ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
*Il contributo si inserisce nell'approfondimento del tema Accesso in magistratura, precedenti contributi Accesso alla magistratura - 1. Pensieri sparsi sul concorso in magistratura di Giacomo Fumu, Riflessioni sul concorso in magistratura di Mario Cigna Il tirocinio formativo ex art. 73 d.l. n. 69/2013 di Ernesto Aghina, Il procedimento per la nomina e selezione dei giudici e pubblici ministeri nella Repubblica Federale Tedesca di Cristiano Valle, Percorsi di accesso alla magistratura in Ungheria di Anna Madarasi, L’accesso alla magistratura francese di Antonio Musella[*] sotto la voce della rivista Ordinamento giudiziario.
Sommario: 1. Equilibrio fra i poteri dello Stato e ruolo della giurisdizione - 2. La Giurisprudenza e le sue Facoltà - 3. Un biennio (infralaurea) specializzante per le professioni legali.
1. Equilibrio fra i poteri dello Stato e ruolo della giurisdizione
1.1. La crisi della democrazia rappresentativa incide sulla legittimazione dei professionisti legali - soprattutto, ma non esclusivamente, dei magistrati - a esercitare la loro funzione di interpreti della volontà del legislatore, a sua volta espressione della volontà dei cittadini.
La difficoltà che il legislatore non infrequentemente mostra - sia nell’uso della tecnica legislativa sia nella determinazione dei contenuti delle norme - a determinare quanto necessario per una efficace regolazione rende instabile l’equilibrio fra i poteri dello Stato sia che li si concepisca secondo la loro tripartizione tradizionale, sia che li si consideri adottando uno schema più articolato e attuale.
Questo esito è evidente quando la legislazione non è preceduta da un adeguato dibattito politico e dalla ponderazione delle scelte tecniche. Soprattutto, se i contenuti della produzione legislativa derivano da mediazioni fra esigenze fra loro confliggenti, l’autosufficienza logica delle norme si riduce e questo espande il ruolo della ermeneutica giuridica con il rischio dell’affermazione di principi normativi in realtà non dettati dal legislatore ma introdotti dagli interpreti facendo leva sulla elasticità dei significati delle norme, per analogo verso, delle clausole generali che a volte si trovano sciorinate in ordine sparso persino nelle disposizioni penali incriminatrici.
Quando accade che i significati veicolati dalle disposizioni slittano verso dei nuovi contenuti confezionati dagli interpreti, l’ingranaggio giuridico non funziona più soltanto come un meccanismo per veicolare prescrizioni ma diventa trampolino di nuove prospettive delle quali può risultare difficile anche individuare i fautori e gli sviluppi, tanto più quando l’ars distinguendi degli interpreti viene avvizzita dall’aggravio dei carichi lavorativi e dal restringersi degli orizzonti culturali.
Tuttavia, resta (ovviamente) inaccettabile che la giurisdizione svolga un ruolo di supplenza politica: il rapporto tra la legislazione e la giurisdizione non deve andare oltre la concretizzazione e lo sviluppo degli obiettivi e dei contenuti che la seconda riceve dalla prima. Non basta l’autorità della posizione per giustificare i risultati della interpretazione della legge, che è una attività che richiede metodo e trasparenza per essere intellettualmente e deontologicamente adeguata. Questa è una delle varie ragioni per le quali la giurisdizione non può trascurare le elaborazioni scientifiche che soltanto la dottrina giuridica può fornire e che nell’approntarle sistema logicamente per questa via spersonalizzando le categorie e gli argomenti adoperati per le decisioni.
Invece, da qualche decennio, proprio quando il mondo è diventato più complicato, nelle università si è affermata l’idea che l’essenziale sia l’apprendimento delle leggi così identificando il diritto con la legge. La formazione universitaria si è orientata verso la legislazione di settore impinguandosi con la giurisprudenza, e lasciando la formazione ulteriore a un nebuloso post-laurea facilmente obsolescente in un tempo di trasformazioni continue, tanto più se è mancata la formazione orientata a fornire abilità più che nozioni. Al graduale maturarsi dell’acquisizione degli strumenti del mestiere si è contrapposta la ricerca della tempestività che si infrange contro la complessità di molte questioni, sicché la tensione verso le conclusioni prevale sullo sviluppo delle capacità argomentative.
2. La Giurisprudenza e le sue Facoltà
2.1. Questi mutamenti sono il prodotto di un’epoca ma i corpi professionali interessati (l’accademia e la magistratura, come anche l’avvocatura) non sono ancora riusciti a sviluppare una capacità di elaborazione che consenta loro di comprendere e gestire il cambiamento (prefigurandosi degli obiettivi) e non soltanto di subirlo con l’illusione di esserne protagonisti.
Eppure, l’attenzione degli Ordini professionali (forense e giudiziario) ai meccanismi di formazione e selezione dei propri componenti è un segno primario del loro livello di adeguatezza istituzionale e di attenzione verso la società presente e le generazioni future.
In questa direzione, la riapertura dell’accesso al concorso per la magistratura ordinaria dovrebbe stimolare qualche novità perché, mentre, certamente, come viene da più parti sottolineato, soddisfa varie esigenze pratiche immediate, risulterà miope se non sarà seguita da una seria rielaborazione della formazione ─ che deve essere comune, già durante il corso universitario ─ degli aspiranti magistrati e degli avvocati, due categorie professionali che integrano un unico sistema culturale e funzionale[1].
In questo contesto, l’art. 4. l. n. 71/2022 è importante per il suo aprire nuove prospettive quando affida alle norme di attuazione il compito di far sì che «la Scuola superiore della magistratura organizzi, anche in sede decentrata, corsi di preparazione al concorso per magistrato ordinario» per laureati che stiano svolgendo o abbiano svolto il tirocinio formativo presso gli uffici giudiziari previsto dall’art. 73 d.l. n. 69/2013 o abbiano prestato presso l’ufficio per il processo l’attività prevista dall’art. 14 d.l. n. 80/2021, «stabilendo che i costi di organizzazione (…) gravino sui partecipanti in una misura che tenga conto delle condizioni reddituali dei singoli e dei loro nuclei familiari». Ancor più importante è dove (lett. d) richiede che «la prova scritta del concorso per magistrato ordinario abbia la prevalente funzione di verificare la capacità di inquadramento teorico-sistematico».
A questo punto è possibile prefigurare un nuovo sistema di selezione per la magistratura con un centro unico e pubblico che, «in sede decentrata», attivi proficuamente la rete dei magistrati formatori oppure (o anche) ridia uno scopo alle Scuole di specializzazione per le professioni legali (che al momento sono destinate a estinguersi per mancanza di specializzandi) presso le Università.
Un analogo impianto potrebbe ispirare l’azione della Scuola superiore dell’avvocatura per alimentare un circuito culturale che leghi l’Accademia, l’Avvocatura e la Magistratura nella elaborazione di convergenti percorsi di formazione (che è cosa diversa è più impegnativa del mero aggiornamento) dei giuristi forensi.
2.2. Tuttavia, pare necessario rimarcare che anche riuscire nella difficile impresa di approntare soluzioni organizzative efficienti non basterebbe a renderle efficaci se si prescindesse da una riflessione preliminare sui contenuti che esse possono veicolare.
Il ruolo dei corsi universitari è insostituibile rispetto allo scopo di fornire (per tempo e con il tempo necessario a sedimentare gli apprendimenti) una preparazione ancorata alla solida conoscenza degli istituti giuridici e alla capacità di padroneggiare l’argomentazione giuridica nelle sue plurime forme.
La Facoltà di Giurisprudenza (che nell’ordinamento universitario italiano attuale non esiste più con questo nome) all’inizio del diciannovesimo secolo era collocata idealmente all’incrocio fra teologia, medicina e filosofia e destinata, come le altre, all’educazione spirituale dell’individuo.
Non molto tempo dopo, il successo del positivismo, lo sviluppo delle scienze sociali, la rivoluzione industriale e l’egemonia della mentalità borghese concorsero nel favorire un nuovo modo di concepire il rapporto tra il sapere e l’azione: la ricerca della efficienza rafforzò il profilo del sapere come capacità tecnico-funzionale, indirizzata verso la specializzazione in vari modi acquisita.
Questa tendenza è stata rafforzata dalla perdita di coesione del sistema normativo che – in parte svincolato anche dalle sovranità statali – non nasconde la sua contingenza, frutto di volontà incostanti, talvolta arbitrarie.
Così il sapere giuridico si è frantumato in una molteplicità di conoscenze settoriali e la dottrina (orfana di eccellenze) risulta timida nel razionalizzare il sistema integrandovi le (proliferanti) leggi speciali. Nel diritto forense, si appoggia alla giurisprudenza mentre dovrebbe aiutarla a chiarirsi le idee: invece, si è sparsa in piccole scuole, spesso politicizzate e dubbiose nei confronti delle finalità stesse della scienza che dovrebbero tramandare, timide nel confrontarsi fra loro.
In questo periodo di disinvoltura metodologica più che i giuristi si affermano gli esperti legali. Le tensioni principali degli interpreti più che il perfezionamento del sistema dei concetti e la coesione dei principi nutrono il sottosistema giudiziario come meccanismo di regolazione atto a fronteggiare il massiccio numero di conflitti derivanti dall’aumento delle relazioni sociali.
Allora, la ricerca dell’efficienza produttiva (che rischia di incartarsi su sé stessa) alimenta e enfatizza una vivacità mentale che cela la pigrizia intellettuale.
Il punto è che l’interpretazione del diritto non costituisce un mero compito da eseguire ma una fonte di problemi (spesso semplici, altre volte complessi) da risolvere.
Soprattutto l’elasticità dei principi normativi, come anche delle clausole generali, e delle loro composizioni consente una gamma di soluzioni diverse che possono comportare delle scelte che ampliano lo spazio del potere giudiziario. Il quale, tuttavia, non per questo può oltrepassare il suo limite: non deve produrre principi normativi diversi e nuovi rispetto a quelli offerti (esplicitamente o implicitamente) dall’insieme dei dati normativi.
Per queste ragioni, la giurisdizione non dovrebbe rinunciare alle elaborazioni scientifiche che soltanto la dottrina giuridica è in grado fornire sistemando e così oggettivando le categorie adoperate nel decidere. Invece, la cultura della semplificazione nelle università va individuando l’essenziale della formazione nell’apprendimento delle leggi favorendo l’idea che basti il fatto di essere investiti di una funzione attuativa qualificata (quella di magistrato) per giustificare i risultati della interpretazione della legge, legando l’autorità alla posizione e facendo della pratica giudiziaria la base per la formazione dei nuovi giuristi. Così i magistrati tendono a chiudersi in un orizzonte autoreferenziale (che in alcuni casi si riverbera anche negli atteggiamenti esteriori rispetto all’operato professionale).
Anche la ricostruzione dei fatti ai quali applicare le norme non costituisce un mero compito ma è fonte di problemi specifici (e in alcuni campi ardui) della epistemologia giudiziaria per la soluzione dei quali gli attuali corsi di laurea non forniscono strumenti.
3. Un biennio (infralaurea) specializzante per le professioni legali
3.2. I giuristi legali (avvocati, magistrati, processualisti) si distinguono dagli altri laureati in giurisprudenza per la necessità di possedere non solo una solida conoscenza degli istituti giuridici del settore ma anche la capacità di padroneggiare le argomentazioni senza rimanere invischiati nei meandri delle loro ramificazioni. Al riguardo diverte ricordare quello che scriveva Gotofredo Contatter qualche tempo fa ma con osservazioni ancora attuali:
«Gli Italiani, nel trattare e discutere le controversie del nostro diritto, hanno quest'uso, che dopo aver proposto qualche questione disputano tanto a favore della tesi affermativa che della negativa. In primo luogo adducono per lo più gli argomenti con i quali si corrobori e si affermi quella opinione che a loro giudizio credono falsa. Di poi vengono prese in esame le ragioni a favore della contraria ed opposta opinione; e finalmente essi rigettano e confutano la prima opinione e insieme rispondono alle contrarie leggi per lo innanzi addotte a favore di quella .......Sebbene potrebbero risolvere con tre o tutt'al più con quattro parole il punto di diritto, appena lo esauriscono disputandone per tre giorni. Aggiungasi che gli inesperti e deboli intelletti degli scolari sono aggravati e confusi da questa moltitudine e varietà di controversie, sì che non possono facilmente discernere il vero dal falso. Né ciò fa meraviglia perché spesso accade ai dottori medesimi di non sapersi districare negli stupefacenti labirinti delle dispute che portano In campo»[2].
Varie idee possono svilupparsi circa i contenuti di un indirizzo del corso di laurea in giurisprudenza relativo alle professioni legali.
Ma sembra ragionevole prospettare che i piani di studio universitari dovrebbero delineare nel secondo biennio un percorso di formazione verso le professioni legali, distinto da altri percorsi professionali, dando adeguato spazio, oltre alle materie tecniche specifiche, a discipline che offrono le basi metodologiche delle professioni legali: l’ermeneutica giudiziaria (anche per padroneggiare le conseguenze di tecniche legislative fondate sulla normazione “per principi” che si giustappone a quella tradizionale “per regole”), la logica e l’argomentazione giuridica, l’epistemologia giudiziaria (per rendere più attenti a una corretta ricostruzione dei fatti oggetto dei processi) e lo studio del diritto dell’Unione e del diritto comparato.
Per quel che specificamente riguarda il ragionamento giuridico, nell’attuale formazione i laureandi incontrano solo (peraltro implicitamente veicolati ma non esplicitamente studiati) elementi di logica classica che però non bastano a modellare tutti i ragionamenti e, particolarmente, quelli di tipo probabilistico (le cui fallacie sono meno agevolmente rinvenibili rispetto a quelle in cui possono cadere le inferenze deduttive). Inoltre, la logica matematica serve per costruire modelli dei ragionamenti e per controllarne la coerenza interna e la confidenza con i modelli logici ha un valore formativo come strumento di lavoro (solo formalizzando un ragionamento in termini logico-matematici possono cogliersene eventuali illogicità).
In generale, la formazione degli studenti italiani è approfondita sugli aspetti del diritto, ma è esclusivamente umanistica, priva di cultura scientifica. Sarebbe il caso di arricchirla. Sarebbe sbagliato scimmiottare le esperienze di altri ordinamenti ma tenerne conto è utile. Per esempio, è da considerare che negli Stati Uniti per accedere al primo livello di formazione giuridica in una law school occorre avere un bachelor degree (analogo delle nostre lauree triennali) in una qualsiasi altra materia; al primo anno di tutti i bachelor program (a prescindere da quale sia la materia principale affrontata) le università offrono insegnamenti sulle materie scientifiche. Ovviamente questo non serve a fare del giurista uno scienziato ma lo aiuta a meglio approcciarsi alle scienze, ai loro linguaggi e alle situazioni nelle quali è necessario distinguere la solida scienza dalla pseudoscienza.
In questa direzione, nel 2012 in Germania il Consiglio superiore della scienza si è espresso sulle prospettive della scienza giuridica indicando la necessità di un rafforzamento della dimensione culturale, di quella interdisciplinare e di quella internazionale della formazione giuridica. Si sottolinea la necessità di accrescere nella formazione del giurista la capacità di comprensione del contesto nel quale le norme sono poste e si auspica un accrescimento del peso dei Grundlagefächer, cioè delle basilari discipline ‘ storiche, filosofiche e comparatistiche e delle capacità di dialogo con le altre scienze, e l’allontanarsi dal tecnicismo fine a sé stesso[3].
3.3. In ogni caso, sarebbe utile che la formazione universitaria del giurista forense allenasse alla auto vigilanza psicologica e dialettica suggerendo schemi di comportamento intellettuale utili per ridurre il rischio di errori giudiziari. Tre mosse mentali risultano sempre essenziali a questo scopo: la prima consiste nell’individuare i preconcetti impliciti dubitando della oggettività dei propri giudizi e esaminando come si formano le proprie credenze; la seconda sta nel generare (o nell’ascoltare) tesi alternative a quella sostenuta, considerando imparzialmente ogni altra ipotesi plausibile (non soltanto quella opposta); la terza concerne specificamente la ricostruzione degli eventi singoli e richiede mantenersi consapevoli che la verità fattuale non è oggetto di dimostrazioni, ma solo di induzioni e di loro conferme (o mancate confutazioni), per cui la conclusione raggiunta potrebbe comunque essere falsa. Anche in questa direzione serve l’alternanza, nelle varie materie, fra i corsi teorici tradizionali e le cosiddette cliniche legali (diffuse nelle università straniere e ora praticate anche in alcune italiane) che esercitano lo studente a costruire un’argomentazione legale corretta e coerente.
3.4. Né, ormai, può trascurarsi che nel prossimo futuro inevitabilmente aumenteranno le interazioni dei giuristi forensi con gli strumenti della razionalità artificiale veicolata dalle elaborazioni informatiche. Allora pare necessario delineare dei percorsi di formazione (come del resto e avviene in alcuni corsi di laurea anche in Italia) che conducano a servirsi di questi strumenti con adeguata cognizione delle loro virtualità come anche dei loro limiti per evitare che questi divengano insidie.
Questo dovrebbe avvenire nel quadro di una generale riconsiderazione degli strumenti intellettuali di base che possono servire a professionisti che hanno il compito di applicare i discorsi del diritto alle esigenze pratiche che sorgono dalla vita reale.
* Il contributo si inserisce nell'approfondimento del tema Accesso in magistratura, precedenti contributi Accesso alla magistratura - 1. Pensieri sparsi sul concorso in magistratura di Giacomo Fumu, Riflessioni sul concorso in magistratura di Mario Cigna Il tirocinio formativo ex art. 73 d.l. n. 69/2013 di Ernesto Aghina, Il procedimento per la nomina e selezione dei giudici e pubblici ministeri nella Repubblica Federale Tedesca di Cristiano Valle, Percorsi di accesso alla magistratura in Ungheria di Anna Madarasi, L’accesso alla magistratura francese di Antonio Musella[*] sotto la voce della rivista Ordinamento giudiziario.
[1] Articolati contributi sul tema in: C. Angelici (a cura di), La formazione del giurista. Atti del convegno, Roma, 2 luglio 2004, Milano, Giuffrè, 2005; A. Giuliani – N. Picardi (a cura di), L’educazione giuridica, Bari, Cacucci, 2008; P. Costa, La formazione del giurista. A proposito di una recente collana di studi, in: Sociologia del diritto, 1, 2013, pp. 215-222; A. Pasciuta-L. Lo Schiavo (a cura di), La formazione del giurista. Contributi a una riflessione, Roma Tre-Press, 2018.
[2] Dal diario di Gotofredo Conratter, studente tedesco di giurisprudenza iscritto alla Università di Padova nel 1577-78 (A. Cavanna, Storia del diritto moderno in Europa,( 1), Le Fonti e il pensiero giuridico, ristampa inalterata, Giuffrè Editore, 1982, pp. 143-144.
[3] Sul documento: C. Wolf, Perspektiven der Rechtswissenschaft und der Juristenausbildung. Kritische Anmerkungen zu den Empfehlungen des Wissenschaftsrats, in: Zeitschrift für Rechtspolitik, 2013, pp. 20 ss.; G. Resta, Quale formazione per quale giurista?, in: B. Pasciuta- L. Loschiavo, op. cit., pp 127-150, 139.
Domani inizierà il giro d'Italia 2023
Piemonte, Italia, 10 giugno 1949.
Si respira, in città, un buon odore di pane; si ode il fresco clamore della libertà ritrovata; si avverte, nel luminoso mattino, il gradito torpore dell’estate incipiente.
Le biciclette brillano al sole, annunciando una felicità nuova: mentre si avvicinano al confine amico la festa fa luogo alla gara.
Il carosello si slabbra sulle pendici della MADDALENA, un uomo si stacca dagli altri e sale in solitudine i quasi duemila metri della cima.
È solo il primo dei cinque monti da scalare.
Non può essere una fuga decisiva. Non può essere neppure un tentativo. Se lo fosse, si tratterebbe di un’impresa impossibile, di un vero suicidio.
Il fuggitivo entra in territorio francese. Le ruote della sua bicicletta sembrano spinte da un motore silenzioso. Salgono ancora: il ripido VARS, oltre duemilacento, dietro non si vede nessuno.
Il distacco, nonché regredire, si accresce.
Non durerà, è certo: ben presto il freddo alpino penetrerà nel petto; il sudore si muterà in ghiaccio; i muscoli si riempiranno di umore doloroso; le gambe pesteranno sui pedali sempre più pesanti.
Il ribelle dovrà rallentare, finirà riassorbito nel mucchio selvaggio.
Forse sarà così, ma non ora: ora il temerario cavaliere sfreccia velocissimo lungo la sinuosa discesa, gli occhi incuranti del pericolo come le gambe della fatica. Questa sembra sciogliersi sulla catena della sua bicicletta come i fiocchi di nevischio sulle sue calde gote.
È pronto per la terza scalata: il superbo IZOARD, duemilatrecentosessanta circa.
Solo due movimenti: il primo per togliere dal petto il giornale che era servito da riparo al vento; il secondo per bere un sorso dalla borraccia.
Poi, solo le gambe si muovono: ritmicamente, di lena, sgretolano la salita, conducono al valico; si fermano, dopo aver raggiunto la cima, sull’inerzia del mutato pendio.
Nessun inseguitore è men che lontano. Si può virare verso l’Italia, con animo sereno, con la propria fiducia finalmente accompagnata da altre fiducie; con l’impresa già compiuta di aver convertito altri alla propria fede; e con l’impresa da compiere di mantenere la promessa.
Per raggiungere il confine si deve passare dal MONGINEVRO, il colle che lega gli itinerari della storia, unendo la via Romea al Cammino di Santiago. Il cavaliere solitario sale ancora, ora con maggiore fatica: le pedalate sono più lente e più dure; il vento sembra avere eretto un muro invalicabile; i fantasmi della via francigena minano la fiducia e incutono la paura del fallimento.
Finalmente, dopo la dolorosa cima, una nuova agognata discesa. Il fuggitivo si scuote. Tutti sono ancora tanto distanti. Il primo inseguitore, il rivale di sempre, è a quasi dodici minuti. Non lo raggiungeranno s’egli avrà la forza di resistere.
L’ultimo sorso d’acqua prima di introdurre il rapporto leggero. Lo scatto del cambio annuncia l’estrema scalata: il SESTRIERE.
Il cavaliere coraggioso fende con il viso la gelida foschia delle Alpi piemontesi, gli occhi densi di lacrime, il sangue pulsante sulle vene rigonfie, la mente fissa sull’ultima cima.
Tutta la forza del mondo si concentra nelle sue gambe; tutta la luce dell’universo si accende nel suo cuore.
Superba la scalata, sontuosa la progressione, trionfale l’arrivo: “Un uomo solo al comando ... la sua maglia è biancoceleste ... il suo nome è Fausto Coppi”.
Sommario: 1. Premessa. Il volume: “Solidarietà, Un principio normativo” e il giurista Guido Alpa. - 2. Prima analisi del volume. - 3. Gli approfondimenti: il concetto di solidarietà nei sistemi dittatoriali e in quelli democratici. - 4. Segue: il significato di “solidarietà” contenuto dell’art. 2 Cost. - 5. La trasformazione della solidarietà da valore morale a principio giuridico (ovvero della solidarietà orizzontale e della solidarietà verticale). - 6. La forza giuridica della solidarietà e i nuovi diritti e doveri di origine giurisprudenziale. - 7. La trasformazione della solidarietà in sostenibilità. - 8. La solidarietà come fine e la solidarietà come mezzo. - 9. Brevissime conclusioni.
1. Premessa. Il volume: “Solidarietà, Un principio normativo” e il giurista Guido Alpa.
È un onore e un piacere per me recensire questo libro, con il quale un grande giurista affronta un grande tema.
La solidarietà, infatti, considerata per lungo tempo solo un valore morale od una regola di carità cristiana, si è nel tempo affermata quale principio giuridico, riconosciuto da tutte le Carte costituzionali delle moderne democrazie, e oggi dallo stesso Ordinamento dell’Unione europea.
Guida Alpa ci aiuta in questo percorso, ne indica i passaggi, ne ricostruisce gli sviluppi.
Professore emerito di diritto civile dopo aver insegnato per quasi trenta anni nell’Università La Sapienza di Roma, e Presidente emerito del Consiglio nazionale forense, che ha presieduto dal 2004 al 2015, Guido Alpa è senz’altro uno dei principali giuristi italiani, e parimenti uno dei maggiori civilisti a livello internazionale, se si considera il grande numero di studi che ha pubblicato in lingue straniere.
Il volume, chiaro e ben strutturato, sintetizza rigore scientifico e concretezza dei fatti, e merita, anche solo per questo, un’attenta lettura e ogni più ampia riflessione.
2. Prima analisi del volume.
Il libro, di 299 pagine, è ripartito in tredici capitoli.
Con essi, il tema della solidarietà è affrontato non solo nei suoi molteplici aspetti giuridici, ma anche nelle sue premesse storiche e filosofiche, e financo religiose, e ciò dal tempo della rivoluzione francese ai nostri giorni.
Lo studio investe prima di tutto il nostro ordinamento, ma poi anche quelli a noi vicini, soprattutto Francia e Germania, oltre ovviamente ad occuparsi dell’ordinamento comunitario.
Nel primo capitolo sono trattate le origini della solidarietà moderna, dai principi dell’illuminismo alle posizioni politiche e filosofiche dell’ottocento, fino al pensiero di Giuseppe Mazzini.
Il concetto di solidarietà è poi affrontato quale valore volto a superare le differenze di genere (cap. II) e quale terza via tra socialismo e capitalismo; e qui l’A. tratta del pensiero di studiosi quali L. Bourgeois, E. Durkleim, L. Duguit ed altri (cap. III).
I capitoli IV e VIII sono dedicati alla dottrina sociale della Chiesa e al senso e al significato della solidarietà in ambito religioso, e ciò dalla Enciclica Rerum novarum di Papa Leone XIII del 1892 all’Enciclica di Papa Francesco Fratelli tutti del 2000.
Il tema centrale del volume ha poi ha ad oggetto, come anticipato, la trasformazione della solidarietà da valore morale a strumento normativo.
A questa trasformazione della solidarietà l’A. dedica in primo luogo il Cap. V, individuando un primo trapasso in tal senso nella Costituzione di Weimar del 1919, e poi negli ordinamenti giuridici dei sistemi totalitari successivi, tra i quali, ovviamente, quello corporativo del nostro periodo fascista.
Con il Cap. VI la trattazione passa alle Costituzioni del secondo dopoguerra: lì l’autore analizza il valore della fraternità contenuto nel preambolo della Costituzione francese del 1946, tratta della rifondazione del patto sociale in Gran Bretagna, e dibatte soprattutto della Costituzione italiana e del nostro art. 2 Cost., ricordando i lavori dell’Assemblea costituente, gli interventi di esponenti quali Palmiro Togliatti, Giuseppe Dossetti, Aldo Moro e Giorgio La Pira, e aggiungendo una interessante raccolta della giurisprudenza della nostra Corte Costituzionale sull’art. 2 Cost. avente ad oggetto i nuovi diritti emersi sulla base del principio di solidarietà.
Dedicato agli aspetti storico/comparatistici è poi il cap. VII, ove si trovano riportati per esteso le normative sulla solidarietà nelle Costituzioni delle due Germanie prima della loro riunificazione (assai interessante la Costituzione della DDR del 1949), e poi le Costituzioni dei paesi scandinavi, e soprattutto quelle del Portogallo (1976) e della Spagna (1978) dopo il ritorno della democrazia in quei paesi.
Dal Cap. IX il libro è dedicato, infine, alla solidarietà nel diritto europeo.
Si ricordano i Trattati e poi la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea e della Corte di Giustizia dei diritti umani, che contemplano e riconoscono, uniformemente e coerentemente tutte, la solidarietà tra gli Stati membri e le istituzioni europee, e la solidarietà tra l’Unione e i cittadini; seppur, sottolinea l’A., possono sollevarsi dubbi sull’effettività del principio di solidarietà in Europa quando si passi dalla interpretazione esegetica dei testi alla realtà concreta della vita quotidiana.
E così, infine, l’ultima parte del libro è dedicata al mercato, e al ruolo della solidarietà nel diritto privato (Cap. XII) e commerciale (Cap. XIII).
Nel diritto privato il principio di solidarietà, come noto, attraverso l’art. 2 Cost. ha consentito ai Giudici costituzionali e della Corte di Cassazione, utilizzando anche il principio di buona fede di cui all’art. 1175 c.c., di superare accordi negoziali non equi e di compiere integrazioni dei contratti volti a correggere squilibri economici e sociali tra le parti.
Nel diritto dell’impresa la solidarietà si è poi trasformata in sostenibilità, e al principio di sostenibilità sono informate le ultime discipline in tema di società, di crisi dell’impresa, e oggi anche di ambiente.
Il volume termina con un Congedo, con il quale l’A sottolinea che “Il principio di solidarietà è un’opera aperta, è la nota di una sinfonia che può essere variamente ripercorsa”.
E ancora aggiunge: “Questo libro non ha conclusioni. Il percorso della solidarietà è lungo e tortuoso e senza fine. La pandemia e la guerra tra Russia e Ucraina alle porte dell’Unione hanno sollevato questioni delicate e gravi problemi anche sul piano della solidarietà……..siamo indotti a credere che occorra rimediare il testo dei Trattati per poter raggiungere nel prossimo futuro un livello di vita sociale in cui siano ridotte le differenze tra i ceti e le persone, e sia accettato il principio di inclusione”.
Si tratta, dunque, di un saggio di ampie dimensioni, volutamente privo di conclusioni affinché ogni lettore, con la propria sensibilità e la propria cultura, possa liberamente trarre le sue; uno studio, dunque, che conferma l’A. quale studioso e intellettuale non solo del diritto civile e/o del diritto c.d. positivo, bensì del pensiero giuridico nel suo senso più vasto e completo.
3. Gli approfondimenti: il concetto di solidarietà nei sistemi dittatoriali e in quelli democratici.
Dunque: spunti di riflessione.
La prima, a mio parere, è quella che cade sulla contrapposizione - che non può non darsi - tra il concetto di solidarietà nei sistemi totalitari e il concetto di solidarietà nei sistemi liberali e democratici.
È fuori discussione che la solidarietà fu un valore (anche) per i sistemi totalitari, mentre oggi tutti noi vogliamo essere solidari senza per questo aderire a politiche di tipo autoritario.
Come è possibile ciò?
Esistono due tipi di solidarietà?
Esattamente, l’illuminismo non aveva dedicato alla solidarietà particolare attenzione, e la Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del cittadino, come ci ricorda lo stesso A. “era tutta incentrata sull’individuo e sui rapporti tra individuo e autorità” tanto che “La triade dei valori rivoluzionari – libertà, uguaglianza, fraternità- in realtà si riduce al binomio libertà-uguaglianza, non essendo la fraternità menzionata neppure nel Preambolo” (pag. 20, 21).
Da altra parte l’A. ci ricorda altresì che la fraternità non compariva infatti nemmeno nella Restaurazione del 1814, e la si trovava per la prima volta solo nella Costituzione della Seconda Repubblica francese del 28 ottobre 1848: “Come si è documentato, in Francia vi è un silenzio nei testi costituzionali che si sono succeduti dal 1789 al 1848, nel senso che la fraternità appare solo nel 1848” (pag. 108).
Bene, se questo è chiaro, va constatato che la solidarietà, dopo la Repubblica di Wiemar, diventa invece un valore centrale nei regimi totalitari degli anni trenta, ed in particolare lo diventa nel nostro ventennio di dittatura fascista.
L’A. richiama la disciplina del lavoro e del sistema corporativo nel fascismo, in un passo del volume che conviene riportare: “La priorità della suprema autorità dello Stato, la prevalenza dell’interesse della Nazione su quello individuale, l’osservanza della giustizia sociale sono i pilastri dell’ordinamento corporativo portando ovunque quel senso di solidarietà sociale che non contrappone tra loro, ma unisce e coordina i vari interessi individuali per il raggiungimento dei fini superiori della Nazione. In poche parole il ministro Guardasigilli illustra i caratteri fondamentali del nuovo ordine, che lo distinguono dal modello liberale, individualista e libero dall’intervento dello Stato: alle finalità di superiore interesse perseguite dallo Stato deve essere subordinato l’interesse individuale. In poche battute si chiarisce allora il senso della solidarietà: è un sentimento, ma al tempo stesso un valore, un principio, e quindi un comando normativo” (pag. 97).
Anche il fascismo aveva dunque la: “declamazione della priorità dell’interesse collettivo su quello individuale, l’istituto della proprietà privata deve ispirarsi a solidarietà e collaborazione…la disciplina delle immissioni sono subordinate al principio di socialità e……il potere di iniziativa privata è riconosciuto in funzione degli interessi nazionali alla produzione” (pag. 100); e posizioni analoghe si rinvenivano, ad esempio, nella Costituzione portoghese del 1933, per la quale “Proprietà, capitale, lavoro – le fonti della ricchezza – assolvono una funzione sociale in regime di cooperazione economica e di solidarietà, potendo la legge stabilire le condizioni del loro impiego o gestione in conformità alle finalità sociali (art.35) ” (pag. 95)
Ora, è chiaro, che questo tipo di solidarietà, che era la solidarietà delle dittature, deve inevitabilmente differenziarsi dalla solidarietà di oggi, e dalla solidarietà di un ordinamento che si proclami democratico e libero.
Ma quali sono le differenze?
In qual modo noi possiamo davvero avere una solidarietà democratica che si differenza da una solidarietà fascista o totalitaria o dittatoriale?
Questa, credo, è la questione preliminare in punto di studio della solidarietà.
L’A. ha chiaro questo problema, e così sottolinea la differenza tra questi due tipi di solidarietà: “là questo principio viene piegato alla realizzazione di fini ben diversi da quelli che la Costituzione attuale si propone, là si trattava di introdurre meccanismi di pace sociale in cui i lavoratori non potevano più contare su propri sindacati ma dovevano rivolgersi ai sindacati fascisti….la solidarietà era oggettiva, non tra le persone, ma tra gli interessi dei partecipanti alla produzione. Qui la solidarietà sociale implica l’intervento dello Stato, la sua azione, per avvicinare le classi sociali, per migliorare le condizioni di vita delle categorie svantaggiate, per sostenere finanziariamente lo Stato sociale, per assicurare a tutti eguali opportunità. Un significato ben diverso, molto più impegnativo, e correttamente collocato nella dialettica degli opposti interessi” (pagg. 98, 99).
La differenza concreta, tuttavia, rischia di non essere evidente, poiché, in uno Stato sociale, si ha parimenti la priorità degli interessi comuni a quelli individuali, e quindi la solidarietà di uno Stato democratico rischia invece di non contrapporsi affatto a quella già predicata nelle dittature del secolo che ci ha lasciato.
In questo senso, se riteniamo invece necessario avere una solidarietà che si contrapponga nettamente alla solidarietà fascista, si tratta, a mio parere, di ripescare il valore della libertà, e di coniugare, così, la solidarietà con la libertà, poiché lì sta, evidentemente, la prima e sostanziale differenza tra una solidarietà totalitaria e una solidarietà democratica.
Credo di poter dire che l’A. si colloca in questa linea di pensiero e ricorda infatti che “ A Firenze, nel maggio del 1946, Piero Calamandrei scrive la presentazione della seconda edizione del libro di Francesco Ruffini sui Diritti di Libertà….. (pag. 113) Un testo dunque che evocava l’anelito alla libertà e che, ripubblicato venti anni dopo, nell’Italia liberata dalla dittatura e nell’occupazione nazista, indicava la strada da seguire per ricostruire la democrazia” (pag. 114).
La sintesi, poi, tra libertà e solidarietà era questa, che “non ci può essere libertà senza che sia garantita a tutti una esistenza degna dell’uomo” (pag. 115).
Il concetto è ricordato dall’A. anche con l’intervento di Aldo Moro in Assemblea costituente: “Uno Stato non è veramente democratico se non è al servizio dell’uomo, se non ha come fine supremo la dignità, la libertà, l’autonomia della persona umana, se non è rispettoso di quelle formazioni sociale nelle quali la persona umana liberamente si svolge e nelle quali essa integra la propria personalità” (pag. 119).
E parimenti, in argomento, è ricordato anche il fondamentale intervento di Meuccio Ruini: “Contro la concezione tedesca, che riduceva a semplici riflessi i diritti individuali, diritti e doveri avvincono reciprocamente la Repubblica ed i cittadini. Caduta la deformazione totalitaria del “tutto dallo Stato tutto allo Stato, tutto per lo Stato” rimane pur sempre allo Stato, nel rispetto delle libertà individuali, la suprema potestà regolatrice della vita in comune” (pag. 121).
Dunque, come primo cosa, direi che la solidarietà di uno Stato democratico, e quindi la nostra solidarietà, deve necessariamente coniugarsi, diversamente da quella del fascismo, con un principio di libertà, e deve rispettare la regola secondo la quale il tutto si realizza nel fine supremo della dignità, della libertà, e dell’autonomia della persona umana.
4. Segue: il significato di “solidarietà” contenuto dell’art. 2 Cost.
In questo contesto, centrale è l’analisi del nostro art. 2 Cost., quale norma principale di tutto il sistema giuridico repubblicano in ordine al principio di solidarietà.
Di nuovo, è doveroso ricordare che quella disposizione sorse in antagonismo al fascismo, e fu voluta principalmente dalle forze cattoliche e di sinistra per opporla alla dittatura del ventennio.
È chiaro, pertanto, che il termine solidarietà dell’art. 2 Cost. non può essere in nessun modo assimilato o posto sul medesimo piano con il concetto di solidarietà che era stato predicato dal fascismo: una, infatti, la solidarietà del fascismo, altra la solidarietà della nuova Repubblica libera e democratica di cui all’art. 2 Cost.
Credo che la contrapposizione sia evidente e non possa essere messa seriamente in discussione.
Questa interpretazione dell’art. 2 Cost. mi sembra ben presente nel volume di Guido Alpa, tanto che l’A. sottolinea in argomento che si era di fronte ad un nuovo Stato: “che risorgeva dopo la tragedia della seconda guerra mondiale con cui il paese si era scrollato di dosso la dittatura e la monarchia” (pag. 117),
L’enfasi dell’art. 2 Cost.:“….è dettata dal riscatto morale che si vuol evidenziare da parte dei Padri costituenti, quasi tutti militanti antifascisti, e suona anche come condanna del recente passato” (pag. 119), e quindi: “La solidarietà acquista una dimensione più complessa di come era stata considerata nei testi costituzionali del novecento che hanno preceduto l’entrata in vigore della Costituzione italiana” (pag. 120).
L’A. fornisce questa contrapposizione tra le due solidarietà, in un caso: “……. si parlava di solidarietà come vincolo fondante del consorzio umano, e come pilastro dello Stato sociale”; nell’altro caso: “……..la solidarietà è intesa come legame fondante le formazioni sociali, la famiglia, le associazioni, le comunità di lavoro – e potremmo includervi, naturalmente, i partiti e i sindacati” (pagg., 120, 121).
Solidarietà come pilastro dello Stato, e solidarietà come collante delle formazioni sociali.
Si tratta di una contrapposizione che merita, però, sia consentito, una ulteriore precisazione.
Il fascismo si fondò sulla supremazia dello Stato sull’individuo, facendo forza sulla filosofia hegeliana; e chi legga, ancora oggi,
La dottrina del fascismo di Benito Mussolini (Hoepli, 1936), vi trova: “Il mondo per il fascismo non è questo mondo materiale che appare alla superficie in cui l’uomo è un individuo separato da tutti gli altri e per sé stante, ed è governato da una legge naturale che istintivamente lo trae a vivere una vita di piacere egoistico e momentaneo. L’uomo del fascismo è individuo che è nazione e patria, legge morale che stringe insieme individui e generazioni in una tradizione e in una missione, che sopprime l’istinto della vita chiusa nel breve giro del piacere per instaurare nel dovere una vita superiore libera da limiti di tempo e di spazio; una vita in cui l’individuo attraverso l’abnegazione di sé, il sacrificio dei suoi interessi particolari, la stessa morte, realizza quell’esistenza tutta spirituale in cui è il suo valore di uomo………….La concezione fascista è per lo Stato ed è per l’individuo in quanto esso coincide con lo Stato, coscienza e volontà universale dell’uomo nella sua esistenza storica, giacchè, per il fascismo, tutto è nello Stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello Stato”.
Ora, è evidente, che la prima precisa volontà dei nostri costituenti fu proprio quella di negare lo Stato fascista e riaffermare una diversa concezione dei rapporti tra individuo e Stato.
V’era, prima di tutto, da affermare che la persona ha diritti inalienabili che discendono dalla natura e non dallo Stato; v’era da affermare che, con riguardo ai diritti inalienabili dell’uomo, lo Stato ha solo il dovere di riconoscerli e tutelarli, non altro; e c’era, poi, più in generale, da negare lo Stato di hegeliana memoria, per ritornare a quello Stato coessenziale alla democrazia e alla libertà dei popoli.
Il compito di delineare questi principi della nuova Repubblica veniva affidato in primo luogo a Giorgio La Pira, e sia consentito riportare qui quanto questi, nella sottocommissione del 75, in data 9 settembre 1946, dichiarava: “È necessario che alla costituzione sia premessa una dichiarazione dei diritti dell’uomo, ciò in conformità anche a tutta la tradizione giuridica cosiddetta occidentale. Ma oltre che in omaggio alla tradizione, una dichiarazione dei diritti dell’uomo deve essere ammessa soprattutto come affermazione solenne della diversa concessione dello Stato democratico, che riconosce i diritti sacri, inalienabili, naturali del cittadino, in opposizione allo Stato fascista, che con l’affermazione dei diritti riflessi, e cioè con la teoria che lo Stato è la fonte esclusiva del diritto, negò e violò alla radice i diritti dell’uomo”.
E quanto alla negazione dello Stato etico hegeliano La Pira ancora esponeva: “Esiste una base filosofica, che sia a fondamento di questa teoria dei diritti riflessi? Alla domanda si può rispondere affermativamente, in quanto la teoria dei diritti riflessi corrisponde alla concezione hegeliana, che vede lo Stato come un tutto e l’individuo come elemento integralmente subordinato alla collettività, in contrapposto all’altra concezione che, pur rispettando l’esigenza della collettività, vede la persona come un ente dotato di una sua interiore autonomia e quindi considera la libertà e i diritti subiettivi non come concessione, ma come conseguenza di questa interiore autonomia”.
Non a caso, così, l’art. 2 Cost. riconosce per primo “I diritti inviolabili dell’uomo”, e solo dopo prosegue affermando: “e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà”; ed ancora, i diritti inviolabili dell’uomo sono riconosciuti con priorità “come singolo”, e solo dopo nelle “formazioni sociali”, in ciò aderendo la norma a quel principio di centralità dell’uomo che risale alla nostra tradizione umanista.
E dunque la ratio prima, storica, dell’art. 2 Cost. è questa: superare l’ideologia fascista e assicurare a tutti il riconoscimento dei diritti fondamentali, dapprima della persona individualmente intesa, e poi della persona nelle sue formazioni sociali.
Tutto questo ha una ricaduta sulla lettura del concetto di solidarietà di cui all’art. 2 Cost.: propongo così uno studio di queste tematiche che immagini una solidarietà che segua, e non si anteponga, ai diritti inviolabili dell’uomo; una solidarietà che metta lo Stato al servizio dei cittadini e non i cittadini a servizio dello Stato; una solidarietà che si coniughi con un principio di libertà e di indipendenza della persona, e non consideri invece queste ultime delle mere concessioni in mano all’autorità pubblica.
5. La trasformazione della solidarietà da valore morale a principio giuridico (ovvero della solidarietà orizzontale e della solidarietà verticale).
E veniamo al tema centrale affrontato dal libro, ovvero alla trasformazione della solidarietà da valore morale a principio normativo.
Questa distinzione prende anche altre etichettature, e con pari significato si può infatti distinguere una solidarietà orizzontale, o libera, e una solidarietà verticale, o imposta.
La solidarietà orizzontale è quella che, senza obbligo giuridico, si ha tra persona e persona, orizzontalmente, in modo spontaneo; la solidarietà c.d. verticale si ha viceversa in tutte le ipotesi nelle quali questa non sorga spontaneamente tra le persone, ma sia al contrario data dallo Stato nella forma dell’obbligo giuridico, e quindi sostanzialmente imposta dall’alto verso il basso.
L’A. espone in modo ben chiaro questa evoluzione, e rileva che la solidarietà, interpretata in origine quale regola morale nel corso di tutto l’800, inizia viceversa a trasformarsi in principio giuridico, e quindi ad essere imposta dallo Stato, con il ‘900: “Come categoria generale del diritto, è significativo il fatto che i doveri che compaiono nelle Costituzioni dell’ottocento si ritengono più politici e morali che non giuridici proprio per l’astensione dello Stato da ogni interferenza nei rapporti tra privati e quindi del libero mercato……Nelle costituzioni del secondo dopoguerra, che aprono allo Stato compiti sociali di grande rilievo, il dovere di solidarietà si rafforza” (pag. 123 e 124).
L’idea della solidarietà quale dovere giuridico è proprio invece della nostra Costituzione repubblicana, seppur con molte discussioni al riguardo: “Se si leggono i lavori della prima sottocommissione dedicati alla stesura degli articoli riguardanti i diritti e i doveri dei cittadini, si apprende che il concetto di solidarietà non era inteso, almeno originariamente, come un concetto normativo, ma piuttosto – e soltanto – come un concetto politico” (pag. 118); ma la scelta finale dei nostri costituenti fu quella di dotare di forza giuridica, e non solo politica, il concetto di solidarietà cosicché l’art. 2 Cost. “è dotato di quel carattere di coercibilità, che sfugge al concetto politico” (pag. 118); e poi ancora: “Individuo, collettività, Stato sono i dunque i pilastri in cui si snoda la solidarietà intesa – proprio perché contenuta in un testo normativo e deputata a rappresentare un coacervo di diritti e di doveri – come un concetto normativo” (pag. 118).
Il principio di solidarietà quale dovere giuridico si rafforza, poi, quando la fonte normativa passa da quella interna a quella sovranazionale.
L’A. ricorda in primo luogo il Manifesto di Ventotene del 1941: “La solidarietà umana verso coloro che riescono soccombenti nella lotta economica non dovrà per ciò manifestarsi con le forme caritative sempre avvilenti e produttrici degli stessi mali alle cui conseguenze cercano di riparare, ma con una serie di provvidenze che garantiscano incondizionatamente a tutti, possano o non possano lavorare, un tenore di vita decente, senza ridurre lo stimolo al lavoro e al risparmio” (pag. 113). Sottolinea inoltre che il discrimen tra l’una e l’altra concezione di solidarietà è data dal Trattato di Lisbona del 2007, che della solidarietà fornisce: “la dimensione giuridica vincolante” e “La solidarietà diviene quindi di volta in volta il cemento del consorzio umano, opera come meccanismo di coesione, come elemento dialettico tra individuo e collettività” (pag. 185).
E di nuovo sulla solidarietà orizzontale/verticale: “Grimmel pensa alla solidarietà orizzontale, mentre il concetto, come si è più volte sottolineato, è complesso, e ingloba anche la prospettiva verticale. Anzi, nella prospettiva europea, prevale la prospettiva verticale. L'analisi dei Trattati ci restituisce un’idea forte di solidarietà, considerate le numerose occasioni in cui questo principio viene evocato” (pag. 190).
Infine lo sguardo è rivolto al mondo cattolico.
L’A. dedica ben due capitoli del volume alla dottrina sociale della Chiesa.
Riporta, quale posizione iniziale di solidarietà, la Rerum novarum di Papa Leone XIII del 1892: “questi, è vero, non sono obblighi di giustizia, ma di carità cristiana il cui adempimento non si può certamente esigere per via giuridica, ma sopra le leggi e i giudizi degli uomini sta la legge e il giudizio di Cristo, il quale inculca in molti modi la pratica del dono generoso” (pag. 74).
La posizione si evolve 40 anni dopo con l’Enciclica Quadragesimo anno di Papa Pio XI, il quale afferma che il compito dello Stato: “non è puramente quello di un guardiano dell’ordine e del diritto” poiché: “A ciascuno si deve attribuire la sua parte di beni e bisogna procurare che la distribuzione venga ricondotta alla conformità con le norme del bene comune e della giustizia sociale” (pag. 77).
Trova poi conferma con Papa Paolo VI a seguito del Concilio Vaticano II, e la si rinviene infatti nelle Encicliche Gaudium et spes del 1966 e Populorum progressio del 1967: “La giustizia e l’equità richiedono similmente che la mobilità, assolutamente necessaria in una economia di sviluppo, sia regolata in modo da evitare che la vita dei singoli e delle loro famiglie si faccia incerta e precaria” (pag. 171).
L’A. commenta che già in quel momento storico: “La solidarietà è considerata un dovere, e il capitalismo liberale un modello che deve essere corretto”; e ricorda in proposito, con le parole del Papa, il dovere: “A tutti gli uomini e a tutti i popoli di assumersi le loro responsabilità” (pag. 173).
Segue poi l’Enciclica Sollicitudo rei socialis del 1988 di Papa Giovanni Paolo II; l’A. rileva: “La solidarietà chiamata da Leone XIII con il termine amicizia, vista da Pio XI come carità sociale, da Paolo VI come civiltà dell’amore, acquista con Giovanni Paolo II un significato ancora più pregnante: l’economia capitalistica corretta dai valori della giustizia sociale” (pag. 176).
E si arriva, così, infine, alle Encicliche di Papa Francesco Laudato sì e Fratelli tutti rispettivamente del 2015 e del 2020.
6. La forza giuridica della solidarietà e i nuovi diritti e doveri di origine giurisprudenziale.
Ciò premesso, la questione immediatamente successiva è la seguente: se la solidarietà si trasforma da regola morale a principio giuridico, essa allora può essere materia di decisione giudiziaria, ovvero i giudici, in forza del precetto della solidarietà, possono creare nuovi diritti e/o nuovi doveri che dalla solidarietà discendono.
Poiché, poi, la forza giuridica del principio di solidarietà si trova tanto nella nostra legislazione nazionale quanto in quella comunitaria, gli orientamenti giurisprudenziali in grado di creare nuovi diritti e nuovi doveri sono non solo da rinvenire della nostra Corte Costituzionale e di Cassazione, bensì anche nelle Corti europee, CGUE e CEDU.
A questo aspetto l’A. dedica molte pagine del volume, e precisa: “Si può dire che la Carta è stata in larga parte attuata grazie alla creatività della giurisprudenza……Molti sono i diritti di nuovo conio scaturiti dalla base costituzionale…..Neppure Piero Calamandrei avrebbe potuto immaginare la rivoluzione ermeneutica avviatasi alla fine degli anni sessanta, con la scoperta delle clausole generali, dell’uso alternativo del diritto e della storicizzazione delle categorie giuridiche….Proprio grazie a quei fermenti si sono potuti creare ex novo diritti che hanno dato soddisfazione ad interessi trascurati e reso concreta la concezione della solidarietà, individuale e sociale” (pag.133).
E poi ancora: “Sull’art. 2 si sono edificati i nuovi diritti della persona” e “La Corte costituzionale ha fatto un largo impiego del principio di solidarietà, dal 1956 al 2021” (pag. 134).
Questi nuovi diritti sono tutti basati, come prima sottolineato, “sui valori costituzionali primari della libertà individuale e della solidarietà sociale” (così Corte Cost. n. 75 del 1992, richiamata a pag. 136) e sono tutti ricordati dall’A.: tra questi, il diritto all’abitazione, all’ambiente salubre, alla tutela dei disabili, ai minori, alla salute, al danno biologico, fino ai c.d. nuovi diritti, quali l’acquisizione di un gender diverso, le trasfusioni non compatibili con il credo religioso, autodeterminazione nel testamento biologico, il diritto a portare anche il cognome della madre, il diritto a conoscere le proprie origini genetiche, ecc……………..
Qualcosa di analogo si ha in ambito comunitario.
L’A. ricordando che “La Corte di Giustizia svolge un ruolo di grande rilievo nel dettare le regole interpretative che modellano il significato delle fonti del diritto dell’Unione”, ha precisato che “Così è stato anche per la definizione dei significati di solidarietà. Alcuni casi decisi sono diventati pietre miliari nella costruzione giurisprudenziale del significato di solidarietà” (pagg. 186, 187).
E l’A. ha altresì rimarcato come: “È evidente che nel decidere le questioni la Corte impiega sempre un certo tassi di discrezionalità. Da qui la necessità di distinguere tra solidarietà nel mercato, solidarietà con finalità redistributive, solidarietà con finalità costitutive, solidarietà con finalità amministrative” (pag. 189).
Dalla ricerca della giurisprudenza della CGUE emergono cinque diverse accezioni di solidarietà: “(i) la solidarietà come rappresentazione moderna della carità della tradizione; (ii) la solidarietà come mutuo sostegno; (iii) la solidarietà come temperamento dei rischi economici; (iv) la solidarietà come limite all’esercizio individuale dei diritti fondamentali; (v) la solidarietà come limite alle libertà economiche e alla concorrenza” (pag. 191).
Questa sintesi degli orientamenti della giurisprudenza sviluppano però, almeno secondo me, due consequenziali, e non secondarie, riflessioni per uno studio sulla solidarietà:
a) la prima è che il valore della solidarietà, da sorgente di nuovi diritti, sempre più si è invece concretizzata quale fonte di nuovi doveri.
Ciò avviene in tutti i casi nei quali, in forza del principio di solidarietà, si ritiene infatti vi siano limiti o temperamenti ai diritti delle persone, e ciò tanto con riferimento alle libertà economiche, quanto, e soprattutto, con riguardo alla libertà dei diritti fondamentali della persona.
È evidente che una cosa è far sorgere, in nome della solidarietà, un nuovo diritto, altra cosa è far sorgere un nuovo dovere; e la cosa può essere tanto più oggetto di studio quanto più fondamentale, e/o personale, è il diritto che si va a comprimere in nome della solidarietà.
È chiaro che questi meccanismi, dati sovente dalla giurisprudenza come automatici o inevitabilmente dovuti, necessitano invece di rigorose analisi, poiché v’è da chiedersi se davvero sia possibile che in nome di un principio di solidarietà, che è pur sempre un principio di carattere generale, possano comprimersi specifici diritti fondamentali della persona espressamente riconosciuti, a volte come inderogabili, dalle varie Carte costituzionali degli Stati; e, se si, con quali limiti e/o a quali condizioni.
b) La seconda osservazione è che va a crearsi, in questi casi e in questo modo, un diritto tutto giurisprudenziale che non ha alcun appiglio alla legge.
La legge, esattamente, fa solo riferimento ad un valore elastico e discrezionale qual è quello della solidarietà; la giurisprudenza, poi, su questa base, determina in concreto quali siano i diritti e doveri che ne discendono; quindi, in tutti questi casi, i diritti e i doveri dei cittadini non sono più determinati dalla legge, bensì direttamente dalla giurisprudenza.
In questo modo, direi indiscutibilmente, la giurisprudenza si rende fonte del diritto, mentre nel nostro sistema la giurisprudenza non è, nÈ può essere, fonte di diritto.
Al riguardo, possono farsi degli esempi: a) si è sostenuto (v. Corte Cost. 24 ottobre 2013, n. 248 e Corte Cost. 2 aprile 2014, n.77), che il giudice, in forza dell’art. 2 Cost., può mutare il tenore delle clausole di un contratto se queste sono “sbilanciate a danno di una parte”; b) egualmente si è statuito (così Cass. 5 novembre 1999, n. 12310, ma vedi anche Cass. 13 settembre 2005, n. 18128; Cass. 24 settembre 1999, n. 10511; Cass. 20 aprile 1994, n. 3775), che il giudice, in una valutazione complessiva della relazione giuridica, “e a prescindere specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge”, può determinare, il “dovere di agire” ritenuto più equo.
Ebbene, se queste sono le decisioni che si sono avute in forza del principio di solidarietà, uno studio che valuti la conformità di simili orientamenti ad un sistema di civil law quale il nostro credo sia necessario.
È vero che oggi è generalmente riconosciuto alla giurisprudenza la possibilità di bilanciare diritti che si contrappongono tra loro, ma qui non si tratta, in verità, di bilanciare due diritti contrapposti entrambi fissati in modo chiaro da un testo normativo, si tratta al contrario di ricavare dei diritti/doveri non disciplinati dalla legge lavorando su una espressione del tutto elastica e discrezionale qual è quella della solidarietà.
E in ogni caso nessun “bilanciamento” può spingersi fino al punto di creare nuovi diritti e doveri di sola fonte giurisprudenziale; poiché, par evidente, di bilanciamento in bilanciamento, sennò, tutto rischierebbe di diventare incerto e di minare la stessa funzione di una Carta costituzionale, che è quella di assicurare, al contrario, in modo chiaro e non discutibile, l’esistenza, appunto, dei diritti.
7. La trasformazione della solidarietà in sostenibilità.
L’evoluzione della solidarietà, infine, ha portato la stessa a rendersi, in molti casi, sostenibilità; e così l’A. ci avverte che, soprattutto nel diritto societario “il principio di solidarietà si esprime in termini di sostenibilità” (pag. 275).
Ma la sostenibilità è fenomeno che non interessa solo il diritto privato e societario, bensì anche quello dell’ambiente, della solidarietà tra generazioni, della tutela degli animali, e quindi si connette all’ultimo riforma costituzionale degli artt. 9 e 41 Cost.
“Il termine sostenibilità è stato introdotto solo di recente nel vocabolario giuridico….da quel momento il termine diviene un concetto normativo, e come tale esprime un comando” (pag. 276).
Nella Conferenza delle Nazioni del 1972 si legge già che: “Per una più razionale amministrazione delle risorse finalizzata a migliorare l’ambiente, gli Stati dovranno adottare misure integrate e coordinate tali da assicurare che detto sviluppo sia compatibile con la necessità di proteggere e migliorare l’ambiente umano a beneficio delle loro popolazioni” (pag. 277)-
Si fa qui riferimento alla compatibilità, che poi diventa sviluppo sostenibile, ovvero sviluppo che consente alla generazione presente di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità alle generazioni future di soddisfare i loro.
Parallelamente si mira al coinvolgimento delle imprese e si inizia a parlare di razionale distribuzione delle risorse; infine il principio di sostenibilità diventa punto di riferimento per le scelte economiche e sociali a livello globale e si elabora la teoria sociale dell’impresa (pag. 280).
Il percorso normativo si delinea dagli anni 2000 ed in questo contesto possono richiamarsi la direttiva 2014/95/UE, la direttiva 2017/828/UE, e il nostro d. lgs. 254 del 2016.
Qui si ha, secondo me, un secondo passaggio della solidarietà: da una solidarietà dei diritti/doveri, ad una solidarietà solo di doveri.
La sostenibilità, infatti, consiste soprattutto in questo: che vi sono cose che non si possono più fare, perché, appunto, non più sostenibili.
Che dire?
Credo, in primo luogo, che la solidarietà resa sostenibilità imponga un ulteriore studio, che è quello del rapporto (soprattutto) tra ambiente e persona.
Nessuno nega il dovere di tutti di tutelare l’ambiente, di non inquinare, di protegge la natura, e di fare quanto è possibile per difendere il nostro pianeta e la posizione delle generazioni future; tuttavia va valutato se sia corretto che la tutela dell’ambiente non trovi più la sua ragion d’essere nell’interesse dell’uomo a vivere in un ambiente salubre, bensì la trovi in sé stessa, e quindi anche in contrasto con i diritti dell’uomo.
Si capisce che se le cose in futuro dovessero davvero essere lette e interpretate così, tutto allora si potrebbe rendere possibile.
Si potrebbe imporre ogni riduzione dei consumi, e stabilire che a tutela dell’ambiente solo certi consumi sono ammessi e non altri; si potrebbe ridurre la produzione industriale e il libero commercio, e stabilire che solo alcune cose possono essere prodotte e vendute e non altre, e magari, con ciò, favorendo taluni e danneggiando altri; si potrebbe impedire l’accesso a taluni luoghi, o limitare fortemente, e in modo stabile, il diritto di circolazione, sostenendo che tutto questo va a vantaggio dell’ambiente e della biodiversità, poiché al contrario la libertà di circolazione dell’uomo, con i suoi egoismi e le sue disattenzioni, danneggia il pianeta; si potrebbe imporre regole comportamentali per ragioni ecologiche, impedendo ad esempio di mangiare certe cose, oppure imponendo la nutrizione con altre, se non addirittura imponendo taluni trattamenti sanitari; si potrebbe vietare il fumo anche all’aperto, stabilire un certo abbigliamento, imporre degli orari nei quali è possibile tenere certi comportamenti, che sarebbero invece vietati in altri momenti; si potrebbe limitare o escludere l’uso di taluni mezzi di trasporto, auto, aerei, ecc…., sempre a tutela dell’ambiente e al fine di limitare l’inquinamento; si potrebbe dividere tutti i beni in essenziali e non essenziali, ed escludere questi ultimi, o tutto ciò che venisse giudicato superfluo, o lussuoso, o eccessivo; si potrebbe imporre grossi oneri alla proprietà privata, facendola venir meno ove questa non si conformi ai dettati dell’ecologia e del risparmio energetico, consentendo così nuove forme di espropriazioni per ragioni ambientali; si potrebbe danneggiare la cultura e l’informazione impedendo o fortemente limitando l’uso della carta; si potrebbe ancora limitare i mezzi di comunicazione come internet o telefoni portatili, sostenendo che il loro uso contribuisce all’inquinamento del pianeta; si potrebbe imporre la riduzione drastica di beni quali l’elettricità, il gas, i carburanti, costringendo le persone a cambiare fortemente le loro abitudini e le loro attività lavorative; si potrebbe in ogni momento prevedere decadenze giuridiche in grado di incidere sui diritti contrattuali delle parti per ragioni di tutela dell’ambiente, compromettendo in questo modo il concetto stesso di “certezza del diritto”, e creando in tal misura un danno alle relazioni commerciali ed economiche; si potrebbe fortemente aumentare le imposte sui commerci e sulla proprietà privata, sostenendo che entrambe costituiscono ostacolo all’ambiente e all’igiene del pianeta; e così di seguito.
Di nuovo, l’equilibrio che deve darsi tra queste contrapposte esigenze non può non meritare uno studio e un approfondimento.
La nostra Costituzione ha messo al centro di tutto l’uomo, secondo una tradizione che per noi risale alla celeberrima Oratio de hominis dignitate di Pico Della Mirandola del 1486, e che fu propria dei nostri costituenti, da Giuseppe Dossetti (“Si vuole o non si vuole affermare l’anteriorità della persona?”), a Palmiro Togliatti (che chiedeva solo che il principio fosse tradotto e concretizzato in modo accessibile: “dal professore di diritto e in pari tempo dal pastore sardo”).
La sostenibilità è un valore che può, evidentemente, confliggere con altri.
I suoi limiti e la sua ponderazione vanno dunque attentamente analizzati.
8. La solidarietà come fine e la solidarietà come mezzo.
Poiché, infine, l’A. ha chiuso il volume sottolineando che: “La solidarietà è un’opera aperta……questo libro non ha conclusioni”, e che: “Spetta al giurista con la sua cultura e il suo impegno civile esprimerne tutte le potenzialità” (pag. 299), io mi permetto, a conclusione di questa recensione, di sollevare una ultima questione che, in verità, l’A. non ha trattato, ma solo accennato con l’affermazione secondo la quale la solidarietà “in mano ai regimi illiberali diventa un’arma per legittimare il potere” (pag. 95).
Questo, a mio parere, è infatti l’ultimo studio - ma al tempo stesso, direi, il principale - che il principio di solidarietà necessita: evitare che essa si possa trasformare in strumento con il quale il pubblico potere impone ai cittadini ogni tipo di comportamento, oltre ogni razionale e legittima giustificazione.
Come è successo purtroppo in regimi del passato, non è difficile trasformare la solidarietà da fine a mezzo, e utilizzare la stessa non tanto per il raggiungimento di nobili obiettivi, quanto come pretesto per imporre compressioni di diritti e libertà.
Il gioco è fin troppo semplice: chi ha il potere può creare i presupposti di fatto, spesso anche in modo del tutto artificiale e/o volutamente indotto, affinché sia necessaria la tenuta di un certo comportamento, e dopo di che può pretendere quel comportamento perché imposto da un principio di solidarietà.
Ovviamente per evitare che il principio di solidarietà possa trasformarsi da fine a mezzo, ed evitare che venga usato in modo deviato e strumentale, come in taluni casi purtroppo è avvenuto, non sarebbe (forse) errato dotare gli Stati democratici di una autorità indipendente della solidarietà, così come esistono per altre pubbliche amministrazioni, in grado di vigilare sul corretto equilibrio che sempre deve darsi tra solidarietà e libertà, tra solidarietà e democrazia, tra solidarietà e serietà e sufficienza dei fatti che la giustificano; altrimenti tutto può diventare lecito con lo scudo della solidarietà, ed essa si può ben trasformare, dunque, in un’arma per legittimare il potere.
Può ritenersi, questa mia, una proposta bizzarra, tuttavia si tratta di muovere dalla constatazione che oggi, direi, nei nostri ordinamenti europei, una simile istituzione di garanzia normalmente non esiste, e sempre meno si avverte infatti la necessità di contrapporre potere a potere, secondo L’esprit des lois di Charles Louis de Montesquieu.
Ai posteri l’ardua sentenza.
9. Brevissime conclusioni.
La solidarietà, in conclusione, ha assunto nel nostro ordinamento giuridico un ruolo che un tempo non aveva.
Chi sfogli un’opera monumentale come l’Enciclopedia del diritto fondata da Francesco Calasso con Antonino Giuffrè, scopre che non esiste in essa una voce quale Solidarietà; l’enciclopedia passa infatti dalla voce Soggetto passivo d’imposta a quella di Solve et repete.
Lo stesso dicasi per altre importanti enciclopedie giuridiche: vale per Il Digesto italiano, ove il volume XXII, Torino, del 1925, ha una voce Solidarietà, interamente e solo dedicata alla solidarietà nelle obbligazioni per come disciplinata dal codice civile di allora, e la voce successiva è quella della Solvibilità; e vale anche per enciclopedie più moderne quali Il Diritto, curata da Il Sole 24 ore, Milano, 2007, ove il volume XV, dopo la voce Software, ha quella di Soggetti deboli, tuttavia dedicata alle problematiche del processo penale e al tema dell’imputabilità, ovvero dedicata a questioni ben diverse da quelle qui affrontate.
Oggi, tutto al contrario, la solidarietà è un valore fondante del sistema giuridico, valore che si interseca e si relaziona con molti altri diritti, e dà vita pertanto a commistioni che necessitano studi e approfondimenti.
Dobbiamo dunque ringraziare Guido Alpa per il contributo che ha dato all’argomento con la pubblicazione del volume qui recensito, e invitare tutti a ogni più ampia riflessione su un istituto giuridico tanto essenziale quanto difficile.
La Procura generale presso la Corte di Cassazione, nell’ambito delle attività di attuazione dell’art. 6 del d.lgs. n. 106/2006, in tema di uniforme esercizio dell’azione penale, ha emanato il 3 maggio 2023 gli orientamenti in materia di violenza di genere che costituiscono il punto finale di un percorso avviato con l'istituzione di un gruppo di lavoro per l’analisi dei vari aspetti del fenomeno e proseguito con plurime interlocuzioni con le Procure generali presso le Corti di appello, i cui esiti sono confluiti, in modo organizzato e sistematico, nel documento pubblicato.
Gli orientamenti, partendo dal quadro normativo e dalle criticità emerse nella pratica, esaminano le buone prassi emerse dal confronto con le Procure generali, analizzando, tra l’altro, la necessità di adeguata specializzazione, il problema dell’individuazione e definizione dei cd. “criteri di rischio” utili per comprendere quando un rischio debba essere ritenuto effettivamente reale ed immediato, il tema delle dichiarazioni della vittima nel processo e della raccolta delle fonti di prova, le problematiche dell’incidente probatorio, le misure di protezione delle vittime di violenza in sede cautelare, l’esigenza di trattazione unitaria dei procedimenti in tema di violenza di genere, la fase esecutiva, il ruolo del Pubblico Ministero in sede civile e di quello minorile.
Da segnalare le conclusioni finali, in cui si sintetizzano le numerose regole di buone prassi per il pubblico ministero penale, civile e minorile risultanti dal confronto con gli uffici territoriali.
Roma, 3 maggio 2023
Oggetto: Orientamenti in materia di violenza di genere
Sommario : 1. L’evoluzione normativa. 2. Le persistenti criticità normative. 3. Il ruolo delle Procure generali -4. La necessità di specializzazione. - 5.Le buone prassi emerse dal confronto con le Procure generali - 5.1. I c.d. criteri di rischio. - 5.2. Le dichiarazioni della vittima nel processo e la raccolta delle fonti di prova. -5.3. L’incidente probatorio. - 5.4. Le misure di protezione delle vittime di violenza in sede cautelare. - 5.5. La trattazione unitaria dei procedimenti in tema di violenza di genere. 5.6. La fase esecutiva. - 5.7. Il Pubblico Ministero in sede civile. -5.8. Il Pubblico Ministero minorile. - 6. Conclusioni - 6.1. Il versante penale. -6.2. Il versante civile. -6.3. Il coordinamento PM ordinario e PM Minorile.
1. L’evoluzione normativa
Dopo un triennio dall’entrata in vigore della L. 19.07.2019 n. 69 - cd. Codice Rosso - è avvertita da più parti, all’interno della Magistratura, la necessità di tracciare un bilancio per “portare a sistema” una serie di procedure e di buone prassi che si sono sviluppate negli Uffici giudiziari e che si sono rivelate in grado di fornire una più decisa risposta istituzionale ai reati in materia di violenza di genere[1], garantendo innanzitutto la fondamentale ed imprescindibile esigenza dell’immediatezza degli interventi delle forze dell’ordine, del pubblico ministero e del giudice della misura.
A tal fine, in data 3 maggio 2021, è stato istituito presso l’Ufficio un gruppo di lavoro per l’analisi dei vari aspetti del fenomeno e sono state attivate plurime interlocuzioni con le Procure generali presso le Corti di appello, da ultimo in data 15 marzo 2023, i cui esiti hanno rappresentato la base per gli orientamenti che seguono.
Richiamando brevemente il quadro normativo di riferimento, va rilevato che con la citata legge 19 luglio 2019, n. 69 il legislatore italiano è intervenuto allo scopo di rafforzare la risposta ad un fenomeno di violenza di estrema gravità e di dare pieno adempimento alla cd. Convenzione di Istanbul (Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e contro la violenza domestica) - la quale dedica il capitolo VI (articoli da 49 a 58) agli aspetti processuali penali connessi ai reati di violenza di genere ed individua le misure («legislative o di altro tipo») che gli Stati devono adottare per garantire il pieno rispetto dell’accordo internazionale - apportando modifiche ad alcune norme del codice penale e di procedura penale, al fine di meglio reprimere i reati di violenza di genere e domestica e di offrire una più significativa tutela alle donne ed ai minori vittime di tali violenze.
In particolare, è stata stabilita l’obbligatoria tempestività dell’intervento sia della polizia giudiziaria che dell’autorità inquirente, anche mediante l’audizione della persona offesa o denunciante, nel termine di tre giorni dalla data di iscrizione della notizia di reato: ciò al fine di prevenire situazioni di stallo nell’avvio delle indagini dopo la denuncia della violenza e considerato che proprio in ragione di tali ritardi, e della connessa sottovalutazione del rischio e della mancata adozione di misure di protezione, il nostro Paese è stato condannato da parte della Corte EDU nel caso Talpis v. Italia (2.3.2017, ricorso 41237/14)[2].
Sul versante legislativo ulteriori positive disposizioni sono state introdotte dalla legge-delega n. 134/2021 che all’art. 2, co. 11-13, integra quelle introdotte dalla n. 69 del 2019, estendendone la portata applicativa - originariamente limitata alle fattispecie delittuose di cui agli artt. 572 c.p., artt. 609-bis, 609-ter e 609-octies c.p., art. 609-quater c.p., art. 609-quinquies c.p., art. 612-bis c.p., art. 582 e art. 583-bis aggravati ai sensi dell’art. 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1 e ai sensi dell’art. 577, primo e secondo comma - anche alle vittime dei reati in forma tentata, nonché all’ipotesi di tentato omicidio; e prevedendo anche che a tali fattispecie si applichino tutte le disposizioni introdotte nell’ordinamento dalla legge n. 69 del 2019, ed, in specie: l’art. 90-ter, co. 1-bis, c.p.[3]; l’art. 362, co. 1-ter, c.p.p.[4]; l’art. 659, co. 2-bis, c.p.[5]; l’art. 64-bis, disp. att. c.p.p.[6].
Sempre sul versante legislativo va, altresì, positivamente segnalata la recente approvazione della legge n. 53 del 2022, che ha potenziato la raccolta di dati statistici sulla violenza di genere, raccogliendo il monito della Convenzione di Istanbul che attribuisce peculiare importanza al monitoraggio ed alla rilevazione dei dati.
Al riguardo, va ricordato che l'ordinamento italiano non prevede misure volte a contrastare specificamente ed esclusivamente condotte violente verso le donne, né prevede specifiche aggravanti quando alcuni delitti abbiano la donna come vittima; per il nostro diritto penale, se si esclude il delitto di mutilazioni genitali femminili, il genere della persona offesa dal reato non assume uno specifico rilievo e, conseguentemente, non è stato fino a pochi anni fa censito nelle statistiche giudiziarie. Alla carenza di dati sull'incidenza dei reati che vedono vittime le donne hanno finora ovviato l'Istituto nazionale di statistica e il Dipartimento delle Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio - che hanno reso disponibile, sul sito dell'ISTAT, un apposito portale internet, che fornisce un quadro informativo integrato sulla violenza contro le donne in Italia, indicando i dati più aggiornati sulla violenza di genere, anche in prospettiva europea e internazionale - e il Dipartimento della Pubblica sicurezza del Ministero dell'interno -che sul sito web pubblica report settimanali e semestrali di monitoraggio dei più diffusi reati contro le donne, svolgendo un'accurata analisi dei delitti riconducibili al fenomeno della violenza maschile contro le donne.
Nell'ottica del potenziamento e del coordinamento nella raccolta dei dati statistici si pone, oggi, dunque, la legge 53/2022 con cui il Parlamento ha disciplinato la raccolta di dati e informazioni sulla violenza di genere esercitata contro le donne, al fine di monitorare il fenomeno ed elaborare politiche che consentano di prevenirlo e contrastarlo[7].
Un ulteriore potenziamento allo studio della materia della violenza di genere, e in specie dei femminicidi, potrebbe venire anche dall’auspicabile istituzione nel nostro ordinamento, al pari di quanto avviene in altri Paesi Europei, di forme di domestic homicide rewiew (DHR) volte allo studio e all’analisi scientifica, attraverso una commissione di esperti, dei casi di femminicidio già avvenuti, con l’intento di trarre, dall’analisi di tali casi, esperienze utili per la gestione dei casi futuri, nella convinzione che sia fondamentale capire, con approccio scientifico, cosa sia successo
e quali possano essere i miglioramenti nell’azione delle Istituzioni coinvolte nella prevenzione, gestione e repressione del fenomeno.
2. Le persistenti criticità normative
Quanto alle criticità ancora ravvisabili dal punto di vista normativo, la prima è legata alla fattispecie di cui all’art. 387-bis c.p. (‘Violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa’) che, pur imponendo l’arresto obbligatorio in flagranza, non consente l’emissione di misura cautelare (se non in caso di contestazione dell’aggravante dell’art. 61 n. 5, c.p.), il che determina una fase temporale di “ scopertura “ di tutela della persona offesa che, allo stato, può essere assicurata - con tutti i limiti di tempo connessi a tale soluzione - solo dall’accoglimento di una richiesta di aggravamento della misura emessa nell’ambito del procedimento originario.
La seconda criticità è legata alla concreta applicazione dell'art. 380 c. 2 lett. 1-ter c.p.p. che, com’è noto, prevede l'arresto obbligatorio in flagranza per i delitti di cui agli art. 572 e 612-bis c.p. Accade, infatti, con una certa frequenza che la polizia giudiziaria, intervenuta per fatti avvenuti poco tempo prima, non possa o non ritenga di adottare provvedimenti d'urgenza non essendovi lo stato di flagranza e non sussistendo in casi del genere i presupposti per il fermo, difettando quanto meno il requisito del pericolo di fuga. In relazione a tale criticità potrebbe essere opportuno prevedere la possibilità, come in altre fattispecie di reato, dell’arresto “differito” da eseguire entro un certo termine, prescindendo dallo stato di flagranza descritto dall'art. 382 c.p.p.; ed in tale direzione si muoveva il disegno di legge presentato nel febbraio 2022 dai Ministri Bonetti, Lamorgese e Cartabia, che prevedeva l’introduzione del comma 1 -bis all'art. 384 c.p.p. nei seguenti termini: “anche fuori dei casi di cui al comma 1 e di quelli di flagranza il pubblico ministero dispone, con decreto motivato, il fermo di persona gravemente indiziata di uno dei delitti previsti dagli art. 572, 582 e 612-bis del codice penale o di delitto, consumato o tentato, commesso con minaccia o violenza alla persona per il quale la legge prevede la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni, quando sussistono specifici elementi per ritenere grave e imminente il pericolo che la persona indiziata commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale, quando non è possibile per la situazione di urgenza, attendere il provvedimento del Giudice”.
Altra criticità riguarda l’assenza di previsione normativa circa gli effetti del mancato consenso dell’indagato/imputato all’applicazione dello strumento di controllo elettronico previsto dagli artt. 282-bis e -ter c.p.p. Onde evitare di lasciare all’interessato la scelta sull’applicazione di un dispositivo a tutela della persona offesa, potrebbe prevedersi nel caso in esame una modalità analoga a quella di cui all’art. 275 -bis c.p.p. che, qualora l’imputato neghi il consenso, consente al Giudice di applicare misura più afflittiva.
Ulteriore criticità è legata alla mancata previsione di un termine per la decisione sull’istanza cautelare; il che rischia di determinare un ‘vuoto di tutela’ per la persona offesa tra la data di deposito della richiesta e la data di adozione del provvedimento da parte del Gip. Vuoto di tutela che sussiste anche nell’ipotesi di appello ex art. 310 c.p.p. avverso le ordinanze di rigetto o di adozione di misura meno grave – atteso che pure in tal caso non è normativamente previsto un termine perentorio entro il quale il Tribunale del Riesame deve provvedere e considerato che, nell’ipotesi in cui l’appello cautelare sia accolto, tale decisione non è immediatamente esecutiva e ne è sospesa l’efficacia fino alla sua definitività, il più delle volte coincidente con l’esaurimento del giudizio di Cassazione.
Se in quest’ultimo caso dirimente sarebbe solo un intervento legislativo, nell’altra ipotesi prospettata la possibile soluzione potrebbe venire da un coordinamento organizzativo tra il Tribunale e la Procura della Repubblica, attraverso la redazione di accordi e protocolli operativi aventi ad oggetto direttive condivise sui termini entro i quali il Gip debba pronunciarsi sulle richieste di misure cautelari; il che potrebbe valere anche per il Tribunale del Riesame in sede di appello. Altra ipotesi operativa potrebbe essere rappresentata dall’istituzione, presso l’Ufficio Gip, di un ‘turno fasce deboli’ idoneo ad assicurare, in tempi brevissimi, la valutazione e la decisione delle richieste cautelari, nonché dall’istituzione, presso il Tribunale del Riesame, di un ‘collegio dedicato’ per la trattazione dei reati del Codice Rosso di competenza collegiale.
Non può sfuggire, del resto, che il ruolo del Gip è, anche in tale materia, di fondamentale importanza; sicché, pur esulando il tema dalle specifiche competenze proprie di questa sede, non può non essere sottolineato che la generalizzata mancanza di specializzazione dei Gip[8] - che fin dall’avvio delle indagini svolge un ruolo determinante nel contrasto tempestivo alla violenza di genere - è uno dei temi centrali da affrontare.
Va peraltro segnalato, al riguardo, che per ovviare ai rischi di incolumità della vittima nei tempi di attesa della misura cautelare taluni Uffici di Procura hanno adottato la prassi di sollecitare l’effettuazione, da parte della Polizia Giudiziaria, soprattutto nei casi più gravi di violenza di genere, di monitoraggi protettivi della vittima anche con appostamenti presso la sua abitazione; quale diversa possibile soluzione, sia pure di più difficile attuazione pratica, è stata altresì prospettata l’accoglienza della vittima in una casa rifugio.
Nell’ipotesi in cui, invece, non sia applicata alcuna misura cautelare, si è rappresentata quale valida alternativa la possibilità del ricorso alle misure di prevenzione, la cui sfera di operatività è stata significativamente ampliata dalla L. n. 69 del 2019 anche al delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi.
In punto di criticità normative, ulteriore aspetto da evidenziare riguarda il regime delle notificazioni alla persona offesa querelante, tema su cui è intervenuta la cd. Riforma Cartabia con l’introduzione dell’art. 153-bis c.p.p. avente ad oggetto la disciplina del domicilio del querelante e delle relative notificazioni. In particolare, si renderebbe necessario un esplicito intervento normativo nel caso in cui la persona offesa sia domiciliata in località protetta e, dunque, in luogo non conosciuto né conoscibile da parte dell’indagato: il citato art. 153 -bis c.p.p. non si coordina con tale evenienza e, quindi, al fine di consentire alla parte offesa dimorante in luogo protetto di ‘partecipare’ al procedimento di sostituzione o revoca delle misure cautelari ex artt. 299 commi 3 e 4 -bis c.p.p., si rende necessario un apposito intervento normativo (la soluzione potrebbe essere rappresentata dalla messa a disposizione della parte offesa vittima di violenza di genere di un domicilio informatico a spese dello Stato).
Da ultimo, non possono non essere rappresentate le possibili conseguenze derivanti, nella materia della violenza di genere, dalla procedibilità a querela di nuovi reati[9], circostanza questa che potrebbe arretrare i confini della tutela dei soggetti deboli. Così come deve essere evidenziato che la riforma delle pene sostitutive delle pene detentive, attuata con l'introduzione dell’art. 545-bis c.p.p., non esclude i delitti previsti dagli artt. 572 e 612-bis c.p., quando in concreto sanzionati con pene detentive inferiori ai quattro anni di reclusione, tra quelli per i quali è possibile la sostituzione; il che appare incongruo anche rispetto alla previsione dell’art. 656, co. 9, c.p.p. che individua come ostativi alla cd. sospensione automatica i reati di cui agli artt. 572, co. 2, c.p. (maltrattamenti in presenza od in danno di minori od in danno di donna in stato di gravidanza e soggetto disabile) e 612-bis, co. 3, c.p. (atti persecutori in danno di minore, donna in stato di gravidanza o soggetto disabile); anche per questi delitti andrebbe, inoltre, previsto il regime della ostatività c.d. temperata di cui all'art. 4-bis dell’Ordinamento penitenziario.
3. Il ruolo delle Procure generali
Un ruolo importante nella diffusione e nell’affinamento della buone prassi e delle possibili soluzioni funzionali al superamento delle perduranti criticità[10] e al rafforzamento degli strumenti di contrasto alla violenza di genere può essere svolto anche dai responsabili delle Procure Generali, che devono assumere un ruolo propulsivo di nuove iniziative ed essere veicolo essenziale di raccolta delle buone prassi, contribuendo alla diffusione sul territorio di quanto sperimentato in singoli uffici del distretto. Tutte le iniziative virtuose, infatti, non devono essere patrimonio dei singoli uffici periferici ma vanno diffuse e rese operative, innanzi tutto, nel medesimo territorio.
Le interlocuzioni avute in materia con gli Uffici di Procura Generale, sia in occasione dell’inaugurazione degli anni giudiziari 2022 e 2023 sia in vista della redazione dei presenti ‘orientamenti’, hanno fatto emergere innanzitutto, quale primo dato positivo, la idoneità sul piano normativo degli interventi posti in essere dal legislatore, pur permanendo alcune criticità.
Ed infatti, sul piano sostanziale le pene previste (si pensi, in particolare, ai reati di cui agli artt. 572 c.p. e 612-bis c.p.) sono caratterizzate da una indiscutibile potenzialità dissuasoria e, sul piano procedurale, è assicurata una gamma di soluzioni particolarmente ampia: arresto in caso di flagranza di reato; misure cautelari quali custodia in carcere, arresti domiciliari, obbligo/divieto di dimora, divieto di avvicinamento e comunicazione alla persona offesa, allontanamento dell’abitazione familiare; specifiche misure di prevenzione; possibilità di applicare sul piano amministrativo l’ammonimento e l’ordine di protezione in sede civile.
4. La necessità di specializzazione
Dalle interlocuzioni con le Procure Generali è emerso, dunque, che gli strumenti di tutela esistono e sono duttili ed efficaci.
Occorre, però, comprendere come applicarli al meglio superando le criticità organizzative del sistema, derivanti sia dall’inadeguatezza sul piano numerico della magistratura requirente (oltre che giudicante) e della stessa polizia giudiziaria preposta allo specifico settore sia, soprattutto, dalla carenza di formazione specifica degli operatori del settore, a partire dalla polizia giudiziaria e dai servizi sociali.
È emersa, infatti, unanimemente la rilevanza:
a) della specializzazione degli uffici requirenti, non solo di grandi dimensioni, mediante la previsione di gruppi di lavoro che si occupino abitualmente dei reati in tema di violenza di genere[11]; nonché della formazione specialistica dei magistrati che trattano la materia, il cui aggiornamento va costantemente curato attraverso la partecipazione a corsi, da organizzare in sede centrale e distrettuale e attraverso periodiche riunioni finalizzate ad affinare gli strumenti applicativi e le modalità condivise di azione e dirette anche al confronto su casi specifici ricorrenti;
b) di una formazione specifica delle forze di polizia giudiziaria chiamate a raccogliere le denunce della p.o., che deve tradursi nell’acquisizione della capacità sia di porsi correttamente sul piano psicologico rispetto alla vittima del reato sia di raccogliere tutti gli elementi essenziali non solo del fatto ma anche del contesto familiare e relazionale dei soggetti coinvolti. Non può sfuggire, infatti, che un operatore non specializzato rischia di trovarsi nella difficoltà di non saper discernere i casi di “violenza” da quelli di mera “conflittualità familiare”, tema centrale e di fondamentale importanza nel contrasto alla violenza di genere, più volte emerso nelle ripetute sentenze di violazione della Convenzione emesse nel 2022 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo anche nei confronti dell’Italia[12].
La polizia giudiziaria assume un ruolo centrale nella ricerca degli elementi di approfondimento investigativo e nel rilevare i profili di rischio per la vittima e, perciò, è indispensabile che abbia una adeguata formazione e professionalità, anche nel procedere in modo tale che la persona indagata non sia messa nella condizione di conoscere l’attività investigativa in corso.
Ciò che va, in primis, evitato è la sottovalutazione della violenza riferita o denunciata dalla donna ed è perciò necessario che gli operatori non indulgano in meccanismi di composizione dei conflitti o di negazione o di minimizzazione della violenza, attuando interventi che risultino poco tempestivi in relazione alle esigenze di protezione della donna. Risultano perciò fondamentali gli aspetti legati alla formazione per quanto riguarda non solo l’attività prettamente investigativa, ma anche in riferimento alle caratteristiche del maltrattante e della stessa vittima.
La promozione di un elevato standard professionale di tutte le forze di Polizia deve essere assicurata mediante specifiche direttive e organizzazione di appositi incontri di studio, oltre che attraverso il rapporto costante e diretto con magistrati.
Al riguardo va dato atto che in molti uffici di Procura si è sviluppata la prassi - che va indubbiamente implementata e diffusa in via generalizzata - di organizzare periodici momenti di formazione allo scopo di creare una rete di soggetti di polizia giudiziaria che possano fungere da referenti stabili sul territorio: in quest’ottica si sono rivelati fondamentali, da un lato, l’adozione di protocolli operativi finalizzati ad orientare le modalità di primo intervento ed a predisporre specifiche modalità per l’ascolto delle vittime, anche per evitare forme di vittimizzazione secondaria; dall’altro, la costituzione all’interno delle Procure di strutture di supporto (ad esempio le Unità Codice Rosso, composte da addetti alla sezione di PG, da VPO e da tirocinanti) e di nuclei interforze specializzati a disposizione dei pubblici ministeri addetti al settore. In particolare, in diverse Procure è stata prevista la creazione, in ogni articolazione territoriale di PG, di una “rete dei punti qualificati di ascolto”, ossia di un certo numero di unità di PG appositamente formate e aggiornate, che operano sulla base di precisi protocolli investigativi, sotto la stretta supervisione del PM specializzato, assicurando uno standard qualitativo elevato ad ogni persona offesa che si rechi a denunciare.
Sotto altro profilo, anche la formalizzazione di protocolli interistituzionali si è rivelata importante perché ha consentito di facilitare il lavoro in rete tra servizi sanitari, sociosanitari, forze dell’ordine ed enti locali. I servizi sanitari, ad esempio, assumono un ruolo centrale ed il Pronto Soccorso è il luogo dove si intercetta la violenza: per questo è fondamentale sensibilizzare gli operatori sanitari sulla necessità di un’adeguata professionalità nella gestione dei casi di violenza di genere e favorire una specifica formazione. È indispensabile, infatti, per evitare la contaminazione, la degradazione e la perdita di tracce biologiche, ed ottenere risultati fruibili per successivi ed eventuali procedimenti giudiziari, che siano attuate una corretta repertazione, una successiva corretta conservazione e la predisposizione della catena di custodia dei reperti.
I Procuratori Generali potranno farsi promotori di protocolli, nelle realtà in cui ancora non sono stati adottati.
Sotto tale profilo, e per ciò che concerne la ravvisata esigenza di lavorare “in rete”, una buona prassi già adottata da varie Procure consiste nella realizzazione della cd. ‘Carta dei Servizi’, ovvero nella creazione di costanti raccordi con istituzioni ed enti, pubblici e privati, coinvolti nella gestione del fenomeno, sino a giungere ad una mappatura completa dei servizi offerti in quel determinato territorio per affrontare ogni problematica connessa alla violenza di genere, dai vari punti di vista: tale mappatura, ove sperimentata, si è rivelata importante per consentire a ciascun operatore della rete (magistrati, polizia giudiziaria, personale dei servizi sanitari, centri antiviolenza, etc.) di conoscere e sfruttare per intero l'offerta esistente per il contrasto del fenomeno della violenza di genere.
Altra buona prassi è rappresentata dall’istituzione presso le Procure della Repubblica di ‘Sportelli ascolto e accoglienza vittime’, che offrono una prima azione informativa e di raccordo anche con i Centri Anti Violenza e con le altre istituzioni della rete; si tratta in molti casi di Sportelli istituiti nell’ambito di protocolli anche con Regione e ASL, che consentono di ottenere il distacco funzionale di personale specializzato e formato (in particolare, psicologhe specializzate in materia di violenza di genere).
Infine, il rapporto con le Istituzioni si rivela di fondamentale importanza nei casi di femmicidio in cui esistono i cd. ‘orfani speciali’, così denominati coloro che hanno perduto entrambe le figure genitoriali contemporaneamente, l'una perché uccisa dal padre e quest'ultimo perché detenuto o suicida. Tali situazioni, intuibilmente drammatiche, richiedono immediati interventi di supporto psicologico, da attivare e coordinare con le esigenze delle indagini penali. Al riguardo va ricordato che la legge n. 4/2018, all'articolo 3, prevede l'obbligo del pubblico ministero procedente di verificare la presenza di figli (minorenni o maggiorenni non autosufficienti) e di richiedere, in ogni stato e grado del procedimento, il sequestro conservativo dei beni dell’indagato a garanzia del diritto al risarcimento dei danni civili subiti dai figli della vittima, mentre l'articolo 4 stabilisce che “Il giudice, rilevata la presenza di figli minorenni o maggiorenni economicamente non autosufficienti, costituiti come parte civile, provvede, anche d'ufficio, all'assegnazione di una provvisionale in loro favore, in misura non inferiore al 50% del presumibile danno”. L'art. 9 della legge si occupa, poi, dell'assistenza sanitaria e psicologica degli orfani speciali, garantendo che a costoro sia “assicurata un'assistenza gratuita di tipo medico-psicologico, a cura del Servizio sanitario nazionale, per tutto il tempo occorrente al pieno recupero del loro equilibrio psicologico, con esenzione dei beneficiari dalla partecipazione alla relativa spesa sanitarla e farmaceutica”. Non mancano poi nella legge ulteriori misure di sostegno economico, sia in favore degli orfani speciali, che in favore delle famiglie affidatarie. È fondamentale, dunque, che in casi del genere il Pubblico Ministero e la polizia giudiziaria siano in condizioni di rapportarsi con le istituzioni preposte alla cura degli orfani speciali, per un’immediata presa in carico e per l’attivazione delle conseguenti procedure a tutela di tali vittime indirette.
5.Le buone prassi emerse dal confronto con le Procure generali
5.1. I c.d. criteri di rischio
Dalle interlocuzioni intercorse con le Procure Generali in questo primo triennio di attuazione ed operatività del cd. Codice Rosso è emerso che uno dei problemi di maggior momento è rappresentato dall’individuazione e definizione dei cd. ‘criteri di rischio’ utili per comprendere quando un rischio debba essere ritenuto effettivamente reale ed immediato[13].
Sebbene non sia possibile predeterminare in termini generalizzati le conclusioni da assumere di fronte a manifestazioni di violenza - in quanto non necessariamente un gesto violento recente può essere indicativo di pericolo immediato e concreto, così come gesti di violenza risalenti nel tempo non possono portare ad escludere tout court la sussistenza del pericolo stesso – nondimeno è fondamentale saper operare una lettura del singolo comportamento violento, tenendo conto delle caratteristiche del contesto familiare e delle relazioni interpersonali fra i soggetti coinvolti e verificando la misura, la regolarità e la stretta connessione temporale delle condotte violente, senza trascurare la sussistenza di eventuali patologie psichiatriche o malattie che possono condizionare la valutazione prognostica sulle condotte dell’autore del gesto violento.
E, nella lettura del comportamento violento, la predefinizione di ‘criteri di rischio’ può agevolare l’individuazione della realtà del pericolo e la conseguente prognosi di ragionevole prevedibilità (o meno) della sua immediatezza, sia da parte delle forze dell’ordine operanti che del pubblico ministero procedente.
In quest’ottica alcuni Uffici di Procura hanno ritenuto potenzialmente utile l’individuazione di una serie di criteri, formalizzati in apposito protocollo, diretti ad evidenziare le caratteristiche e il grado del rischio. Si tratta, ovviamente, di criteri non vincolanti rispetto a quelle che saranno le scelte del pubblico ministero e che non ne limitano la discrezionalità valutativa, ma che possono costituire una base di lavoro idonea a facilitare la valutazione dell’immediatezza e della concretezza del rischio, attribuendo il giusto rilievo alla variabile temporale.
Tra i possibili criteri di rischio da adottare vanno ricordate le cd. SARA (spousal assault risk assessment): si tratta di linee guida di valutazione dei cd. fattori di rischio di violenza elaborate nel 1996 e validate dalla comunità internazionale, che prendono in considerazione 10 fattori di rischio che possono consentire di valutare, ai fini dell’adozione della misura più appropriata, il grado di pericolosità del soggetto maltrattante ed il rischio di recidiva.
Alcuni uffici di Procura, nel condividere tale ipotesi operativa, la stanno portando avanti attraverso l’adozione di un ‘questionario di valutazione’, ad uso degli operatori, basato su questi dieci fattori di rischio.
Al riguardo, va peraltro sottolineato che anche la “Risoluzione sulle linee guida in tema di organizzazione e buone prassi per la trattazione dei procedimenti relativi a reati di violenza di genere e domestica”, adottata dal Consiglio Superiore della Magistratura con delibera 9 maggio 2018 - nel sottolineare la “drammatica recrudescenza” dei fenomeni delittuosi di violenza domestica e di genere e nell’evidenziare che l’efficace tutela delle vittime richiede la tempestività dell’intervento giudiziario e, prima ancora, la capacità di cogliere gli indicatori della violenza da parte dell’autorità giudiziaria - al paragrafo 7.5. ha specificamente affrontato la questione della valutazione del rischio, affermando che “il magistrato requirente e quello giudicante debbono prestare un’attenzione prioritaria al rischio che le violenze subite dalla vittima si ripetano nel tempo e/o degenerino”, ed ha suggerito l’individuazione di criteri in grado di riconoscere e valutare tale rischio e l’utilizzazione degli stessi in alcuni momenti del procedimento che, ex ante, possono ritenersi più rilevanti di altri (es. nelle ore immediatamente successive all’intervento/soccorso delle forze di polizia o alla presentazione della denuncia; in prossimità o nelle ore successive ad un’udienza giudiziaria di un procedimento civile di separazione o divorzio o di un procedimento penale; in prossimità della cessazione di misure cautelari o dell’esecuzione della pena): ciò al fine di supportare l’iniziativa del p.m. e la decisione del giudice in ordine all’adozione di misure cautelari, di misure di sicurezza provvisorie o di altri provvedimenti di protezione ovvero, ancor prima, al fine di determinare la polizia giudiziaria nell’adozione delle misure pre-cautelari di sua competenza”[14].
Non sfugge che il tema della valutazione del rischio immediato e reale per la vita dei soggetti coinvolti è assai delicato, stante l’obiettiva difficoltà di individuazione di indici attendibili di predittività di azioni violente. Tuttavia, la drammatica persistenza dei fenomeni di violenza domestica e di genere richiede, primariamente, che l’intervento giudiziario sia tempestivo e la tempestività si misura sulla capacità di cogliere gli indicatori della violenza da parte dell’autorità giudiziaria e dei suoi ausiliari. E, sotto tale profilo, certamente l’attività della polizia giudiziaria può essere agevolata dall’impiego di linee guida e direttive che evidenzino i fattori di rischio, le cui indicazioni di tenore orientativo dovranno, evidentemente, non essere usate in maniera acritica ma essere precisate dalla vittima in sede di denuncia attraverso una dettagliata ricostruzione dei fatti, poiché proprio dalle dichiarazioni della vittima, accompagnate dai riscontri del caso, si può desumere con certezza la gravità del pericolo.
L’attività di valutazione e la conseguente adozione di misure ragionevolmente idonee ad impedire la materializzazione del rischio deve tenere conto, in particolar modo, della misura e della “regolarità” degli episodi di violenza e, quindi, dell’aspetto cronologico della sequenza temporale delle condotte violente, per poterne ricavare che effettivamente l’escalation è tale per cui il rischio di una reiterazione è imminente, avendo particolare cura di valorizzare alcune situazioni di pericolo derivanti dall’autore, quali lo stato di alcool-dipendenza, tossicodipendenza, ludopatia ovvero situazioni di rischio quali una separazione giudiziale in corso, o, ancora, gli eventuali precedenti dell’autore anche nei confronti di altre vittime, pur se conclusi con archiviazioni per infondatezza della notizia di reato o improcedibilità. In tale contesto, e in determinati casi, potrebbe rivelarsi utile, in via preliminare rispetto all’adozione di misure cautelari o di sicurezza provvisoria, la sottoposizione a visita psichiatrica (nelle forme della c.t o di una visita in forma amministrativa) del soggetto denunziato onde valutarne, almeno nei casi più gravi, la pericolosità sociale e specifica rispetto alla vittima.
La compilazione, immediata e contestuale alla ricezione della denuncia, dei questionari di valutazione del rischio da parte dell'operatore di P.G. potrebbe avere, inoltre, quale ulteriore positivo aspetto, quello di consentire un preliminare triage utile per assegnare un criterio di priorità diverso alle varie notizie di reato, in ragione proprio del profilo di rischio valutato in relazione a ciascuna specifica notizia di reato; in tal modo il pubblico ministero che riceverà la c.nr., nel procedere all'iscrizione, sulla base delle risposte fornite al questionario potrà assegnare a ciascun fascicolo di codice rosso un opportuno criterio di priorità (urgenza massima, media e minima) anche al fine di agevolare l’eventuale diverso collega assegnatario del fascicolo nello stabilire un iniziale ordine di trattazione.
5.2. Le dichiarazioni della vittima nel processo e la raccolta delle fonti di prova
In relazione al tema delle possibili linee di azione investigative per la valutazione del ‘rischio reale’, si colloca -primariamente- il ruolo delle dichiarazioni della vittima e della loro incidenza sul quadro investigativo nel suo complesso.
Le dichiarazioni della vittima, però, non di rado si rivelano “fluide”, come mostra il significativo tasso di ritrattazioni e ridimensionamenti dei fatti che intervengono nel corso dell’indagine o nel processo. Occorre, pertanto, affinare l’adozione di strategie investigative che consentano di ricostruire i fatti anche quando la vittima rivede le proprie dichiarazioni, il che -come detto- si verifica non infrequentemente, il più delle volte a causa delle condizioni di isolamento sociale, familiare e culturale della donna, della sua dipendenza economica dall’autore del reato, dei disagi conseguenti all’inserimento in casa familiare o in struttura protetta, specie in presenza di figli.
Da qui, dunque, l’esigenza di un approccio investigativo ad ampio spettro, in grado di sottrarre alla prova dichiarativa della p.o. la posizione di esclusiva centralità tradizionalmente assegnatale, affiancando ad essa risultati di indagini che abbiano, se non pari dignità probatoria, quantomeno valore di riscontri. Si pensi, ad esempio, all’estrazione di copia forense del telefono della vittima, (in modo da verificare il tenore delle comunicazioni scambiate, eventuali minacce o sollecitazioni subite, eccetera); alla documentazione del traffico telefonico registrato dai tabulati, utile a corroborare o smentire le dichiarazioni della vittima circa le comunicazioni e i contatti con l’indagato; alle intercettazioni telefoniche e ambientali, tra le quali possono rivelarsi assai utili quelle negli uffici di Procura o nelle sedi della PG in occasione della convocazione di persone coinvolte o a conoscenza della vicenda; all’acquisizione delle precedenti denunce e dei referti di pronto soccorso, in uno all’escussione dei medici di base; all’acquisizione - anche attraverso interlocuzioni con il giudice civile o per i minorenni - delle relazioni dei servizi sociali, degli atti del giudizio civile/minorile, degli eventuali diari delle case rifugio, insomma di tutta la documentazione possibile relativa alla situazione familiare.
L’attività di valutazione e la conseguente adozione di misure ragionevolmente idonee ad impedire la materializzazione del rischio, dunque, deve essere autonoma, proattiva e completa, vale a dire approfondita e non esclusivamente appoggiata sulle dichiarazioni della vittima, alle quali deve fare seguito la rapida acquisizione di riscontri testimoniali e documentali
E, del resto, la prospettiva della giurisprudenza di legittimità - secondo cui la ritrattazione non è necessariamente prova contraria e, a fronte di quadro probatorio di contorno solido, non necessariamente pregiudica l’esito del giudizio[15] - offre ulteriore supporto alla necessità di un approccio investigativo ad ampio spettro.
Dunque, alla raccolta delle fonti di prova deve essere rivolta particolare attenzione.
Si ribadisce, dunque, l’opportunità, per evitare il rischio di dispersione e deterioramento della prova, che nel corso delle indagini preliminari siano sentite il prima possibile a sommarie informazioni tutte le persone informate sui fatti, oltre alla persona offesa, per la cui audizione la normativa introdotta dal Codice rosso ha previsto un termine assai stringente. Al fine di avere subito un quadro più completo possibile del caso è altresì importante acquisire immediatamente la documentazione medica riferita a lesioni subite dalla vittima o relativa alla persona sottoposta ad indagini (quali relazioni su interventi psichiatrici, abuso di alcool o sostanze stupefacenti, ecc.), la documentazione eventualmente in possesso dei servizi sociali o del Tribunale civile o del Tribunale per i Minorenni, la documentazione scolastica relativa ai minori componenti il nucleo familiare, la documentazione relativa a precedenti denunzie ed anche, eventualmente, la documentazione relativa ad eventuali assenze dal lavoro della persona offesa .
La possibilità che la vittima sia indotta a rivedere le proprie precedenti dichiarazioni rende altresì opportuno che, in presenza di un livello di rischio che si percepisce come elevato, la p.o. venga sentita dal pubblico ministero personalmente attraverso un esame accurato e idoneo a far emergere i dettagli della vicenda, ivi compresi gli eventuali precedenti episodi aggressivi, dettagli che potranno tornare utili sia a fini di orientamento delle indagini sia, eventualmente, per le contestazioni alla persona offesa qualora intenda ritrattare o ridimensionare i fatti accaduti. Un corretto utilizzo delle contestazioni ai sensi dell’articolo 503 comma 4 c.p.p. può, infatti, costituire un elemento importante per un recupero globale delle dichiarazioni precedentemente rese laddove la persona offesa si sia determinata a modificare radicalmente il proprio atteggiamento rispetto all'imputato.
In ogni caso, a fronte del rilevante tasso di ritrattazioni sinora registrato va anche segnalata la necessità che la vittima sia accompagnata da un percorso di supporto che la sostenga per l’intero procedimento per fare fronte ai propri bisogni: infatti, la ritrattazione spesso non è dovuta a paura, ma a condizionamenti e colpevolizzazioni della donna denunciante, talvolta provenienti dagli stessi familiari, che la inducono al ridimensionamento del contenuto delle dichiarazioni originariamente rese; non è un caso, del resto, che altrettanto spesso l’imputato scelga il rito dibattimentale anziché quello abbreviato, evidentemente confidando nel ripensamento della donna. Da questo punto di vista spetta alla magistratura inquirente l’ulteriore compito di operare “in rete”, coinvolgendo i centri antiviolenza che sul territorio possono svolgere un ruolo fondamentale aiutando le vittime ad assumere consapevolezza della loro condizione.
In relazione alle dichiarazioni della vittima va, peraltro, segnalato che il nuovo art. 357 comma 3-ter c.p.p. relativo alla documentazione dell’attività di polizia giudiziaria (come modificato dal D.lgs. n. 150/22) impone ora, a pena di inutilizzabilità, la videoregistrazione obbligatoria nel caso di dichiarazione rese da persona che si trovi in stato di particolare vulnerabilità. Anche al di fuori di tale connotazione soggettiva potrebbe, comunque, risultare di grande utilità la videoregistrazione, in ogni caso, delle dichiarazioni delle persone offese dei delitti da Codice rosso per cristallizzare in modo univoco quanto riferito. L'utilizzo, in via pressoché sistematica, degli strumenti che consentono tale forma di documentazione renderà più “stabile” la prova dichiarativa e, verosimilmente, ridurrà il numero delle tante ritrattazioni che ad oggi si registrano.
Sotto tale profilo, le Procure generali, compatibilmente con quelle che saranno le dotazioni ministeriali, dovranno esercitare adeguata attività di vigilanza in ordine al rispetto della nuova normativa, agevolando l’avvio di prassi investigative che consentano di rendere più diffusa possibile l’applicazione della nuova regola di documentazione dell’attività di indagine, propugnando anche presso gli uffici requirenti l’adozione di adeguate direttive da dare alle forze dell’ordine in ordine alle modalità di verbalizzazione delle prime dichiarazioni delle persone offese, che dovranno essere quanto più ampie possibili e fedeli all’ascolto e alla visione dell’intero supporto.
Rimane altresì indispensabile, nella fase delle indagini, porre la massima attenzione sulla scelta del consulente, ausilio fondamentale nei casi più complessi, affinché avvenga sulla base dell’accertamento di una effettiva specializzazione nella materia della violenza di genere. Ed è importante, anche, promuovere l’adozione di quesiti standards nel conferire incarichi ai consulenti, perché ciò garantisce l’omogeneità nell’azione giudiziaria (il che è particolarmente negli uffici di medie e grandi dimensioni) e consente di assicurare, soprattutto in un settore così complesso, una corretta individuazione dell’oggetto dell’incarico e, quindi, di garantire al meglio il rispetto dei confini tra l’accertamento peritale e la funzione giurisdizionale riservata al magistrato (c’è sempre, infatti, il possibile rischio di uno sconfinamento dal ruolo assegnato dalla legge alla consulenza tecnica a scapito del corretto esercizio della funzione giurisdizionale).
5.3. L’incidente probatorio
In relazione alla valutazione sulla formazione della prova, altro tema di rilievo riguarda l’incidente probatorio, il cui svolgimento rappresenta un momento decisivo dell'indagine perché consente di cristallizzare la prova. Si tratta di una misura estremamente efficace per evitare il rischio di ritrattazioni, idonea anche a consentire l’introduzione tempestiva delle dichiarazioni cristallizzate nel procedimento civile per la custodia della prole.
L’incidente probatorio, dunque, può rappresentare un valore aggiunto notevole rispetto all'impianto accusatorio portato all’attenzione del giudicante: è necessario, però, che sia effettuato con assoluta tempestività e con modalità operative che, avuto riguardo alla tipologia di domande poste alla persona offesa, siano in grado di garantire l’acquisizione di una prova “blindata” senza esporre la vittima a forme di vittimizzazione secondaria.
Ritorna, sotto tale profilo, il tema della necessità di specializzazione del gip chiamato a raccogliere la prova nel corso dell’incidente probatorio che, ancora una volta, si rivela essenziale, tanto più a fronte di una lacuna normativa della legge di ratifica del trattato di Lanzarote che - a differenza di quanto disposto per il pubblico ministero e la polizia giudiziaria - non prevede che il giudice debba avvalersi dell’ausilio di un esperto per l’ascolto della persona offesa maggiorenne in condizioni di particolare vulnerabilità.
In concreto, dunque, quando si dovesse ricorrere all'istituto dell'incidente probatorio, dovrebbero essere attivati meccanismi - concordati con l'ufficio Gip attraverso appositi protocolli - che consentano di contenere la tempistica dell'incidente probatorio in pochi giorni, mai in settimane o mesi; parallelamente, ove non si dovesse procedere all'incidente probatorio, bisognerebbe concertare con il Tribunale – sempre attraverso appositi protocolli - un canale che, al di là degli ordinari criteri di priorità, consenta di arrivare all'escussione dibattimentale della persona offesa nel più breve tempo possibile.
Non sfugge che la scelta dell’incidente probatorio si rivela particolarmente delicata anche in rapporto alla eventuale contrapposta valutazione di procedere con il rito immediato, opzione questa che privilegia la tempestività di una potenziale condanna, laddove l’incidente probatorio è funzionale alla completezza della ricostruzione delle condotte sulle quali si fonda la potenziale responsabilità. Si tratta, ovviamente, di una scelta investigativa/processuale rimessa al singolo Pubblico Ministero rispetto alla quale, però, è doveroso segnalare le implicazioni che ne conseguono, osservando al contempo che, sotto tale versante, è stata registrata una diffusa tendenza a richiedere il giudizio immediato subito dopo l’emissione della misura cautelare, sul presupposto della completezza delle indagini: a tale specifico riguardo va, peraltro, ricordato che gli elementi accusatori sufficienti per la misura cautelare, nell’ottica dei gravi indizi di colpevolezza, possono non essere tali ai fini del riconoscimento della colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio, il che può rendere preferibile in taluni casi, anche al fine di scongiurare i rischi connessi alla “ritrattazione”, la prosecuzione delle indagini finalizzate alla ricostruzione di un quadro probatorio più incisivo.
Da ultimo, sul tema, va dato atto della positiva prassi riscontrata in vari Uffici di Procura in merito al cd. “incidente probatorio congiunto” attuato nei casi in cui un minore risulti vittima di reati commessi da minorenni e da maggiorenni in concorso, ovvero da parte dello stesso soggetto prima e dopo il compimento della maggiore età (fatti salvi casi eccezionali in cui esigenze divergenti di segreto istruttorio non dovessero consentirlo).
5.4. Le misure di protezione delle vittime di violenza in sede cautelare
Alcune riflessioni si impongono sulle misure di protezione delle vittime di violenza nella fase cautelare del procedimento penale, tema centrale nell’azione di contrasto.
La protezione della vittima è il primo obiettivo da conseguire[16] e le relative misure devono essere prese sulla base di considerazioni legate agli indicatori di rischio cui si è fatto riferimento.
È fondamentale valutare immediatamente l’opportunità di ricorrere a misure coercitive a carico dell’indagato, quando esse siano necessarie per evitare la reiterazione e per proteggere efficacemente le vittime del reato. Tutto questo richiede, come già detto, un pubblico ministero altamente specializzato - capace, quindi, di procedere tempestivamente ad una corretta valutazione di tutti gli elementi del caso - e, del pari, un giudice parimenti specializzato, anche in sede cautelare.
Nella fase cautelare un mezzo determinante nel contrasto al «rischio di letalità» cui sono esposte molte donne vittime di violenza di genere e domestica si è rivelato il braccialetto elettronico [17], nei casi in cui sia stata ritenuta non indispensabile la misura più afflittiva della custodia cautelare in carcere. L’opportunità di utilizzo di questo dispositivo di monitoraggio e sorveglianza dell’indagato è particolarmente ampia se si ha riguardo al numero dei reati previsti nel comma 6 dell’articolo 282-bis del codice di procedura penale.
Particolare efficacia riveste il cd braccialetto Antistalking che, oltre alla cavigliera applicata all’indagato, prevede la dotazione in favore della parte offesa, previo consenso, di un apparecchio che consente, nel caso di violazione, l’immediato avvio dell’allarme sull’apparecchio in possesso della parte offesa e presso la centrale operativa della polizia giudiziaria preposta al controllo. Tale sistema, oltre a dare sicurezza alla persona offesa, riduce le violazioni per la certezza della loro scoperta e consente di verificare anche i tentativi di incontro da parte del denunciato, risultando monitorato l’intero spostamento dell’indagato/imputato (si rammenta che, per essere efficace, il divieto di avvicinamento deve essere richiesto a una distanza non minore di 500 metri tale da consentire l’intervento della polizia giudiziaria).
L’auspicato potenziamento dell’utilizzo del braccialetto elettronico non sembra, oggi, trovare limiti in problematiche operative connesse ai tempi ed alle formalità indispensabili per la sua attivazione[18]; su questi aspetti, in ogni caso, dovrà indirizzarsi l’attenzione dei Procuratori Generali, atteso che il ricorso alle modalità di controllo mediante mezzi elettronici può risultare fondamentale per la tutela e la protezione della vittima.
In fase cautelare particolare rilievo assume il momento della comunicazione alla persona offesa, ai sensi dell’art. 282-quater c.p.p., dell’applicazione della misura ex artt. 282-bis e 282-ter c.p., potendo in quel momento ribadirsi i diritti previsti dall’art. 90-bis, a partire dal diritto al gratuito patrocinio che è garantito in ogni caso per i delitti in esame. Va anche sottolineato che l’art. 282-quater c.p. prevede la comunicazione ai servizi socio-assistenziali, rappresentati dai Servizi Sociali del Comune: assicurare tale effettiva comunicazione, almeno delle imputazioni e del dispositivo dell’ordinanza, è importante perché ciò consente ai servizi sociali di attivare le proprie funzioni di ascolto e assistenza alla vittima in una fase particolarmente delicata, connotata spesso da forme di vittimizzazione secondaria rappresentate dal timore della donna di subire, a seguito della denuncia, procedimenti finalizzati a provvedimenti punitivi (ad esempio, ritenere che non sia una buona madre, con affidamento dei figli minorenni ai servizi sociali).
Aspetto delicato è costituito anche dai colloqui con la persona offesa nel caso di custodia cautelare in carcere: la valutazione in ordine alla relativa autorizzazione deve, infatti, tenere conto del fatto che essi possono prestare a forme di pressione verso il ridimensionamento delle accuse.
Sempre in tema di misure cautelari, particolare attenzione va posta in relazione alla disposizione di cui all’articolo 282-quater del codice di procedura penale, come modificato dal Codice rosso[19]. Tale disposizione potrebbe incidere positivamente su una prassi, che si è talvolta rivelata rischiosa, in base alla quale, trascorso un primo periodo in custodia cautelare in carcere, all’indagato vengono concessi gli arresti domiciliari o altra misura meno afflittiva, realizzando così una situazione a rischio di recidiva: la frequentazione del programma con valutazione «positiva» è finalizzata, appunto, a scongiurare tale rischio.
Anche per coloro che sono condannati ad una pena relativamente bassa, astrattamente idonea a consentire la sospensione condizionale della pena, in base al quinto comma dell’articolo 165 del codice penale[20] (come modificato dall’articolo 6 del Codice rosso) la concessione del beneficio è subordinata alla partecipazione a specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero: tale nuova norma, dunque, ha reso esplicita e obbligatoria la possibilità, già prevista dal comma 1 dell’articolo 165 del codice penale ma affidata alla sensibilità del singolo giudice, di subordinare la concessione della sospensione «all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato».
Subordinare la sospensione condizionale della pena alla partecipazione a specifici percorsi di recupero costituisce una novità importante, che potrà certamente stimolare un maggior ricorso a tale strumento e una maggiore diffusione su tutto il territorio nazionale di percorsi di cura per uomini autori di violenza.
Al riguardo, va anche segnalata la prassi, adottata in taluni Uffici, di anticipare la verifica degli esiti dei corsi di recupero dell'autore del reato alla fase delle indagini preliminari, in modo tale da sottoporre all'attenzione del giudice concreti elementi di valutazione specifica sul grado di adesione del soggetto al corso di recupero, tali da consentire una corretta e completa valutazione sulla personalità e sulla pericolosità del soggetto maltrattante.
Sul punto va, peraltro, segnalato che la legge n. 69 del 2019 non ha previsto una disciplina per il riconoscimento e l’accreditamento degli enti e delle associazioni che possono fornire tali «percorsi di recupero». Oggi, in attesa di accreditamento e di linee guida nazionali, dovrà quindi essere attentamente verificata la serietà professionalità di chi organizza tali percorsi di recupero, al fine di garantire uno standard elevato di qualità dei servizi. A tal fine si possono rivelare utili forme di controllo e di verifica preventiva, anche attraverso la stipula di appositi protocolli di idoneità.
5.5. La trattazione unitaria dei procedimenti in tema di violenza di genere
Sotto il profilo più strettamente organizzativo, di particolare rilievo si è rivelata la trattazione unitaria dei procedimenti di violenza di genere, in riferimento alla medesima persona offesa/medesimo autore: l’assegnazione dei procedimenti allo stesso pubblico ministero (in base al criterio del c.d. precedente) costituisce un accorgimento organizzativo assolutamente indispensabile perché consente di evitare la perdita di visione complessiva che può pregiudicare l’effettività della risposta giudiziaria.
Tale organizzazione è già vigente in tutti gli uffici di requirenti, ma può essere ulteriormente perfezionata prevedendo che la regola del precedente operi in ogni caso, anche qualora il procedimento sia definito con archiviazione, con rinvio a giudizio, con sentenza (ciò con la precisazione che naturalmente, la regola del precedente non comporta la necessaria riunione di procedimenti che richiedono diverse tempistiche e valutazioni, pur se unitarie).
Sarebbe opportuno anche, laddove possibile, assicurare la costante disponibilità di un pubblico ministero appartenente al gruppo che si occupa di casi di violenza di genere (oltre al PM di turno per gli affari urgenti) per i casi di maggiore gravità.
Ed anche durante la fase del dibattimento è quantomai opportuno che nei processi per i reati di violenza e/o maltrattamenti la pubblica accusa nell’udienza, sia preliminare che dibattimentale, venga sostenuta dal pubblico ministero titolare dell’indagine, perlomeno nei casi di particolare gravità, in modo di assicurare una partecipazione qualificata da parte del rappresentante dell’accusa.
Nella materia in esame assume, come detto, particolare rilievo la celerità della trattazione che deve riguardare non solo la fase delle indagini ma anche le fasi successive, in quanto il fattore tempo incide pesantemente sulla “tenuta” della persona offesa. In quest’ottica, pertanto, vanno incentivate le buone prassi di opportuno raccordo tra Pubblico Ministero di primo grado e Procura Generale presso la Corte d’appello sia nel segnalare i procedimenti che richiedono una maggiore celerità nella trattazione da parte della Corte sia ai fini della migliore gestione dell'udienza di trattazione dell’appello.
E va altresì incentivata la buona prassi che nei casi di maltrattamenti e atti persecutori vede la formulazione di contestazioni aperte, che consentono al Giudice di valutare le eventuali ulteriori condotte portate alla sua attenzione fino al momento della condanna di primo grado. In questo modo si potranno evitare plurimi processi e ottenere un’effettiva trattazione unitaria, con richieste di misura cautelare e/o di aggravamento nell’ambito dello stesso processo avanzate al Giudice che procede (anche al Giudice del dibattimento) e inserimento dei nuovi atti fino alla conclusione dell’udienza preliminare ovvero con contestazione nel corso del dibattimento (previo inserimento degli atti nel fascicolo del PM).
5.6. La fase esecutiva
La specificità dei reati caratterizzati dalla violenza di genere non può non rilevare anche nella fase della esecuzione della pena, per la finalità imposta dall’art. 27, comma 3, c.p. di recupero alla società del reo, che prepotentemente fronteggia l’esigenza di tutela delle persone offese dal reato.
In relazione a tali reati, e comunque quelli in cui una donna è oggetto di violenza, sotto il profilo criminologico dell’autore del reato si pongono tre obiettivi ineluttabili: a) interrompere l’escalation di violenza già dai primi «comportamenti spia» di violenza; b) sanzionare in modo conforme al principio costituzionale di tendenziale rieducazione del condannato; c) ridurre l’alto tasso di recidiva tra gli autori di comportamenti violenti. Se il primo obiettivo, nella prospettiva dell’azione giudiziaria, appare di pertinenza dell’autorità che si occupa delle investigazioni, ovvero del giudice civile innanzi al quale sono instaurati procedimenti in materia di famiglia, gli altri due obiettivi acquistano particolare rilevanza proprio nella fase esecutiva della sanzione penale ed il loro perseguimento richiede particolare attenzione da parte di tutti i soggetti istituzionali che si occupano di tale momento procedurale.
Il trattamento degli uomini autori di violenza, soprattutto al fine di prevenire nuove violenze e di modificare la propensione a comportamenti violenti, è espressamente previsto dall’articolo 16 della Convenzione di Istanbul[21], che individua nell’attuazione di percorsi di rieducazione uno degli interventi fondamentali nella strategia di contrasto alla violenza domestica e di genere, nel presupposto che il supporto e i diritti umani delle vittime siano una priorità e che tali programmi siano stabiliti ed attuati in stretto coordinamento con i servizi specializzati di sostegno alle vittime. L’intervento trattamentale sugli uomini autori di violenza, in sede di esecuzione della pena, deve essere visto anche come parte di un processo più ampio di cambiamento culturale per il superamento degli stereotipi di genere che portano alla discriminazione e alla violenza.
In tal senso è orientato il quadro normativo internazionale, costituito primariamente dalla Convenzione di Istanbul, che pone l’accento (art. 12) sulla adozione delle misure necessarie per promuovere i cambiamenti nei comportamenti socio-culturali delle donne e degli uomini, al fine di eliminare pregiudizi, costumi, tradizioni e qualsiasi altra pratica basata sull’idea dell’inferiorità della donna o su modelli stereotipati dei ruoli delle donne e degli uomini.
Quanto alla normativa interna, l'art. 17 della Legge 19 luglio 2019, n. 69 ha modificato l’art. 13-bis della L. n. 354/75 (ordinamento penitenziario) inserendo anche i delitti di cui agli articoli 572, 583 quinquies, 609-bis, 609-octies e 612-bis c.p. tra quelli per cui gli autori possono sottoporsi a un trattamento psicologico con finalità di recupero e di sostegno; e la partecipazione a tale trattamento è valutata ai sensi dell'articolo 4-bis, comma 1-quinquies L. n. 354/1975 ai fini della concessione dei benefici penitenziari.
La traiettoria del percorso trattamentale del condannato per violenza di genere non può quindi prescindere da tali coordinate, ed i relativi momenti di attuazione non possono sfuggire al controllo dell’autorità giudiziaria che si occupa dell’esecuzione penale. Se la figura del pubblico ministero resta estranea alla fase prodromica di progettazione del trattamento, interamente affidato alle aree specializzate dell’amministrazione penitenziaria, il suo ruolo diventa più pregnante nel momento applicativo delle stesse, in fase procedurale, attraverso l’intervento all’udienza di sorveglianza e la proposizione di atti di impugnazione.
Il momento dell’ingresso del soggetto, autore di violenza di genere, ai benefici penitenziari, non potrà prescindere da una attenta valutazione, da parte dell’autorità giudiziaria, dei risultati conseguiti nel corso ed all’esito del percorso trattamentale. Alla magistratura di sorveglianza competerà la valutazione circa i risultati conseguiti e quindi l’effettiva possibilità di concedere il beneficio più adeguato, sia al fine del recupero sociale del soggetto che in relazione al contenimento del pericolo recidivante; al pubblico ministero il compito di vigilare sulla completezza e adeguatezza dell’istruttoria sul caso, anche sotto il profilo contenutistico, attraverso l’esercizio delle proprie richieste e l’esperimento dei mezzi di impugnazione.
Al riguardo non può, però, non essere segnalato che nella prassi il settore della prevenzione e del recupero è del tutto insufficiente rispetto alle richieste di trattamento: le liste di attesa sono assai lunghe dato il numero esiguo di enti che si occupano strettamente della materia e ciò, di fatto, comporta l’impossibilità di sottoporsi a trattamento, con ricadute sia sul piano processuale sia, soprattutto, sul piano rieducativo. Dunque, in assenza di un rafforzamento operativo di tali enti, il pregevole intento normativo rischia di essere frustrato.
Quanto al pericolo recidivante, che in questa sede maggiormente rileva, particolare attenzione va posta in merito al contenuto prescrittivo del beneficio concesso. L’Autorità giudiziaria può imporre, nell’ambito della parte prescrittiva del provvedimento di concessione, disposizioni specifiche, quali il divieto di avvicinamento o di comunicazione con la vittima e suoi familiari o altre persone, il divieto di avvicinamento a determinati luoghi, il divieto di lasciare l’abitazione se non debitamente autorizzato in determinati orari, l’obbligo di seguire attività socialmente utili o lavori di pubblica; all’ufficio del pubblico ministero spetta il compito di vigilare su tali aspetti contenutistici, esercitando a seconda del caso i propri mezzi di impugnazione.
Sotto il profilo organizzativo, è auspicabile che anche i magistrati del pubblico ministero che partecipano alle procedure di sorveglianza siano dotati di adeguata specializzazione, al fine di procedere ad una più accurata e competente valutazione dei programmi trattamentali elaborati per l’interessato con diretto riferimento ai percorsi di revisione critica dei modelli comportamentali che hanno condotto alla consumazione dei reati di violenza di genere.
Da ultimo, va ricordato che le misure di prevenzione possono trovare applicazione anche nel caso di scarcerazione all'esito della detenzione quando, all’esito di opportuni accertamenti sulla condotta carceraria, la pericolosità sociale risulti attuale.
5.7. Il Pubblico Ministero in sede civile
Un ruolo importante nel rafforzamento degli strumenti di contrasto alla violenza di genere deve essere svolto anche dal Pubblico Ministero in sede civile.
Nell’ultimo decennio il confronto sulle reciproche interferenze del diritto civile e del diritto penale rispetto all’unica vicenda familiare, in cui si agisce violenza, si è fatto più serrato. Tradizionalmente si riteneva che il diritto penale si occupasse della “violenza” e il diritto civile del “conflitto” e che, dunque, i procedimenti viaggiassero su binari paralleli, avendo oggetto e finalità diverse. Da più parti era stato, però, evidenziato come non di rado gli interventi giudiziari non coordinati creassero cortocircuiti per l’incompatibilità delle statuizioni del giudice penale e di quello civile, e, quindi, non solo disorientamento, ma vero e proprio pericolo per l’incolumità psicofisica delle vittime di violenza domestica e assistita. È capitato, infatti, che il giudice penale applicasse una misura cautelare al padre per agiti violenti all’interno della famiglia e il giudice civile disponesse l’affidamento “condiviso” dei figli. Ancora è accaduto che, in sede civile, fossero disposte consulenze tecniche che richiedessero incontri tra le parti in costanza di misure cautelari protettive o che le madri dovessero accompagnare i figli per le visite dai padri colpiti da una misura, ignorando il giudice civile la vicenda penale[22].
Peraltro, questa non è neppure la conseguenza più critica a livello di sistema. Infatti, la Relazione su La risposta giudiziaria ai femminicidi in Italia. Analisi delle indagini e delle sentenze nel biennio 2017 2018- redatta dalla Commissione Parlamentare d'inchiesta del Senato sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere, ha verificato che l’85% delle donne uccise in quel biennio non aveva mai fatto alcuna denuncia ed ha, al contempo, accertato che molte allegazioni di violenza in sede civile non avevano avuto alcun seguito. Si è così compreso come sia fondamentale per prevenire l’escalation della violenza tentare di intercettarla in sede civile, considerato che solo una percentuale minima delle donne vittime di violenza trova il coraggio di denunciare.
Da questo punto di vista gli ultimi 10 anni hanno segnato una formidabile evoluzione legislativa e culturale, oltre ad una importante presa di coscienza delle più insidiose criticità di questo fenomeno criminale da parte degli operatori di Giustizia specializzati.
Fondamentali sono stati i principi consacrati nella cd. Convenzione di Istanbul e, in specie, dall’art. 31[23], che ha fornito al giudice nazionale un’indicazione chiara: la violenza, che fino a quel momento era misconosciuta dal giudice civile, deve essere accertata nella sua esatta portata anche nel momento di determinare i diritti di custodia e di visita dei figli.
Su questa scia, anche il Consiglio Superiore della Magistratura, in una apposita Risoluzione sulle linee guida in tema di organizzazione buone prassi per la trattazione dei procedimenti relativi ai reati di violenza di genere e domestica (delibera 9 maggio 2018), ha raccomandato il coordinamento tra Autorità giudiziarie, nel caso di indagini della Procura ordinaria per abusi intrafamiliari riguardanti i medesimi soggetti, parti di giudizi civili o minorili.
Peraltro, lo stesso Legislatore nel varare il “Codice Rosso”, all’art. 64-bis disp. att. c.p.p. ha previsto la trasmissione obbligatoria dei provvedimenti penali al giudice civile “ai fini della decisione dei procedimenti di separazione personale dei coniugi o delle cause relative ai figli minori di età o all’esercizio della responsabilità genitoriale”.
E, del resto, la prassi dei Tribunali civili e minorili di ignorare la violenza o i maltrattamenti nei confronti dei figli è stata severamente stigmatizzata anche nel rapporto adottato il 15 novembre 2019, pubblicato il 13 gennaio 2020, dal Grevio, gruppo di esperti sulla lotta contro la violenza domestica del Consiglio di Europa, proprio con riferimento al nostro Paese[24].
Numerose, come già detto, sono state anche le condanne dell’Italia, per la intempestività dell'azione giudiziaria e la mancata protezione delle vittime (Causa Talpis c. Italia, 2 marzo 2017, ric. n. 41237/14; Causa J.L. c. Italia, 27 maggio 2021, ric. n. 5671/16).
Infine, dando un chiaro segnale di discontinuità con il passato, è intervenuta la cd. Riforma Cartabia (d.lgs.149/22) con disposizioni estremamente innovative, che rappresentano una importante sfida per l’interprete. Ha evocato per la prima volta la “violenza” nel processo civile (Capo III Disposizioni speciali -Sezione I- Della violenza domestica e di genere), così affermando il principio per il quale il contrasto a questo fenomeno criminale va esercitato anche in sede civile[25]. Ha, quindi, assicurato una corsia preferenziale ai procedimenti che contengono allegazioni di violenza, accorciandone i tempi processuali, implementando i poteri istruttori officiosi del giudice, nonché i collegamenti con il giudice penale, e riconoscendo al pubblico ministero non solo poteri d’intervento, ma anche ampi poteri di iniziativa (art. 473-bis.3, Poteri del pubblico ministero; Art. 473-bis.13, Ricorso del pubblico ministero).
Il legislatore ha così mostrato di condividere la prospettazione che assegna un ruolo chiave al pubblico ministero, soprattutto come trait d’union tra i procedimenti civili e penali, perché ne può assicurare il coordinamento e la speditezza (art. 473-bis.42 c.p.c., Procedimento; art. 473-bis.38 c.p.c., Attuazione dei provvedimenti sull'affidamento).
Diventa, dunque, cruciale ridisegnare il ruolo del PM ordinario “affari civili” per il contrasto alla violenza su donne e bambini; e a tal fine l’attività di vigilanza ex art. 6 d.lgs.106/2006 può rivelarsi assai importante, assicurando uniformità di prassi negli uffici di Procura, attraverso l’adozione condivisa di modelli organizzativi idonei a garantire competenza e tempestività nella trattazione dei procedimenti, che possono essere assicurate solo da magistrati specializzati e costantemente formati.
Occorre, dunque, rafforzare la cooperazione interna al sistema giudiziario, in particolare quella tra procura ordinaria e giudicanti civili e penali, nella consapevolezza che il profilo problematico dell’interlocuzione concerne soprattutto la necessità di realizzare un efficace scambio di informazioni tra uffici senza pregiudicare il segreto investigativo. A tale proposito, pur se la Riforma si limita a disporre la trasmissione di “atti non coperti dal segreto di cui all'articolo 329 del codice di procedura penale” (art. 473-bis.42 c.p.c.), possono essere adottati utili accorgimenti organizzativi idonei a facilitare lo scambio comunicativo.
Si impone, dunque, un cambiamento culturale nei rapporti tra uffici requirenti e uffici giudicanti civili che devono coltivare la sinergia auspicata dalla riforma mediante specifici protocolli operativi. Oggi nei casi di violenza di genere il rapporto tra i due uffici è circoscritto alla ‘muta’ trasmissione ‘senza ritardo’ degli atti ostensibili del procedimento penale al Giudice civile della separazione personale o della causa relativa ai figli minori: la prospettiva, invece, deve essere di tutt’altro spessore ed è quella di rendere sistematica la presenza, fisica o mediante memorie, del Pubblico Ministero nelle cause matrimoniali in caso di allegazione di violenze o di abusi, al fine di consentire al Tribunale di avere maggiori cognizioni sulla situazione oggetto del procedimento e di valutare l’emissione dei provvedimenti più urgenti ed opportuni, oltre che salvaguardare l’incolumità fisica delle parti coinvolte. Dunque, il contributo del Pubblico Ministero non deve essere formale ma effettivo e deve consentire di disvelare la natura violenta del rapporto che abbia superato la soglia della lite o del conflitto.
Da questo punto di vista una buona prassi è rappresentata dalla nomina da parte del PM di un proprio Consulente tecnico che segua la consulenza disposta dal Tribunale; il CTU, com’è noto, spesso rappresenta lo snodo principale per le decisioni da adottare e, quindi, il raccordo tra CTP e PM consente a quest’ultimo di essere costantemente informato sulle attività in corso, facilitando la valutazione in ordine all’opportunità di far confluire nel procedimento civile atti ritenuti utili.
Di seguito, quindi, saranno indicati alcuni possibili indirizzi per ridisegnare il ruolo del PM nel senso indicato e per assicurare la massima garanzia di coordinamento tra autorità giudiziaria penale e civile, unanimemente avvertita come necessaria non solo per prevenire l’escalation della violenza, che non di rado culmina nei femminicidi, ma anche per ridurre il rischio di vittimizzazione secondaria (art.18 Convenzione di Istanbul “Le Parti si accertano che le misure adottate …. mirino ad evitare la vittimizzazione secondaria”).
5.8. Il Pubblico Ministero minorile
L’azione dell’Ufficio requirente minorile si rivela anch’essa particolarmente importante nel contrasto alla violenza di genere,
Il Pubblico Ministero minorile ha rappresentato, fin dalla sua istituzione, un presidio formidabile di tutela dell’infanzia violata con il compito di attivare immediatamente gli anticorpi del sistema a sua protezione.
Tali Uffici svolgono, innanzitutto, un’importante azione di prevenzione attraverso l’individuazione di indici di rischio di quei nuclei familiari in cui, dalle relazioni dei Servizi Sociali, possano cogliersi dinamiche relazionali alterate e indicative di situazioni di possibili violenza endofamiliare in tutte le sue molteplici forme (fisica, psicologica, sessuale, assistita).
In questo compito il PMM è in grado di intercettare, in maniera consistente, il fenomeno criminale della violenza maschile sulle donne, che, per quanto riguarda le vittime-minori di età, si declina, spesso, in forme di violenza assistita[26].
E, se è vero che sul versante “penale” tale Ufficio ha un raggio d’azione limitato, nel senso che i minori sono tradizionalmente vittime di violenza domestica e assistita piuttosto che autori di violenza intrafamiliare, nondimeno in tale settore l’azione del PMM assume peculiare rilievo in tema di protezione della vittima minorenne proprio allorquando l’agente sia un adulto: in tal caso è, però, indispensabile uno stretto raccordo tra il PM indagante sull’autore del reato ordinario e il PMM, da attuare sin dalla prima fase delle indagini, col precipuo obiettivo di contemperare le esigenze investigative e la piena protezione della persona di età minore, il cui ascolto deve avvenire in tempi celeri, con modalità corrette e con un setting adeguato e in collaborazione con esperti altamente qualificati.
Da tempo si è messa in luce la assoluta necessità del più ampio coordinamento tra Procura ordinaria e minorile.
Oggi l’esigenza di coordinamento è resa ancor più viva dall’entrata in vigore della Riforma Cartabia (d.lgs. n.149/2022), che prevede una specifica disciplina in sede civile dei procedimenti relativi alla violenza domestica (art. 473-bis.40 ss. c.p.c.), il cui successo implica necessariamente prassi virtuose, quanto a raccordo tra autorità giudiziarie e a circolazione di informazioni (non è un caso, infatti, che l’art. 473-bis.41 c.p.c., che disciplina la forma della domanda, indichi espressamente che il PM deve indicare gli eventuali procedimenti, definiti o pendenti, relativi agli abusi e alle violenze e che al ricorso devono essere allegati copia degli accertamenti svolti, dei verbali relativi all’assunzione di sommarie informazioni e di prove testimoniali, nonché dei provvedimenti relativi alle parti e al minore emessi dall’autorità giudiziaria o da altre pubblica autorità).
Il costante ed efficace coordinamento tra PMM e PM è, innanzitutto, fondamentale ai fini della tempestiva adozione degli ordini di protezione[27] ex art. 473-bis.69 c.p.c. che il PMM può richiedere al Tribunale per i Minorenni in caso di potenziale pregiudizio per la prole, salvo che penda tra le parti giudizio di separazione, nel qual caso la competenza spetta al PM ordinario.
In tale ambito si segnala la sperimentata buona prassi secondo cui, alla ricezione della segnalazione civile circa il possibile pregiudizio del minore connesso a condotte di violenza intrafamiliare, nelle sue molteplici forme, all’atto dell’iscrizione del fascicolo civile il PMM procede immediatamente a verificare la eventuale pendenza di procedimenti di separazione/divorzio innanzi al giudice ordinario, ciò al fine di risolvere le questioni di competenza tra giudice ordinario e Tribunale per i Minorenni (e relative azioni dei rispettivi Pubblici Ministeri), alla luce dell’art. 38 disp. att. c.c.: accertata la pendenza di procedura innanzi al giudice della separazione, il PMM informa il PM delle notizie acquisite dai Servizi Sociali e della propria incompetenza, così consentendo al PM ordinario civile di assumere con celerità le proprie determinazioni a tutela del minore dinanzi al giudice della separazione.
Il coordinamento PM e PMM si rivela, inoltre, centrale anche nei casi di provvedimenti urgenti di collocamento in protezione del minore con allontanamento da uno o entrambi i genitori ex art. 403 c.c., come modificato dalla legge 206/2021: in tal caso il PMM che provvede ai sensi dell’art. 403, commi secondo e terzo, c.c. deve necessariamente interloquire con il PM ordinario -sia penale che civile- per affrontare insieme i diversi aspetti che ne derivano, sia ai fini penali avuto riguardo, in particolare, alla segretezza del luogo di collocamento in protezione, sia ai fini civili per tutte le determinazioni che il giudice della separazione dovrà assumere.
Il coordinamento tra gli uffici si rivela, poi, indispensabile per individuare il necessario equilibro tra l’esigenza di acquisizione della prova e la tutela delle vittime di violenza domestica. Troppo spesso, infatti, la tutela tempestiva di queste è avvertita come rischiosa per il segreto investigativo o addirittura incompatibile con l’attività d’indagine; di conseguenza, i PM procedenti tendono a non allegare alcunché alla comunicazione ex art. 609-decies c.p.[28] (né l’anagrafica del minore né gli atti investigativi), con una sterilizzazione di fatto delle finalità di protezione dei soggetti vulnerabili voluta dal legislatore. Deve, dunque, essere raccomandata l’individuazione di tipologie di atti, utilizzabili in sede civile, che non creino danni di una anticipata discovery alle indagini penali; e deve anche tenersi presente che la pendenza delle indagini non sempre implica un’esigenza di segretezza tout court sicché il PM ordinario, quando oppone il segreto al PMM, dovrebbe indicare le specifiche esigenze investigative, e anche il termine di presumibile superamento delle stesse, altrimenti paralizzando di fatto la stessa possibilità di tutela delle vittime, che in tal modo rischiano di continuare a dover sopportare maltrattamenti e abusi. Ovviamente, vanno trasmessi immediatamente gli atti relativi all’incidente probatorio e ad eventuali misure cautelari.
Prassi, in ogni caso, da valorizzare è quella per la quale la Procura ordinaria segnala con immediatezza al PMM la cessazione delle esigenze investigative eventualmente opposte, trasmettendo copia degli atti di indagine compiuti. A sua volta la Procura minorile trasmetterà alla Procura ordinaria le relazioni dei servizi socio-sanitari del territorio e informerà tempestivamente il medesimo Ufficio dei provvedimenti eventualmente adottati dall’Autorità amministrativa ex art. 403 c.c., nonché della presentazione di ricorso al TM, specificando le richieste formulate (es. allontanamento del minore dalla casa familiare, nomina di un tutore o curatore speciale, sospensione o decadenza dalla responsabilità genitoriale).
Gli Uffici requirenti devono, inoltre, impegnarsi a evitare la ripetizione di atti processuali (ad es. l’ascolto del minore e/o la perizia sulla sua capacità di discernimento) che possano determinare la vittimizzazione secondaria delle vittime; in questo senso il coordinamento non è solo una risorsa per la migliore gestione dei procedimenti di rispettiva competenza, ma anche un dovere in ossequio ad una precisa disposizione normativa (art. 18 Convenzione di Istanbul).
6. Conclusioni
Alla luce delle considerazioni esposte possono essere formulati i seguenti indirizzi.
6.1. Il versante penale
1. incrementare e rafforzare la formazione periodica e la specializzazione degli uffici requirenti; istituire la “personalizzazione del fascicolo”, prevedendo in via tendenziale che a sostenere l'accusa nel dibattimento sia lo stesso pubblico ministero che ha svolto le indagini; garantire la trattazione unitaria dei procedimenti di violenza di genere in riferimento alla medesima persona offesa/medesimo autore applicando la ‘regola del precedente’ anche qualora il procedimento sia definito con archiviazione, con rinvio a giudizio, con sentenza; incentivare le buone prassi di opportuno raccordo tra Pubblico Ministero di primo grado e Procura Generale presso la Corte d’appello;
2. favorire la formazione specifica delle forze di polizia giudiziaria e promuovere uno standard professionale elevato, allo scopo di creare una rete di soggetti di polizia giudiziaria che possano fungere da referenti stabili sul territorio: 1. attraverso l’adozione di specifiche direttive e di protocolli operativi finalizzati ad orientare le modalità di primo intervento ed a predisporre specifiche modalità per l’ascolto delle vittime, anche per evitare forme di vittimizzazione secondaria; 2. attraverso l’organizzazione di periodici incontri di formazione; 3. attraverso la creazione, in ogni articolazione territoriale di PG, di una “rete di punti qualificati di ascolto”;
3. rafforzare il lavoro ‘in rete’ tra servizi sociali, sanitari, sociosanitari, forze dell’ordine ed enti locali, in particolare attraverso: 1.la formalizzazione di protocolli interistituzionali, 2.l’istituzione di ‘sportelli accoglienza vittime’ di carattere informativo presso le Procure della Repubblica; 3.la mappatura completa dei servizi offerti nel territorio per affrontare, dai vari punti di vista, le problematiche connesse alla violenza di genere; 4.l’opportuno raccordo con le istituzioni preposte nel caso dei cd. ‘orfani speciali’;
3. favorire l’elaborazione di linee guida di valutazione dei cd. fattori di rischio, attraverso l’individuazione di criteri - da formalizzare in apposito protocollo - che, seppur non vincolanti, siano diretti ad evidenziare le caratteristiche e il grado del rischio, in termini di immediatezza e concretezza: la drammatica persistenza dei fenomeni di violenza domestica e di genere richiede, infatti, primariamente, che l’intervento giudiziario sia tempestivo e la tempestività si misura sulla capacità di cogliere gli indicatori della violenza da parte dell’autorità giudiziaria e dei suoi ausiliari e sulla conseguente adozione di misure ragionevolmente idonee ad impedire la materializzazione del rischio;
4. rivolgere particolare attenzione alla raccolta delle fonti di prova, considerato che le dichiarazioni della vittima non di rado si rivelano “fluide” - come dimostra il significativo tasso di ritrattazioni e ridimensionamenti dei fatti che intervengono nel corso dell’indagine o nel processo - e che, pertanto, diventa indispensabile l’adozione tempestiva di strategie investigative ad ampio spettro (in particolare, sommarie informazioni delle persone informate sui fatti; acquisizione della documentazione medica riferita alle lesioni subite dalla vittima o relativa alla persona sottoposta ad indagini, quali relazioni su interventi psichiatrici, abuso di alcool o sostanze stupefacenti, ecc.; acquisizione della documentazione eventualmente in possesso dei servizi sociali o del Tribunale civile o del Tribunale per i Minorenni, della documentazione scolastica relativa ai minori componenti il nucleo familiare, nonché della documentazione relativa a precedenti denunce della persona offesa);
5. calibrare opportunamente l’opzione tra la scelta dell’incidente probatorio, funzionale alla completezza della ricostruzione delle condotte sulle quali si fonda la potenziale responsabilità, e l’eventuale contrapposta valutazione di procedere con il rito immediato, opzione questa che privilegia la tempestività di una potenziale condanna;
6. porre la massima attenzione nella scelta del consulente, ausilio fondamentale nei casi più complessi, che deve avvenire sulla base dell’accertamento di una effettiva specializzazione nella materia della violenza di genere;
7. nella fase cautelare potenziare il ricorso al braccialetto elettronico, che può rivelarsi un mezzo determinante nel contrasto al «rischio di letalità» nei casi in cui sia stata ritenuta non indispensabile la misura custodiale, richiedendolo con una distanza adeguata e interpellando la donna al fine di consentirle di avere l’apparecchio antistalking; ed assicurare il rispetto delle informative spettanti alla persona offesa e delle comunicazioni rivolte ai servizi sociali;
8. rafforzare il coordinamento organizzativo tra il Tribunale ordinario e la Procura della Repubblica attraverso la redazione di protocolli aventi ad oggetto direttive condivise sui termini entro i quali il Gip e il TdR debbano pronunciarsi, rispettivamente, sulle richieste di misure cautelari e di incidente probatorio e sugli appelli cautelari proposti dal Pubblico Ministero;
9. sollecitare gli operatori di PG ad adottare misure idonee ad ovviare ai rischi di incolumità della vittima nei tempi di attesa della misura cautelare, soprattutto nei casi più gravi di violenza di genere (ad esempio, monitoraggi protettivi con appostamenti presso l’abitazione della vittima);
10. incrementare il ricorso alle misure di prevenzione quale valida alternativa alla mancata applicazione della misura cautelare ovvero alla loro declaratoria di inefficacia, nonché all’atto della scarcerazione qualora la pericolosità risulti attuale;
11. prestare particolare attenzione agli esiti dei corsi di recupero dell'autore del reato ai fini e per gli effetti di cui agli articoli 165, comma quinto, del codice penale e 282-quater del codice di procedura penale: non avendo la legge n. 69 del 2019 previsto una disciplina per il riconoscimento e l’accreditamento degli enti e delle associazioni che possono fornire tali «percorsi di recupero», in attesa di accreditamento e di linee guida nazionali dovrà essere attentamente verificata la serietà professionalità di chi organizza tali percorsi di recupero, al fine di garantire uno standard elevato di qualità dei servizi; e a tal fine si possono rivelare utili forme di controllo e di verifica preventiva, anche attraverso la stipula di appositi protocolli di idoneità;
12. favorire l’intervento trattamentale sugli uomini autori di violenza in sede di esecuzione della pena, quale parte di un processo più ampio di cambiamento culturale per il superamento degli stereotipi di genere che portano alla discriminazione e alla violenza: in quest’ottica va rafforzato il ruolo del pubblico ministero cui spetta il compito di vigilare sulla traiettoria del percorso trattamentale del condannato per violenza di genere e sugli aspetti contenutistici e prescrittivi del beneficio concesso, prevedendo, sotto il profilo organizzativo, che anche i magistrati del pubblico ministero che partecipano alle procedure di sorveglianza siano dotati di adeguata specializzazione in materia.
6.2. Il versante civile
1. occorre assicurare il coordinamento tra PM civile e PM penale: ottimale sarebbe se la stessa persona “fisica” si occupasse di entrambi i versanti, il che consentirebbe di modulare meglio l’attività investigativa/istruttoria e la circolazione di informazioni civile/penale, curando anche che gli accertamenti vengano effettuati una sola volta, magari attraverso l’uso della videoregistrazione, per evitare la vittimizzazione secondaria delle persone offese;
2. il PM, nella sua doppia veste, qualora riscontri, nell’ambito del procedimento penale, “reati spia” o comunque fatti che possano far temere per l’incolumità psico-fisica della donna o del minore deve immediatamente verificare la pendenza di un procedimento civile ed intervenire. Qualora appurasse che non pende procedimento civile potrebbe assumere l’iniziativa ex art. 473-bis.13 c.p.c.;
3. nel caso in cui in sede penale emergano fatti che, seppure non sufficienti a sostenere l’accusa in giudizio, siano comunque significativi di relazioni familiari improntate alla aggressività, al controllo, all’isolamento, allo svilimento o al ricatto economico, occorre “vestire” la eventuale richiesta di archiviazione. In tal modo il PM, veicolando l’atto nel procedimento civile, potrebbe offrire utili elementi di riscontro alle allegazioni di violenza (l’esperienza insegna, infatti, come i provvedimenti di archiviazione vengano non di rado utilizzati per fondare accuse di falsità nei confronti delle madri, con conseguente automatico affidamento condiviso dei figli). Qualora, invece, il procedimento civile non sia pendente, lo stesso PM che ha chiesto l’archiviazione potrebbe assumere l’iniziativa ex art. 473-bis.13 c.p.c., chiedendo l’apertura di un procedimento de potestate. L’esatta ricostruzione dei fatti nella richiesta di archiviazione è, in ogni caso, essenziale per consentirne la valutazione in sede civile ed anche nella stessa sede penale nel caso di presentazione di successive denunce o querele;
4. in caso di ricorso all’incidente probatorio, le dichiarazioni così cristallizzate devono essere tempestivamente introdotte nel procedimento civile per la custodia della prole;
5. il PM deve presenziare alle udienze civili o, almeno, redigere “note” d’udienza, partecipando attivamente all’istruttoria, producendo documenti, indicando testi, partecipando all’ascolto del minore e avanzando richieste autonome (es. sospensione dalla responsabilità genitoriale, nomina del curatore speciale, richiesta di affidamento super esclusivo o di incontri protetti);
6. il PM deve avere dimestichezza con il processo civile telematico e con la consolle: ciò al fine di avere costantemente contezza degli sviluppi del procedimento. Per facilitare la consultazione sarebbe opportuno prevedere un “alert” sulla consolle, con il quale il giudice civile segnala al PM i procedimenti maggiormente problematici. In alternativa, il PM potrebbe chiedere alla Polizia Giudiziaria di verificare se pende procedimento civile in modo da poter intervenire;
7. è opportuna la previsione di una sorta di ufficio spoglio, in cui la Polizia Giudiziaria verifica gli atti civili comunicati dalla cancelleria civile alla Procura per il visto al fine di individuare e segnalare al Pubblico Ministero quelli che contengono elementi significativi di relazioni familiari caratterizzate da conflittualità, aggressività, mortificazione/isolamento/svilimento della partner, comportamenti pregiudizievoli ai figli; l’emersione di questi fatti consentirebbe di accendere un faro sugli abusi intrafamiliari a prescindere dalla denuncia in sede penale che, come detto, avviene in una minima parte dei casi;
8. l’oggettivo limite alle comunicazioni del PM al giudice civile derivante dal segreto istruttorio potrebbe essere superato inviando al giudice civile una nota scritta in cui si indicano i soli fatti, dati o informazioni non riservati. In ogni caso il PM dovrebbe bilanciare i danni di una eventuale desecretazione anticipata in sede penale con i vantaggi derivanti in sede civile dal tempestivo affidamento esclusivo del minore alla madre e dal divieto di incontri con il genitore violento. Resta fermo che, nel momento in cui gli atti sono ostensibili all’indagato, essi devono essere immediatamente comunicati al giudice civile;
9. va sempre valutata l’opportunità della nomina di un CTP del PM in caso di CTU sulla responsabilità genitoriale;
6.3. Il coordinamento PM ordinario e PM Minorile
1. appare necessario individuare modalità efficaci di coordinamento tra PM ordinario e PM minorile;
2. il PM minorile, quale titolare dell’azione civile davanti al Tribunale per i minorenni, prima di inoltrare un ricorso ex art. 473-bis.13 c.p.c. è tenuto a verificare la pendenza di eventuale procedimento civile davanti al Tribunale ordinario (tramite collegamento al Sicid) nel qual caso, non essendo competente, deve trasmettere gli atti al PM civile della Procura ordinaria per l’eventuale intervento nel giudizio civile; al contrario, se non pende procedimento davanti al Tribunale ordinario, l’eventuale ricorso va inoltrato al Tribunale per i minorenni a cura del PM minorile, che dovrà essere messo in condizioni di utilizzare gli atti rilevanti del procedimento penale pendente davanti alla Procura ordinaria;
3. se non pende un procedimento civile davanti al TO, il PM ordinario deve trasmettere prontamente gli atti al PM minorile perché proceda davanti al TM, oppure direttamente al TM se gli risulti già la pendenza di un procedimento civile a tutela del minore;
4. in caso di incidente probatorio, come anche di emissione di misura cautelare, occorre trasmettere con tempestività gli atti all’Ufficio minorile;
5. nel rispetto della tutela del segreto istruttorio, occorre più efficacemente perseguire la tutela dei minori vittime di violenza domestica, quantomeno individuando tipologie di atti che possono essere utilizzati in sede civile, in quanto non creano danni di anticipata discovery alle indagini penali, ma al contempo garantiscono una tempestiva ed efficace tutela delle vittime;
6. occorre rafforzare anche presso gli Uffici requirenti minorili la formazione e la specializzazione del personale di polizia giudiziaria, implementandone altresì il dimensionamento, che allo stato si rivela insufficiente;
7. va infine implementato, anche nel settore minorile, il processo telematico, anche al fine di rafforzare il raccordo con le altre Autorità Giudiziarie.
*** [29]
L’Avvocato generale Il Procuratore generale
Pasquale Fimiani Luigi Salvato
[1] I reati in materia di genere mantengono un andamento statistico elevato e pressoché costante. In particolare, nel periodo 2019-2022 si sono registrati in Italia, rispettivamente, 112, 118, 119 e 125 femminicidi a fronte, rispettivamente, di complessivi 319, 285, 304 e 319 omicidi. Quanto ai cd. reati spia, l’andamento generale di detti reati commessi nel medesimo periodo attesta, quanto agli atti persecutori ed ai maltrattamenti contro familiari e conviventi, un trend in progressivo e costante incremento fino al 2022, anno in cui tali delitti hanno subito un significativo decremento, diversamente dalle violenze sessuali che, a fronte di un decremento nel 2020 rispetto all’anno precedente, mostrano un incremento nel biennio successivo (numericamente, nel periodo in esame, gli atti persecutori accertati vanno da un minimo annuo di 16.065 ad un massimo di 18.724; i maltrattamenti da un minimo di 20.850 ad un massimo di 23.728; le violenze sessuali da un minimo di 4.497 ad un massimo di 5.991). Ciò che più rileva è che, nel periodo in esame, l’incidenza delle donne sul totale delle vittime si mantiene pressoché costante, attestandosi intorno al 75% per gli atti persecutori, tra l’81 e l’83% per i maltrattamenti contro familiari e conviventi e con valori che oscillano tra il 91 e il 93% per le violenze sessuali. Quanto ai delitti introdotti dal ‘Codice rosso’, nel periodo in esame sono andati progressivamente aumentando sia il reato di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso (art. 583-quinquies c.p.) che le violazioni ai provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (387-bis c.p.); mentre per la costrizione o induzione al matrimonio (art.558-bis c.p.) e la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (art.612-ter c.p.) si registra un decremento nell’ultimo anno.
[2] In tema di violenza di genere vanno segnalate anche tre recenti decisioni della Corte EDU che si pongono nel solco della sentenza 2.03.2017 Talpis c. Italia:
1. Landi c Italia, 7.04.2022 - La Corte Edu ha esortato le autorità italiane a colmare la lacuna legislativa riguardante la mancanza di rimedi civili efficaci esperibili avverso qualsivoglia autorità statale che non adotti misure preventive o protettive necessarie in relazione alla fattispecie di violenza domestica;
2. De Giorgi c. Italia, 16.06.2022 - La Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 2 CEDU per l’inerzia delle autorità italiane nel proteggere una donna e i suoi figli dalle violenze e dai maltrattamenti inflitti dal compagno la cui escalation di soprusi e violenze continui ha trovato il culmine nell’uccisione del figlio di un anno della donna e nel tentato omicidio della stessa;
3. M.S. c. Italia, 7.07.2022 - La Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia: a) per violazione dell’art. 3 (materiale) per mancanza di diligenza, in un primo periodo, delle autorità nazionali intervenute tardivamente nell'applicazione di una misura cautelare, ossia 22 mesi dopo che la ricorrente era stata aggredita da suo marito con un coltello; e per mancanza di valutazione immediata e proattiva dell'esistenza di un rischio reale e immediato di violenze domestiche contro l'interessata. Ha affermato, invece, la diligenza delle autorità nazionali, in un secondo periodo, nella loro valutazione dei rischi autonoma, proattiva ed esaustiva, che le ha portati ad adottare una misura cautelare e ad ammonire il marito; b) per violazione dell’art 3 (procedurale) per mancanza di diligenza e di rapidità da parte dei giudici nazionali, con il risultato che il marito violento ha goduto di un'impunità quasi totale in ragione della prescrizione; e per il mantenimento di un sistema, sulla base dei meccanismi di prescrizione dei reati, propri del quadro nazionale, in cui la prescrizione è strettamente legata all'azione giudiziaria, anche dopo l'avvio di un procedimento.
[3] Le comunicazioni relative ai provvedimenti di scarcerazione e di cessazione della misura di sicurezza detentiva, nonché alle condotte di evasione dell’imputato, sono sempre effettuate alla persona offesa e al suo difensore, ove nominato;
[4] Il pubblico ministero assume informazioni dalla persona offesa e da chi ha presentato denuncia, querela o istanza, entro il termine di tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato, salvo che sussistano imprescindibili esigenze di tutela di minori di anni diciotto o della riservatezza delle indagini, anche nell’interesse della persona offesa;
[5] Quando a seguito di un provvedimento del giudice di sorveglianza deve essere disposta la scarcerazione del condannato, il pubblico ministero che cura l’esecuzione ne dà immediata comunicazione, a mezzo della polizia giudiziaria, alla persona offesa e, ove nominato, al suo difensore;
[6] Ai fini della decisione dei procedimenti di separazione personale dei coniugi o delle cause relative ai figli minori di età o all’esercizio della potestà genitoriale, copia delle ordinanze che applicano misure cautelari personali o ne dispongono la sostituzione o la revoca, dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, del provvedimento con il quale è disposta l’archiviazione e della sentenza emessi nei confronti di una delle parti in relazione a determinati reati è trasmessa senza ritardo al giudice civile procedente.
[7] A tal fine, la legge:
[8] Dall’indagine svolta dalla Commissione di inchiesta del Senato sul femminicidio e dai dati resi noti dal Consiglio Superiore della Magistratura emerge che in nessun Tribunale è previsto, nei progetti organizzativi, un Gip specializzato nella violenza di genere e domestica; e negli uffici di dimensioni più grandi (Roma, Napoli, Milano, Torino, Palermo) questa appare sicuramente una criticità, peraltro in contrasto con la Convenzione di Istanbul, che richiede la specializzazione del giudice.
[9] Com’è noto, il sequestro di persona ‘base’ e la violenza privata ‘base’ sono divenuti procedibili a querela, sicché la violenza sessuale e gli atti persecutori, anche quando connessi con un sequestro di persona o con una violenza privata, sono anch’essi divenuti perseguibili a querela; del pari, le lesioni personali di durata inferiore a 40 giorni sono state rese perseguibili a querela
[10] La Corte EDU riconosce i progressi compiuti dall’Italia nella lotta alla violenza domestica negli ultimi anni; le sentenze citate in nota 1, tuttavia, danno prova del fatto che la Corte di Strasburgo continua ad imputare all’Italia condotte inosservanti degli obblighi convenzionali. Ciò trova conferma anche nel fatto che lo stato di esecuzione della sentenza Talpis, pronunciata ormai sei anni fa, non è stato ancora dichiarato concluso. In particolare, nel corso dell’ultima riunione di monitoraggio, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha rilevato l’opportunità di proseguire la supervisione dell’esecuzione della sentenza Talpis, in ragione della necessità di garantire che l’Italia dia effettiva attuazione al quadro giuridico predisposto a tutela delle donne vittime di violenza domestica. Le principali criticità che destano la preoccupazione del Comitato dei Ministri sono peraltro le stesse ravvisate dal Comitato Grevio nel primo rapporto sullo stato di applicazione della Convenzione di Istanbul in Italia e trovano emblematico riscontro in tutte le vicende sopra esaminate. Nello specifico, tali criticità consistono in una prassi diffusa fatta di: mancata considerazione degli episodi di violenza domestica nelle decisioni civili concernenti la custodia o i diritti di visita; mancato coordinamento tra giustizia civile e penale; inadeguatezza delle procedure di valutazione del rischio, che non risultano esaustive in quanto non fondate su checklist standardizzate o best practices; nonché assenza di formazione specifica degli attori istituzionali coinvolti nei processi valutativo-decisionali. In definitiva, pur a fronte di un quadro giuridico astrattamente idoneo ad assicurare una protezione effettiva delle donne vittime di violenza domestica, l’inadeguatezza rispetto agli standard convenzionali della tutela offerta loro dall’Italia si risolve in larga misura in un problema di valutazione: valutazione delle specificità del fenomeno della violenza domestica, delle sue ripercussioni nelle dinamiche familiari e del rischio di reiterazione degli episodi violenti.
[11] A tal fine sarebbe auspicabile anche la denominazione dei Gruppi specializzati sulla base della materia trattata, senza il generico riferimento alle cd. fasce deboli.
[12] Anche la Corte di cassazione in più sentenze ha sottolineato l’importanza di non confondere le liti con le violenze (cfr. di recente, Sez. VI, n. 19847/2022 che invita espressamente a non confondere il delitto di maltrattamenti con le liti familiari osservando che “vi sono i primi quando emerge un rapporto di gerarchia e di potere, dunque di sopraffazione di un soggetto su un altro; mentre vi sono le seconde quando le parti sono in posizione paritaria e simmetrica. Alcuni criteri per cogliere la differenza sono, ad esempio, che vi siano o meno l’accettazione del punto di vista dell'altro; che si ripeta o meno, con modalità prestabilite, la soccombenza sempre dello stesso soggetto; che vi sia la sensazione di paura solo di uno dei due”.
[13] Si ribadisce che, come già detto in nota 8, tra le principali criticità ravvisate dal Comitato Grevio nel primo rapporto sullo stato di applicazione della Convenzione di Istanbul in Italia vi è la “inadeguatezza delle procedure di valutazione del rischio, che non risultano esaustive in quanto non fondate su checklist standardizzate o best practices”
[14] A tale risoluzione ha fatto, poi seguito, la più recente delibera 8 novembre 2021 con la quale il CSM ha dato conto dei risultati del monitoraggio sull’applicazione delle linee guida in tema di organizzazione e buone prassi per la trattazione dei procedimenti relativi a reati di violenza di genere e domestica.
[15] La Corte di cassazione – nel fare applicazione del principio di diritto sancito dall'art. 55 della Convenzione di Istanbul secondo cui le indagini ed i procedimenti penali dei reati di violenza di genere devono continuare "anche se la vittima dovesse ritrattare l'accusa o ritirare la denuncia” – ha più volte affermato che la ritrattazione non costituisce espressione di volubilità e inattendibilità intrinseca delle persone offese, ma rappresenta un esito possibile, se non addirittura certo, dovuto alle modalità insidiose, circolari e manipolatorie in cui si sviluppa in particolare la violenza domestica; il che “impone un impegno motivazionale al giudice che, nei reati di violenza di genere, a fronte di mancate denunce, ridimensionamenti, supposti riappacificamenti e persino ritrattazioni della persona offesa, anziché qualificare dette condotte come un elemento utile ad escludere il rischio di reiterazione del reato e/o la pericolosità dell'autore, deve accertare che non siano sintomatiche dell'esposizione della persona offesa alla prosecuzione o all'aggravamento della relazione maltrattante attraverso minacce, ricatti, intimidazioni e rappresaglie” (Sez. 6, n. 29688 del 06/06/2022).
[16] Centrale, al riguardo, è la direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012, recante «Norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato», che riconosce a tutte le vittime il «diritto alla protezione» e, pur facendo salvi i diritti della difesa, «richiede agli Stati membri di assicurare che sussistano misure per proteggere la vittima e i suoi familiari da vittimizzazione secondaria e ripetuta, intimidazioni e ritorsioni, compreso il rischio di danni emotivi o psicologici». La Convenzione di Istanbul, dopo aver affermato all’articolo 2, che le Parti «presteranno particolare attenzione alla protezione delle donne vittime di violenza di genere», precisa, al successivo articolo 18, che bisogna «proteggere tutte le vittime da nuovi atti di violenza»; e, circa lo svolgimento dell’azione giudiziaria, non solo richiede espressamente una cooperazione «tra le autorità giudiziarie ed i pubblici ministeri», ma sottolinea, anche, che le misure devono «essere basate su una comprensione della violenza di genere, e concentrarsi sulla sicurezza della vittima».
[17] Ed infatti nel 2013 la sua applicabilità è stata estesa (ad opera della legge 15 ottobre 2013 n.119, emanata in attuazione della convenzione di Istanbul) dapprima alla misura cautelare dell’allontanamento dall’abitazione familiare (articolo 282-bis del codice di procedura penale) e successivamente, con la legge n. 69 del 2019, al «divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa» (articolo 282-ter del codice di procedura penale).
[18] Piuttosto, dai dati forniti dal Ministero dell’interno e dalla risposta ad interpellanze parlamentari, la prima del 13712/2019 (n. 2-00599) e la seconda del 15/1/2021 (n. 2-01022), risulta che vi è un ampio numero di braccialetti elettronici non utilizzati.
[19] «Quando l’imputato si sottopone positivamente ad un programma di prevenzione della violenza organizzato dai servizi socio-assistenziali del territorio, il responsabile del servizio ne dà comunicazione al pubblico ministero e al giudice ai fini della valutazione ai sensi dell’articolo 299, comma 2».
[20] «Nei casi di condanna per i delitti di cui agli articoli 572, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies e 612-bis, nonché agli articoli 582 e 583-quinquies nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, la sospensione condizionale della pena è comunque subordinata alla partecipazione a specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati».
[21] Articolo 16 – Programmi di intervento di carattere preventivo e di trattamento: 1 Le Parti adottano le misure legislative e di altro tipo necessarie per istituire o sostenere programmi rivolti agli autori di atti di violenza domestica, per incoraggiarli ad adottare comportamenti non violenti nelle relazioni interpersonali, al fine di prevenire nuove violenze e modificare i modelli comportamentali violenti. 2 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per istituire o sostenere programmi di trattamento per prevenire la recidiva, in particolare per i reati di natura sessuale. 3 Nell’adottare le misure di cui ai paragrafi 1 e 2, le Parti si accertano che la sicurezza, il supporto e i diritti umani delle vittime siano una priorità e che tali programmi, se del caso, siano stabiliti ed attuati in stretto coordinamento con i servizi specializzati di sostegno alle vittime.
[22] In proposito l'indagine svolta dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul femminicidio, di cui alla “Relazione sulla vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti che disciplinano l'affidamento e la responsabilità genitoriale”, approvata dalla Commissione nella seduta del 20 aprile 2022, ha evidenziato una sostanziale invisibilità e sottovalutazione della violenza di genere e domestica nelle cause civili. Tale sottovalutazione ha come conseguenza, ad esempio, l’alta probabilità dell’affidamento in regime condiviso dei figli, che è infatti il regime ordinario, con il duplice rischio di affidare un bambino a un padre violento e di costringere la donna-vittima ad avere rapporti continui con il medesimo.
[23] Articolo 31 – Custodia dei figli, diritti di visita e sicurezza
1 Le Parti adottano misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che, al momento di determinare i diritti di custodia e di visita dei figli, siano presi in considerazione gli episodi di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione.
2 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che l'esercizio dei diritti di visita o di custodia dei figli non comprometta i diritti e la sicurezza della vittima o dei bambini.
[24] Nel par. 186 si legge: …. “il Grevio sottolinea come la sicurezza del genitore non violento e del bambino debbano essere un elemento centrale nel decidere del miglior interesse del bambino per quanto riguarda gli accordi sull’affidamento e le visite …. Sebbene il Grevio sostenga il diritto del bambino a mantenere un legame con entrambi i genitori, previsto dall’art.9, comma 3, della Convenzione ONU sui diritti dell’Infanzia, l’esposizione alla violenza domestica -come vittima o testimone- richiede delle eccezioni alla regola nel miglior interesse del bambino”)
[25] Art. 473-bis.40 (Ambito di applicazione). - Le disposizioni previste dalla presente sezione si applicano nei procedimenti in cui siano allegati abusi familiari o condotte di violenza domestica o di genere poste in essere da una parte nei confronti dell'altra o dei figli minori.
[26] Per “violenza assistita” da minori in ambito familiare si intende, come è noto, il fatto che un minorenne “faccia esperienza” di qualsiasi forma di maltrattamento, compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica, su figure di riferimento (ad esempio: la madre) o su altre figure affettivamente significative (adulte e minorenni che siano). Il bambino può fare esperienza di tali atti direttamente, quando questi avvengono nel suo campo percettivo, oppure indirettamente quando il minore ne è a conoscenza e/o ne percepisce gli effetti (si ha pertanto violenza assistita non solo quando il minore vede e vive direttamente le percosse, gli insulti, le minacce e le sofferenze cui il genitore è esposto, ma anche se queste violenze, pur non avvenendo direttamente innanzi ai suoi occhi, sono da lui conosciute attraverso la percezione dei suoi effetti).
[27] Gli ordini di protezione disposti dal Tribunale per i Minorenni hanno medesimo contenuto delle misure cautelari dell’ordine di allontanamento dalla casa familiare del coniuge o del convivente, con il vantaggio di non essere soggetti a termini di scadenza e di fase
[28] L’art. 609-decies c.p. è la disposizione normativa che traccia il perimetro del coordinamento fra l’azione del pubblico ministero ordinario che procede per le ipotesi di reato e l’autorità giudiziaria minorile. Va segnalato, però, che la disposizione pone per il PM ordinario l’onere di comunicazione dell’esito delle indagini preliminari al Tribunale per i minorenni, mentre, a seguito della riforma dell’art. 111 Cost. e l’entrata in vigore della legge n. 149/01, la comunicazione andrebbe più opportunamente inviata, onde evitare inutili adempimenti amministrativi, al Pubblico Ministero minorile, unico soggetto pubblico legittimato a ricorrere al Tribunale per i minorenni (quest’ultimo, infatti, non può procedere d’ufficio).
[29] Hanno collaborato alla redazione degli orientamenti i sostituti Procuratori generali Giuseppina Casella (coordinatrice del gruppo di lavoro), Francesca Ceroni, Valentina Manuali e Stefano Tocci.
Sommario: 1. L’accesso alla magistratura onoraria prima della riforma “Orlando” (d,lgs.vo n. 116/2017) - 2. Le vigenti modalità di reclutamento - 3. Il tirocinio dei magistrati onorari - 4. Considerazioni finali.
1. L’accesso alla magistratura onoraria prima della riforma “Orlando” (d,lgs.vo n. 116/2017)
L’accesso alla magistratura onoraria, rispetto al suo esordio nel nostro ordinamentale, datato 1988 per i viceprocuratori onorari, 1991 per i giudici di pace e 1998 per i giudici onorari di tribunale, è stato ripetutamente modificato nel tempo, del resto in linea con i progressivi mutamenti di status che hanno caratterizzato la platea dei magistrati non professionali, a quanto sembra non ancora connotata da un assetto definitivo.
Sino all’unificazione ordinamentale attuato dalla riforma del 2017, la magistratura onoraria, articolata negli acronimi che l’hanno sempre contraddistinta, si è caratterizzata in due settori diversificati: la magistratura cd. “vicaria” (g.o.t. e v.p.o.) e i giudici di pace (g.d.p.).
Per quanto concerne l’originaria figura del viceprocuratore onorario (v.p.o.), istituita con D.P.R. 22.9.1988 n.449 (art.21), si era previsto che alle Procure della Repubblica presso le Preture aventi sede nel capoluogo di circondario, potessero essere addetti viceprocuratori onorari per l’espletamento delle funzioni di delegato del Procuratore della Repubblica nelle udienze pretorili.
La nomina dei v.p.o. rinviava ai criteri dettati per la selezione dei vicepretori onorari (art. 32 Ordinamento Giudiziario), limitati alla soglia anagrafica minima di venticinque anni di età, alla qualifica di notaio ovvero al possesso del diploma di laurea in giurisprudenza.
L’ art. 71 Ordinamento Giudiziario (introdotto con la riforma del giudice unico di primo grado), unifica i criteri di selezione dei v.p.o. con quelli della nuova figura di giudici onorari di tribunale (g.o.t.), per cui il d.lgs.vo 12.2.1998, n.51 prevedendo una pianta organica flessibile, rapportata alle dimensioni dell’ufficio giudiziario cui assegnare il magistrato onorario.
I requisiti per la nomina sono elencati dall’ 42ter O.G. (integrato dalle disposizioni procedimentali di dettaglio operate dalle successive circolari del C.S.M.):
a) cittadinanza italiana;
b) esercizio dei diritti civili e politici;
c) idoneità fisica e psichica;
d) età compresa tra i venticinque e i sessantanove anni;
e) residenza in un comune compreso nel distretto in cui ha sede l’ufficio giudiziario per il quale è presentata domanda (fatta eccezione per coloro che esercitano la professione di avvocato o le funzioni notarili);
f) laurea in giurisprudenza;
g) non avere riportato condanne per delitti non colposi o a pena detentiva per contravvenzioni e non essere stato sottoposto a misure di prevenzione o di sicurezza.
L’esercizio dell’attività forense costituiva elemento preferenziale ma non necessario per la nomina a magistrato onorario, parificata alle funzioni giudiziarie, notarili, all’insegnamento di materie giuridiche nelle università o negli istituti superiori statali, alle funzioni inerenti ai servizi delle cancellerie e segreterie giudiziarie con qualifica di dirigente o con qualifica corrispondente alla soppressa carriera direttiva, alle funzioni con qualifica di dirigente o con qualifica corrispondente alla soppressa carriera direttiva nelle amministrazioni pubbliche o in enti pubblici economici.
A detti titoli preferenziali si è poi aggiunto il conseguimento del diploma biennale di specializzazione per le professioni legali di cui all'art. 16 del d.l. 17.11.1997, n. 398.
Per quanto concerne invece il reclutamento dei giudici di pace, viene regolato ab origine dalla legge istitutiva 21.11.1991 n.374, progressivamente modificata nel tempo in virtù della mutazione “genetica” della figura del giudice di prossimità, che ha professionalizzato la figura di un magistrato di prossimità concepito inizialmente come “dilettante” del diritto.
Con la domanda l’interessato dichiara di possedere i requisiti previsti dall’art. 5.1, che richiede all’aspirante giudice di pace:
a) di essere cittadino italiano;
b) di avere l'esercizio dei diritti civili e politici;
c) di non avere riportato condanne per delitti non colposi o a pena detentiva per contravvenzione e non essere sottoposto a misure di prevenzione o di sicurezza;
d) di avere idoneità fisica e psichica;
e) di avere un’età non inferiore a 50 e non superiore a 71 anni (poi limitata a 70 salvo che per procuratori legali e notai dall’art. 9 del d.l. n. 571/1994);
f) avere la residenza in un comune della circoscrizione del tribunale dove ha sede l'ufficio del giudice di pace (salvo se avvocato o notaio);
g) avere il possesso della laurea in giurisprudenza;
h) avere cessato, o impegnarsi a cessare prima dell'assunzione delle funzioni di giudice di pace, l'esercizio di qualsiasi attività lavorativa dipendente pubblica o privata.
Anche per la nomina a giudice di pace la qualifica di avvocato costituiva mero titolo di preferenza, al pari dello svolgimento di funzioni giudiziarie, notarili, dell'insegnamento di materie giuridiche nelle università o negli istituti superiori statali, delle funzioni inerenti alle qualifiche dirigenziali e alla ex carriera direttiva delle cancellerie e delle segreterie giudiziarie, delle funzioni inerenti alle qualifiche dirigenziali e alla ex carriera direttiva della P.A. e delle funzioni di ufficiale di polizia giudiziaria.
Per quanto di portata del tutto generica, il comma terzo dell’art.5 prescrive che “la nomina deve cadere su persone capaci di assolvere degnamente, per indipendenza e prestigio acquisito e per esperienza giuridica e culturale maturata, le funzioni di magistrato onorario”.
Con l’art.3 della legge 24.11.1999, n. 468, la professionalizzazione della figura del giudice di pace viene accentuata con la previsione, quale requisito per l’accesso, della cessazione (o dell’impegno a farlo) dall’esercizio di qualsiasi attività lavorativa dipendente, pubblica o privata, ma soprattutto del necessario superamento dell’esame di abilitazione all’esercizio della professione forense (salvo per i notai, pregressi magistrati onorari per almeno un biennio, docenti universitari di materia giuridiche o dirigenti di cancelleria). In sostanza l’accesso alle funzioni giurisdizionali onorarie, se pure nella diversità delle attribuzioni, restava accomunata nell’ambito di una selezione per soli titoli, in un perimetro qualificato di laureati in giurisprudenza, dove l’esercizio dell’attività forense risultava necessaria solo per la più impegnativa (ed ambita) funzione di giudice di pace anche se, per entrare nella graduatorie utile per l’accesso alle funzioni vicarie, anche tra i g.o.p. e i v.p.o. il titolo di avvocato costituiva la norma e non certo l’eccezione.
2. Le vigenti modalità di reclutamento
Con il d.lgs.vo n. 116/2017 la magistratura onoraria assume (finalmente) uno status ordinamentale unitario, che va al di là della denominazione “giudice onorario di pace” (g.o.p.) che accomuna le figure giudicanti.
Per il “nuovo” magistrato onorario è ora previsto un unico modello di reclutamento, sempre per titoli, ma con i medesimi requisiti (art.4.1):
a) cittadinanza italiana;
b) esercizio dei diritti civili e politici;
c) condotta incensurabile;
d) idoneità fisica e psichica;
e) età compresa tra i ventisette e cinquantanove anni;
f) laurea in giurisprudenza a seguito di corso universitario di durata non inferiore a quattro
anni.
Ferma restando la previsione di alcune cause di esclusione (per precedenti negativi), anche nella nuova disciplina sono stati introdotti titoli di preferenza, opportunamente graduati, consistenti (art.4.3) nell’esercizio pregresso di:
a) funzioni giudiziarie, comprese quelle onorarie;
b) della professione di avvocato (per un biennio);
c) della professione di notaio (per un biennio);
d) dell'insegnamento di materie giuridiche nelle università (per un biennio);
e) nello svolgimento con esito positivo del tirocinio senza che sia intervenuto il conferimento dell'incarico di magistrato onorario;
f) l'esercizio pregresso (per un biennio), delle funzioni inerenti ai servizi delle cancellerie e segreterie giudiziarie con qualifica non inferiore a quella di direttore amministrativo;
g) lo svolgimento, con esito positivo, dello stage presso gli uffici giudiziari, a norma dell'articolo 73 del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69;
h) il conseguimento del dottorato di ricerca in materie giuridiche;
i) l'esercizio (per un biennio) dell'insegnamento di materie giuridiche negli istituti superiori statali.
L’art. 11.4 lett. d) del d.l. 9.6.2021 n. 80 ha aggiunto come ulteriore titolo di preferenza anche l’esercizio pregresso per l’intero periodo delle funzioni di addetto all’ Ufficio per il processo istituito per supportare il P.N.R.R.
Sostanzialmente i nuovi criteri di reclutamento riservano di fatto agli avvocati l’accesso alle funzioni onorarie, risultando del tutto episodica (e confinata in alcune ridotte aree geografiche) la selezione di aspiranti esterni al mondo forense.
Il privilegio risulta inevitabilmente collegato alla professionalità richiesta al magistrato onorario e alla garanzia di una pregressa qualificazione esperienziale (anche per i tempi ridotti del tirocinio).
Va rilevata una significativa novità introdotta dal quarto comma della norma in esame per cui: “In caso di uguale titolo di preferenza ai sensi del comma 3 prevale, nell'ordine: a) la maggiore anzianità professionale o di servizio, con il limite massimo di dieci anni di anzianità; b) la minore età anagrafica; c) il più elevato voto di laurea”.Tanto comporta, nella diffusa valutazione di una platea di aspiranti magistrati onorari composta prevalentemente da avvocati, come il criterio di preferenza dell’anzianità professionale (in precedenza determinante per l’accesso), risulti ora contenuto nel limite massimo di dieci anni, subentrando poi la minore età. Si interviene così abbassando l’età di accesso alla magistratura onoraria, in un contesto, quale quello attuale, caratterizzato da un’anzianità anagrafica molto elevata (sulla base di una rilevazione aggiornata al maggio 2021, il 50,5% dei magistrati onorari in servizio aveva più di 55 anni).
Le nuove disposizioni hanno trovato recente (prima) applicazione da parte del C.S.M. che ha riattivato (dopo una lunga sospensione) il reclutamento necessario per riempire gli organici della magistratura onoraria, oggi largamente scoperti con il 43% di posti vacanti, mettendo a concorso 400 posti (300 di g.o.p. e 100 di v.p.o.).
Da ultimo, con delibera del 6.12.2022, il C.S.M. ha provveduto ad indire una seconda maxi procedura di selezione con un bando per il reclutamento di ben 1038 magistrati onorari.
3. Il tirocinio della magistratura onoraria
Prima della riforma del 2017 anche le modalità di formazione iniziale tra g.o.t. e v.p.o. da un lato e g.d.p. dall’altro si presentavano come diversificate.
Il tirocinio per la magistratura vicaria era previsto dopo il provvedimento di nomina, per una durata di quattro mesi (due nel settore civile e due nel settore penale per i g.o.t.).
Per i giudici di pace invece il periodo di tirocinio, precedente la nomina, era di sei mesi (tre per settore).
Comune per tutte le qualifiche onorarie il modulo formativo, replicando sostanzialmente quello tipico della formazione iniziale dei magistrati professionali, consentendo all’aspirante magistrato onorario un utile affiancamento a magistrati esperti per le attività di udienza, abbinato alla partecipazione a corsi di formazione teorica organizzati dalle commissioni distrettuali per la formazione della magistratura onoraria (istituite dal C.S.M. con circolare del 16.4.2004), autonome rispetto a quelle incaricate della formazione dei magistrati professionali.
Con risoluzione consiliare del 24.7.2013 (di concerto con la Scuola superiore della magistratura) si è pervenuti all’unificazione delle (due) strutture decentrate, per ragioni di economicità di gestione e di unicità “culturale” del processo formativo tra magistratura professionale e magistratura onoraria, per pervenire “….ad una maggiore praticità gestionale delle attività formative ed una proficua interazione tra le offerte formative destinate alla platea dei magistrati (professionali ed onorari) operanti in ambito distrettuale".
Non sembra azzardato ritenere che l’unificazione non abbia portato ai risultati di osmosi culturale sperati, essendosi ridotto il numero di iniziative formative specificamente dedicate alla magistratura onoraria, garantito in precedenza dall’autonomia gestionale di una struttura formativa composta in prevalenza da rappresentanti delle varie figure onorarie.
Il d.lgs.vo n. 116/2017 ha apportato significative modifiche all’assetto precedente.
Il numero degli aspiranti ammessi al tirocinio è pari al doppio dei posti messi a concorso per ciascun ufficio, la sua durata è portata a sei mesi (sia per i giudici che per i v.p.o.), e si sviluppa sia nell’affiancamento a magistrati (professionali) affidatari, sia nella partecipazione a corsi teorico-pratici organizzati dalle strutture distrettuali della S.S.M., coordinati dalle nuove figure dei “tutori”, ricalcando il modello di formazione didattica dei magistrati ordinari in tirocinio.
Le valutazioni individuali del tirocinio, corredate dai pareri di idoneità formulati dalla sezione autonoma del Consiglio Giudiziario, determinano la formazione della graduatoria finale, che conserva efficacia biennale, in modo da determinare (a scorrimento) la celere copertura dei posti resisi eventualmente vacanti.
Con circolare del 2019 il C.S.M. ha regolamentato in dettaglio il tirocinio dei giudici onorari, prevedendo per quelli che, in caso di conferimento dell'incarico, svolgeranno funzioni civili, i due terzi del tirocinio siano svolti nel settore civile, con previsione speculare per chi venga adibito a funzioni penali.
4. Considerazioni finali
Le modalità di reclutamento dei magistrati onorari, come in precedenza descritte, risentono inevitabilmente dalla caratterizzazione che le figure onorarie (sia sul fronte dell’attività requirente che giudicante) sono andate assumendo negli ultimi anni.
La giurisdizione di pace, ma anche ampi settori di quella monocratica dei Tribunali (sia nel settore penale che in quello civile), sono gestite da magistrati onorari, del cui apporto necessitano gli uffici giudiziari, anche e soprattutto in vista degli ambiziosi obiettivi previsti dal P.N.R.R.
Da tanto deriva la previsione di modalità di accesso che privilegiano l’esperienza forense, per acquisire professionalità consolidate da utilizzare in ruoli giurisdizionali autonomi, specie negli uffici del giudice di pace, in cui oggi risultano scoperti ben il 70% dei posti in organico.Nonostante lo status ordinamentale disegnato dalla riforma contempli la corresponsione ai (nuovi) magistrati onorari di una indennità nella misura fissa di €. 16.140,00 lordi (e di una variabile ancorata al risultato), largamente inferiore alla soglia di compenso massimo annuo sin qui previsto per i giudici di pace (€. 72.000,00 lordi ex art. 11.4ter della legge n. 374/1991), è prevedibile che anche a questa seconda procedura di reclutamento (v. supra sub §2) parteciperanno un numero rilevante di aspiranti (per larga parte avvocati).
L’impegno massimo di due giorni settimanali disposto dall’art. 1.3 del d.lgs.vo n. 116/2017, per lo svolgimento di compiti ed attività “da svolgere sia in udienza che fuori udienza”, e un’incompatibilità forense limitata all’ambito circondariale (art.5) non costituiscono ostacoli rilevanti per inibire l’aspirazione degli avvocati ad accedere alle funzioni di magistrato onorario.
Più in generale va considerato come nella procedura di reclutamento di 400 posti (v. supra sub §2) siano state presentate circa 50.000 domande a comprova che, nonostante la ridotta incentivazione economica, la figura di magistrato onorario continui ad esercitare un’elevata suggestione.
Nonostante la soluzione delineata dall’art. 1 commi 629-633 della legge 30.12.2021 n. 234 al problema della stabilizzazione dei magistrati onorari in servizio (mediante le procedure valutative di conferma), è indubbio che il “cantiere” riformatore non possa ritenersi concluso, poiché occorre ancora intervenire su numerosi aspetti (rilevanti) attinenti allo status della magistratura onoraria.
Molti disegni di legge erano in corso di esame in sede di commissione parlamentare, e si dovrà prestare ulteriore attenzione alla materia.
La Commissione ministeriale per elaborare proposte di interventi in materia di magistratura onoraria nominata dalla ministra Cartabia nel 2021, nel suo elaborato conclusivo (cfr. La proposta di modifica della riforma del d.lgs.vo n. 116/2017 sulla magistratura onoraria elaborata dalla Commissione ministeriale - www.giustiziainsieme.it ) ha prospettato alcune modifiche (anche) delle modalità di accesso alla magistratura onoraria che sembra opportuno ricordare.
1) Si propone lai modifica dei primi tre titoli preferenziali nell’ordine che segue:
a) esercizio pregresso delle funzioni giudiziarie, escluse quelle onorarie;
b) esercizio pregresso per l’intero periodo delle funzioni di addetto all’Ufficio per il Processo di cui all’art. 11 D.L. 9 giugno 2021 n.80;
c) esercizio, anche pregresso, per almeno un biennio, della professione di avvocato, prevedendo a parità di condizioni, che la maggiore anzianità professionale sia limitata al massimo di cinque anni di anzianità, privilegiando successivamente la minore età.
Le scelte passate relative al reclutamento della magistratura onoraria si erano fondate sulla preoccupazione di non creare precariato e attese, quando si era puntato sulla terza età, e successivamente sulla competenza professionale, privilegiando l’avvocatura e le professioni giuridiche come bacino di provenienza.
Capovolgendo la tradizionale selezione per anzianità anagrafica legata al pregresso esercizio dell’attività forense, per evitare la riproposizione di situazioni ambigue che comportino l’insorgere di aspettative di stabilizzazione, si è ritenuto di dover puntare su giovani laureati particolarmente qualificati, che possono unire la freschezza della preparazione giuridica con un percorso professionale in evoluzione.
Una prima scelta già effettuata dal legislatore con l’art.11 del d.l. 9.6.2021 n.80 è stata quella di favorire l’accesso alla magistratura onoraria dei giovani che avranno compiuto l’esperienza del funzionariato come addetti all’ufficio per il processo (v. supra sub §2), cui si conferisce il massimo della priorità tra i titoli preferenziali, seconda solo alla precedente esperienza giudiziaria, ma solo nella magistratura professionale.
Viene difatti eliminato il titolo preferenziale dell’esercizio pregresso di funzioni giudiziarie onorarie, per la necessità di evitare che si ricreino forme di precariato facilitate dal passaggio tra diverse funzioni onorarie.
L’idea di fondo è che la magistratura onoraria deve essere un secondo incarico rigorosamente a termine e che deve nel contempo utilizzare la freschezza di studi e di preparazione dei giovani laureati (senza ovviamente disdegnare eventualmente professionisti già affermati che ne facciano domanda) accompagnando il loro percorso professionale.
Per privilegiare i più giovani si limita altresì a cinque anni il limite massimo di anzianità da valutare come titolo di preferenza, mantenendo a parità di altri titoli come prevalente la minore età anagrafica.
L’idea di puntare su giovani laureati particolarmente qualificati e con una solida esperienza già trascorsa negli uffici giudiziari (cui si aggiungerà quella dell’ufficio per il processo) deriva dalla volontà di strutturare la magistratura onoraria nell’ambito di un percorso professionale che il giovane può intraprendere dopo la laurea, mentre nel contempo coltiva altri percorsi professionali (la preparazione a concorsi per la magistratura o ad altri concorsi, l’inizio della professione forense). Questo comporta delineare sempre la magistratura onoraria come un secondo incarico che deve essere compatibile con altra attività professionale.
2) Si prevede l’indicazione preferenziale (al momento della domanda) del settore civile o penale.
Nell’intento di valorizzazione ulteriormente la specializzazione dei giudicanti, anche ai fini della loro destinazione.
3) Si consente la possibilità di coinvolgere quali affidatari dei tirocinanti anche i magistrati onorari.
Ritenendo poco comprensibile che ad esempio l’aspirante giudice di pace non possa svolgere un tirocinio presso altri giudici di pace, soprattutto in riferimento alla peculiarità del rito e delle materie a lui affidate.
4) Si prevede l’acquisizione, in sede di valutazione di idoneità del tirocinante, anche il parere del Consiglio dell’ordine professionale al quale l’aspirante risulti eventualmente iscritto.
5) Si aumenta da due a a tre anni la validità della graduatoria degli idonei.
Sia per ragioni di economicità procedurale, ma anche per consolidare le aspettative degli idonei in esubero rispetto ai posti a concorso, che progressivamente rinunciano al tirocinio.
6) Si diminuisce da due anni a diciotto mesi il periodo di permanenza del g.o.p., dopo il conferimento dell’incarico, all’interno dell’Ufficio per il processo, ridotto ulteriormente ad un anno per coloro che sono stati addetti all’ufficio per il processo o hanno svolto i tirocini formativi nello stesso ex art. 73 d.l. n. 69/2013.
Nell’intento di ovviare ai conseguenti limiti che ne derivano nell’attribuzione di autonomia giurisdizionale, oltre al divieto per quanto riguarda la giurisdizione civile e penale presso l’ufficio del giudice di pace.La previsione di una sorta di palestra iniziale di attività del giudice onorario di pace precede difatti il nuovo U.P.P. delineato in funzione degli obiettivi del P.N.R.R., e sembra oggi superflua per l’afflusso dell’ingente quantità di funzionari che ne costituiscono la struttura portante.Confinare nell’ufficio per il processo i giudici onorari di pace per un quarto del periodo massimo di permanenza nell’incarico non sembra una soluzione organizzativamente funzionale alle esigenze del servizio giustizia, e non tiene per di più conto dell’eventuale, pregressa esperienza maturata in analoghe attribuzioni. Se le reiterate rivendicazioni sindacali hanno accompagnato sin qui l’evolversi della normativa che regola l’attività dei magistrati onorari in servizio, animati da legittime rivendicazioni di status, non può trascurarsi l’assetto della futura figura di magistrato onorario, che passa anche e soprattutto per una rivisitazione dei criteri di selezione e di formazione iniziale.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.