si contrappongono – semplificando molto – due orientamenti.
Da una parte stanno coloro che ritengono che anche i bambini e gli adolescenti siano titolari di rights, intesi naturalmente come in generale sono intesi i rights in quell’area culturale, e cioè come diritti di autodeterminazione in tutte le sfere della propria vita.
Si tratta dell’orientamento dell’autonomy o della self-determination, che denuncia l’ingerenza del potere pubblico nelle decisioni che riguardano la vita di una persona di minore età e che per questo motivo ritiene che i bambini e gli adolescenti siano soggetti oppressi, the last minority, “l’ultima minoranza” da liberare, dopo le donne, i neri e gli omosessuali.
Dalla parte opposta si situano invece coloro che tremano al pensiero di abbandonare i bambini e gli adolescenti ai loro diritti, e cioè alle loro scelte, le quali possono sempre ritorcersi a loro danno, e sostengono che sia piuttosto necessario intervenire per compensare la loro debolezza e vulnerabilità.
È questo l’orientamento della protection o della salvation, a volte denominato anche nurturance orientation.
È esattamente al cuore di questo secondo orientamento che nasce e si sviluppa il nostro principio. Secondo questa linea di pensiero, infatti, ai children non devono essere garantiti rights, intesi nel senso di poteri di autodeterminazione, ma al contrario protection, e a tale scopo altri soggetti (pubblici o privati, ma su questo punto le varie concezioni divergono) devono essere incaricati di decidere per loro e al posto loro in che cosa consistano i loro best interests, e cioè in quale modo si realizzi meglio il loro welfare o il loro well-being (termini che non a caso nella tradizione anglo-americana dei children’s rights sono spesso utilizzati come sinonimi dei best interests).
Per spiegare il significato che ha il principio dei best interests nell’area culturale dove è storicamente nato – un significato che certamente il principio porta con sé quando irrompe sulla scena internazionale e sovranazionale – si potrebbe allora dire così.
In base a questo principio, chi si trova a dover prendere una decisione che riguarda la vita di una persona di minore età – che di solito da noi è un’autorità pubblica come un giudice o un assistente sociale – deve abbandonare ogni preconcetto e ogni idea personale per mettersi nei panni del bambino (in the child’s skin), e da questa prospettiva deve individuare ciò che conta di più per la vita del bambino e che gli garantisce il massimo benessere possibile (well-being o welfare, appunto).
Ne consegue che la decisione finale dovrà tendere a realizzare la soluzione migliore per il bambino che si trova in quella determinata situazione concreta, senza tuttavia trascurare o pretermettere i diritti degli adulti che sono in relazione con lui e le altre eventuali esigenze proprie della società. Diritti ed esigenze, dunque, che continuano a mantenere un peso e che richiedono di essere considerati ai fini della decisione stessa.
Del resto, se ci si pensa bene, il tenore testuale dell’espressione inglese va inequivocabilmente in questa direzione. Interests è al plurale e dunque la parola indica i vari possibili interessi/esigenze/bisogni che ogni bambino nutre; best è il superlativo relativo di good, buono. Essa richiede quindi semplicemente che ‘i migliori’ – e cioè i più significativi, i più importanti – tra i numerosi interessi/esigenze/bisogni del bambino siano tenuti in conto e garantiti da chi deve decidere al posto suo. E il ‘pacchetto’ dei più significativi tra questi interessi/esigenze/bisogni primari della persona di minore età è proprio ciò che le assicurerà il benessere, e cioè il welfare e il well-being.
Già allora, di conseguenza, proponevo che l’espressione inglese best interests of the child fosse resa in italiano con locuzioni più vicine al suo reale significato, e meno ingannevoli, quali ad esempio ‘il migliore interesse’ o ‘il massimo benessere possibile’ della persona di minore età, oppure ancora ‘la soluzione migliore’ (tra tutte quelle possibili) per il bambino o l’adolescente.
Queste traduzioni, alternative a quella corrente, assicurano che il superlativo relativo resti tutto interno al novero degli interessi della stessa persona di minore età, interessi dei quali i più importanti devono essere considerati e protetti.
Al contrario, con queste traduzioni rimane correttamente assente l’elemento della comparazione con altre esigenze e diritti tutelati dall’ordinamento, sui quali il ‘pacchetto’ di interessi/esigenze/bisogni, e anche diritti, del bambino e dell’adolescente non è detto che debba sempre prevalere, al contrario di ciò che suggerisce la più tradizionale traduzione italiana nei termini di “superiore” o “preminente” interesse del minore’.
4. La giurisprudenza di Strasburgo
I segnali che provengono dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo vanno inequivocabilmente in quest’ultimo senso.
Lasciamo perdere il fatto che ci sarebbe molto da dire sulla alluvionale giurisprudenza di Strasburgo sui best interests, e molto anche da criticare: quanto all’incertezza del fondamento del principio nella Cedu (art. 8 primo o secondo paragrafo?), quanto all’incoerenza di molte sue applicazioni, ma anche quanto alla contraddittorietà stessa di alcune sue affermazioni di principio contenute in quella parte sempre uguale delle sentenze di Strasburgo che precede l’applicazione della Convenzione al caso di specie in cui a volte si legge, a distanza di poche righe e magari all’interno della stessa pagina, un’affermazione e anche il suo contrario.
Il punto che qui interessa è invece chiaramente enucleabile da tutta la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, e può essere riassunto nel modo che segue.
È vero che l’interesse del bambino e dell’adolescente ha sempre “particolare importanza”, ma quando l’interesse del minore e quello ad esempio dei suoi genitori biologici sono in conflitto, l’art. 8 Cedu “esige che le autorità nazionali garantiscano un giusto equilibrio tra tutti questi interessi – da noi si dice un ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali – nel quale l’interesse del minore, “a seconda della sua natura e complessità”, può – attenzione: può, non deve! – avere la precedenza su quello dei genitori.
Esemplare, in questo senso, tra le moltissime, la nota sentenza Strand Lobben del 2019, seguita anche da altre molto recenti, tra cui anche sentenze di condanna dell’Italia, come A.I. del 2021[6].
Nella giurisprudenza di Strasburgo l’idea che l’interesse e i diritti del minore debbano essere sottoposti a bilanciamento, e non debbano al contrario automaticamente prevalere su ogni altro interesse o diritto altrui, è sempre presente e soprattutto sempre praticata.
È interessante notare che ciò accade anche quando sull’altro piatto della bilancia, rispetto ai diritti e agli interessi del minore, non ci sono i diritti degli adulti ricorrenti davanti alla Corte di Strasburgo (tipicamente, per fare un esempio, il diritto dei genitori biologici a non vedersi spezzato il legame con il figlio), bensì ci sono interessi generali della società come quelli che vengono in rilievo quando si tratta di riconoscere una surrogazione di maternità avvenuta all’estero. In questo è chiarissima, ad esempio, la recente sentenza K.K. contro Danimarca del 2022[7].
5. Chiarezza concettuale e precisione lessicale nella più recente giurisprudenza costituzionale
Ancora più significativa, oltre che molto più coerente al proprio interno, è la giurisprudenza della nostra Corte costituzionale, che almeno a partire dal 2017 presenta un crescendo davvero notevole di chiarezza concettuale.
Prendiamo, tra le molte, la nota sentenza n. 33 del 2021, che dichiara inammissibile per discrezionalità del legislatore la questione relativa alla possibilità di iscrivere all’anagrafe come figlio della coppia committente il bambino nato all’estero a seguito di una pratica di gestazione per altri[8].
C’è, nella sentenza n. 33, la massima attenzione a sottolineare che “l’interesse del bambino non può essere considerato automaticamente prevalente rispetto a ogni altro controinteresse in gioco”.
E ciò perché «se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona»“.
Ne consegue che gli interessi del bambino possono e devono essere sottoposti a un equo bilanciamento con diritti fondamentali altrui ed esigenze e interessi di pari rango costituzionale.
Non è un caso che i termini “bilanciamento” e “bilanciati” ricorrano ben cinque volte nel Considerato in diritto della sentenza n. 33 la quale, come noto, conclude: “Gli interessi del minore dovranno essere bilanciati, alla luce del criterio di proporzionalità, con lo scopo legittimo perseguito dall’ordinamento di disincentivare il ricorso alla surrogazione di maternità, penalmente sanzionato dal legislatore”.
A una simile ritrovata chiarezza concettuale corrisponde, nella motivazione delle sentenze costituzionali più recenti, la ricerca di nuove espressioni linguistiche per indicare il nostro principio, differenti da quella tradizionale e capaci di sgombrare il campo da ogni residua possibilità di fraintendimento.
In alcune importanti sentenze del 2020 (la 102, sulla sospensione della responsabilità genitoriale per il reato di sottrazione di minore)[9], e del 2021 (la sentenza n. 32, ad esempio, e ancora una volta la n. 33)[10] la Corte costituzionale è esplicita nel proporre un nome più adeguato per il nostro principio, suggerendo di chiamarlo principio della “soluzione ottimale per il minore”, o della “soluzione ottimale in concreto per l’interesse del minore”, o ancora “principio del miglior interesse del minore”.
Tuttavia, nella motivazione di quelle stesse sentenze del 2020 e del 2021 gli aggettivi “superiore” e “preminente”, o “superiori” e “preminenti”, accompagnati a “interesse” o “interessi” del minore o del bambino, riaffiorano a tratti, quasi per abitudine o inerzia.
La svolta si ha invece nella più recente sentenza sull’adozione in casi particolari, la n. 79 del 2022, con la quale la Corte costituzionale estende all’adottato la parentela con i parenti dell’adottante[11].
Nella motivazione di questa pronuncia la Corte costituzionale si riferisce sempre al principio “del miglior interesse del minore”, oppure qualifica tale interesse come “primario” – e dunque, attenzione, un interesse molto importante, ma non già per forza prevalente qualsiasi altro[12]. – mentre gli aggettivi “preminente” e “superiore” compaiono solo come relitti del passato, nelle citazioni testuali di atti meno recenti.
La stessa accuratezza nella scelta delle parole, invece, non si ritrova ancora nella giurisprudenza della Cassazione dove – si pensi ad esempio alla sentenza delle Sezioni Unite dello scorso dicembre sullo status del nato all’estero da surrogazione di maternità[13] – convivono pacificamente la versione ‘ripulita’ e aggiornata del nome italiano del principio dei best interests e la formulazione tradizionale, con tutta la sua pericolosa carica di ambiguità.
Non bisognerebbe mai dimenticare, invece, che la formulazione tradizionale consente di utilizzare il principio nelle nostre aule giudiziarie in modo vuoto, retorico o addirittura fraudolento, dato che consente al giudice di non motivare in modo approfondito sulle circostanze di fatto del singolo caso concreto a cui invece la sua decisione dovrebbe sempre correlarsi.
6. Flessibilità delle regole legislative
Passo ora, molto molto più brevemente, al secondo punto, che dopo quello che ho detto finora risulterà chiarissimo.
Il principio dei best interests non ama gli automatismi legislativi, e anzi è ontologicamente incompatibile con le soluzioni legislative rigide che non consentono all’organo pubblico che deve in un determinato momento assumere una decisione che riguarda la vita di un bambino o di un adolescente di modularla su tutte le circostanze di fatto a sua conoscenza – che siano circostanze positive o negative, risorse o difficoltà –, comprese quelle relative al passare del tempo e all’avvenuto consolidamento di alcune situazioni di fatto[14]. E ciò allo scopo di assicurare a quel bambino o a quell’adolescente di godere, nei limiti del possibile, date appunto le circostanze in cui si trova, degli interessi/delle esigenze/dei bisogni più importanti, fondamentali per il suo pieno sviluppo.
Ma come si fa se la legge è rigida, se prevede un automatismo? La risposta è ovvia: se il testo della legge, o l’intero sistema legislativo, impone al giudice un’unica soluzione, la quale appare al giudice stesso dissintona rispetto alle esigenze del minore in carne e ossa che ha di fronte, il giudice non ha altra strada, per recuperare il potere di decidere diversamente, che adire la Corte costituzionale, chiedendole di cambiare, di manipolare, la legge per introdurvi la flessibilità richiesta dal principio dei best interests.
Le manipolative di accoglimento della Corte costituzionale che rispondono positivamente a simili accorati appelli dei giudici comuni sono molto numerose. Tra le più antiche, esemplare è la sentenza dell’inizio degli anni Novanta che introduce la possibilità per il giudice di derogare al limite dei quaranta anni massimi di differenza di età tra adottante e adottato nell’adozione internazionale, qualora lo richieda l’interesse del figlio[15], che è poi stata seguita da molte altre successive, in tutti i settori del diritto, dal diritto civile, a quello penale, processuale penale e dell’esecuzione penale.
Negli anni più vicini a noi, ad esempio, sono molto note e commentate le sentenze che eliminano l’automatica applicazione della pena accessoria della decadenza dalla responsabilità genitoriale per i delitti di soppressione e di alterazione di stato[16], o più di recente la sentenza che fa fuori l’automatismo nella sospensione della responsabilità genitoriale per il ben più grave delitto di sottrazione e mantenimento del minore all’estero[17].
7. Cosa ci attende nel prossimo futuro
In conclusione di queste riflessioni si possono richiamare due casi recenti per i quali auspico che possano presto intervenire analoghe pronunce costituzionali manipolative.
In primo luogo segnalo un’ordinanza di rimessione della Cassazione, prima sezione civile, depositata pochi giorni fa, che chiede alla Corte costituzionale di rendere flessibile la rigidissima regola della legge sull’adozione del 1983 secondo cui con l’adozione piena, legittimante, cessano irreversibilmente i rapporti dell’adottato con la famiglia di origine, intesa come comprensiva dei parenti fino al quarto grado[18].
Viene quindi sottoposta al giudizio di legittimità costituzionale una regola legislativa che nei suoi primi quarant’anni di vita non era mai stata messa in discussione proprio perché era universalmente ritenuta indispensabile per mettere al sicuro, in una botte di ferro, tutti gli adottati, sancendone l’esclusiva appartenenza alla nuova famiglia adottiva.
Oggi invece, la Cassazione ritiene che, se riferita a un caso difficile come quello sottoposto al suo giudizio, di due fratelli rimasti orfani di madre a seguito di un femminicidio, tale regola contrasta con il principio dei best interests proprio perché eccessivamente rigida. Essa infatti vieta, una volta dichiarata l’adozione piena dei due bambini – o, meglio, una volta dichiarato lo stato di abbandono che prelude all’adozione – di mantenere vivi i loro rapporti con tutti i parenti di sangue anche se la relazione con alcuni di loro, se coltivata “secondo le modalità stabilite in via giudiziale”, potrebbe contribuire al benessere dei bambini.
Un secondo caso di notevole attualità è quello che riguarda l’adozione in casi particolari del nato all’estero da surrogazione di maternità da parte del partner del genitore biologico che aveva condiviso il progetto procreativo.
Qui mi spiace un po’ intervenire in senso leggermente critico, o perlomeno dubbioso, sulla sentenza delle Sezioni Unite dello scorso dicembre, già richiamata[19], che – tengo a precisare – condivido invece pienamente nel suo esito.
Al par. 11 le Sezioni Unite ricordano che secondo la stessa Corte costituzionale uno degli aspetti di inadeguatezza della soluzione di compromesso – di negare la trascrizione della doppia genitorialità e di consentire invece l’adozione in casi particolari da parte del genitore non biologico – risiede nel fatto che, seguendo il dettato della legge del 1983, sarebbe impossibile pronunciare l’adozione quando manca l’assenso del genitore biologico.
Ebbene, le Sezioni Unite affermano che i giudici, in casi come questi, sono chiamati a considerare “le potenzialità dell’interpretazione costituzionalmente conforme” per superare, se l’interesse del figlio lo richiede, il dissenso del genitore biologico all’adozione da parte del genitore non biologico, “senza che occorra sollevare, persistendo l’omissione da parte del legislatore, una questione di legittimità costituzionale”.
Non condivido questo suggerimento.
È vero che le Sezioni Unite non avrebbero potuto sollevare loro stesse il dubbio di costituzionalità per carenza assoluta di rilevanza.
Tuttavia, in un diverso futuro giudizio, instaurato proprio da un genitore non biologico che volesse superare il rifiuto da parte del genitore biologico, a mio parere la lettera della legge sull’adozione, che testualmente richiede sempre il suo consenso, non potrebbe essere aggirata in via interpretativa.
Pronunciare lo stesso l’adozione in casi particolari nonostante il dissenso del genitore biologico sarebbe come disapplicare la legge nel caso concreto: operazione che, in un sistema accentrato di controllo di costituzionalità, al giudice non è mai consentita.
Al contrario, il giudice potrebbe, e dovrebbe, attivare un nuovo incidente di costituzionalità per ottenere dalla Corte costituzionale – con il consueto meccanismo – una manipolazione del rigido testo di legge che dia ingresso alla valutazione caso per caso, da parte del giudice stesso, della rispondenza della richiesta adozione ai bisogni fondamentali del nato dalla pratica di surrogazione di maternità.
Senza contare che l’intervento solitario di un giudice che opera un’interpretazione conforme della legge vale solo provvisoriamente, salvo impugnazione della sua sentenza, e comunque vale soltanto per le parti del suo giudizio.
Al contrario, se quello stesso giudice si rivolge alla Corte costituzionale, la Corte può rimuovere il problema una volta per tutte, non solo per tutti i casi futuri ma anche per quelli in itinere, con benèfici e stabili effetti erga omnes.
Alla continua correzione dei testi di legge da parte del virtuoso raccordo Corte costituzionale-giudici comuni, del resto, siamo da tempo tutti abituati, nel campo del diritto di famiglia come in molti altri settori dell’ordinamento, dato l’endemico ritardo, la colpevole inerzia, dei nostri legislatori di ogni colore, incapaci di adeguare tempestivamente il tessuto normativo ai mutamenti già avvenuti nelle relazioni umane in seno alla società.
* Il testo è una versione rivista e corredata di note della relazione presentata al convegno sul tema Le relazioni giuridiche familiari tra natura e storia. Prospettive culturali e questioni aperte che si è tenuto presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca nei giorni 26, 27 e 28 gennaio 2023.
[1] E. Lamarque, Prima i bambini. Il principio dei best interests of the child nella prospettiva costituzionale, FrancoAngeli, Milano, 2016.
In proposito avverto che molte delle osservazioni svolte nel presente contributo sono tratte, anche testualmente, da quel volume e da altri miei scritti successivi sul tema, tra cui segnalo soltanto E. Lamarque, I best interests of the child, in La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Conquiste e prospettive a 30 anni dall’adozione, a cura dell’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, Roma, 2019, 140 ss., in open access all’indirizzo www.garanteinfanzia.org, e, da ultimo, G. Mingardo ed E. Lamarque, Gestazione per altri e best interests of the child. La prospettiva della Corte costituzionale italiana, in La surrogazione di maternità nel prisma del diritto. Problemi aperti e sfide future, a cura di F. Pesce, Editoriale Scientifica, Napoli, 2022, 123 ss.
[2] Art. 3 della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza – Convention on the Rights of the Child (CRC), adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989 e ratificata dall’Italia con legge n. 176 del 1991: “In all actions concerning children, whether undertaken by public or private social welfare institutions, courts of law, administrative authorities or legislative bodies, the best interests of the child shall be a primary consideration”.
[3] Lo nota, con particolare riferimento ai temi legati alla PMA, M. Acierno, Il mantra del preminente interesse del minore, in Questione Giustizia, 2019.
[4] Corte cost., sent. n. 11 del 1981, redattore Leopoldo Elia. Ora invece questa sentenza capostipite è ricordata come tale dalla Corte costituzionale (si veda ad esempio il punto 4.1. del Considerato in diritto di Corte cost., sent. n. 102 del 2020, il punto 5.3. del Considerato in diritto di Corte cost., sent. n. 33 del 2021 e il punto 5.2.3. del Considerato in diritto di Corte cost., sent. n. 79 del 2022).
[5] E. Montale, Non chiederci la parola, in Ossi di seppia, Piero Gobetti Editore, Torino, 1925.
[6] Strand Lobben e altri contro Norvegia, Grande Camera, 1 settembre 2019, n. 37283/13, parr. 204 e 220 e A.I. contro Italia, prima sezione 1 aprile 2021, n. 70896/17, parr. 87 e 94.
[7] Corte eur. dir. Uomo, seconda sezione, sentenza 6 dicembre 2022, no. 25212/21, par. 57.
[8] Si occupano di questa sentenza e di quella che immediatamente la precede (Corte cost., sentt. nn. 32 e 33 del 2021), tra i molti, M. Sesta, La prospettiva paidocentrica quale ‘fil rouge’ dell’attuale disciplina giuridica della famiglia, in Famiglia e diritto, n. 7/2021; M. Dogliotti, Due madri e due padri: qualcosa di nuovo alla Corte costituzionale, ma la via di inammissibilità è l’unica percorribile?, in Famiglia e diritto, n. 7/2021; G. Ferrando, La Corte costituzionale riconosce il diritto dei figli di due mamme o di due papà ad avere due genitori?, in Famiglia e diritto, n. 7/2021; G. Recinto, Le “pericolose oscillazioni” della Suprema Corte e della Consulta rispetto alla maternità surrogata, in Famiglia e diritto, n. 11/2021; R. Bin, L’interpretazione della Costituzione in conformità delle leggi. Il caso della famiglia, in Famiglia e diritto, n. 2/2022; M.N. Bugetti, Lo status di figlio di coppia omosessuale a dieci anni dall’introduzione dello stato unico di filiazione. Un ‘excursus’ giurisprudenziale (e qualche riflessione), in Famiglia e diritto, n. 8-9/2022; R. Bin, Tecniche procreative, ordine pubblico, interesse del minore. Conclusioni, in Rivista di Biodiritto, n. 3/2021; M. Acierno, La Corte costituzionale “minaccia” un cambio di passo sull’omogenitorialità?, in Questione Giustizia, 2021; E. Frontoni, L’adozione in “casi particolari” non è più sufficiente per tutelare l’interesse dei minori nati attraverso maternità surrogata, in Nomos, n. 2/2021; F. Astone, Procreazione di coppie ‘same sex’ e ‘status’ dei figli: un problema di discrezionalità legislativa?, in Giur. cost., n. 2/2021; V. Calderai, Il dito e la luna. I diritti fondamentali dell’infanzia dopo Corte cost. n. 33/2021, in Giur. it., n. 2/2022; M. Caldiroli, Surrogazione di maternità e ordine pubblico: verso un cambio di rotta, in Rivista di Biodiritto, n.2/2022; M. Caldiroli, La genitorialità intenzionale e l’interesse del minore: un vuoto di tutele intollerabile, in Osservatorio costituzionale, n. 3/2021; B. Carminati, Corte costituzionale, sent. 33/2021: tutela dei figli nati all’estero tramite maternità surrogata, in Rivista di Biodiritto, n. 2021; G. D’Amico, La Corte e il “non detto”. Riflessioni a partire dalle sentt. n. 32 e n. 33 del 2021, in La nuova giurisprudenza civile commentata, n. 4/2021; G. D’Amico, La preminente ... discrezionalità del legislatore e il “giuoco delle parti”, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, n. 3/2021; G. Mingardo, Approdi e partenze: lo stato della gestazione per altri e la prospettiva futura, in Rivista Aic, n. 3/2021; F. Paterniti, Status di figlio e limiti alle possibilità genitoriali delle coppie omoaffettive: lacune dell’ordinamento, attese legislative e (problematici) arresti giurisprudenziali, in Rivista Aic, n. 3/2021; F. Rimoli, Diritto all’omogenitorialità, ‘best interest of the child’ e ‘famiglia naturale’: un problema ancora irrisolto, in Giur. cost., n. 2/2021; A. Ruggeri, La PMA alla Consulta e l’uso discrezionale della discrezionalità del legislatore, in Consulta Online, n. 1/2021; U. Salanitro, L’adozione e i suoi confini. Per una disciplina della filiazione da procreazione assistita illecita, in La nuova giurisprudenza civile commentata, n. 4/2021; S. Tonolo, La Corte costituzionale e la genitorialità delle coppie dello stesso sesso tra trascrizione degli atti di nascita esteri e soluzioni alternative, in Corr. giur., n. 8-9/2021; P. Veronesi, Ancora sull’incerto mestiere del nascere e del diventare genitori: i casi di cui alle sentenze nn. 32 e 33 della Corte costituzionale, in Rivista di Biodiritto, n. 3/2021.
[9] Su cui, tra gli altri, P. Pittaro, La sospensione della responsabilità genitoriale come pena accessoria. incostituzionale se automatica, in Famiglia e diritto, n. 10/2020; G. Matucci, “Cecità” della legge e interesse concreto del minore. Sull’incostituzionalità dell’automatica sospensione della responsabilità genitoriale, in Giur. cost., n. 3/2020; G. Laneve, Pene accessorie che incidono sulla responsabilità genitoriale: dalla “cecità” dell’automatismo legislativo allo sguardo sulla relazione genitore-figlio, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, n. 4/2020; L. Delli Priscoli, Sottrazione internazionale dei minori e “the best interest of the child” quale interesse alla bigenitorialità, in La giustizia penale, n. 8-9/2020.
[10] Si veda supra la nota 6.
[11] Su questa sentenza M.C. Carbone, Famiglia e nuovi rapporti di parentela: la Corte costituzionale traccia il sentiero per il riconoscimento giudico della “familiarità sociale”, in Consulta Online, n. 3/2022 e M.C. Errigo, Garantire le relazioni familiari. La decisione della Corte costituzionale n. 79/2022, in Osservatorio costituzionale, n. 3/2022.
[12] Analogamente Corte cost., sent. 33 del 2021 aveva ritenuto che agli interessi del minore dovesse essere assegnato uno speciale peso in ogni bilanciamento, ma aveva subito chiarito che ciò non significa assegnare all’interesse del minore una assoluta prevalenza sugli altri diritti individuali e interessi della collettività: “la frequente sottolineatura della ‘preminenza’ di tale interesse ne segnala bensì l’importanza, e lo speciale ‘peso’ in qualsiasi bilanciamento; ma anche rispetto all’interesse del minore non può non rammentarsi che tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe ‘tiranno’ nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona”.
È davvero curioso notare che, tutto all’opposto, nella giurisprudenza costituzionale più antica, precedente Corte cost., sent. n. 11 del 1981, cit., lo speciale peso nel bilanciamento con gli interessi della persona minore di età sembrava doversi assegnare “al superiore interesse della società” (così Corte cost., sent. n. 156 del 1967, tra l’altro relativa al delicatissimo tema dell’ispezione corporale del imputato minorenne).
[13] Cass., SS.UU., 30 dicembre 2022, n. 38162.
[14] Corte eur. dir. Uomo, prima sezione, sent. T.C. contro Italia, 19 maggio 2022, n. 54032, parr. 57-58, oltre a quelle richiamate al par. 349 della guida all’art. 8 Cedu, predisposta dalla cancelleria della stessa Corte di Strasburgo (Guide on Article 8 of the European Convention on Human Rights. Right to respect for private and family life, home and correspondence, Updated on 31 August 2022, all’indirizzo https://www.echr.coe.int/documents/guide_art_8_eng.pdf).
[15] Corte cost., sent. n. 148 del 1992.
[16] Corte cost., sentt. n. 31 del 2012 e n. 7 del 2013.
[17] Corte cost., sent. n. 102 del 2020, cit.
[18] Cass. sez. I civ., ord. 5 gennaio 2023, n. 230.
[19] Cass., SS.UU., 30 dicembre 2022, n. 38162, cit.
Audizione al Senato del Procuratore Nazionale Antimafia Giovanni Melillo sul tema delle intercettazioni del 31 gennaio 2023
I fattori di criticità della materia delle intercettazioni appaiono, ad un’osservazione obiettiva, tali e tanti da mettere in crisi ogni ambizione di poter realizzare altro che progressive tappe di una faticosa ricerca di equilibri resi continuamente precari dalle evoluzioni tecnologiche e degli stessi fenomeni criminali.
Siamo di fronte a tensioni che attraversano i sistemi giuridici di tutte le società democratiche e che continuamente si trasformano e impongono nuove sfide.
Naturalmente, molto può farsi. A condizione di sottrarsi alla tentazione di rendere una materia così delicata oggetto di continue contrapposizioni polemiche e grossolane o strumentali semplificazioni, anziché di uno sforzo condiviso e responsabile di avvicinamento ad una dimensione problematica di straordinaria complessità, che, per di più, nello scenario italiano soffre l’effetto della perdurante azione di ulteriori fattori di criticità.
Proverò ad indicare alcuni di tali fattori, nei quali, a mio avviso, possono scorgersi i tratti di evidenti ritardi istituzionali, legislativi e degli assetti organizzativi del sistema giudiziario, che definiscono altrettanti profili di responsabilità.
Ma, confidando nell’interesse di codesta Commissione a conoscere le valutazioni del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, proverò anche ad indicare anche alcune possibilità, da tempo mature, per realizzare una manovra di deciso rafforzamento del quadro delle garanzie difensive, senza detrimento delle istanze di efficace contrasto di gravi fenomeni criminali.
Una manovra possibile soltanto avendo avuto cura di sgombrare il capo da grottesche e miopi visioni di una realtà oltremodo complessa, che esige analisi realistiche e rigorose, anche se non sempre confortanti, derivandone da esse, infatti, non già le illusorie ricette che ordinariamente discendono dall’insofferenza per la complessità dei problemi da considerare, ma la responsabilità di un impegno gravosissimo per le istituzioni politiche, amministrative e giudiziarie.
Procederò ad una rassegna tanto dei fattori di criticità quanto di alcune possibili vie d’uscita con criteri descrittivi ai limiti della brutalità delle necessarie sintesi.
- La trasformazione del rapporto fra giurisdizione e tecnologie conseguente al passaggio nell’era digitale: da tempo fanno ingresso nel processo penale gigantesche masse informative ed enormi flussi di dati personali, ciò che acuisce e finanche drammatizza, da un lato, il tema della tutela dei diritti individuali trascinati nelle indagini e nel processo e, dall’altro, il ritardo del sistema giudiziario a dotarsi di tecnologie e saperi, ma vorrei dire anche di una cultura delle nuove tecnologie, di cui vi è necessità impellente per governare i rischi di collisione fra le ragioni di giustizia e i beni e gli interessi, privati e istituzionali, complessivamente coinvolti;
- L’ingresso del digitale nella vita di organizzazioni e reti criminali: quando si valuta l’aggressività delle tecniche investigative, occorre tener conto anche della straordinaria vitalità delle tecniche di elusione di ogni controllo collegata alla capacità, non solo del crimine organizzato mafioso, di dotarsi di tecnologie in grado di preservarne l’impenetrabilità: piattaforme criptate e ricorso al dark web per le ordinarie comunicazioni telematiche, sofisticati sistemi di sorveglianza elettronica delle aree di interesse, ossessiva cura della segretezza di movimenti e comunicazioni dei vertici dei gruppi criminali. Giovanni Falcone, ricorderete, diceva “i mafiosi saranno avranno sempre una lunghezza di vantaggio su di noi”. Un modo semplice, ma acuto, per indicare una caratteristica costante della criminalità mafiosa: la sua capacità di agire avvalendosi di straordinarie capacità di adattamento, ma anche di conoscenza della modernità e delle sue tecnologie. La lungimiranza di quel giudizio è visibile nei dati dell’ordinaria esperienza investigativa, attraverso la visione di vere e proprie nuove componenti dei gruppi criminali, costituite da complesse funzioni di security, ossessivamente protese a prevenire ogni controllo, a controllare ogni potenziale rischio d’indagine, a proteggere e bonificare ogni luogo e dispositivo utilizzato a fini criminosi, a dotarsi di dispositivi di storage dei dati di gestione degli affari criminali e delle collegate attività di reinvestimento speculativo e riciclaggio assolutamente impenetrabili. Questa dimensione funzionale del crimine organizzato è in parte tutta interna alle organizzazioni criminali, generando nuove figure direttive e nuove leadership, e in parte si intreccia invece con l’ordinario sistema d’impresa del mondo cyber e con le stesse funzioni investigative, l’uno e le altre essendo continuamente esposte a pesante pressione corruttiva e collusiva: non vi è indagine di mafia nella quale non si registrino tracce di evidenti di ciò, ciò che in controluce rivela che la diretta penetrazione di presenze e interessi mafiosi nel concreto agire di cyber security è un rischio sempre più concreto e reale.
- La continua modificazione del panorama investigativo che si realizza quando entrano in gioco, ed è ormai regola nelle indagini appena rilevanti, le tecniche investigative impiegate in altre giurisdizioni: le piattaforme telematiche criptate: non è possibile entrare nei dettagli di questa ormai nota frontiera investigativa, ma certo i confini dei relativi campi problematici non possono essere tracciati prescindendo da ciò che avviene nei sistemi ancorati rigidamente al rule of law, a meno di optare per un impossibile isolamento internazionale e di pagare il prezzo di un arretramento della nostra capacità di contrasto dei più gravi fenomeni criminali: un tema assai delicato, dove è in gioco persino il tradizionale primato di professionalità ed efficacia dei nostri apparati di polizia, di fatto pressoché esclusi da ambiti di cooperazione che esigono la condivisione di eccezionali risorse tecnologiche e di nuovi strumenti operativi, come l’impiego a fini investigativi, pur rigidamente controllato attraverso la fissazione di rigorosi presupposti e limiti, di nuove tecniche intrusive e di quei medesimi hackers etici che anche lo Stato ha per fortuna, sia pure solo in tempi recentissimi, imparato ad utilizzare per sottoporre i propri sistemi informati a stress test necessari per saggiarne la resistenza ad attacchi interni ed esterni; oggi le indagini più importanti in materia di narcotraffico e di riciclaggio si nutrono di acquisizioni probatorie rese possibili da quadri normativi e strumenti investigativi più avanzati di quelli disponibili per la magistratura e le forze di polizia italiane. Basterebbe pensare, per apprezzare i divari normativi delle condizioni del lavoro investigativo, alle previsioni del codice di rito francese che consentono l’istallazione di un dispositivo tecnico per accedere, archiviare e trasmettere dati informatici memorizzati in un dispositivo anche attraverso il ricorso a risorse dello Stato soggette al segreto di difesa nazionale ai sensi dell’art. 706-102-1[1] e ss. del codice di procedura penale. Ma analoghe possibilità si rinvengono nelle legislazioni tedesche, olandesi e belghe, consentendo attività, ormai giunte alla violazione live di quelle piattaforme criptate, impossibili nello scenario italiano, ma essenziali per l’efficacia delle indagini in materia di criminalità organizzata e terrorismo. La necessità di avanzamento delle frontiere normative e delle capacità investigative è ancor più visibile considerando gli effetti e l’impatto complessivo di uno scenario globale segnato da conflitti armati ed ibridi, nei quali è diffuso l’impiego anche sperimentale di tecnologie aggressive dei sistemi informativi, che inevitabilmente si trasferiranno nel mercato dell’impresa, a disposizione anche delle reti criminali mafiose e terroristiche. Può sembrare una prospettiva di rischio lontana, ma così non è, se soltanto si guarda al ruolo che tipicamente quelle reti criminali da sempre giocano nelle aree segnate da profondi processi di destabilizzazione.
- Una lunga stagione di pratica subalternità cognitiva della macchina giudiziaria, ma anche degli apparati di polizia nell’impiego a fini di giustizia delle tecnologie digitali: a quelli appena accennati è collegato intimamente un ulteriore fattore di criticità, che da tempo io individuo nel determinarsi - a valle di una prolungata stagione di tacita rinuncia dello Stato ad esercitare la responsabilità di investire in tecnologie digitali e, quel che più conta, di impegnarsi nell’organizzazione e nel controllo gestionale dell’impiego a fini di giustizia di quelle sempre più raffinate tecnologie - nel determinarsi e nel persistere di una condizione, culturale prima ancora che pratico-operativa, di grave subalternità, innanzitutto cognitiva, dell’amministrazione della giustizia e, dunque, della giurisdizione e delle nostre pur straordinarie forze di polizia, rispetto alle tecnologie impiegate nelle indagini, totalmente in mani private e di regola impiegabili soltanto attraverso la mediazione tecnica di soggetti privati. Altro che le “risorse dello Stato soggette al segreto di difesa nazionale” previste dalle leggi francesi: in Italia, l’uso investigativo delle tecnologie, soprattutto di quelle più sofisticate e invasive, richiederebbe più incisive e mature policies di sicurezza effettivamente riconducibili alla responsabilità dello Stato (uso da anni, per indicare una via d’uscita, una metafora ferroviaria: i vagoni possono essere privati, ma i binari devono essere tracciati e presidiati da agenti pubblici). Il tema riguarda, volendo, anche le funzioni di intelligence e, dunque, di preservazione della sicurezza della Repubblica, dal momento che le garanzie funzionali in questo ambito delle agenzie si realizzano con le stesse tecnologie e mediante l’impiego dei medesimi fornitori utilizzati dalla giustizia penale, ai quali ultimo è dovuto affidamento, che non può essere tuttavia assoluto, come dimostrano casi emblematici, quale quello rivelato dalle indagini della Procura di Napoli sul programma Exodus, che forse già dal nome avrebbe dovuto suscitare apprensione in chi scelse di dotarsi di un software per intercettazioni telematiche con captatore informatico che operava trasferendo in chiaro su un server in Colorado del sistema di cloud di Amazon i dati captati, come tali visibili da chiunque sul web.
Dunque, il sistema esige una profonda e complessiva opera di razionalizzazione e securizzazione, che modifichi sensibilmente prassi, abitudini e comportamenti, ingenerati da una lunga stagione di pauperismo e subalternità tecnologica dell’amministrazione della giustizia e degli apparati di polizia, in grado di incidere negativamente, oltre che sull’efficacia delle indagini, anche sulla correttezza del trattamento dei dati personali e, dunque, sulla tutela della riservatezza delle persone coinvolte a vario titolo nelle indagini e nei processi.
Il Garante della protezione dei dati personali, del resto, di ciò ebbe modo di accorgersi, allorquando, nell’estate del 2013, adottò una delibera che improvvisamente aprì uno squarcio nell’allora debolissimo tessuto protettivo dei dati personali delle intercettazioni.
I Procuratori della Repubblica furono per la prima volta indicati come responsabili del trattamento dei dati personali e chiamati ad assumere iniziative rigorosamente ispirate dalla necessità di alzare, praticamente da terra, gli standard di sicurezza delle sale e delle procedure organizzative funzionali alle intercettazioni.
Fortunatamente, molto tempo è passato. Molte cose sono cambiate.
Poco dopo quella delibera, infatti, fu avviata una significativa azione di potenziamento delle misure di sicurezza dei sistemi di gestione delle intercettazioni.
Anche su tale scia, molti uffici requirenti hanno sviluppato una più avanzata cultura della sicurezza dei dati delle intercettazioni, ricercando e applicando soluzioni persino più avanzate di quelle richieste dalla legge per la corretta e sicura gestione dei dati delle intercettazioni, nella consapevolezza del ruolo di garanzia della legalità processuale nella fase delle indagini preliminari che il p.m. deve conservare e che appare francamente preoccupante che sia considerato con sufficienza e approssimazione concettuale.
Oggi questi temi sono al centro del confronto permanente che la DNA ha avviato con tutti i Procuratori distrettuali: un confronto necessario per ancorare il coordinamento investigativo a modelli organizzativi e metodologie di lavoro razionali e uniformi.
Ma molte cose devono essere ancora fatte, soprattutto per estendere le prassi virtuose a tutti gli uffici e, in particolare, anche alle Procure ordinarie dalle più piccole dimensioni, ove si concentrano maggiormente le debolezze infrastrutturali e il correlato rischio di introduzione di prassi improprie e inadeguate.
È una strada lunga quella che occorre percorrere, senza interrompere il cammino sia pure faticosamente fatto sin qui, del quale sono parte essenziale:
a) il principio posto alla base della riforma del 2017, secondo il quale, quali che siano presupposti e limiti di utilizzabilità delle intercettazioni, occorre preservare dalla conoscenza di persone diverse dai soggetti processuali la conoscenza delle intercettazioni irrilevanti a fini di giustizia e, a maggior ragione, di quelle inutilizzabili; le une e le altre devono essere definitivamente segregate e protette da ogni pubblicità;
b) per questa ragione viene introdotto uno strumento nuovo: l’Archivio riservato delle intercettazioni: come preciserò, tale strumento è, per scelta normativa, soltanto parzialmente utilizzato, ma ha grandi potenzialità, poiché consente ulteriori, grandi implementazioni delle funzioni di segregazione e controllo della corretta gestione dei dati, attraverso l’auspicabile estensione dell’obbligo del suo impiego per la gestione di attività d’indagine, che non sono stricto iure captazioni, ma che determinano l’acquisizione di masse di dati personali persino più grandi e delicate (dalle funzioni di on line search dei captatori telematici, vale a dire di ricerca file nella memoria dei dispositivi e di keylogger sino alle copie forensi dei dispositivi di comunicazione oggetto di ispezione e sequestro); ciò comporterebbe la conseguenza di estendere anche a queste attività le regole del codice che impongono una rigorosa e controllata dal giudice selezione dei dati rilevanti e utilizzabili e la definitiva segregazione di quanto il giudice ritenga irrilevante ed inutilizzabile);
c) il decreto ministeriale 20 aprile 2018, che ha introdotto disposizioni per definire i requisiti tecnici dei programmi informatici funzionali all’esecuzione delle intercettazioni mediante captatore, a partire dalla regola fondamentale che tali programmi siano elaborati ed utilizzati assicurando l’integrità, la sicurezza e l’autenticità dei dati captati su tutti i canali di trasmissione riferibili al captatore; un ambito problematico delicatissimo, ma che esige chiarezza e la preservazione del dibattito dal rischio di enfatizzazione di allarmi infondati e suscettivi di uso strumentale: è ben vero che tecnicamente è possibile elaborare e impiegare malware in grado di manipolare i dati, distruggendoli o creandoli, ma si tratterebbe (oggi come ieri, per le analoghe attività abusive astrattamente possibili nell’epoca dell’analogico e dei verbali cartacei) di attività illegali, sanzionate penalmente in modo severo, potendo di volta in volta integrare, a seconda dei casi, i delitti di depistaggio, di intercettazione illegale, di accesso abusivo a sistemi informatici e telematici, di frode in pubbliche forniture, di calunnia, di falso materiale o ideologico in atti pubblici, di favoreggiamento. Il richiamo a queste gravi ipotesi delittuose vale a rendere chiaro che gli abusi in questo campo non sono senza prezzo: la vicenda Exodus, già richiamata nelle audizioni che hanno preceduto la mia, sta lì a dimostrarlo, se, dopo aver segnalato le relative pratiche abusive, si tiene a mente che si tratta di abusi individuati dalla magistratura, che ha proceduto immediatamente nei confronti dei responsabili della società che gestiva quel software illegale per le intercettazioni mediante captatore informatico, che peraltro è risultato nella disponibilità anche delle agenzie di intelligence. Un dato che segnalo soltanto per indicare che i rischi collegati alla dipendenza cognitiva dello Stato dalle tecnologie private hanno dimensione più ampia di quella data dalla visione delle intercettazioni giudiziarie, ma anche per sottolineare che lo Stato e la magistratura non assistono inermi alla consumazione di abusi e delitti in danno dell’amministrazione della giustizia e delle libertà dei cittadini. Come è avvenuto anche quando è stata denunciata, a margine di una famosa vicenda processuale, tutt’ora in corso, la possibilità che ci fosse stato un illecito uso dei dispositivi di memorizzazione dei dati trasmessi da un captatore informatico: in questo caso, escludendosi, allo stato delle mie conoscenze, la fondatezza di quelle allarmanti ipotesi, sulla base di immediati e approfonditi accertamenti, svolti in contraddittorio con le parti private, affidati congiuntamente da tre procure della Repubblica agli specialisti del C.N.A.I.P.I.C. della Polizia postale e delle comunicazioni.
d) Al decreto del 2018 avrebbe dovuto accompagnarsi un altro, volto all’istituzione di un Tavolo tecnico presso il Ministero della giustizia per il monitoraggio del sistema delle prestazioni obbligatorie, intervenuto soltanto pochi giorni fa; il Tavolo tecnico è uno strumento essenziale per presidiare le funzioni di controllo pubblico sui rischi correlati all’impiego di tecnologie sempre più invasive; per di più uno strumento flessibile, che consente anche la partecipazione di rappresentanti di culture e interessi diversi, dall’accademia al mondo dell’impresa; un altro passo importante che potrà dare frutti importanti, attraverso un lavoro collegiale al quale sono chiamati a partecipare anche il Procuratore generale della Cassazione e il Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, ma al quale è prevista e auspicabile la partecipazione anche di altri Uffici giudiziari.
e) Come si accennava, il nuovo decreto sulle tariffe delle prestazioni funzionali all’esecuzione delle intercettazioni, per quanto adottato faticosamente e con non poche traversie del suo cammino, è infine giunto al traguardo, ponendosi come importante strumento di garanzia: non solo dell’uniformità e dell’economicità delle relative spese, ma dell’interesse generale a definire e a rendere uniforme un profilo identitario dei fornitori e delle tecnologie impiegate, secondo principi di trasparenza, affidabilità tecnologica e organizzativa, correttezza del trattamento dei dati personali, integrità e sicurezza dei dati e tracciabilità di ogni attività che li riguardi; anche in questo caso, l’esperienza delle Procure che si erano già dotate di standard di sicurezza assai elevati ha molto contribuito a definire i contenuti del decreto, come può agevolmente rilevarsi, confrontando le misure organizzative che il decreto oggi rende obbligatorie per tutti ai provvedimenti organizzativi già adottati, fra le altre, dalle Procure di Napoli, Torino e Milano.
f) Nella sua premessa, il decreto 18.10.2022 reca finalmente la prima, pur debolissima, traccia normativa di un altro, essenziale passaggio evolutivo dei sistemi di intercettazione: “occorre proseguire nella razionalizzazione tecnica ed organizzativa dei sistemi di intercettazione, avente quale obiettivo finale la realizzazione di cinque data center nazionali, e che tale processo deve essere accompagnato da una revisione sistematica dei metodi di programmazione delle spesa relativa”: a questo obiettivo si lega la responsabilità, anche politica, di realizzare urgentemente il consolidamento delle attuali 140 sale server (attraverso la creazione di poche sale interdistrettuali, governate da architetture digitali e logiche di gestione direttamente definite e controllate dal Ministero, ovviamente nella cornice data dal perimetro nazionale della cybersicurezza): si tratta di un progetto a lungo rimandato, benché ricompreso sin dal 4 aprile 2017, dal Piano decennale di finanziamenti per gli investimenti nel settore delle infrastrutture digitali dell’amministrazione giudiziaria che nasceva dallo sforzo di ripensare l’intera architettura dei sistemi di intercettazione alla luce delle indicazioni date dal Garante nazionale della privacy nel 2013; è del tutto evidente, infatti, che 140 sale server, per di più gestite secondo modelli differenziati, offrivano e tuttora offrono garanzie solo apparenti ai temi della sicurezza, essendo costituite da macchine e algoritmi gestiti da privati, la conoscenza e l’uso dei quali avviene soltanto attraverso la mediazione dell’impresa privata. Il consolidamento delle infrastrutture è un passaggio essenziale e una scelta non più eludibile o rinviabile, sulla quale da tempo convergono le sensibilità maturate fra le procure distrettuali. Da questo passaggio, apparentemente pratico, dipende invece l’equilibrio complessivo del sistema e nessuna scelta normativa, anche oggi, potrebbe vantare credibilità prescindendo dalla sua realizzazione. Non solo: la mancata realizzazione di quel progetto consentirebbe di chiudere agevolmente la procedura di infrazione, per violazione delle regole sull’evidenza pubblica europea nelle procedure di affidamento dei servizi funzionali alle intercettazioni, da tempo pendente nei confronti dell’Italia. Io credo che il Parlamento possa far molto anche vigilando sulla tempestività dei processi organizzativi necessari alla coerente attuazione delle leggi adottate e dettando per essi direttive e cadenze rigorose.
g) Lo stato dei processi di digitalizzazione e la gestione dell’Archivio delle Intercettazioni: questo fondamentale strumento di segregazione delle intercettazioni inutilizzabili o non rilevanti a fini di giustizia ha dimostrato di funzionare: anzi, come già detto, deve estendersene l’impiego al complesso dei dati personali afferenti alle comunicazioni che cadono nell’orbita delle investigazioni (da quelli acquisiti con il captatore con funzioni on line search alle copie forensi di dispositivi oggetto di ispezione, perquisizione e sequestro, sino ai servizi di videosorveglianza o di localizzazione con GPS, talvolta non meno invasivi delle intercettazioni), che invece oggi, di regola, con l’esercizio dell’azione penale sono assoggettati al regime di pubblicità proprio della fase del giudizio. Ma già attualmente il sistema, da tutti apprezzato, rivela criticità: di capienza, per insufficienza delle architetture di storage, di sicurezza, per la perdurante assenza di sistemi di monitoraggio degli accessi, delle operazioni e degli interventi sui server delle imprese fornitrici dei servizi (il software sperimentato a Milano e Napoli dal Ministero, il cd. Bomgar, sembra essere stato accantonato, per ragioni non chiare: forse, perché lento e inadeguato, ma, forse, anche per la resistenza opposta dalle società del settore all’introduzione di controlli sulle fonti e le tecniche di inserimento dei dati), ma soprattutto pensato solo per la gestione del procedimento in corso, mancando ancora una regola temporale per la conservazione dei dati, di fatto imponendosi quella del sine die. Sono criticità che dovrebbero costituire oggetto di prioritaria considerazione politica e gestionale, salvo a voler rendere ancora una volta omaggio alla tradizionale indifferenza delle politiche della giustizia ai temi posti dalle tecnologie e dalla loro gestione, che hanno invece grande e silenzioso impatto sulla sorte dei diritti delle persone.
Soprattutto, molto può il Parlamento fare per l’avanzamento degli equilibri del rapporto fra esigenze delle indagini e diritti della persona: perché vi è bisogno di un deciso avanzamento di quegli equilibri, attraverso la previsione di nuove e più elevate garanzie individuali e della funzione difensiva.
Ma non vi è bisogno alcuno di indebolire senza ragione la capacità di risposta repressiva di gravi fenomeni criminali, perché ciò determinerebbe prezzi elevati da pagare e inevitabili, nuove e inconcludenti oscillazioni del pendolo legislativo.
Vi sono, dunque rilevanti e anche gravi deficit normativi che aggravano le tensioni sul complesso rapporto fra segretezza delle indagini (e dei contenuti e della stessa esistenza delle intercettazioni, in particolare) ed effettività del diritto di difesa e della libertà di informazione: sono profili bisognevoli di urgente intervento, possibile senza indebolire l’efficacia delle indagini.
Alcuni di tali profili sono da sempre sulla sfondo, ma vanno comunque indicati, per non sottacere i pericoli che si profilano quando se ne oscura il rilievo:
a) l’ipocrita distinzione fra atto segreto e atto non più segreto, ma non pubblicabile: un tema che la dottrina liberale più autorevole addita da sempre come primo fattore di credibilità del sistema (basta rimandare agli scritti di Glauco Giostra e Francesco Palazzo e di tanti altri eminenti studiosi): un sistema razionale esigerebbe che ciò che sia segreto sia effettivamente tutelato e preservato come tale e ciò che segreto più non è possa essere pubblicato; la riforma del 2017 va in questa direzione, prevedendo, da un lato, la definitiva segregazione di ciò che non è utilizzabile e rilevanti a fini di giustizia e, dall’altro, la pubblicabilità delle ordinanze cautelari, salvo che nella parte riferita ai contenuti delle intercettazioni: una strada giusta, ma non interamente percorsa; peraltro, la disciplina transitoria, pur ragionevole, di fatto ha rallentato e persino ostacolato la stessa visione dell’importanza degli effetti pratici conseguenti alla riforma;
b) la mancanza di una formale ed espressa previsione normativa sull’accesso degli organi di informazione agli atti non segreti esclusivamente mediante la procedura formale dell’art. 116 c.p.p.: non è la panacea di ogni male, ma l’esperienza dimostra che, dove si applica quella procedura, si sopiscono le tensioni e si annullano quasi i rischi propri del sistema di scambi immorali denunciato da anni dal giornalismo più attento e colto; sancire espressamente la legittimità di quell’interpretazione, che fortunatamente va estendendosi, varrebbe a consolidare e diffondere modelli più avanzati, in linea con l’idea fondamentale che vuole le democrazie fondate sui principi di indipendenza della funzione giudiziaria e di libertà di informazione.
Ma altre questioni sembrano estranee al dibattito pubblico e sono a mio avviso, invece, straordinariamente rilevanti nella prospettiva del potenziamento delle garanzie difensive e del contenimento del rischio di abusi.
Ed è di questi ultimi profili che, a mio sommesso avviso, occorre la più urgente valutazione del legislatore.
Li indico assai sommariamente, ma spero con sufficiente chiarezza, atteso il rilievo cruciale dei relativi passaggi normativi.
1) Vi è un evidente ritardo normativo nel prendere atto della profonda necessità di innalzamento delle garanzie legali collegate alla tutela dei dati personali che confluiscono nei sistemi digitali: un ritardo evidente, direttamente collegato al da tempo sopravvenuto rilievo eccezionale dei dati personali diversi da quelli oggetto della tradizionale captazione delle comunicazioni: ma tale da imporre, come è stato detto, “la formulazione di un nuovo apparato normativo dagli orizzonti più vasti” (Marafioti, 2023). La stessa nozione codicistica di “intercettazione”, intesa quale captazione clandestina dei flussi di comunicazione in atto fra due soggetti, entra in crisi nell’era digitale, non valendo ad abbracciare e disciplinare unitariamente fenomeni diversi, ma caratterizzati comunemente dalla sottrazione alla sfera di privatezza delle persone di dati di straordinario rilievo giuridico e sociale. È questo un punto cruciale per cogliere la radice di tensioni che la giurisprudenza mostra di non saper risolvere e che probabilmente non può risolvere, come dimostra la sofferenza visibile nell’impiego delle tradizionali categorie del documento e della corrispondenza per individuare la cornice normativa di attività invasive per le quali si rivela la necessità di rafforzamento delle garanzie individuali. Una sofferenza ancor più grande, perché palesemente sostenuta dalla consapevolezza che soltanto il legislatore può definire il punto di equilibrio fra efficienza delle indagini e tutela della riservatezza e delle altre libertà fondamentali; è forse giunto il momento di riconoscere che vi è un deficit di effettività del principio di legalità processuale e delle correlate garanzie difensive che può essere colmato senza pregiudizio per le esigenze di accertamento dei reati più gravi e in coerenza con l’intervento legislativo del 2017; mi riferisco alle possibilità di acquisizione occulta di chat pregresse e comunque di contenuti dei dispositivi di comunicazione telematica mediante captatore in funzione on line search o alle possibilità di ispezione, perquisizione e sequestro di archivi informatici, quali quelli contenuti anche in un semplice smartphone, derivanti dall’inquadramento giurisprudenziale di queste attività come attività “atipiche” di ricerca della prova: è giunto il momento, di “valorizzare, nel settore delle indagini digitali, il principio di proporzionalità quale parametro di legittimità per le attività investigative” (Marafioti, 2023), ciò che oggi non è, se, come sovente accade, è dato sequestrare uno smartphone o altro dispositivo analogo con provvedimento adottabile procedendo per qualsivoglia reato: in ipotesi, anche per semplici contravvenzioni ovvero comunque per delitti di scarsa gravità. In pratica, si tratta di innalzare il valore del principio di libertà di comunicazione prevedendo l’intervento del Giudice e l’introduzione di rigorose condizioni di proporzionalità ed adeguatezza dell’agire investigativo, così legando l’esercizio del potere di acquisizione dei dati personali a rigidi presupposti, definiti da adeguati limiti edittali e da altre tassative specificazioni e, non ultimo, a più rigorosi e perciò controllabili oneri motivazionali; soprattutto, è necessario prevedere che i dati siano trattati come quelli delle intercettazioni, confluendo nell’Archivio delle Intercettazioni: soltanto così i dati irrilevanti a fini di giustizia potranno restare segregati e sfuggire ad ogni diffusione sterminatrice della reputazione, dell’onore e della vita delle persone.
2) Vi sono altri temi di complessità e delicatezza tali da imporre la necessità d un intervento immediato del legislatore e per tale via limitare la discrezionalità giudiziaria correlata a clausole generali che abbisognano di essere sostituite da rigorose e tassative prescrizioni legali: in generale, è istituzionalmente pericoloso che tali temi siano affidati al giudice al di fuori di una rigorosamente delimitata griglia normativa: non solo per la precarietà e la possibile difformità delle pronunce, ma perché, valendo ogni revirement o comunque nuovo indirizzo interpretativo a creare instabilità e pratica crisi della prevedibilità e della stessa comprensibilità della giurisdizione, si introduce ogni volta il rischio di travolgimento di esiti processuali non definitivi, ma legittimamente formati su indirizzi della giurisprudenza di legittimità tanto consolidati da costituire diritto vivente: i rischi più alti li vedo per le stesse indagini di mafia e di terrorismo in relazione alle oscillazioni giurisprudenziali che ormai segnano, nonostante plurimi interventi delle Sezioni Unite della Cassazione, l’interpretazione del concetto di “criminalità organizzata” di cui all’art. 13 del d.l. 152/1991, sul quale posano i pilastri di un regime differenziato delle intercettazioni per i delitti di mafia e terrorismo che mi pare che nessuno possa contestare nella sua perdurante necessità e nella sua stessa giustificazione razionale; bene, dinanzi a pronunce, per quanto isolate, che, stravolgendo gli indirizzi dati dalle Sezioni Unite, affermano che sarebbero delitti di criminalità organizzata soltanto quelli associativi, così giungendo alla conclusione, contraria persino al senso comune, che un omicidio di mafia non sarebbe un delitto di criminalità organizzata; si staglia così tutta la responsabilità politica del legislatore di definire esattamente i contorni e i limiti di tale nozione: al vantaggio della chiarezza delle scelte politiche si assocerà quello della salvaguardia delle vicende processuali in corso; è questo un tema che attualmente agisce come fattore di destabilizzazione di tutte le indagini e di tutti i processi di mafia non ancora giunti alla definitiva conclusione, anche con riferimento all’analoga clausola legale che definisce l’ambito di applicazione della disciplina della sospensione feriale dei termini processuali: al momento, tale tema ha formato oggetto di una mia preoccupata missiva diretta al Procuratore generale della Corte di Cassazione, nella quale ho potuto esprimere soltanto, in uno all’allarme condiviso dai Procuratori distrettuali, l’auspicio di un urgente, nuovo intervento delle Sezioni Unite. Ma, intanto, ancora nei giorni scorsi, cadono nel nulla processi costruiti pazientemente sulla base di orientamenti dalla giurisprudenza di legittimità della stabilità dei quali sembrava potersi confidare.
3) Naturalmente, al piano dell’innalzamento delle garanzie attiene anche la questione della ulteriore delimitazione dell’impiego di alcune delle tecniche di indagine più invasive, come quelle legate all’impiego a fini di captazione del cd. trojan, vale a dire le intercettazioni telematiche mediante captatore informatico; si tratta di un tema sul quale il mio Ufficio è pronto ad offrire ogni doveroso e opportuno contributo informativo, ma che di per sé è oggetto di una responsabilità tipicamente politica, come tale esclusiva del legislatore e delle forze politiche che concorrono a determinarne l’esercizio. Quale Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, tuttavia, avverto la responsabilità di porre a disposizione delle valutazioni del Parlamento i dati di una ormai vasta e consolidata esperienza, i quali dimostrano, senza tema di smentita, che l’efficacia reale dell’azione di contrasto della criminalità mafiosa dipende largamente dalla capacità di proiettare le indagini sui versanti nei quali operano le sue componenti più sofisticate e pericolose, perché deputate ai processi di reinvestimento speculativo, di condizionamento delle pubbliche amministrazioni (basta al riguardo riferirsi alle valutazioni governative che sono state alla base dello scioglimento degli organi elettivi di amministrazioni anche di grande importanza sociale) e di penetrazione profonda dei mercati d’impresa, a partire da quelli sui quali si riversano i maggiori flussi della spesa pubblica. Tali processi sono affidati non a uomini con la coppola sul capo e la lupara in spalla, ma al linguaggio, largamente praticato dal mercato e nel mercato, della frode fiscale e, soprattutto, della corruzione. Molte ed anche importanti indagini di mafia, soprattutto, ma non solo, nelle regioni centro-settentrionali, sono originate da indagini avviate sul fronte del contrasto della corruzione e delle frodi fiscali; escluderle dal novero di quelle per le quali quelle tecniche investigative sono consentite sarebbe dunque scelta legittima, ma destinata ad avere conseguenze pesantissime, non solo sul versante del contrasto della corruzione, ma anche sul terreno delle indagini di mafia. Come pure appartiene alla responsabilità esclusiva del legislatore la scelta del tempo di tale eventuale scelta, coincidente con l’attuazione di processi di spesa pubblica finanziati con risorse euro-unitarie, generate, almeno in parte, dalla tassazione di cittadini ed imprese di altri Paesi dell’Unione Europa, per presidiare l’uso delle quali l’Unione agisce anche in ambito investigativo e giudiziario attraverso l’Ufficio del Procuratore Europeo. Non spetta ad un magistrato pronunciarsi al riguardo, ma vorrei, anche in questa autorevolissima sede, ricordare le parole pronunciate dal Presidente Draghi nella sala dedicata a Giovanni Falcone della DNA nel settembre scorso, invitandoci a considerare quale disastroso effetto avrebbe sulla credibilità dell’Italia la mera diffusione della percezione che una significativa parte di quelle risorse possano finire nelle mani delle mafie e nei mille rivoli di fenomeni corruttivi che certo non sono estranei alla spiegazione del dato statistico che rivela che il 70 per cento delle opere pubbliche incompiute si trovano nelle regioni meridionali. In ogni caso, vale forse la pena di sottolineare che nel 2019 non si realizzò l’introduzione dell’uso del trojan per i delitti contro la p.a., già consentito dalla riforma del 2017 per tutti i delitti che consentono il ricorso alle intercettazioni, ma soltanto l’equiparazione dei delitti di corruzione et similia ai delitti di criminalità organizzata e terrorismo ai limitati fini, oltre che dell’estensione degli ambiti di privata dimora considerati prescindendo dal loro utilizzo a fini criminosi, dell’esclusione dell’obbligo del Giudice di indicare, all’atto dell’autorizzazione, non soltanto le ragioni che rendono necessaria quella invasiva modalità di captazione, ma anche “i luoghi e il tempo, anche indirettamente determinati, in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono” (art. 267, comma 1, c.p.p.): una clausola che nell’esperienza pratica si risolve nella pretesa di esercizi di chiromanzia che contrastano con la realtà delle investigazioni e la stessa possibilità di predisporre dettagliati piani previsionali e nella conseguente generazione di controversie e polemiche intorno ai limiti di quelle predizioni, tanto più considerando che, dopo tutto, quando si ricorre al captatore, lo si fa partendo dal dimostrato presupposto che non sia dato individuare preventivamente i luoghi e i tempi di una determinata condotta. Ma conviene ricordare, poiché nel dibattito pubblico sembra affacciarsi l’idea che le intercettazioni siano disposte ad ogni passo di un qualsiasi pubblico ufficiale, che per i delitti di criminalità organizzata soltanto la soglia di accesso a queste tecniche di intercettazione è data dalla sussistenza di sufficienti indizi, per tutti gli altri casi, compresi quelli in tema di corruzione, essendo invece necessaria la dimostrazione dell’esistenza di gravi indizi di reità.
4) Le ragioni di rivisitazione normativa non si esauriscono lungo quei pur fondamentali tracciati argomentativi: vi è una grave ed evidente carenza di garanzia legale di fondamentali istanze di rafforzata tutela della segretezza dei contenuti delle intercettazioni nelle prassi operative: in alcuni uffici esistono già disposizioni organizzative e direttive alla polizia giudiziaria che impongono, ad esempio, di attestare la distruzione di ogni copia di lavoro di file audio e trascrizioni una volta scaduto il termine dato dalla legge per procedere all’elaborazione investigativa del materiale raccolto ovvero anche il divieto di inserire nei data base delle forze di polizia i contenuti delle intercettazioni prima e indipendentemente dalla cristallizzazione del materiale utilizzabile e rilevante da quello che tale non è che si realizza al momento dell’esercizio dell’azione cautelare o della richiesta di giudizio, ovvero ancora il dovere di traduttori, interpreti e consulenti trascrittori di attestare di non conservare alcuna copia dei dati cui hanno avuto accesso per ragioni del loro ufficio di ausiliari; sono scelte rivelatesi importanti nella prevenzione degli abusi del passato, ma che sarebbe necessario elevare di rango precettivo, assicurandone l’uniforme applicazione. Va, in altri termini, sancita la necessità di ancoraggio a precisi canoni normativi del trattamento di informazioni e dati così delicati: ad esempio, prevedendo un divieto generale di conservazione da parte di chiunque vi abbia avuto accesso di dati diversi da quelli che possono legittimamente ritenersi rilevanti e utilizzabili; una materia delicata, che non consente però il trascinamento di prassi insensibili alle istanze di tracciabilità e controllo delle attività investigative che hanno a che fare con dati segreti, a cominciare dall’impiego di tecniche codificate di raccolta e conservazione di atti e documenti informatici; i dati segreti vanno trattati come tali, soprattutto se si prevede che quelli non rilevanti a fini di giustizia, ma intanto acquisiti agli atti, sia destinati restare tali: il loro trattamento esige dunque precise garanzie di trattamento, conservazione e tracciabilità; si tratta di un aspetto importante, che vale a rimarcare con nettezza la distinzione fra la libertà di informazione, che può giungere persino oltre il confine del segreto, e il dovere dei pubblici ufficiali di preservare il segreto, osservando regole e protocolli assai più rigidi di quelli oggi praticati.
5) È parimenti necessario, al medesimo fine, che una norma legale imponga all’amministrazione della giustizia di assicurare la tracciabilità di tutti gli interventi, anche di mero accesso, ai dati delle intercettazioni conservati nell’Archivio delle intercettazioni: scelta tanto più necessaria fino a quando le infrastrutture fondamentali - le sale server - non saranno consolidate e trasferite nella sfera di controllo dello Stato: le tecnologie consentono già ora di farlo, con riferimento ai server privati dei fornitori collegati all’A.D.I., ma, in mancanza di una prescrizione legislativa che ne faccia una priorità, il dispiegamento dei software a ciò necessari finisce inevitabilmente in coda alla lista delle cose da fare delle strutture ministeriali; ma è cosa che non tollera approssimazioni e ritardi, come quelli già sopra indicati; tocca al Ministero colmare al più presto il vuoto di iniziative su questo decisivo terreno, ma il Parlamento può aiutare il Ministro e il Ministero a realizzare questo passaggio, prescrivendone la doverosità e dettandone i tempi.
6) La tensione sui profili di sicurezza collettiva e della stessa funzione di sicurezza della Repubblica, che pure si avvale dei medesimi servizi, conseguente alla continua tensione dei nuovi prodotti e delle nuove strategie commerciali con i principi alla base della definizione normativa di prestazioni obbligatorie da assicurare a fini di giustizia e di sicurezza: materia delicatissima, come ovvio. Ma segnata da due distinte e fra loro concorrenti urgenze di regolazione legislativa:
a) la prima è generata dalla decisione della Grande Sezione della Corte UE del 20 settembre 2022, in materia di presupposti e condizioni di conservazione dei dati di traffico telefonico e telematico. L’interpretazione della Corte integra la disciplina data dalla Direttiva 58/2002, relativa alla vita privata e alle comunicazioni elettroniche, distinguendo le possibilità di conservazione dei dati che nei sistemi nazionali possono essere introdotte con provvedimenti normativi, a seconda della natura e del diverso valore degli obiettivi delle misure legislative. La Corte costruisce quindi una gerarchia delle esigenze che possono giustificare una conservazione ampia dei metadati delle comunicazioni (quelli cioè destinati a confluire nei cd. tabulati, che altra decisione della Corte UE ha imposto di riservare al Giudice), a seconda che si tratti di “salvaguardia della sicurezza nazionale” ovvero di esigenze di “prevenzione, ricerca, accertamento e perseguimento dei reati e… della sicurezza pubblica”: nel primo caso soltanto, in forza di un necessario principio di proporzionalità, sarebbe possibile introdurre o conservare un obbligo di conservazione generalizzato e indiscriminato di quei metadati. Questa la decisione, ma l’adattamento normativo nel sistema italiano non può non tener conto del fatto che criminalità mafiosa e terroristica partecipano a pieno titolo alla definizione di minacce alla sicurezza nazionale; lo comprova, oltre alla constatazione della realtà derivante dalla storia recente del nostro Paese, la circostanza che criminalità organizzata e terrorismo sono anche, secondo la legge italiana (e sin dal d.l. 345/1991), minacce alla sicurezza della Repubblica, come tali corrispondenti a specifiche finalità preventiva delle agenzie di intelligence; appare cruciale, dunque, nel valutare l’impatto della giurisprudenza della Corte di Lussemburgo, tenere al riparo il contrasto della criminalità organizzata e del terrorismo, da una ridefinizione degli obblighi di conservazione che varrebbe a minare la sicurezza nazionale, tanto più nel momento nel quale la pericolosità del crimine organizzato mafioso e del terrorismo si salda alle spinte minacciose che su questi versanti muovono dai teatri di guerra e di destabilizzazione;
b) secondo punto: ogni giorno entrano in gioco software e tecniche commerciali che rischiano di vanificare o ostacolare seriamente quella finalità di prevenzione, tanto della sicurezza nazionale che della sicurezza pubblica e della correlata esigenza di prevenzione e perseguimento dei reati: la riservatezza è giustamente un atout commerciale ed anche dunque un fattore di concorrenza, ma gli obblighi in tema di prestazioni obbligatorie valgono a costruire una cornice di compatibilità con i valori della sicurezza: ogni volta si produce la necessità di una verifica tecnica attenta: un settore questo nel quale la DNA, con l’essenziale partecipazione dei servizi centrali di polizia, agisce come interlocutore naturale tanto delle imprese quanto dei ministeri interessati, ma del quale sarebbe necessario un coordinamento costante e unitario, che non può che essere della Presidenza del Consiglio dei Ministri, le attribuzioni della quale sono peraltro direttamente coinvolte, sia dal punto di vista del ruolo della nuova Agenzia per la cybersicurezza sia da quello delle prerogative del sistema di intelligence che per le sue attività ricorre alle medesime tecnologie: un tema urgente anche questo, non solo nella prospettiva della riscrittura già in corso di molte delle norme del codice delle telecomunicazioni, ma anche e soprattutto in quella del raccordo operativo di funzioni statuali di amministrazione attiva che ancora sfuggono alla logica propria soltanto di una visione unitaria ed organica di una così delicata materia.
[1] L’articolo 706-102-1 del codice di proc.pen., nella sua formulazione risultante dalla legge 23 marzo 2019, dispone: "Si può ricorrere all'attuazione di un dispositivo tecnico il cui scopo, senza il consenso degli interessati, è quello di accedere, ovunque, a dati informatici, di registrarli, archiviarli e trasmetterli, in quanto conservati in un sistema informatico, come vengono visualizzati su uno schermo dall'utente di un sistema automatizzato di elaborazione dati, poiché li introduce inserendo dei caratteri o mentre vengono ricevuti e inviati dalle periferiche.
“Il pubblico ministero o il giudice istruttore può designare qualsiasi persona fisica o giuridica autorizzata ed iscritta in uno degli elenchi previsti dall'articolo 157, al fine di compiere le operazioni tecniche che consentano la realizzazione del dispositivo tecnico di cui al primo comma di questo articolo. Il Pubblico Ministero o il Giudice Istruttore possono altresì prescrivere l'utilizzo di risorse dello Stato soggette al segreto di difesa nazionale nelle forme previste dal Capo I del Titolo IV del Libro I”.
Regionalismo differenziato e divari di cittadinanza nelle più recenti proposte di riforma*
di Francesco Manganaro
Sommario: 1. La crisi del regionalismo italiano - 2. Le incertezze interpretative sull’autonomia differenziata - 3. I disegni di legge Calderoli e le connesse disposizioni della legge di bilancio - 4. Le materie oggetto dell’autonomia differenziata.
1. La crisi del regionalismo italiano
Il disegno di legge proposto dal Ministro Calderoli a dicembre e quello appena emanato hanno riaperto il tema del regionalismo differenziato, rimasto silente durante il periodo pandemico
Mi sembra necessario, per affrontare una questione così delicata, almeno accennare al contesto in cui si pone tale vicenda, soprattutto richiamando, seppure assai brevemente, quale sia l’attuale ruolo delle Regioni nel complessivo contesto istituzionale.
Non vi è dubbio che la scelta del Costituente di creare le Regioni avesse come scopo di individuare un livello legislativo sui territori, che consentisse di differenziare le scelte normative generali del Parlamento nazionale. E’ altrettanto scontato che il Costituente volesse attribuire alle Regioni una funzione legislativa, che avrebbe dovuto essere attuata attraverso le attività amministrative degli enti locali (art. 118 Cost. vecchio testo).
Questa originaria idea ha subito una profonda metamorfosi, innanzitutto per la tardiva costituzione delle Regioni e l’ancora più tardiva attribuzione delle funzioni, ma anche perché le Regioni, con la creazione di enti di amministrazione sub-regionali, hanno accorpato alla funzione legislativa quella amministrativa, così sottraendola agli enti territoriali. Tanto è vero che la dottrina più recente in materia di regionalismo non esita a produrre un ampio manuale di diritto regionale che conferma fin dal suo titolo il mutamento genetico delle Regioni[1], nonché la totale distonia di un sistema autonomistico che avrebbe dovuto svilupparsi attraverso un coordinamento tra Regioni ed enti locali.
La distorsione del regionalismo italiano è confermata dalla dottrina che più ampiamente si è occupata del tema. Si è parlato di Regioni senza regionalismo[2], di un regionalismo senza modello[3] e si è criticamente osservato che l’autonomia regionale sia stata utilizzata in maniera congiunturale[4] secondo gli interessi del sistema politico[5].
È in questo quadro che il costituente del 2001, nell’ambito di un processo autonomistico di de-statalizzazione, secondo quanto previsto dall’art. 5 Cost., introduce una specifica disposizione sul regionalismo differenziato (art. 116, c. 3 Cost.) il cui contenuto comporta non solo problemi interpretativi, ma anche l’esplicita previsione che si debba tener conto degli equilibri finanziari previsti dall’art. 119 Cost., poiché quanto più aumenta l’asimmetria tanto più deve crescere la solidarietà.
Bisogna, perciò, valutare il regionalismo differenziato in un’ottica che riduca e non aumenti i divari di cittadinanza[6], come ci ricorda ampiamente il PNRR, che pone questo obiettivo come una delle tre priorità trasversali alle sei Missioni, secondo un principio di coesione sociale, economica e territoriale[7], previsto dal Next Generation EU, ai sensi degli artt. 174 e 175 del TFUE. Un principio ribadito di recente nell’autorevole intervento del Presidente della Repubblica che, nel discorso di fine anno, ha ricordato con significative espressioni che le differenze legate a fattori sociali, economici, organizzativi, sanitari tra i diversi territori del nostro Paese <<feriscono il diritto all’eguaglianza>>.
2. Le incertezze interpretative sull’autonomia differenziata
Quanto al contenuto normativo dell’art. 116, c. 3 si è sviluppato un ampio dibattito, già dal momento dei decreti legislativi attuativi del federalismo fiscale introdotto dalla legge 42/2009, ma soprattutto negli anni 2017-2020 quando alcune Regioni (Emilia – Romagna, Lombardia e Veneto) hanno chiesto l’attuazione del regionalismo differenziato,
Innanzitutto, la norma costituzionale prevede che alle Regioni a Statuto ordinario possano essere attribuite <<ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia>> nelle materie ivi indicate. Ora, tale formula non significa necessariamente che debbano essere assegnate maggiori potestà legislative, ma potrebbe ben significare un ampliamento delle funzioni amministrative delle Regioni nelle materie oggetto di legislazione concorrente, un’iniziativa che ben potrebbe essere attuata utilizzando l’art. 118 Cost.[8].
Rimasta minoritaria tale ipotesi, la questione si è spostata su un altro versante, quello relativo agli atti necessari per trasferire le funzioni legislative. Innanzitutto, la previsione di stipulare singole intese con ogni Regione crea non solo un’asimmetria nell’asimmetria, ma configura un’autonomia regionale fuori da ogni contesto istituzionale complessivo, quasi che l’autonomia differenziata sia un fatto che attenga al rapporto di una Regione con lo Stato, senza alcun quadro generale di riferimento, valido per tutte le Regioni[9]. Le iniziative già assunte dalle Regioni dal 2017 in poi dimostrano palesemente quanto sia errato un rapporto face to face tra Stato e singole Regioni, per la totale difformità delle richieste. Come è noto, infatti, alcune Regioni hanno chiesto, in un primo momento, l’attribuzione di tutte le ventitre materie comprese nel comma 3 dell’art. 116 Cost., mentre altre hanno fatto scelte diverse.
Si è osservato, a questo proposito, che ove tutte le Regioni chiedessero, come sarebbe in teoria possibile, tutte le materie si incorrerebbe in una grave violazione della Costituzione, in quanto verrebbe svuotato l’ambito della legislazione concorrente previsto dall’art. 117 Cost. Per prevenire tale evento, parte della dottrina ha proposto di introdurre una legge – quadro nazionale che regolamenti in modo unitario i principi dell’autonomia differenziata[10].
L’altra grande questione è proprio il ruolo del Parlamento nel procedimento autonomistico, visto che non è chiaro se esso possa o meno modificare l’intesa concordata tra Governo e Regione.
Si noti, a margine dell’ampia discussione avvenuta in dottrina, che la norma costituzionale è stata implicitamente superata per le modifiche istituzionali sopravvenute, poiché quando il Costituente aveva previsto l’approvazione dell’intesa con la maggioranza assoluta dei parlamentari intendeva coinvolgere anche la minoranza parlamentare, ma non poteva prevedere l’avvenuta riduzione del numero dei parlamentari e la possibilità di una maggioranza assoluta in capo ad un solo partito o ad una sola coalizione.
Ma, a parte questo profilo, il punto più controverso attiene alla possibilità che il Parlamento possa emendare l’intesa e sulle eventuali conseguenze successive. La dottrina del tutto maggioritaria considera necessario un passaggio parlamentare senza alcun vincolo circa l’emendabilità, mentre sul punto la prima bozza Calderoli prevedeva, prima della sottoscrizione dell’intesa, un parere della Commissione per le questioni regionali, anche acquisibile tacitamente (art. 2, commi 4-5). Il nuovo testo introduce alcune modifiche che non cambiano il senso complessivo dell’iter previsto: si prevede che il parere venga dato dai <<competenti organi parlamentari>> nel termine di sessanta giorni, mentre rimane la possibilità che il procedimento prosegua, trascorso il termine indicato.
L’intesa definitiva già sottoscritta dal Presidente del Consiglio dei ministri e dal Presidente della Giunta regionale, va inviata alle Camere come allegato di un disegno di legge per <<l’approvazione>> (prima bozza), oggi per la <<deliberazione>> (art. 2, c. 8). Anche così scritta la novella non chiarisce se il Parlamento possa emendare la bozza di intesa già sottoscritta e quali siano le conseguenze di queste eventuali modificazioni.
3. I disegni di legge Calderoli e le connesse disposizioni della legge di bilancio
Ma veniamo al tema più specificamente assegnatomi, cioè gli ultimi interventi normativi concretizzatosi nei disegni di legge Calderoli e nelle connesse disposizioni contenute nella legge di bilancio 2023[11].
Il disegno di legge si concentra sulla necessità di stabilire i livelli essenziali delle prestazioni[12] prima di poter procedere all’attuazione delle intese con la Regione, attuative del regionalismo differenziato (art. 1).
Innanzitutto, è stato acutamente osservato che su questo punto il disegno di legge è quasi uno specchietto per le allodole, in quanto l’intera disciplina per la determinazione dei LEP è contenuta nella legge finanziaria, già approvata dal Parlamento[13]. E’ questa la vera novità rispetto al passato[14], poiché i precedenti governi avevano previsto le modalità di realizzazione dei LEP in disegni di legge mai approvati definitivamente, mentre, in questa occasione, al disegno di legge Calderoli si aggiungono norme già vigenti nella legge di bilancio, che rendono del tutto superfluo il disegno di legge, quanto meno sulle modalità di definizione dei LEP.
La disciplina dei LEP è, infatti, integralmente contenuta nella legge di bilancio ai commi da 791 a 801, a cui peraltro la bozza Calderoli rinvia. Invero, in tale legge è già del tutto definito il percorso per la determinazione dei LEP, <<quale soglia di spesa costituzionalmente necessaria che costituisce nucleo invalicabile per erogare le prestazioni sociali di natura fondamentale>> e garantire <<il pieno superamento dei divari territoriali>> (c. 791). Nella legge di bilancio, la determinazione dei LEP è conseguente alla previa ricognizione dei costi standard, tanto è vero che il comma 792 prevede la procedura per la loro individuazione a partire da una <<ricognizione della spesa storica a carattere permanente nell’ultimo triennio>>[15].
È qui uno dei punti nodali su cui valutare i reali effetti del regionalismo differenziato.
Come è noto, la determinazione dei fabbisogni standard era già prevista, ma mai realizzata (tranne che per in materia sanitaria), già dalla legge sul federalismo fiscale n. 42/2009, secondo cui i decreti attuativi avrebbero dovuto effettuare la «determinazione del costo e del fabbisogno standard quale costo e fabbisogno che, valorizzando l’efficienza e l’efficacia, costituisce l’indicatore rispetto al quale comparare e valutare l’azione pubblica».
Dal punto di vista del procedimento previsto, mi limito a rilevare come sia paradossale costituire una Cabina di regia ed una Commissione tecnica per la determinazione dei fabbisogni standard per poi stabilire che, nel caso in cui le attività dei predetti organi non si concludessero entro sei mesi, il Presidente del Consiglio, d’intesa con il Ministro per gli affari regionali e le autonomie con il Ministro dell’economia e delle finanze, nomina un commissario che <<entro trenta giorni>> (c. 797) procede al completamento della attività non perfezionate.
In secondo luogo, sempre dal punto di vista procedimentale, appare ancora più grave che tutto il procedimento previsto nella legge finanziaria per la determinazione dei LEP avvenga attraverso atti governativi, eludendo gravemente il dettato costituzionale, secondo cui la determinazione dei LEP non può che avvenire con legge statale, come previsto dall’art. 117, lett. m) Cost. Insomma, la definizione dei LEP è una questione di ordine generale, che ha un suo percorso normativo specifico ed è un errore confonderlo con l’attuazione dell’autonomia differenziata, che ha percorsi normativi diversi[16].
Quanto al merito, il dibattito attuale è tutto incentrato sulla determinazione dei LEP, ma si trascura un presupposto essenziale, cioè l’esigenza di misure perequative territoriali, necessariamente antecedenti a qualsiasi innovazione istituzionale per evitare la crescita dei divari di cittadinanza[17]. Come è noto, l’art. 116 Cost. consente ulteriori forme di autonomia regionale «nel rispetto dei principi dei cui all’articolo 119», disposizione pedissequamente riportata nella legge delega 42/2009, che introduceva il federalismo fiscale. E’ impossibile perciò pensare di attuare il regionalismo differenziato senza rispettare il contenuto dell’art. 119 Cost., che prevede uno specifico fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale per abitante[18].
Invero, il sistema pensato dal Costituente del 2001 è ben più complesso ed articolato, con obiettivi più ampi del solo regionalismo differenziato. La legge delega prevedeva, infatti, come primo presupposto, l’autonomia finanziaria delle Regioni, in grado di avere tributi propri, con conseguente maggiore responsabilizzazione della spesa. Opportunamente, il percorso di un regionalismo maturo veniva definito attraverso vari passaggi, prevedendo il «superamento graduale, per tutti i livelli istituzionali, del criterio della spesa storica a favore: 1) del fabbisogno standard per il finanziamento dei livelli essenziali di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, e delle funzioni fondamentali di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione; 2) della perequazione della capacità fiscale per le altre funzioni (art. 2, l. m)». Da allora tutto è rimasto come prima, per la mancata definizione dei costi standard e per l’inesistenza di misure perequative.
Anche chi non è pregiudizialmente contrario al regionalismo differenziato non può non rilevare che il percorso costituzionalmente corretto, previsto già dal 2009, è del tutto mancato, cosicché la “fuga in avanti” di un regionalismo differenziato senza perequazione è un grave pericolo, che accentua i divari di cittadinanza e giustifica le preoccupazioni di gran parte della dottrina[19].
L’enunciazione delle misure perequative contenuta nei disegni di legge Calderoli si limita alla citazione di quanto già previsto nell’art. 119 Cost., ma senza definire mezzi e strumenti per realizzarle; non viene istituito alcun fondo perequativo né indicato il modo in cui le Regioni dovrebbero contribuirvi[20].
La perequazione, secondo la norma costituzionale, va calcolata secondo la capacità fiscale per abitante, mentre attualmente, ad esempio per la distribuzione del maggior fondo destinato alle Regioni in materia sanitaria, è lo Stato a determinare quanto attribuire alle Regioni, che dividono tra loro tale fondo in modo da garantire un finanziamento pro capite simile. Cosicché <<la perequazione è dunque realizzata, in quel contesto, non tanto sulla base della diversità della “capacità fiscale per abitante” ma sulla base del riconoscimento di fabbisogni simili fra le Regioni, calcolati sulla base della ripartizione delle risorse messe a disposizione dello Stato>>[21]. Non avendo tributi propri, la pseudo perequazione non è altro che la compartecipazione delle Regioni ad un fondo statale trasferito ad esse. Da ciò si deduce che la mancata previa determinazione delle forme e delle modalità di perequazione rischia di trasformare queste risorse <<da prestazioni sostanziali da garantire a mere quote di compartecipazione al gettito di tributi erariali maturato nel territorio regionale (come già ricordato manca un riferimento a possibili tributi propri delle regioni differenziate), sul modello già impiegato in materia di riparto del fondo sanitario nazionale>> [22].
In conclusione, la determinazione dei LEP attraverso i costi standard, accertati sulla spesa storica, come previsto nella legge di bilancio, non consente di realizzare la perequazione prevista dall’art. 119 Cost. e comporta ulteriori divari di cittadinanza. Non vi è traccia, inoltre, di un fondo perequativo, anzi sia nella prima che nella seconda bozza del disegno di legge la modalità di finanziamento rimane la compartecipazione al gettito di tributi erariali maturati nel territorio regionale[23], così confermando la differenza tra territori, dovuta alla diversa capacità fiscale (art. 5 nuova bozza).
Peraltro, entrambe le bozze presentano, su questo profilo, un’altra contraddizione. Da una parte, nella legge di bilancio si configura un procedimento complesso per la determinazione dei LEP e dei costi standard, dall’altra la prima bozza del disegno di legge prevedeva che, fino alla determinazione dei costi e dei fabbisogni standard, si sarebbe fatto ricorso «al criterio della spesa destinata a carattere permanente, fissa e ricorrente, a legislazione vigente», sia per le materie soggette ai LEP sia per quelle che non li prevedano. Né è migliore la modifica introdotta con la nuova bozza che attribuisce alle singole intese - come meglio si vedrà di seguito - il potere di prevedere modalità e procedure per il trasferimento delle funzioni (art. 4).
4. Le materie oggetto dell’autonomia differenziata
Il dibattito sull’autonomia differenziata si è soffermato molto sulle procedure necessarie nonché sulla determinazione dei livelli essenziali di prestazione dei diritti civili e politici, molto meno sulle materie oggetto di trasferimento, la cui eterogeneità pone alcune rilevanti questioni.
Il primo disegno di legge Calderoli distingueva esplicitamente tra materie sottoposte ai LEP e materie o ambiti di materie non riferibili ai livelli essenziali delle prestazioni (art. 3, c. 3), individuando una diversa disciplina ai fini del trasferimento alle Regioni. La modifica ora introdotta nella nuova bozza mantiene tale dicotomia, confermando che le materie sottoposte ai LEP possono essere trasferite solo dopo la determinazione degli stessi LEP e dei relativi costi e fabbisogni standard (art. 4, c. 1), mentre invece le materie diverse da quelle del comma 1 (id est: non sottoposte ai LEP), possono essere trasferite subito dopo l’approvazione del disegno di legge, secondo modalità, procedure e tempi definiti dalle intese (art. 4, c. 2).
Tuttavia resta indefinito come si individuano le materie o gli ambiti di materie esclusi dall’applicazione dei LEP[24]. Il primo disegno di legge attribuiva alla totale discrezionalità del Presidente del Consiglio dei ministri l’individuazione di tali materie (art. 3, c. 3). La seconda bozza elimina questa disposizione, ma – come già rilevato - lascia alle trattative tra Stato ed ogni singola Regione il potere discrezionale di stabilire quali siano le materie non soggette ai LEP. Il rimedio è peggiore del male, perché la nuova disposizione, lasciando alla contrattazione delle singole Regioni con lo Stato l’individuazione delle materie sottratte ai LEP, potrebbe finanche produrre l’effetto paradossale che una stessa materia possa essere sottoposta al regime dei LEP in una Regione e non in un’altra.
Sotto altro profilo, tali disposizioni confermano che, non essendo tutte le materie previste dall’art. 116 c. 3 Cost. valutabili alla luce dei LEP, la determinazione di essi è operazione connessa ma autonoma rispetto alla partita del regionalismo differenziato[25].
Il mancato assoggettamento ai LEP di alcune materie induce addirittura a domandarsi se esse siano oggetto di possibile trasferimento e con quali modalità, a maggior ragione perché alcune di esse attengono ad un contesto sovra-regionale, tale da renderne difficile un trasferimento tout court.
La dottrina si è infatti chiesta, ad esempio, se sia logico, soprattutto dopo gli eventi pandemici e bellici, che una materia come i rapporti internazionali possa essere oggetto di potestà legislativa regionale, così come la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell’energia o anche la disciplina di porti ed aeroporti civili o delle grandi reti di trasporto e di navigazione. Il rischio concreto, insito nel processo di trasferimento della legislazione alle Regioni in queste materie, è uno spezzettamento della disciplina normativa, che impedisca le necessarie politiche nazionali, anche perché alcune di tali materie sono oggetto di politiche che coinvolgono non solo lo Stato nazionale, ma addirittura organismi sovranazionali[26].
Una diversa, ma ancora più complessa questione si pone, invece, per le materie oggetto dei LEP, prima di tutto istruzione e sanità.
Per valutare in concreto quali possano essere gli scenari possibili, è utile tenere conto delle concrete fattispecie previste nelle bozze delle intese già predisposte con le tre Regioni che avevano da tempo avviato il processo autonomistico.
Se consideriamo, ad esempio, il settore nevralgico dell’istruzione, tutte le tre Regioni potranno determinare la programmazione dell’offerta formativa, con la possibilità di definire anche la dotazione organica e l’assegnazione alle singole scuole dei docenti; potranno costituire un fondo regionale per contratti a tempo determinato in caso di necessità dell’organico delle scuole, anche istituendo posti in deroga; potranno finanziare nuovi corsi universitari, con ulteriori risorse rispetto al fondo di finanziamento ordinario statale.
In materia di salute, le intese prevedono, tra l’altro, l’autonomia regionale nell’organizzazione della governance delle aziende sanitarie ed una maggiore autonomia legislativa, amministrativa ed organizzativa in materia di istituzione e gestione di fondi sanitari integrativi. Quanto al personale, si introduce una maggiore autonomia finalizzata a rimuovere specifici vincoli di spesa stabiliti dalla normativa statale, inclusa la regolamentazione dell’attività libero professionale e la facoltà, in sede di contrattazione integrativa collettiva, di prevedere, per i dipendenti del SSN, incentivi e misure di sostegno.
Siffatte previsioni normative potrebbero comportare un miglioramento dei servizi nelle Regioni con maggiore produzione di reddito, ma non sono consone al principio di perequazione, in quanto non corrispondono al principio di cui all’art. 119 Cost.
Invero non si vuole qui fare riferimento solo alle risorse economiche pur importanti, ma al rischio di una più profonda frammentazione delle materie. Ad esempio, nel caso dell’istruzione, i ragazzi della scuola dell’obbligo che si trasferiscono da una Regione all’altra saranno costretti a cambiare radicalmente i programmi di studio? E cosa avverrà del lavoro nelle amministrazioni pubbliche sia per quanto attiene all’istruzione che alla sanità? Non si può escludere l’attuazione di “gabbie salariali”, con contratti dal contenuto differenziato da Regione a Regione (in tal senso la recente polemica suscitata dalle dichiarazioni, invero smentite, del Ministro dell’istruzione e del merito). Si potrebbero introdurre, come stigmatizzato a legislazione vigente dalla Corte costituzionale, misure limitative per i docenti o per i fruitori di servizi sociali che non abbiano residenza da un certo numero di anni nella Regione?[27].
Sui profili contenutistici delle intese va fatto un serio discernimento. Ecco perché la previsione di un’intesa concordata dallo Stato con ogni singola Regione, senza una previa determinazione di principi generali e di criteri perequativi costituzionalmente previsti, rappresenta un serio rischio di un’autonomia differenziata che aumenti, invece di ridurre, i divari di cittadinanza.
* Intervento, rivisto ed aggiornato, presentato al seminario dei Lunedì di Giustizia Insieme Novità e possibilità dell’autonomia differenziata nelle più recenti proposte di riforma.
[1] G. Gardini, C. Tubertini, L’amministrazione regionale, Torino, 2022.
[2] G. Pastori, Le regioni senza regionalismo, in Il Mulino, 2, 1980, 204 ss.
[3] M. Luciani, Un regionalismo senza modello, in Le Regioni, 1994.
[4] A. Ruggeri, Devolution, “controriforma” del titolo V e uso congiunturale della Costituzione, ovverosia quando le “ragioni” della politica offuscano la ragione costituzionale, in Dirittiregionali.it, 24 aprile 2003.
[5] R. Bifulco, Il regionalismo tra processi federali e sistema dei partiti, in Italianieuropei, 3, 2009, 172 ss.
[6] Per una recente ed approfondita analisi degli squilibri territoriali: ISTAT, I divari territoriali nel PNRR: dieci obiettivi per il Mezzogiorno, Focus, 25 gennaio 2023. Sul punto, anche: A. Barone, F. Manganaro, PNRR e Mezzogiorno, in Quad. cost., 1, 2022, 148 ss.; F. Manganaro, Regionalismo differenziato: dove eravamo rimasti?, in Astrid Rassegna, 9/2022.
[7] F. Manganaro, Politiche di coesione, in Enc. Dir. – I tematici, Milano, 2022, 839 ss.
[8] M. Cammelli, Flessibilità, autonomia, decentramento amministrativo: il regionalismo oltre l’art. 116.3 Cost., in Astrid, maggio 2019.
[9] Sulla necessità di un quadro generale di riferimento: R. Bifulco, I limiti del regionalismo differenziato, in Rivista AIC, 4, 2019, 260 ss.
[10] Di recente: G. M. Salerno, Con il procedimento di determinazione dei LEP (e relativi costi e fabbisogni standard) la legge di bilancio riapre il cantiere dell’autonomia differenziata. Editoriale, in Federalismi.it, 11 gennaio 2023, secondo cui , «La scelta a favore della legge di attuazione ovvero “legge-quadro” – soluzione che, tra l’altro, nella scorsa legislatura era stata suggerita anche dalla Commissione ministeriale di studio presieduta dal compianto Amico e Collega Beniamino Caravita - va senz’altro accolta positivamente, considerato quanto si è appena detto circa la necessità costituzionalmente rilevante, oltre che l’opportunità, di disporre di uno strumento regolatorio di ordine generale che permetta la corretta attuazione dell’art. 116, comma terzo, Cost.».
[11] Sul punto, si vedano le puntuali osservazioni di E. Zampetti, Novità e possibilità dell’autonomia differenziata nelle più recenti proposte di riforma. Introduzione a un dibattito sul tema dell’autonomia differenziata, in questa Rivista.
[12] Manifesta una fondata opinione critica A. Cioffi, Il problema dei LEP nell’autonomia differenziata. Una spiegazione della differenza, inquesta Rivista.
[13] Sulla indispensabile necessità di determinare i LEP, osserva la Corte costituzionale (sent. 220/2021) che <<La non fondatezza della questione peraltro non esime questa Corte dal valutare negativamente il perdurante ritardo dello Stato nel definire i LEP, i quali indicano la soglia di spesa costituzionalmente necessaria per erogare le prestazioni sociali di natura fondamentale, nonché <<il nucleo invalicabile di garanzie minime>> per rendere effettivi tali diritti (ex multis, sentenze n. 142 del 2021 e n. 62 del 2020)>>.
[14] Si è peraltro paventato il sospetto che l’introduzione della disciplina nella legge di bilancio sia avvenuta per evitare che possa essere sottoposta ad un referendum abrogativo nazionale, non consentito dall’art.75 Cost.: P. Maddalena, L’attuazione dell’articolo 116 della costituzione. Bozza Calderoli, in AmbienteDiritto.it, 4/2022.
[15] Peraltro la norma affida tale compito alla stessa società pubblica SOSE s.p.a. a cui era già stata inutilmente assegnata in passato ai sensi del d.lgs. 2010 del 2016, attuativo del federalismo fiscale.
[16] In tal senso: A. Cioffi, Il problema dei LEP nell’autonomia differenziata. Una spiegazione della differenza, cit.
[17] Su questo punto, di recente, G. Gardini, C. Tubertini, Le prospettive del regionalismo: idee per una rifondazione, in Astrid Rassegna, 2/2023, 47, secondo cui «una volta risolto il nodo della determinazione dei fabbisogni standard e della perequazione, si potrà forse guardare con minore preoccupazione anche all’ipotesi dell’attivazione della clausola della c.d. autonomia differenziata ex art. 116, comma 3, Cost.».
[18] Tra i tanti lavori sul punto, si veda: L. Antonini, La rivincita della responsabilità. A proposito della nuova legge sul federalismo fiscale, in Quad. suss., 2009, 1 ss.; R. Bifulco, Osservazioni sulla legge n. 42 del 2009 in materia di federalismo fiscale, in www.astrid-online.it, 24 maggio 2009; G. Rivosecchi, La determinazione dei fabbisogni standard degli enti territoriali: un elemento di incertezza nella via italiana al federalismo fiscale, in www.federalismi.it., 20 aprile 2011; F. Trimarchi Banfi, Il regionalismo differenziato: una questione preliminare, in Astrid Rassegna, 12/2019; A. Poggi, Il regionalismo italiano ancora alla ricerca del “modello plurale” delineato in Costituzione, in Federalismi.it, 8 maggio 2020; S. Pajno, Il regionalismo differenziato tra principio unitario e principio autonomista: tre problemi, in Federalismi.it, 4 marzo 2020; L. Di Majo, Il regionalismo differenziato: un questione di metodo prima ancora del merito, in Rivista AIC, 1, 2020, 255 ss.; S. Staiano, Anti-mitopoiesi. Breve guida pratica al regionalismo differenziato con alcune premesse, in Federalismi.it, 2 novembre 2022.
[19] A. D’Atena, Dove vanno le Regioni?, in Rivista AIC, n. 4/2022; C. Mirabelli, Vanno evitate forzature per non sbagliare il passo, in Il Quotidiano del Sud, 17 novembre 2022; I. Sales, Un’idea cinica del Paese, in La Repubblica, 18 novembre 2022; M. Villone, Il progetto Calderoli sull’autonomia è pericoloso, in Domani, 20 novembre 2022; S. Cassese, L’autonomia voluta dalla Lega ferisce l’unità del Paese, in La Stampa, 21 novembre 2022; G. De Minico, Perché il ddl Calderoli supera il confine della legittimità costituzionale, in Il Sole 24 ore, 6 gennaio 2023; I. Cipolletta, L’imbroglio dell’autonomia. Troppi poteri a regioni già inutili, in Domani, 9 gennaio 2023.
[20] Lo dimostrano con un’accurata analisi economica, in relazione alla disciplina del federalismo fiscale, A. Filippetti, F. Tuzi, Autonomia finanziaria regionale e regionalismo asimmetrico: verso un finanziamento dell’asimmetria ben temperato, in Argomenti, 17, 2021, 70 ss.
[21] L. Spadacini, M. Podetta, L'autonomia differenziata: spunti a partire dalla ed. Bozza Calderoli e dall'ultima legge di bilancio, in Astrid Rassegna, 2/2023.
[22] L. Spadacini, M. Podetta, L'autonomia differenziata: spunti a partire dalla ed. Bozza Calderoli e dall'ultima Legge di bilancio, cit.
[23] Nella prima bozza di disegno di legge le funzioni trasferite venivano finanziate anche con riserva di aliquota.
[24] In questo senso ora anche: G. Gardini, C. Tubertini, Le prospettive del regionalismo: idee per una rifondazione, 47- 48.
[25] A. Cioffi, Il problema dei LEP nell’autonomia differenziata. Una spiegazione della differenza, cit.
[26] A. Ruggeri, La “specializzazione” dell’autonomia regionale: i (pochi) punti fermi del modello costituzionale e le (molte) questioni aperte, in Consulta Online, 31 ottobre 2019, 600 ss.
[27] Ad esempio, la Corte, nella sentenza n. 107/2018, ha ritenuto costituzionalmente illegittima una legge regionale, che prevedeva come fattore preferenziale per l’iscrizione agli asili nido la residenza o lo svolgimento di attività lavorativa per almeno quindici anni in Veneto, sul presupposto che i diritti fondamentali della persona vanno tutelati indipendentemente dal tempo di residenza in una Regione.
Gli approfondimenti della riforma Cartabia - 7. Acquiescenza alla condanna nel giudizio abbreviato e riconoscimento della riduzione di un sesto della pena
di Giuseppe Sepe
Il presente articolo si inserisce nella serie di approfondimenti dedicati da Giustizia Insieme (v. Editoriale) alle novità introdotte dalla riforma Cartabia nella materia penale. Di seguito i precedenti contributi:
1. Le nuove indagini preliminari fra obiettivi deflattivi ed esigenze di legalità
3. Pensieri sparsi sul nuovo giudizio penale di appello (ex d.lgs. 150/2022)
6. Riforma Cartabia e pene sostitutive: la rottura “definitiva” della sequenza cognizione-esecuzione
Il nuovo art. 442 co. 2 bis c.p.p., introdotto dal D.lgs. n. 150/2022 (cd. riforma “Cartabia”) in tema di giudizio abbreviato, prevede una ulteriore riduzione della pena, pari ad un “sesto”, in caso di mancata impugnazione da parte dell’imputato e del suo difensore (“2-bis. Quando né l’imputato, né il suo difensore hanno proposto impugnazione contro la sentenza di condanna, la pena inflitta è ulteriormente ridotta di un sesto dal giudice dell’esecuzione”).
Il legislatore, accogliendo le indicazioni della Commissione Lattanzi, ha introdotto una diminuente che realizza uno scopo deflattivo “collegando all’acquiescenza, e al connesso risparmio di tempo e risorse processuali, l’ulteriore trattamento premiale in relazione alla pena inflitta” (così, la relazione illustrativa allo schema di decreto, p. 133), al fine di “ridimensionare l’incidenza di appelli finalizzati a censurare unicamente l’entità della pena….”(cfr: relazione finale dei lavori della Commissione Lattanzi, p. 27).
Conseguentemente, è stato modificato l’art. 676 co. 1 c.p.p. ove si è stabilito che il giudice dell’esecuzione è competente “all’applicazione della riduzione della pena prevista dall’articolo 442, comma 2-bis”. In questo caso il giudice dell'esecuzione procede a norma dell’articolo 667, comma 4 c.p.p., ossia nelle forme semplificate del contraddittorio solo differito ed eventuale (fuori udienza, de plano, con eventuale opposizione degli interessati).
Ci si chiede se il giudice dell’esecuzione possa o debba applicare tale riduzione d’ufficio ovvero se trovi applicazione la regola generale ex art. 666 c.p.p. che richiede la richiesta di parte (ne procedat iudex ex officio).
Un primo orientamento, nell’escludere che il giudice dell’esecuzione possa procedere d’ufficio, richiama una giurisprudenza di legittimità che fa riferimento alle competenze di cui all’art. 676 c.p.p.. L’unico caso in cui il codice di rito prevede la facoltà del giudice dell’esecuzione di procedere d’ufficio concerne l’applicazione di amnistia e indulto. Il fatto che il legislatore non abbia espressamente consentito l’applicazione officiosa della riduzione di un sesto è significativo della volontà di seguire la regola generale dell’istanza di parte.
L’apparato argomentativo di tale orientamento interpretativo sembra provare “troppo”.
Va, anzitutto, considerato che l’art. 442 c.p.p. definisce la pena “legale” in caso di condanna all’esito del giudizio abbreviato configurandola come fattispecie a formazione progressiva ed eventuale. Alla riduzione di un terzo, operata d’ufficio dal giudice della cognizione al momento della condanna, si aggiunge la ulteriore, eventuale, riduzione di un sesto, in caso di acquiescenza. In tal caso il citato art. 442 co. 2 bis c.p.p. (secondo cui, “la pena inflitta è ulteriormente ridotta di un sesto dal giudice dell’esecuzione”) configura la ulteriore riduzione come atto doveroso, privo di discrezionalità, nell’an e nel quomodo, da parte del giudice della esecuzione, il quale si identifica, ex art. 665 c.p.p., con il giudice che ha pronunciato il provvedimento divenuto irrevocabile (ovvero, nel caso in cui l’esecuzione riguardi più sentenze, con il giudice che ha pronunciato la sentenza divenuta, per ultima, irrevocabile).
Già dunque dalla lettura dell’art. 442 co. 2 bis c.p.p. si trae il convincimento che la nuova riduzione “debba” e non “possa” essere concessa e che ciò debba avvenire senza altre condizioni. Ed è logico che sia così: l’irrogazione della pena legale non può dipendere da condizioni, oneri, richieste o istanze, dovendo essere applicata dall’ordinamento, in conformità alle condizioni di legge (nella specie: omessa impugnazione e passaggio in giudicato della sentenza).
D’altronde l’art. 442 co. 2 bis c.p.p. si limita a individuare, correttamente, il giudice deputato ad operare la riduzione (giudice dell’esecuzione, perché si è formato il giudicato) e non richiama il procedimento mediante il quale tale riduzione debba realizzarsi.
Il procedimento, come detto, è definito dall’art. 676 co. 1 c.p.p. mediante il richiamo alle forme semplificate (667 co. 4).
Ma perché le forme semplificate, di cui all’art. 667 co. 4 c.p.p., dovrebbero escludere l’intervento d’ufficio del giudice dell’esecuzione?
Uno studio della giurisprudenza porta a ritenere che così non sia, giacché proprio con riferimento alla applicazione di amnistia e indulto, materia disciplinata dall’art. 672 c.p.p., la Suprema Corte affermò, sin dal 1990, il principio dell’applicazione d’ufficio sulla scorta del dato letterale del primo comma della citata disposizione che, nel testo originario, stabiliva che il giudice dell’esecuzione procedesse "senza formalità" e quindi senza necessità di formale richiesta da parte di soggetti legittimati (In questo senso, Cass. Sez. 1, sent. n. 371 del 16/2/1990, Rv 183654 che, nel richiamare la disciplina del codice del 1930, che distingueva tra competenza del pretore -che poteva procedere d'ufficio- e quella del giudice della esecuzione -al quale l'applicazione doveva essere chiesta dal P.m. o dall'avente diritto al beneficio-, notava come il nuovo codice avesse invece fatto riferimento alla decisione senza formalità, quindi d’ufficio e de plano).
Il d.lgs. n. 12/1991, art. 29, modificava il primo comma dell’art. 671 c.p.p. sostituendo alla frase “il giudice dell'esecuzione provvede senza formalità con ordinanza notificata all'interessato…” l’attuale formulazione: “il giudice dell'esecuzione procede a norma dell'articolo 667 comma 4".
Si veda anche: Cass. Sez. 1, Sentenza n. 412 del 29/01/1992 Cc. (dep. 25/05/1992) Rv. 190127: “l'applicazione dell'amnistia e dell'indulto da parte del giudice dell'esecuzione [opera] "senza formalità" e, quindi, senza necessità di formale richiesta da parte dei soggetti interessati. Solo nel caso in cui la esecuzione della pena sia terminata è necessaria, ai sensi del quarto comma del suddetto art. 672, la richiesta del condannato - ciò che è conseguenza dell'interesse meramente morale ad ottenere il beneficio e quindi dell'assenza di una qualsiasi concreta incidenza sulla esecuzione della pena”.
A norma degli artt. 672, primo comma, e 667, quarto comma, cod. proc. pen., l'ordinanza pronunciata "de plano" dal giudice dell'esecuzione in materia di applicazione di amnistia o d'indulto è soggetta ad opposizione davanti allo stesso giudice che ha emesso il provvedimento, nelle forme previste dall'art. 666 cod. proc. pen. e non a ricorso per cassazione (Sez. 1, Sentenza n. 2250 del 19/05/1992 Cc. (dep. 27/07/1992 ) Rv. 191467)
Le sentenze successive sono poi tutte nello stesso senso: siccome l’art. 672 co. 1 richiama le forme semplificate di cui all’art. 667 co. 4 c.p.p., il giudice dell’esecuzione può provvedere d’ufficio. Si tratta, evidentemente, di una conclusione che, oltre a poggiarsi sull’interpretazione letterale, discende dalla considerazione degli interessi coinvolti nel riconoscimento dei fatti estintivi, concernenti soggetti potenzialmente detenuti. Insomma, l’attivazione ex officio e senza formalità è provocata dalla “pressione” dell’art. 13 della Costituzione, che vuole la massima e rapida tutela del diritto alla libertà personale.
Sempre nel 1990 risulta poi massimata la sentenza della prima sezione, n. 3934 del 12/11/1990 Cc. (dep. 16/01/1991 ) Rv. 186186, imputato Contreras de Castelblanco, che afferma: “Il procedimento di esecuzione, salvo che per l'applicazione della amnistia o dell'indulto, esige per il suo inizio l'impulso di parte”. Tale decisione, in particolare, esclude(va) la possibilità di provvedere, d’ufficio, alla revoca della sentenza di condanna per "abolitio criminis", pure sostenuta in dottrina (CORDERO, Procedura penale, sesta ed., p. 1214, il quale ricorre all’argumentum a fortiori).
Ma a quell’epoca l’art. 676 c.p.p., rubricato “altre competenze”, non prevedeva ancora, ai fini del procedimento, le forme di cui all’art. 667 co. 4 c.p.p., il cui richiamo è stato inserito dal decreto legislativo n. 12 del 14/1/1991, cioè successivamente alla decisione in questione.
Infatti i primi commentatori non mancarono di evidenziare che il 676 c.p.p. si limitava a normare i profili di competenza, rinviando implicitamente alla disciplina prevista, in generale, per il procedimento di esecuzione (GUARDATA: Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, vol. VI, UTET, p. 575).
Sulla sentenza Contreras de Castelblanco emessa dalla prima sezione, si sono poi basate le successive decisioni, che hanno in maniera tralatizia riportato l’affermazione, secondo cui l’unica eccezione al principio generale dell’impulso di parte è costituito dall’applicazione dell’amnistia e dell’indulto.
Ma, come detto, il 676 c.p.p. veniva integrato, nel 1991, con il rinvio alla procedura semplificata di cui all’art. 667 co 4 c.p.p. per le altre competenze ivi indicate, tra le quali oggi rientra anche la riduzione di un sesto della pena in caso di acquiescenza.
Si vuole sostenere, dunque, che l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il giudice dell’esecuzione provvede su impulso di parte, ad eccezione che nei casi di amnistia e indulto, non sia condivisibile. Ciò in quanto il ragionamento che portò la S.C., all’indomani dell’approvazione del nuovo codice di procedura penale, ad affermare l’applicabilità d’ufficio della amnistia e dell’indulto è estensibile anche alle altre competenze indicate nell’art. 676 c.p.p., per le quali è richiamata la medesima procedura senza formalità di cui all’art. 667 co. 4 c.p.p., senza bisogno di richiesta delle parti, salvo contraddittorio differito.
Non è di ostacolo a tale tesi l’art. 676 co. 3 c.p.p.., secondo cui “quando accerta l’estinzione del reato o della pena, il giudice dell’esecuzione la dichiara anche di ufficio…..”.
La norma, che si riferisce alla causa di estinzione del reato “dopo la condanna” (v. 676 co. 1) e alla estinzione della pena “che non consegue alla liberazione condizionale o all’affidamento in prova” riprende il contenuto dell’abrogato art. 578 c.p.p. che dettava un’apposita disciplina, prevedendo una decisione emessa anche d’ufficio, con una particolare regime di impugnazione.
Si noti però che l’indulto e l’amnistia impropria non sono soggetti alla disciplina del 676 co. 3 c.p.p. in quanto per essi l’art. 672 c.p.p. detta una disciplina speciale (così, GUARDATA, Commento cit).
Si tratta dunque di una disposizione (che non concerne amnistia e indulto) che afferma il potere del giudice, che nel corso di un qualsiasi incidente accerti il ricorrere di una causa di estinzione del reato o della pena, di dichiararlo anche d’ufficio. Non è dunque una norma che possa invocarsi a sostegno dell’argomento che vede nell’applicazione di amnistia e indulto l’unico caso di declaratoria d’ufficio del giudice dell’esecuzione.
Ad ogni modo, a favore dell’applicazione d’ufficio del dispositivo premiale di cui al 442 co. 2 bis c.p.p., militano anche considerazioni di “sistema” che considerano tale istituto come strumentale alla definizione legale del trattamento sanzionatorio, al fine di garantire al condannato l’applicazione di una pena “giusta”, cioè conforme a quella legale, così dando pieno e incondizionato riconoscimento ai principi di cui agli artt. 13 e 27 della Costituzione.
Non si tratta di ricorrere all’analogia in bonam partem, ma di applicare il principio secondo cui l’intervento, vincolato, del giudice dell’esecuzione, che riconoscendo l’ulteriore riduzione di un sesto, realizzi la tutela degli artt. 13 e 27 Cost, è un intervento ammesso, anche d’ufficio, nelle forme semplificate di cui all’art. 667 co. 4 c.p.p., richiamate dall’art. 676 c.p.p..
È chiaro che le parti (Pm e difesa), potranno poi attivare, se del caso, ricorrendone i presupposti, il contraddittorio differito tipizzato previsto dall’art. 667 co 4 seconda parte c.p.p..
La tutela esecutiva per la decisione resa in sede di ricorso straordinario al Presidente della Repubblica: gli ultimi sviluppi, tra evoluzione e arresti giurisprudenziali (nota a Consiglio di Stato, Sezione Prima, 28 febbraio 2022 n. 475)
di Silvia Casilli
Sommario: 1. Premessa: i fatti di causa e il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica. Il thema decidendum: l’ottemperanza del decreto in accoglimento del parere interlocutorio del Consiglio di Stato – 2. Cenni diacronici sulla natura e ratio degli istituti in questione alla luce della progressiva giurisdizionalizzazione del ricorso straordinario. Approdi in tema della sua compatibilità con il rimedio dell’ottemperanza. – 3. La pronuncia della Sezione Prima: le ragioni dell’inammissibilità della domanda e l’assenza della potestas iudicandi – 4. Osservazioni conclusive: è ravvisabile un vulnus nel principio di effettività della tutela?
1. Premessa: i fatti di causa e il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica. Il thema decidendum: l’ottemperanza del decreto in accoglimento del parere interlocutorio del Consiglio di Stato.
Con l’Adunanza del 24 novembre 2021, n. 475/2022, la Sezione Prima del Consiglio di Stato si è pronunciata in tema di ottemperanza della decisione cautelare resa in sede di ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, discostandosi dalla posizione assunta dalla Sezione Quinta[1] in sede giurisdizionale nel parallelo giudizio di ottemperanza ed affermando, al contrario, di non poter essere adita con il rimedio di cui agli artt. 112 ss. c.p.a.
La vicenda trae origine dal ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, con istanza di sospensiva, proposto ex art 11 d.P.R. n. 1199/1971 avverso la Nota del Dipartimento Politiche Abitative di Roma Capitale avente ad oggetto il “rifiuto dell’alloggio E.R.P.”[2], nonché avverso tutti gli atti lesivi, presupposti, sottesi e conseguenziali, e volto ad ottenere, quale risarcimento in forma specifica del danno asseritamente subito dal ricorrente, il riconoscimento al diritto di ottenere l’assegnazione dell’alloggio E.R.P. Con motivi aggiunti, il ricorrente agiva poi per l’annullamento di una serie di verbali e Determine Dirigenziali emanate dall’amministrazione e relative alla pubblicazione e aggiornamento della graduatoria per l’assegnazione di alloggi, previa sospensiva, al fine di ottenere l’annullamento del primo dei provvedimenti impugnati, avente ad oggetto il rifiuto dell’alloggio.
In particolare, parte ricorrente deduceva, tra gli altri motivi di ricorso, la violazione e falsa applicazione delle disposizioni di cui all’art. 7 del bando E.R.P. 2012 di Roma Capitale, per non essere stato destinatario della diffida all’accettazione prevista dal menzionato articolo prima che fosse dichiarata la decadenza dei candidati. Il Comune, invece, riteneva direttamente accertata la rinuncia all’accettazione, con conseguente ricollocazione del ricorrente nella graduatoria dietro soggetti con nucleo familiare di minore consistenza.
Il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, cui veniva trasmesso il ricorso, richiedeva, ex art. 11 d.P.R. n. 1199/1971, il parere del Consiglio di Stato che, con ordinanza del 20 marzo 2020, riscontrando nella procedura la carenza della diffida prescritta dall’art. 7 del Bando per l’assegnazione, accoglieva, con parere interlocutorio n. 754, la richiesta di sospensiva, disponendo il provvisorio reinserimento in graduatoria del ricorrente.
La difesa del ricorrente – non essendo stato questi ricontattato dal Comune di Roma per la scelta dell’alloggio, ed anzi essendo stata ripubblicata la graduatoria aggiornata nella quale risultava in posizione nettamente inferiore dietro soggetti con nucleo familiare inferiore ed in posizione peggiore rispetto a quella in un secondo momento assegnata dopo la comunicazione del rifiuto – instaurava parallelamente il giudizio ex artt. 114 ss. c.p.a. dinanzi la Sezione Quinta del Consiglio di Stato, cui chiedeva l’ottemperanza sia del detto parere n. 754/2020 della Sezione prima, che aveva accolto l’istanza cautelare di reinserimento in graduatoria, che del successivo parere 1582/2020, reso dalla Sezione Prima nell’adunanza del 14 ottobre 2020, nella parte in cui stabiliva che Roma Capitale avrebbe dovuto fornire preliminarmente al ricorrente, nel termine di trenta giorni, i nominativi e gli indirizzi dei soggetti ai quali erano stati assegnati gli alloggi originariamente previsti per l’assegnazione al ricorrente medesimo, beneficiari delle Determine dirigenziali oggetto di impugnativa.
Avendo il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale[3] dichiarato inammissibile il ricorso per l’ottemperanza per carenza di potestas iudicandi, specificando che “spetta alla stessa sezione consultiva che ha emesso il parere verificare l’esecuzione dei propri pronunciamenti e individuare le misure più idonee in caso di inadempimento da parte dell’amministrazione”, il ricorrente chiedeva alla Sezione Prima di dare ottemperanza al decreto direttoriale n. 71/2020 che ha accolto il parere n. 754/2020, nonché di applicarsi la penalità di mora ex art. 114 comma 4 lett. e) c.p.a. per i giorni di ritardo.
È su queste specifiche ed ultime richieste che la Sezione Prima, all’adunanza del 24 novembre 2021 in commento, si è pronunciata.
Il thema decidendum verte, dunque, sull’esecuzione, ai sensi degli artt. 112 ss. c.p.a., dell’ordinanza cautelare resa dal Consiglio di Stato in sede consultiva, nel parere espresso nell’ambito del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
2. Cenni diacronici sulla natura e ratio degli istituti in questione alla luce della progressiva “giurisdizionalizzazione” del ricorso straordinario. Approdi in tema della sua compatibilità con il rimedio dell’ottemperanza.
Al fine di comprendere gli aspetti problematici della questione, prima ancora di analizzare le argomentazioni della Sezione consultiva ed il contenuto dell’adunanza, è opportuno richiamare gli istituti che rilevano nel caso di specie, in quanto, proprio in ragione della loro natura e della ratio che li giustifica, sono sorti dubbi circa la loro reciproca compatibilità.
Per comprendere la portata del dibattito che ha a lungo interessato dottrina e giurisprudenza non si può prescindere dall’evoluzione storica che ha caratterizzato il rimedio del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica e dalle caratteristiche del giudizio di ottemperanza per poi raccordare i due istituti nella spinosa questione inerente alla proponibilità del rimedio dell’ottemperanza per portare ad esecuzione le decisioni rese dal Presidente della Repubblica.
Il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, diversamente dagli altri ricorsi amministrativi[4], è oggi ritenuto, all’esito di un lungo e complesso dibattito giurisprudenziale, un rimedio formalmente amministrativo, ma sostanzialmente giurisdizionale visto il ruolo imprescindibile del Consiglio di Stato. Il suo più lontano antenato è rinvenibile nel sistema di “giustizia ritenuta”[5], tipico delle monarchie assolute. La prima codificazione di questo rimedio risale al 1739[6], nel 1975 fu poi istituito il Consiglio del Re e si stabilì che il sovrano potesse ascoltarne il parere, anche se non vincolante, prima di decidere sui ricorsi a lui indirizzati; fu poi Carlo Alberto nel 1831, a modificarne la denominazione in “Consiglio di Stato” il cui parere venne reso obbligatorio in tutti i casi di ricorso al Re dalla Legge del Regno di Sardegna n. 3707/1859.
Con l’istituzione nel 1889 della IV Sezione del Consiglio di Stato venne meno la funzione del ricorso straordinario di rimedio generale per l’impugnazione, per motivi di legittimità, dei provvedimenti amministrativi definitivi. La legge n. 5992/1889, infatti, attribuiva definitivo sbocco giurisdizionale anche agli interessi legittimi, fino ad allora tutelabili solo attraverso lo strumento dei ricorsi amministrativi[7]. Pur ritenendo alcuni che il rimedio avesse esaurito la sua utilità[8], l’istituto venne mantenuto in vita e, per evitare che vi fossero problematiche duplicazioni, in ossequio al principio del ne bis in idem, si fece ricorso al principio di alternatività[9] tra ricorso giurisdizionale e ricorso straordinario di modo da evitare da un lato che sullo stesso atto intervenissero due pronunce giustiziali diverse e dall’altro che il Consiglio di Stato si pronunciasse due volte sulla medesima questione.
Il principio, dunque, comporta “l’inammissibilità del ricorso al giudice amministrativo proposto contro lo stesso atto impugnato in via straordinaria; sia per il ricorrente, sia per i controinteressati che non si siano avvalsi della facoltà di chiedere la decisione del ricorso in sede giurisdizionale – art. 10 comma 1 d.P.R. 1199/1971 – e comporta anche l’inammissibilità del ricorso straordinario qualora l’atto sia stato già impugnato con ricorso giurisdizionale”[10].
L’alternatività rispetto al rimedio giurisdizionale rappresenta una caratteristica che può al contempo fondare opposte interpretazioni circa la natura del ricorso: se da una parte è stato sostenuto che questo fosse posto a dimostrazione della diversità della natura tra ricorso straordinario e rimedio giurisdizionale[11], dall’altra lo stesso principio può leggersi come una dimostrazione dell’equiordinazione tra i due rimedi.
L’ultimo capitolo delle modifiche legislative intervenute sulla disciplina del ricorso straordinario ha inciso profondamente sulla sua natura.
Prima dell’entrata in vigore della l. n. 69/2009 il dibattito, caratterizzato da non pochi cambiamenti di orientamento determinatisi nel tempo sul suo inquadramento sistematico e sulla stessa opportunità del rimedio – si pensi all’oscillazione tra posizioni favorevoli al suo ampliamento ed altre propense addirittura alla sua totale eliminazione – si polarizzava attorno a due letture.
Da una parte la tesi tradizionale[12] ne affermava la natura amministrativa in ragione della natura amministrativa dell’organo promanante la decisione, della natura obbligatoria ma non vincolante del parere del Consiglio di Stato, dell’inidoneità delle decisioni del Presidente della Repubblica a passare in giudicato, dell’impossibilità di sollevare questione di legittimità costituzionale e di effettuare rinvio pregiudiziale, nonché del principio di alternatività.
Dall’altra, la presenza del parere del Consiglio di Stato, il principio di alternatività che starebbe a dimostrare l’equiordinazione rispetto al rimedio giurisdizionale, la tendenziale immutabilità delle decisioni rese su ricorso straordinario, la possibilità di esperire il rimedio della revocazione[13] ed il principio del contraddittorio, accentuato nell’ambito del ricorso straordinario, deponevano a sostegno della tesi della natura giurisdizionale[14].
Se la Corte di Cassazione, con la pronuncia a Sezioni Unite n. 15987/2001[15], confermata dalla sentenza n. 254/2008 della Corte Costituzionale[16], aveva spento i facili entusiasmi ingenerati dalle precedenti aperture confinando la portata del precedente della Corte di Giustizia e negandogli il fondamento del riconoscimento della natura giurisdizionale del ricorso straordinario, su tale scenario interviene la l. n. 69/2009 che all’art. 69 modifica la disciplina del ricorso straordinario, incidendo proprio su quegli elementi che avevano fondato le pronunce appena citate.
L’art. 69 modifica, infatti, gli artt. 13 e 14 del d.P.R. 1199/1971 rendendo obbligatorio e vincolante nell’ambito del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica il parere del Consiglio di Stato e prevedendo la possibilità, per quest’ultimo, di sollevare, anche in sede consultiva, questioni di legittimità costituzionale[17].
L’intervento normativo appena richiamato sembra dunque aver definitivamente completato il processo di giurisdizionalizzazione del ricorso straordinario, sebbene la Corte Costituzionale, con sentenza n. 73/2014, non si sia spinta fino a qualificare l’atto finale del procedimento come atto giurisdizionale in senso sostanziale[18], ma ha definito il ricorso straordinario come “rimedio giustiziale amministrativo con caratteristiche strutturali e funzionali in parte assimilabili a quelle tipiche del processo amministrativo”.
Sottile appare la differenza tra le due definizioni, ma di fatto lascia desumere che non sia stata utilizzata a pieno un’importante occasione per fare definitiva chiarezza sulla natura giuridica di un istituto che appare, dunque, come un rimedio, almeno dal punto di vista sostanziale[19], giurisdizionale[20] mentre, solo sul piano formale, si esplica nella formulazione di un parere. In tale ambito sembra potersi configurare la possibilità di assimilare, non formalmente, ma sostanzialmente la decisione adottata in sede di ricorso straordinario a quella emessa all’esito del giudizio innanzi al giudice amministrativo, in considerazione del fatto che in entrambe le ipotesi la decisione costituisce il momento conclusivo dell’esercizio della giurisdizione. In sostanza, il decreto del Presidente della Repubblica che definisce il ricorso straordinario può essere considerato un atto di mera esternazione della decisione giurisdizionale assunta dal Consiglio di Stato[21].
Tale natura, sul piano sostanziale, emerge prepotentemente anche se, mutando il punto di osservazione, si inquadra il ricorso straordinario non tanto comparandolo al ricorso al giudice amministrativo, bensì agli altri ricorsi amministrativi, rispetto ai quali si evince, come già evidenziato, una netta differenza sul piano strutturale e funzionale[22]. Non a caso si è ravvisato come l’istituto in questione abbia perso la propria connotazione puramente amministrativa in ragione dell’attrazione del ricorso straordinario nell’ambito della giurisdizione limitatamente “ad alcuni profili”[23]; conseguenza, se si pone l’accento su quest’ultima espressione, è che l’ambito di operatività del ricorso straordinario è meno ampio rispetto a quello del ricorso al giudice amministrativo. E, in effetti, la succitata limitazione è l’inevitabile esito della peculiare specificità del rimedio in esame, andando incontro, diversamente, a un inutile duplicazione del rimedio giurisdizionale ordinario.
Dunque, individuare la natura giuridica del ricorso straordinario è questione non di poco conto, dal momento che proprio su questo terreno si gioca la partita sulla proponibilità del rimedio dell’ottemperanza per portare a esecuzione le decisioni rese dal Presidente della Repubblica, come sua diretta conseguenza logico giuridica.
Il giudizio di ottemperanza, disciplinato dal libro IV del c.p.a., rappresenta un rimedio, espressione dei principi di effettività e concentrazione della tutela giurisdizionale, posto a disposizione del privato che voglia ottenere da parte dell’Amministrazione soccombente, l’attuazione del favorevole giudicato di cognizione. Il sistema di esecuzione delle sentenze e dei titoli esecutivi contemplati all’art. 112 c.p.a., è ispirato ad un duplice modello, surrogatorio e compulsorio, volto a consentire la piena attuazione di quelle sentenze[24] di cui non venga data spontanea esecuzione ex art. 33 comma 2 c.p.a.
Si tratta di uno dei pochi casi di giurisdizione estesa al merito[25] potendosi il giudice dell’ottemperanza, nel caso di persistente inerzia della PA, sostituirsi a questa adottando il provvedimento anche nei casi di massima discrezionalità[26].
Anche la natura del giudizio di ottemperanza è stata a lungo oggetto di un acceso dibattito dottrinale[27], risolto dal legislatore che, con l’opera di codificazione del 2010, ha accolto nel c.p.a. la posizione della natura mista del giudizio, di cognizione e di esecuzione, con giurisdizione estesa al merito. La stessa relazione al codice ha confermato che si tratta di un giudizio necessariamente di cognizione ed eventualmente di esecuzione, allorché si tratti di dare attuazione al giudicato del g.o., mentre diventa necessariamente di esecuzione ed eventualmente di cognizione, se a dover essere eseguita è la sentenza del g.a.[28].
Alla luce del sistema finora delineato, se al decreto presidenziale va riconosciuta, come detto, una tutela esecutiva, piena ed effettiva, quest’ultima non può che individuarsi anche attraverso il giudizio di ottemperanza, la cui esperibilità sembra essere diretta ricaduta del riconoscimento della natura, almeno sostanzialmente, giurisdizionale del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica (in cui il decreto del Presidente può considerarsi un atto di mera esternazione della decisione giurisdizionale assunta dal Consiglio di Stato).
D’altronde, nella stessa citata sentenza n. 2065/2011 della Suprema Corte a Sezioni Unite si legge che “nel sistema così delineato la decisione su ricorso straordinario al Capo dello stato, resa in base al parere obbligatorio e vincolante del Consiglio di Stato, si colloca nell’ipotesi prevista alla lettera b) dell’art. 112 comma 2, e il ricorso per l’ottemperanza si propone, ai sensi dell’art. 113 comma 1, dinnanzi allo stesso consiglio di Stato, nel quale si identifica il giudice che ha emesso il provvedimento della cui ottemperanza si tratta”. La tesi sostenuta dalle Sezioni unite è stata poi successivamente avallata anche dal Consiglio di Stato che, dopo aver chiarito che “il ricorso straordinario al Capo dello stato costituisce un rimedio giustiziale che si colloca in simmetrica alternativa con quello giurisdizionale ancorché di più ristretta praticabilità quanto al novero delle azioni esperibili”, afferma che “non è dubitabile che il petitum proposto in sede di ricorso straordinario sia perfettamente equiparabile (e produca lo stesso effetto) ad una domanda giurisdizionale”[29].
Nel caso oggetto della pronuncia in esame, però, la questione dell’esperibilità del rimedio dell’ottemperanza riguarda sì il parere reso dal Consiglio di Stato, ma, nello specifico, avente ad oggetto l’esecuzione dell’ordinanza cautelare. Pertanto, il fondamento normativo non va rinvenuto tanto nell’art. 112 comma 2 lett. b) – che non annovera l’esecuzione delle misure cautelari tra i casi in cui è possibile instaurare il giudizio di ottemperanza –, quanto nell’art. 114 comma 4 lett. c) c.p.a. laddove richiama “altri provvedimenti”. Tale disposizione si porrebbe come complementare rispetto all’art. 59 c.p.a. che menziona l’esecuzione delle misure cautelari, ma senza disciplinare il procedimento da seguire.
3. La pronuncia della Sezione Prima: le ragioni dell’inammissibilità della domanda e l’assenza della potestas iudicandi.
L’adunanza in commento si pone, tuttavia, in tendenza opposta rispetto a quanto concluso finora.
La Sezione Prima ha infatti dissentito dall’orientamento espresso dallo stesso Consiglio di Stato (Sezione Quinta, provvedimento n. 6519/2018) in sede giurisdizionale, ritenendo di non poter essere adita con il rimedio dell’ottemperanza. Secondo la Sezione consultiva, l’orientamento della Sezione Quinta sarebbe fondato su una lettura degli artt. 59 e 98 c.p.a. eccentrica rispetto a quanto statuito, in modo più rigoroso e tassativo, in punto di competenza, dall’art. 113 c.p.a, norma, quest’ultima, attributiva di competenza per la sola ottemperanza ai provvedimenti giurisdizionali definitivi.
Al contrario, l’estensione dei poteri dell’ottemperanza, per mezzo degli artt. 59 e 98 (definiti dalla Sezione Quinta parametri legislativi di interpretazione), all’esecuzione dei provvedimenti cautelari farebbe evincere “un tendenziale principio di corrispondenza funzionale fra provvedimento cautelare, giudice che lo ha emesso ed organo giurisdizionale chiamato ad eseguirlo in sede di ottemperanza”[30] senza che vi siano, tuttavia, elementi sufficienti a sostenere tale interpretazione nella disciplina processuale.
L’art. 113 c.p.a., infatti, nell’attribuire la competenza per l’ottemperanza nell’apposita sedes materiae del Libro IV, dettaglia per ciascun provvedimento ottemperando la relativa potestas iudicandi in capo ad un giudice ben individuato. Gli artt. 59 e 98 c.p.a. si limitano, secondo il Collegio, a precisare come il potere che regolano altro non sia che quello specificato e delineato, in punto di competenza, dalle norme del codice in materia di ottemperanza. Di conseguenza, non sarebbe possibile inferire da queste disposizioni – dal momento che hanno semplicemente la limitata funzione di estendere i poteri dell’ottemperanza anche alla fase cautelare – l’attribuzione di competenza ulteriore in capo ad un organo che (formalmente) non emette la misura cautelare, ma si limita ad esprimere un parere in ordine alla sua concedibilità. In altre parole, non vi sarebbe ragione, per ricostruire la competenza per l’ottemperanza, di attingere a norme che sarebbero generiche ed imprecise sotto tale aspetto, e per di più contenute in Libri e Titoli del c.p.a. che non disciplinano ex professo quel giudizio.
Se, allora, si assume che anche in caso di ottemperanza a provvedimenti cautelari debba trovare applicazione l’art. 113 c.p.a., dovrà prendersi atto che la disposizione prevede che “il giudizio di ottemperanza si propone, nel caso di cui all’art. 112 comma 2 lett. a) e b), al giudice che ha emesso il provvedimento della cui ottemperanza si tratta”. E, dal momento che nel procedimento di cui al d.P.R. 1199/1971 la Sezione consultiva anche in sede cautelare si limita ad esprimere un parere, pur vincolante, senza però emettere direttamente il provvedimento decisorio (che è invece oggetto di apposito decreto) non potrà che escludersi “che si possa profilare una competenza complementare del Consiglio di Stato in sede consultiva atta a consentirgli di interloquire con le forme dell’ottemperanza con un’amministrazione inadempiente perché ciò implicherebbe, con un’interpretazione praeter legem, un’inedita potestas iudicandi che il legislatore non ha inteso attribuire alla Sezione consultiva”[31].
Ulteriore argomento addotto dalla Sezione Prima risiede nel fatto che, optando per una diversa ricostruzione, si aggirerebbe l’elenco tassativo di cui all’art. 134 c.p.a. Il riconoscimento, infatti, di una cognizione estesa al merito – quale quella dell’ottemperanza – e di poteri di accertamento della nullità di atti in sede di ricorso straordinario risulterebbe in contrasto con la disciplina del ricorso stesso che, diversamente da quanto previsto dall’art. 134 c.p.a. per il giudice amministrativo, non contempla materie di giurisdizione estesa al merito, né prevede, a differenza di quanto previsto dall’art. 114 comma 4 lett. b. c.p.a., l’esperibilità di azioni di accertamento, essendo ammesso il rimedio solo per proporre azioni di annullamento per motivi di legittimità di atti amministrativi definitivi[32]. Una diversa interpretazione si porrebbe dunque in contrasto con la natura e la funzione del ricorso straordinario trattandosi di un rito tuttora ancorato ad un regime impugnatorio[33] che, attesa la sua conformazione, è del tutto inidoneo a gestire una fase esecutiva con cognizione estesa al merito. È infatti la decisione finale, ossia il decreto presidenziale, che può consentire l’ottenimento del bene della vita cui il ricorrente aspira, avendo il Consiglio di Stato invece un punto di contatto solo mediato con la decisione finale.
4. Osservazioni conclusive: è ravvisabile un vulnus nel principio di effettività della tutela?
Il parere della Sezione consultiva ha così rigettato l’istanza in ottemperanza presentatale per carenza di potestas iudicandi, fondando le premesse, in controtendenza rispetto all’orientamento prevalente[34], della non esperibilità del rimedio dell’ottemperanza del parere, o meglio del decreto, adottato in sede di ricorso straordinario.
Sorge spontaneo interrogarsi se il principio di effettività della tutela[35] possa dirsi ugualmente garantito.
La Sezione consultiva si premura di chiarire come la propria pronuncia non possa di fatto configurare un vulnus nel diritto ad una tutela piena ed effettiva del ricorrente osservando, seppur in maniera incidentale, che il puntuale adempimento della misura cautelare disposta, a seguito del parere del Consiglio di Stato, con atto motivato del ministero competente[36] costituisce l’oggetto di un preciso obbligo giuridico a carico dell’amministrazione; cosicché la mancata esecuzione di tale misura, ove ricorrano gli altri elementi della fattispecie, può costituire illecito e fondare un’azione risarcitoria[37]. Essendo infatti un obbligo dell’amministrazione dare esecuzione alle proprie sentenze, nulla osta neppure la proposizione di altri rimedi come un’eventuale azione avverso il silenzio.
E anzi, secondo tale ricostruzione, ove si volesse forzare – posto che ciò non sarebbe possibile – il dato letterale del c.p.a. riconoscendo la potestas iudicandi per il giudizio di ottemperanza in capo all’organo consultivo, la significativa intermediazione (che caratterizza la procedura del ricorso straordinario) tra lo stesso e l’amministrazione rischierebbe, al contrario, di incidere negativamente sull’effettività della tutela. Si menziona[38], infatti, proprio il “rischio di rendere rarefatto e artificioso lo stesso procedimento di ottemperanza, anche perché, a volere rispettare lo schema di fondo del rito ex d.P.R. 1199/1971, anche l’ottemperanza sarebbe un giudizio in cui il Consiglio di Stato si dovrebbe limitare a proporre pareri senza poter direttamente decidere in luogo della PA. E ciò comporterebbe inevitabili inefficienze ed ulteriori ritardi, in palese contrasto con la ratio del rimedio”.
Deve, da ultimo, poi rammentarsi il carattere di alternatività che il ricorso straordinario al Capo dello Stato presenta rispetto ai rimedi giurisdizionali in quanto proprio in questo elemento può ritenersi che risieda la non lesività del diritto ad una tutela effettiva. In tal senso si è pronunciata anche la Corte Costituzionale[39] affermando come la preclusione della tutela giurisdizionale non lede i diritti costituzionali del ricorrente, perché in definitiva è riconducibile alla sua scelta di agire in via straordinaria secondo lo schema, sì, di un rimedio sostanzialmente giurisdizionale, ma avente innegabilmente una portata più ristretta rispetto al ricorso innanzi al giudice amministrativo, proprio in ragione della specificità dello stesso[40].
[1] Cons. Stato, Sez. V, 28 settembre 2021, n. 6519/2018.
[2] Con la quale veniva comunicato a parte ricorrente, a seguito della rinuncia degli alloggi proposti (non avendo il ricorrente immediatamente sottoscritto la proposta di assegnazione), la ricollocazione in fondo alla graduatoria relativamente ai nuclei familiari aventi lo stesso numero di componenti.
[3] Con la citata ordinanza 6519/2021.
[4] I quali non hanno senza alcun dubbio carattere giurisdizionale dal momento che l’atto con cui si conclude la procedura è un provvedimento amministrativo (definito decisione amministrativa, in quanto recante la peculiarità di strumento di tutela di interessi qualificati) adottato, dunque, dalla stessa Amministrazione che ha in tal caso potere decisionale.
Secondo l’inquadramento dogmatico più autorevole (cfr. A. M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, XV ed., Jovene, Napoli, 1989, 1055), infatti, i ricorsi amministrativi andrebbero ricondotti nel più ampio genus degli strumenti di autotutela, in particolare nella declinazione di autotutela decisoria a carattere contenzioso, quale espressione del pubblico potere attraverso il quale l’Amministrazione ha la capacità di decidere sui ricorsi presentati da parte di soggetti privati, volti a riformare o annullare una precedente decisione; tale è lo hiatus esistente tra i rimedi giustiziali ed il potere di autotutela in capo alla PA da aver indotto la dottrina a ricondurli alla categoria dell’autodichia. Salvo l’ipotesi del ricorso straordinario, non possono, quindi, essere del tutto sovrapposti ai rimedi giustiziali, sebbene la loro vicinanza con i rimedi di carattere giustiziale emerga osservandone l’evoluzione storica dal momento che per un certo periodo di tempo (fino all’istituzione della IV Sezione del Consiglio di Stato) i ricorsi amministrativi hanno rappresentato l’unica vera forma di tutela per gli interessi legittimi.
[5] Ossia nel potere del sovrano di intervenire, in ultima istanza, al fine di giudicare sugli atti amministrativi.
[6] Quando, durante il Regno di Sardegna, esso fu disciplinato dalle Costituzioni Generali di Vittorio Amedeo II.
[7] In quest’ottica “l’ampia autonomia e discrezionalità riconosciute all’amministrazione erano considerate attribuzioni sue proprie, conseguenze necessarie del suo essere unico soggetto titolare del dovere e della responsabilità di provvedere alla cura dell’interesse pubblico. L’intervento del cittadino ricorrente, conseguentemente, finiva per rappresentare nulla più che un semplice apporto alla legalità dell’agire pubblico, nella misura in cui l’interesse individuale trovava una sua tutela solo se ed in quanto coincidente con l’interesse soggettivo dell’amministrazione” (M. Calabrò, Modelli di tutela non giurisdizionale: i ricorsi amministrativi, in www.iuspublicum.com).
[8] Con l’avvento, poi, della Costituzione ed il riconoscimento della pari dignità alla tutela dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi agli artt. 24, 103 e 113, gli interpreti si orientarono nel riconoscere l’espressione di una netta preferenza per i rimedi giurisdizionali sancendo il declino del ruolo dei ricorsi amministrativi. Ciò non deve, tuttavia, condurre a ritenere i ricorsi amministrativi incompatibili con la Carta costituzionale, come affermato da Corte Cost. 1° febbraio 1964 n. 1 e Corte Cost., 3 aprile 1969, n. 60.
Tuttavia, deve ricordarsi che le rationes sottese al ricorso straordinario non si esauriscono unicamente nella tutela degli interessi legittimi, ma rispondono anche al principio di economicità dei mezzi giuridici, in quanto strumento meno oneroso rispetto al rimedio giurisdizionale, dal momento che il privato può difendersi anche senza la necessaria assistenza di un avvocato; pertanto non può ritenersi esaurita la sua utilità, pur avendo questo perso la sua caratteristica gratuità per effetto del d.l. n. 98/2011, convertito con modificazioni dalla l. 111/2011 che ha reso necessario anche in tal caso il pagamento del contributo unificato.
Malgrado la previsione dell’obbligo del contributo unificato per il ricorso straordinario l’utilità – anche se ridotta – permane. Questa è legata anzitutto al termine più lungo (rispetto al rimedio giurisdizionale ordinario), alla non necessità della difesa tecnica e, quindi, al minor costo sostanziale. L’utilità del rimedio in esame è data anche dall’assenza, in caso di rigetto, della condanna alle spese e dalla possibilità, in caso di accoglimento, di recupero del contributo unificato. Altra utilità è quella legata ai tempi della decisione: infatti, se si fa l’interpello e non ci sono particolari ritardi nell’istruttoria, i tempi – ad eccezione di alcune specifiche materie – possono essere più celeri di quelli normalmente occorrenti per il ricorso giurisdizionale in due gradi di giudizio. Del resto, l’utilità del ricorso straordinario al Capo dello Stato è inequivocabilmente dimostrata dal suo crescente utilizzo: infatti, mentre nel quadriennio 2008-2011 sono pervenuti alle sezioni consultive del Consiglio di Stato circa 5.000 affari l’anno, nel 2013 si è registrata un’impennata a 13.700, evidentemente dovuta anche al maggior peso del contributo unificato per i ricorsi al TAR in alcune materie (si legga in tal senso P. Tanda, Le ricadute della sentenza n. 73/2014 della Corte Costituzionale sulla cd. giursdizionalizzazione del ricorso straordinario al Capo dello Stato, in federalismi.it, n. 21/2014).
[9] Attualmente il principio rinviene la sua disciplina nell’art. 8 comma 2 d.P.R. n. 1199/1971.
[10] C. Volpe, Il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, in www.giustizia-amministrativa.it.
[11] Diversità che emerge anche dal procedimento – del tutto differenziato rispetto al processo giurisdizionale amministrativo – articolato in tre fasi: una fase istruttoria di competenza di apparati ministeriali (il Ministero competente secondo la materia controversa, o la Presidenza del Consiglio dei ministri in mancanza di specifico collegamento della materia stessa con quella di attribuzione di un Ministero); una fase consultiva di competenza del Consiglio di Stato, cui i soggetti interessati possono partecipare presentando memorie e documenti, che si esprime oggi in un parere vincolante circa la decisione finale (un atto quindi a carattere decisorio); la decisione finale con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Ministero competente per materia o del Presidente del Consiglio di ministri (artt. 8 ss., d.P.R. n. 1199/1971, art. 69, l. n. 69/2009). Quindi un procedimento che si svolge in ogni fase davanti ad organi amministrativi e non giurisdizionali, con limitato contraddittorio tra le parti (V. Cerulli Irelli, Amministrazione e giurisdizione, in Giurisprudenza Costituzionale, fasc. 3, 1° giugno 2019, 1838).
[12] Cass. SSUU, 2 ottobre 1953, n. 3141; Cons. Stato, sez. V, 9 luglio 1954, n. 724
[13] Come previsto dall’art. 12 d.P.R. n. 119/1971, ma anche ribadito da TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 30 settembre 2022, n. 2582 in cui si legge che “Per giurisprudenza consolidata, la decisione del ricorso straordinario al Capo dello Stato o al Presidente della Regione può essere impugnata per revocazione nei casi previsti dall'art. 395 c.p.c., nonché davanti al giudice amministrativo solo per i vizi formali e procedurali successivi al vincolante parere di rito del Consiglio di Stato. Tali limitazioni all'impugnativa della decisone sono opponibili solo al ricorrente e alle controparti del procedimento giustiziale, le quali non avendo chiesto la trasposizione alla sede giurisdizionale hanno così accettato tutte le peculiarità e conseguenze di tale procedimento”.
In particolare, la rinuncia del ricorrente straordinario successiva alla trasmissione del parere dell'organo consultivo, ma anteriore al decreto presidenziale, non può essere utilmente presentata e, ove prodotta, non può essere considerata e dispiegare i pretesi effetti estintivi.
L'espressione del parere obbligatorio esaurisce la fase decisionale del ricorso straordinario; la sua rivalutazione in sede giurisdizionale è inammissibile stante il principio di alternatività fra ricorso straordinario e ricorso giurisdizionale, che non consente che vengano rimesse in discussione questioni, di forma e/o di sostanza, afferenti gli atti ed i provvedimenti opposti in via straordinaria, onde evitare che l'impugnazione in sede giurisdizionale porti ad un riesame del medesimo giudizio espresso in sede consultiva, per effetto della sovrapposizione della decisione giurisdizionale a quella del ricorso straordinario”.
[14] Avallata dalla Corte di Giustizia già con sentenza del 16 ottobre 1997, cause riunite da C-69/96 a C-79/96. In quell’occasione la Corte, infatti, giunse ad ammettere la possibilità per il Consiglio di Stato, in sede di emissione del parere su ricorso straordinario, di effettuare il rinvio pregiudiziale. A tale conclusione la Corte di Giustizia pervenne sulla base della considerazione per cui anche in tale sede al Consiglio di Stato va riconosciuta la qualifica di “giurisdizione nazionale” ai sensi dell’art. 177 (ora 234) del Trattato CE. Sulla scia della sentenza della Corte di Giustizia si pose poi lo stesso Consiglio di Stato, sez. I, 19 maggio 1999, n. 850.
[15] Cass. SSUU, 18 dicembre 2001, n. 15978 in cui si legge che “requisito indefettibile dei procedimenti giurisdizionali, anche alla stregua di quanto stabilito dall’art. 111 Cost. così come riformulato dall’art. 1 legge cost. n. 2/1992 è che il procedimento si svolga dinanzi a un giudice terzo e imparziale. Nel caso di specie il procedimento ha invece protagonista un’autorità amministrativa che, come si è posto in evidenza, non è neppure vincolata in modo assoluto al parere espresso dal Consiglio di Stato, e può quindi risolvere la controversia secondo criteri diversi da quelli risultanti dalla pura e semplice applicazione delle norme di diritto, che rappresentano l’aspetto caratterizzante delle decisioni adottate in sede giudiziaria (art. 101 comma 2 cost.). […] Invero, la nozione di organo giurisdizionale rilevante ai fini dell’individuazione delle autorità legittimate a rimettere in via pregiudiziale all’esame della Corte di Giustizia questioni relative all’interpretazione del trattato va ricavata esclusivamente dalle norme del diritto comunitario, mentre nel caso di specie essa deve essere desunta dalle disposizioni di diritto interno. Tra le due nozioni non vi è, dunque, necessaria coincidenza”.
[16] Corte Cost. 28 luglio 2004, n. 254.
[17] Per Corte Cost., 13 novembre 2013, n. 265 tale facoltà sarebbe riconosciuta anche nei casi in cui il ricorso introduttivo sia stato notificato prima dell’intervento legislativo del 2009. Ad avviso della Corte, infatti, “in mancanza di diversa prescrizione essa risulta applicabile in ragione del principio tempus regit actum e purché la richiesta di parere del Consiglio di Stato sia stata inoltrata nella vigenza della precedente disciplina”.
[18] Come invece ha affermato la Corte di Cassazione, riconoscendo l’idoneità del decreto stesso a formare il giudicato e superando del tutto la natura amministrativa, precedentemente riconosciuta (Cass. SSUU., 19 dicembre 2012, n. 23464; 8 settembre 2013, n. 20659; 5 ottobre 2015, n. 19786). In tal senso fondamentale è anche la pronuncia delle SSUU, 28 gennaio 2011, n. 2065 che ha chiarito come le modifiche apportate dall’art. 69 sono tali da eliminare alcune determinanti differenze del procedimento per il ricorso straordinario rispetto a quello giurisdizionale, quali erano state rimarcate nella citata sentenza n. 15978/2001; l’eliminazione del potere della PA di discostarsi dal parere del Consiglio di Stato confermerebbe che il provvedimento finale, che conclude il procedimento, è meramente dichiarativo di un giudizio, per cui che questo sia vincolante, se non trasforma il decreto presidenziale in atto giurisdizionale (in ragione della natura dell’organo emittente e della forma dell’atto), lo assimila a questo nei contenuti.
[19] È stato, tuttavia, autorevolmente rilevato che, se si optasse per la natura “sostanzialmente giurisdizionale” del rimedio in esame, il significato della opposizione dei controinteressati (e delle parti resistenti) non sarebbe più quello di scegliere tra un rimedio giurisdizionale e uno amministrativo, ma quello di scegliere tra due rimedi giurisdizionali (l’uno semplificato e l’altro ordinario), con una conseguente notevole limitazione dell’oggetto del consenso di tutte le parti: l’espressione “sostanzialmente giurisdizionale” da un lato lascerebbe intendere l’impossibilità di sostenere la tesi della natura effettivamente giurisdizionale, dall’altro lato introdurrebbe una distinzione tra giurisdizione in senso sostanziale e giurisdizione in senso formale, che è giustificabile in altri sistemi giuridici ma non nel nostro, in considerazione della disciplina costituzionale della funzione giurisdizionale (in tal senso F.G. Scoca, Osservazioni sulla natura del ricorso straordinario al Capo dello Stato; Cons. Stato, Ad. Plen., 5 giugno 2012, n. 18, in Foro it., 2012, III, 2378).
[20] In senso contrario, tuttavia, è stato escluso che possa essere significativo il fatto che la riforma del 2009 abbia reso vincolante il parere del Consiglio di Stato, in quanto la vincolatività di tale provvedimento non ne muterebbe la natura, che rimarrebbe amministrativa ed ancorata ad una funzione giustiziale: in questo senso deporrebbe anche la rubrica dell’art. 69 l. 69/2009. Così G. D’Angelo, La «giurisdizionalizzazione» del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica: profili critici di un orientamento che non convince, in www.giustamm.it, 2013, 6, secondo cui semmai la vincolatività muta i termini del rapporto con il decreto del Presidente della Repubblica. Del resto, è stato evidenziato che nel procedimento del ricorso straordinario la natura decisoria è riconoscibile, con maggiore evidenza oggi in ragione del carattere vincolato, al parere del Consiglio di Stato, il quale avrebbe carattere formale di atto consultivo ma dal punto di vista sostanziale sarebbe caratterizzato dagli stessi contenuti di una decisione amministrativa (cfr. A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2013, 165).
[21] Non a caso il Consiglio di Stato ha natura di organo giurisdizionale anche quando esprime il proprio parere nell’ambito del ricorso straordinario al Capo dello Stato. In tal senso si leggano le pronunce di Cons. Giust. Amm. Sic., 21 marzo 2011, n. 242 e di Cons. Giust. Amm. Sic., 17 gennaio 2011, n. 30.
[22] P. Tanda, Le ricadute della sentenza n. 73/2014, cit., 14.
[23] Corte Cost., 26 marzo 2014, n. 73.
[24] Per una trattazione sistematica su come si concretizza il principio di effettività in relazione alle diverse tipologie di sentenze si rinvia a F. Francario, La sentenza: tipologia e ottemperanza nel processo amministrativo, in Diritto Processuale Amministrativo, fasc. 4, 2016, 1025 ss.
[25] Ex art. 134 comma 1 lett. a) c.p.a.
[26] Del resto, quando il legislatore ha voluto limitare il potere del giudice dell’ottemperanza lo ha esplicitato, come è accaduto con il d.l. n. 90/2014, convertito con modificazioni dalla l. n. 114/2014, che espressamente prevede l’inapplicabilità dell’art. 114 comma 1 lett. a) e c) c.p.a. nei giudizi in cui sia parte il Csm.
[27] Parte della dottrina, esaltando il profilo esecutivo, ha ricondotto il modello a quella dell’esecuzione forzata civile; altra parte, invece, ponendo in risalto la peculiarità dell’attività esecutiva richiesta dalla sentenza di annullamento, ha osservato che il giudizio di ottemperanza è in primo luogo un processo di cognizione, realizzandosi in esso un completamento del contenuto della pronuncia di annullamento, vista la natura del giudicato amministrativo di un giudicato a “formazione progressiva”.
[28] Viene così risolta la questione definitoria della natura dell’ottemperanza che aveva alimentato il dibattito culminato nell’arresto delle SSUU, 24 dicembre 2009, n. 27348 che, sposando l’orientamento intermedio, ne avevano già ribadito natura mista e autonoma.
[29] Cons. Stato, sez. VI, 10 giugno 2011, n. 3513 e Cons. Stato, Ad. Plen., 5 giugno 2012, n. 18. Il Consiglio di Stato ha poi utilizzato argomenti analoghi anche nelle Ad. Plen., 6 maggio 2013, n. 9 e n. 10 per ammettere esplicitamente il giudizio di ottemperanza per l’esecuzione della decisione del ricorso straordinario.
[30] Punto 15.2 della pronuncia in commento.
[31] Punto 15.4 della pronuncia in commento.
[32] Art. 8 d.P.R. n. 1199/1971.
[33] A poco è valso infatti il tentativo del TAR Sicilia, Catania, 28 marzo 2007, n. 623 di estendere il rimedio anche all’azione di accertamento sostenendo che la stessa “è proponibile in sede di ricorso straordinario anche se la materia rientri nella giurisdizione del giudice ordinario, purché la pretesa sostanziale inerisca ad un rapporto avente rilievo pubblicistico”. A smentire tale impostazione interviene sia l’art. 7 comma 8 c.p.a che Cons. Stato, sez. II, con parere del 12 giugno 2014, n. 2436 che ha confermato che “la decisione del ricorso straordinario è preordinata alla sola verifica della legittimità dell’atto impugnato e non può implicare l’accertamento di un determinato assetto del rapporto intercorrente tra le parti”.
[34] Il fulcro di detto contrasto giurisprudenziale, afferendo all’estensione delle forme di tutela disponibili sulla base del dato formale dello strumento di tutela attivato, pur a fronte della medesima situazione giuridica soggettiva (e, segnatamente, al riconoscimento della possibilità di accedere alla tutela esecutiva), ricorda, per certi versi, la tensione sottesa al concetto di Rechtsschutzbedürfnis nel pensiero di Schönke (cfr. P.L. Portaluri, La cambiale di Forsthoff. Creazionismo giurisprudenziale e diritto al giudice amministrativo, Napoli, 2021, 107 ss.).
[35] Introdotto dall’art. 4 comma 2 l. n. 2248/1889 (l.a.c.). e permeante tutto il c.p.a. a partire dall’art. 1, oltre che di rilievo costituzionale ex art. 24 e sovranazionale ex art. 6 CEDU.
[36] Ai sensi dell’art. 3 comma 4 l. n. 205/2000.
[37] Non proponibile neanche questa, però, in sede di ricorso straordinario per le medesime ragioni esposte in tema di azione di accertamento.
[38] Al punto 16 della pronuncia in commento.
[39] Corte Cost., 2 luglio 1966, n. 78.
[40] Interessante, in tal senso, è anche la ricostruzione di taluni (P. Tanda, Le ricadute della sentenza n. 73/2014, cit., 9) del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica come un rito speciale in unico grado, fondato sull’accordo delle parti e destinato ad avere un ruolo di deflazionamento nel congestionato sistema di giustizia amministrativa.
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