“Perché un’idea generale dovevano pure averla, per compiere il loro lavoro intelligentemente; e tuttavia era meglio che ne avessero il meno possibile, se dovevano riuscire più tardi buoni e felici membri della società. Perché, come tutti sanno, i particolari portano alla virtù e alla felicità; mentre le generalità sono, dal punto di vista intellettuale, dei mali inevitabili.
Non i filosofi, ma i taglialegna e i collezionisti di francobolli compongono l’ossatura della società”.
Aldous Huxley, “Il mondo nuovo”
Non me ne vogliano le due categorie sociali che l’Autore della citazione, con immaginifica esemplificazione, tira in ballo come degni rappresentanti di un mondo nuovo, governato da un razionalismo produttivistico a discapito dell’emozione, del sentimento, del pensiero libero.
Eppure, confesso che – con una tendenza accentuatasi negli ultimi tempi – in questi otto anni esatti di esercizio delle funzioni requirenti minorili mi sono sentito più volte un collezionista di francobolli (la vita dei boschi non è il mio forte).
Parto dalla fine.
Nell’imminenza del mio ritorno a un ufficio requirente ordinario, che maturerà nei prossimi giorni, ho sentito un insistente prurito alle mani. No, non per levarle contro le menti perverse che hanno concepito, progettato e imposto il sistema informatico che attua il processo civile telematico per il rito minorile, con una pervasività delle sue applicazioni che costringe il magistrato a non alzare gli occhi dal monitor per ore intere: ormai, neanche più il tappo alla penna tolgo la mattina.
Era semplicemente per stilare un bilancio consuntivo di questo tempo trascorso tra i figli di un Dio minore, e ciò sia per un intento diaristico che invecchiando mi assale, sia per dare un avviso ai naviganti che verranno – penso con trepidazione al collega m.o.t. che mi succederà – ma anche a quei tanti colleghi che per tutta la carriera si tengono ben lontani da queste lande.
Ecco, vorrei quindi tracciare una riga, e fare un riassunto di quel che è stato il mio lavoro alla Procura per i minorenni di Trento prima di tornare tra i grandi. Una sorta di tema di inizio anno scolastico, dove lo studente riassuma le vacanze appena trascorse. Rimpiante o no, lo dirà il tempo.
Seppur da un osservatorio piccolo e settoriale in rapporto alla gran massa degli uffici giudiziari del paese, in questa sede ho visto e imparato molto.
La cronaca di questi tempi m’impone di iniziare da una considerazione che attiene alla mancanza di consapevolezza, da parte di ragazzi anche ampiamente al di sotto dell’età imputabile, del disvalore sociale del fatto. Inutile girarci intorno: fatti gravi come quelli accaduti di recente, prima a Palermo poi a Caivano, violenze sessuali di gruppo condite di condotte estorsive poste in essere con modi degni di una consorteria mafiosa, e che vedono coinvolti in gran parte giovanissimi tra le vittime e i carnefici, devono interrogare la magistratura minorile tutta sulla efficacia della prevenzione oggi messa in campo dalle diverse agenzie del territorio. Che siano esse i genitori, gli educatori delle comunità di accoglienza, i servizi socioassistenziali, la scuola. E la magistratura stessa, che troppo poco adopera gli strumenti del procedimento civile con la tempestività e il rigore che esso consente (e già prima della riforma del 2022, il magistrato minorile era ampiamente fornito di poteri anche piuttosto incisivi: se non li abbiamo adoperati a dovere è soltanto colpa della nostra inettitudine).
Ho imparato a conoscerli, i giovanissimi protagonisti dei nostri fascicoli. Si tratta di adolescenti che hanno la stessa mia età di quando ancora collezionavo figurine dei calciatori come fossero (ehm…) francobolli, eppure essi sono molto più spudorati di quanto non fossimo noi, di qualche generazione fa, e non è detto che questo sia un male. Anzi.
Quella che apparentemente, specie a un occhio sempre più anziano e pigro, può sembrare sfacciataggine, protervia, o semplicemente maleducazione, tante volte altro non è che una esplicita invocazione di aiuto. Aiuto a essere guidati, letteralmente “educati”, estratti fuori dalle macerie di un mondo schizofrenico, ipertecnologico eppure rarefatto nei rapporti umani. Questi ragazzi – ma prima ancora i loro genitori, quando ci sono – non hanno remore né pudore a condividere sui social network tutto delle loro vite private, eppure fanno fatica a raccontarsi, a guardare negli occhi, ad alzare uno sguardo sempre troppo calato sotto l’ombra di un cappuccio ficcato in testa. Quando poi si passa a dover condividere per davvero, a scambiarsi qualcosa, in real life, che sia un’opinione, un’emozione o semplicemente un saluto, fanno fatica a sapersi destreggiare anche con i più rudimentali convenevoli che la società c’impone da secoli.
Ho visto ragazzi, indagati e imputati anche di gravi delitti, presentarsi all’interrogatorio in ciabatte, pressoché sdraiati dinanzi al pubblico ministero o al giudice con l’aria stufa del protagonista dell’omonimo romanzo di Michele Serra: e quando, invitati ad essere più rispettosi eccetera, ho visto nei loro occhi balenare il lampo della sorpresa, a tradire una verginità dei comportamenti sociali che dovrebbe portare sul banco degli imputati prima di tutto noi stessi, noi grandi.
Non c’è traccia di soggezione e men che meno di rispetto verso l’autorità (questa sconosciuta): c’è noia, c’è indifferenza, c’è il grido arrabbiato di una massa di ragazzi con cui essi rimarcano una distanza abissale nei confronti di un mondo adulto che li ripaga con la stessa moneta. Sono figure sintomatiche di un’assenza, di un vuoto che prima o poi decidono di colmare con il facile ricorso ad altri rinforzi: vuoi le sostanze stupefacenti, vuoi un abuso di alcolici (mai quanto mamma e papà, però), vuoi una sessualità artefatta che non eccita più.
Se tutto questo è fronteggiato con strumenti anacronistici e spuntati, è chiaro che l’effetto dissuasivo – senza scantonare in facili tentazioni generalpreventive – contro certe condotte delittuose risulta insufficiente. Gli istituti del processo minorile necessitano di essere adattati a una platea di giovani più smaliziati, più precoci nell’assumere condotte anche di rilevanza penale con preoccupante disinvoltura, sovente spia di un senso di impunità che è figlia dell’aria che si respira in casa (quando c’è).
Perché, allora, dovremmo pretendere dai ragazzi di riconoscere e rispettare le regole (siano esse leggi, regolamenti, circolari del dirigente scolastico o semplicemente precetti consuetudinari tramandati da sempre) quando noi adulti per primi abbiamo rimosso ogni barriera che imponeva di rispettare ruoli e competenze, professionalità e istituzioni?
“Dove sta scritto?” replicava uno sfacciato studente a un dirigente scolastico che lo richiamava a non assumere comportamenti irrispettosi, contrari alla legge o a qualche altra regola. Ebbene, se siamo, noi adulti per primi, pronti a ricorrere al precetto formale, al divieto imposto per iscritto, notificato urbi et orbi in tutte le sue declinazioni anche più parossistiche, allora non possiamo meravigliarci se un ragazzo, con fare provocatorio, reagisce all’autorità della scuola sfidandola sul suo stesso terreno.
Se per primi i genitori sono pronti a rivendicare i propri diritti tanto che il fantomatico ricorso al T.A.R. è assurto nel tempo a invincibile arma di risoluzione dei conflitti, ecco che risulta difficile conquistarsi la fiducia degli studenti senza dovergli sbandierare sotto il naso l’ennesima circolare del dirigente.
Se il patto educativo tra scuola e famiglia, lungi dal ridursi a principio fondamentale e per questo non scritto – i Romani non le scrivevano, le loro leggi più importanti – diventa un lenzuolo di diverse pagine dove ciascuno sciorina i propri diritti come su un campo di battaglia ci si affila le armi, è chiaro che presto o tardi quel genitore agguerrito farà facile presa sul figlio. Mutatis mutandis, è un fenomeno sociale non molto diverso da quello che infesta la sanità pubblica, e in specie i reparti ospedalieri di pronto soccorso, dove a breve il personale, oltre a indossare il camice, rischia di dover calzare anche l’elmetto in testa.
“Perché scappavi sempre?”
“Perché nessuno mi ha mai fermata.”
Questo, il dialogo che ebbi anni fa con una giovane ospite di una comunità di accoglienza fuori provincia, ivi inserita dopo l’ennesimo allontanamento da diverse case famiglia del territorio.
È un tema, quello della idoneità all’accoglienza delle case famiglia, molto delicato e nel quale influiscono – più che per altri settori della giustizia minorile – la cultura, il retroterra di esperienze non solo professionali, le sensibilità del magistrato.
Nell’esercizio dei poteri che l’art. 9 della legge n. 184/83 attribuisce al procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni, ho raccolto innumerevoli elementi conoscitivi che, pur in un contesto contenuto nei numeri come quello trentino, è emblematico delle condizioni in cui le comunità di accoglienza versano nel nostro Paese e della vocazione che anima il personale educatore.
Ho visto:
- giovanissimi operatori sociosanitari, selezionati sulla base di un semplice colloquio conoscitivo, dover prendersi cura di ospiti minorenni con gravi disturbi comportamentali, senza averne i mezzi e le competenze;
- una platea di personale, dipendente di fatto ma assunto in forza di contratti di collaborazione (spesso dotati di partita Iva), cessare dal servizio dopo pochi mesi, con buona pace delle esigenze di continuità nella presa in carico del minore ospite;
- dipendenti di comunità di accoglienza, al momento dell’ispezione del pubblico ministero, sprovvisti delle più basilari conoscenze sul tema e affannarsi al telefono nel tentativo, spesso vano, di reperire un qualche responsabile che potesse interloquire con cognizione di causa;
- educatori dover fronteggiare, spesso anche fisicamente, gli agiti aggressivi di ospiti che palesemente necessitavano di altre e più idonee strutture: ma ho pure sentito funzionari e dirigenti sociosanitari, e perfino amministratori locali, lamentare una scarsità di risorse e di investimenti;
- operatori con profili professionali inadeguati prendere in carico minorenni con gravi situazioni di disagio personale e familiare;
- l’assenza di politiche unitarie a livello nazionale per l’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati, a differenza di quanto accade da anni in paesi (la Spagna, su tutti) che vivono fenomeni migratori equiparabili ai nostri.
Insomma, quel che ne ho tratto è la percezione di una palese insufficienza delle risorse umane e materiali che gli enti pubblici da anni investono nelle politiche sociali, lasciando spesso allo spirito di iniziativa del cosiddetto terzo settore la responsabilità strategica e gestionale delle comunità di accoglienza: commendevole lo sforzo, ma certo non adeguato in assenza di un coordinamento e, soprattutto, di un costante controllo su tutti gli ambiti (modalità di accreditamento, selezione del personale, idoneità delle strutture, elaborazione dei progetti educativi, interlocuzione con altri enti e organi dello Stato) di un settore nevralgico della giustizia minorile: dalle cui inefficienze dipende, purtroppo, anche una retorica nel dibattito pubblico via via crescente negli anni, secondo cui le case famiglia, i servizi sociali, e la stessa magistratura minorile sortiscono effetti perniciosi e irreparabili sui minori sottratti alle loro famiglie.
La magistratura minorile, appunto. Guardandoci dentro, non posso non indugiare sui caratteri antropologici di questa schiera di giudici e pubblici ministeri sempre un po’ defilati, lontani dal clamore mediatico – salve episodiche quanto effimere ribalte – e forse anche per questo mediamente troppo timidi, adagiati comodamente sulle prassi che, seppur diverse ufficio per ufficio, si sono sedimentate via via nel tempo: complice un legislatore che soltanto occasionalmente si è destato dal torpore per concentrare l’attenzione sulla giustizia minorile, e sempre facendosi dettare l’agenda da un episodio mediaticamente allarmante.
Accusata spesso di essere incline a un approccio troppo indulgente nei confronti di fenomeni devianti anche gravi (prima del mio arrivo nell’ufficio di Trento, l’ultimo arresto risaliva a oltre un anno prima), tuttavia la magistratura minorile è stata ed è tuttora composta di colleghi di competenza professionale non inferiore a quella cosiddetta ordinaria, impreziosita però da una capacità di ascolto e di ponderazione delle umane vicende che, forse, potrebbe essere più orgogliosamente rivendicata (e penso ai corsi di formazione permanente della nostra Scuola Superiore, dove più di un mio collega potrebbe agevolmente insegnare anche su temi apparentemente lontani dalla sua scrivania). Non è un caso che nella sua grande maggioranza essa non si sia fatta trovare impreparata, nel penale, di fronte a fenomeni criminali che imponevano una ferma reazione anche repressiva ma sempre calibrata sull’interesse del minore indagato o imputato e, nel civile, quando le istanze sociali dei nostri tempi annaspavano nel deserto normativo alla ricerca di una regolamentazione giuridica (penso al c.d. gender mainstreaming, all’adottabilità da parte di coppie omosessuali, alla violenza di genere, ecc.).
Un giudice, quello minorile, attento ai fenomeni sociali del tempo come lo furono i nostri antesignani degli anni in cui la produzione giurisprudenziale favorì e tracciò la strada alla grande stagione dei diritti sociali e civili, motore primo della effettiva realizzazione dell’uguaglianza sostanziale imposta dall’art. 3 della Costituzione.
In una visione sinottica degli arnesi a disposizione dell’operatore del diritto, io credo che, così come per il diritto penale debba ricercarsi – in aperta controtendenza allo spirito dei tempi – un approccio “minimo” che ridimensioni lo spazio applicativo del precetto e della sanzione penale, altrettanto debba liberarsi il campo del contenzioso giudiziario da umane vicende che debbono trovare altrove il loro dipanarsi, sul presupposto che nel processo minorile (lì più che altrove) il solo fatto del processo sia di per sé una pena per chi lo vive: le persone minorenni in primis.
Sono ancora persuaso che una coppia di nonni non debba aspettarsi di far visita ai propri nipoti battendo a colpi di ricorso alla porta del giudice; che per accertare il possesso delle capacità genitoriali non debba necessariamente farsi luogo a c.t.u. defatiganti e offuscate da intenti moralistici, quando una lettura sinergica degli atti istruttori risulti più che sufficiente; che una buona casa-famiglia sia sempre da preferire a una sentenza di adozione che faccia credere a quell’aspirante genitore di colmare vuoti esistenziali con un figlio purchessia, salvo poi restituirlo come prodotto difettoso al primo agito oppositivo-provocatorio; che il diritto alla bigenitorialità non sia un principio assoluto, ma debba sempre cedere il passo di fronte a condotte violente di uno o di entrambi i genitori; che una certificazione sanitaria generosamente concessa rischi di alimentare perniciose aspettative – quando non pretese – nei confronti dell’autorità statuale, e costituire comodo alibi per condotte deresponsabilizzanti.
Ma per far questo, è indispensabile restituire all’intervento pubblico la dignità che nel tempo la crisi della statualità e della sovranità (quella di cui all’art. 1 comma 2 della Costituzione, non certo quella dei manifesti elettorali) ha sgretolato. E io credo che la magistratura minorile, più sensibile di altre alla funzione civilizzatrice del diritto, sia in grado di guidare quel riscatto che permetta “alle umane belve esser pietose di se stesse e d’altrui”.