Nelle proposte di legge in discussione non viene fatto alcun cenno alla circostanza che il risicato numero di condanne definitive per abuso di ufficio dipende in buona parte dalla brevità del termine di prescrizione di tale reato. Un termine di 7 anni e 6 mesi dalla consumazione del reato è troppo breve, considerando la complessità e quindi la durata delle indagini e del giudizio che si rendono necessari per la prova di una fattispecie così articolata come quella di abuso di ufficio. La maggior parte dei processi si prescrive quindi già in primo grado. In quei pochi casi in cui si riesce ad approdare in Cassazione, sono più le sentenze di conferma di condanna che quelle di conferma di assoluzione.
L’obbligo di iscrizione nel registro degli indagati
Va in primo luogo evidenziato che:
- le iscrizioni per abuso di ufficio da “conflitto di interessi” sono sempre state pochissime: è ben raro che un pubblico ufficiale abbia adottato un atto omettendo di astenersi a fronte di un interesse proprio o di un proprio congiunto;
- le altre iscrizioni per abuso di ufficio, tradizionalmente molto più numerose, hanno subito un drastico calo a seguito della riforma avvenuta nel 2020, che ha limitato il reato ai casi di violazione di legge; molte di queste, inoltre, si rivelano definibili con richiesta di archiviazione già nella fase delle indagini preliminari, talvolta anche senza approfondimenti investigativi, proprio in virtù del maggior grado di tassatività raggiunto con l’ultima formulazione dell’art. 323 c.p.
In definitiva, le indagini per abuso di ufficio effettivamente espletate riguardano solo quei pochi casi in cui l’abuso appaia avvenuto in una situazione di conflitto di interessi o con violazione di una specifica regola di condotta espressamente prevista dalla legge (o da atti equipollenti) e in relazione alla quale non residuino margini di discrezionalità. Il risicato numero di questi casi dovrebbe scongiurare la “paura della firma”.
Ad ogni modo, il Pubblico Ministero è obbligato alla iscrizione nel registro degli indagati del soggetto individuato come autore della condotta abusiva, e deve farlo fin dal giorno del pervenimento della notizia di reato.
Paradossalmente, molti Pubblici Ministeri si sono trovati a loro volta indagati per abuso di ufficio o omissione di atti di ufficio per non aver proceduto a tempestiva iscrizione di fatti che non apparivano fin da subito penalmente rilevanti.
Quello di immediata iscrizione è divenuto un obbligo più stringente a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs 150/2022 (cd. riforma Cartabia), che ha addirittura previsto un controllo del giudice sulla tempestività della iscrizione dei reati da parte del PM.
Nel valutare l’operato delle Procure, pertanto, non si può non tenere conto del fatto che proprio il legislatore ha inteso disincentivare quella soluzione che veniva spesso adottata in questa materia, sino ad un recente passato, e che consisteva nell’iscrivere nel registro dei “fatti non costituenti reato” (cd. modelli 45) le notizie che si ponevano al limite tra il malaffare amministrativo ed il penalmente rilevante.
Le indagini per abuso di ufficio
Stante l’attuale e complessa formulazione dell’art. 323 c.p., allorquando la fattispecie concreta non risulti già di primo acchito fuori dall’ambito di operatività della fattispecie incriminatrice, dopo l’iscrizione si rendono necessari numerosi approfondimenti investigativi, che implicano spesso l’analisi di una notevole mole di documenti, nonché l’audizione di varie persone informate sui fatti, e che spesso si protraggono dunque, inevitabilmente, per diversi mesi.
A tal proposito, però, merita evidenziare che il d.lgs 150/2022 (cd. “riforma Cartabia”) il primo termine di durata delle indagini preliminari per abuso di ufficio è passato (così come per tutti gli altri delitti) dai precedenti 6 mesi ad 1 anno. Si tratta certamente di un tempo congruo, tale da scongiurare il rischio che il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio sia destinatario di una richiesta di proroga delle indagini che potrebbe avere immediate ripercussioni sulla sua funzione. In altre parole, pur avendo il sopra citato decreto legislativo introdotto regole più stringenti sulla tempestività dell’iscrizione, l’allungamento del primo termine di durata delle indagini preliminari dovrebbe consentire al Pubblico Ministero di pervenire ad una valutazione completa circa la sostenibilità dell’accusa prima che la notizia dell’iscrizione giunga all’indagato o assuma, comunque, rilievo esterno. Anche questa circostanza dovrebbe scongiurare la “paura della firma”.
Nella maggior parte dei casi, all’esito delle indagini appare dubbio che sussistano contemporaneamente tutti gli elementi della fattispecie di cui all’art. 323 c.p., per cui si rende necessario archiviare il procedimento.
Al riguardo, va debitamente focalizzata l’attenzione sui dati statistici che evidenziano l’assoluta preponderanza delle definizioni dei procedimenti iscritti per l’art. 323 c.p. già in fase di indagini preliminari con l’archiviazione, all’esito quindi di un vaglio di infondatezza della notitia criminis, vieppiù corroborato oggi nei sui parametri di giudizio dalla riforma cd. Cartabia con l’introduzione all’art. 408 c.p.p. del criterio della ragionevole previsione di condanna; il che, se per un verso dimostra come la funzione di “filtro” venga efficacemente esplicata dalle Procure rispetto alla maggior parte dei fatti astrattamente ascrivibili come abuso d’ufficio ma risultanti, all’esito delle indagini, non rispondenti ai suoi stringenti presupposti tipici, per altro verso non deve far trascurare la considerazione per cui Procure e Polizia Giudiziaria finiscono per essere impegnati in defatiganti indagini che si protraggono nel tempo ma si risolvono in un nulla di fatto, sottraendo magari risorse ed energie ad indagini di maggior rilievo.
Va anche considerato che a partire dall’1 settembre 2020 è entrata in vigore la novella dell’articolo 270 c.p.p., in base alla quale se nel corso di intercettazioni per un altro reato vengono scoperte prove di un abuso di ufficio, quelle intercettazioni non possono comunque essere utilizzate quale prova di tale reato, trattandosi di delitto non autonomamente intercettabile. Questa considerazione smentisce, dunque, l’idea che l’abuso d’ufficio possa costituire per le Procure un “reato jolly” da contestare laddove vengano meno le imputazioni di corruzione o concussione. E costituisce un ulteriore elemento che dovrebbe scongiurare la “paura della firma”.
Elementi di incertezza nella formulazione dell’art. 323 c.p.
I giudizi aventi ad oggetto il reato di abuso di ufficio hanno esiti imprevedibili perché l’attuale formulazione dell’art. 323 c.p. contiene degli elementi suscettibili di incertezze interpretative:
- il pubblico ufficiale deve aver agito in una non ben definita situazione di “conflitto di interessi” oppure in violazione di non meglio delineabili “specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti avente forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”; espressione quest’ultima che già di per sé contiene un ossimoro, laddove proprio le fonti di rango primario sono per definizione a carattere generale e astratto mentre alla normazione secondaria compete la perimetrazione più puntuale delle condotte nelle quali si deve esplicare l’esercizio delle funzioni pubbliche;
- l’abuso deve essere stato commesso dal pubblico ufficiale “intenzionalmente”, quindi non per perseguire un qualche concorrente o esclusivo pubblico interesse che aveva nella sua mente;
- l’abuso deve aver provocato un “vantaggio patrimoniale” oppure un “danno”, che sono concetti giuridici suscettibili di varie interpretazioni;
- il danno o il vantaggio devono essere “ingiusti”, per cui occorre un apposito accertamento di spettanza del vantaggio e di non spettanza del danno.
Insomma, in molti casi un giudizio per abuso di ufficio comporta la risoluzione di questioni di diritto amministrativo persino più complesse di quelle che si porrebbero innanzi ad un TAR.
Sotto questo profilo, si ritiene che nessun effetto positivo potrebbero esplicare quelle ulteriori specificazioni proposte dalla Proposta di legge Pella, Pittalis, Cattaneo che intenderebbe limitare la rilevanza penale del conflitto di interessi all’omissione “consapevole” (specificazione, questa, inutile, laddove si consideri che l’omissione, in quanto elemento costitutivo della fattispecie, deve necessariamente essere coperta dal dolo del reato) e del danno ingiusto al solo caso del suo essere arrecato ad altri “direttamente” (si tratterebbe, a ben vedere, di un altro elemento dall’interpretazione incerta).
Prima soluzione: ulteriore modifica dell’art. 323 c.p.
Non si può abrogare l’abuso di ufficio in quanto esso è espressamente contemplato dall’art. 19 della Convenzione ONU contro la corruzione del 2003[1]. La norma in questione contempla la figura dell’abuso di ufficio per violazione di legge, produttivo di un vantaggio ingiusto.
Nello stesso solco si colloca la recente proposta di direttiva europea sulla lotta alla corruzione del 03.05.2023, con cui gli Stati membri vengono indirizzati nel senso di presidiare con la sanzione penale le condotte di abuso di vantaggio per il funzionario pubblico o per altri, con la necessità di estendere tale regime normativo anche ai casi di abuso commesso da parte dei privati[2].
Si può allora modificare l’art. 323 c.p. eliminando alcuni di quegli elementi di incertezza interpretativa di cui si è detto in precedenza, limitando quindi il reato al minimo essenziale richiesto dalla Convenzione ONU del 2003 e cioè che l’abuso avvenga in violazione di legge e produca un vantaggio ingiusto.
Ne deriverebbe quindi un testo minimale del genere: Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione della legge procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale, è punito con la reclusione da uno a quattro anni.
Un abuso di ufficio così formulato sarebbe di difficile iscrizione e di agevole interpretazione per cui raramente darebbe luogo a defatiganti procedimenti penali dai risultati incerti, e non esporrebbe in definitiva i pubblici ufficiali alla “paura della firma”.
Nulla vieta che si continui a mantenere in vigore l’abuso di ufficio da “conflitto di interessi”, il quale però – se si vuole scongiurare la “paura della firma” – dovrebbe essere epurato di quel deficit di tassatività di cui soffre attualmente. Non esiste infatti una univoca definizione di cosa costituisca un “interesse proprio o di un prossimo congiunto”.
Si potrebbe colmare questo deficit inserendo nel testo normativo una casistica di obblighi di astensione mutuata dall’art. 7 d.p.r. 62/13 (Codice di comportamento dei dipendenti pubblici). Così potrebbe pensarsi ad una formulazione del genere: Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, omettendo di astenersi dal partecipare all'adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale, ovvero, di soggetti od organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito significativi, ovvero di soggetti od organizzazioni di cui sia tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero di enti, associazioni anche non riconosciute, comitati, società o stabilimenti di cui sia amministratore o gerente o dirigente, procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale, è punito con la reclusione da uno a quattro anni.
Va in ogni caso escluso che l’abuso di ufficio da “conflitto di interessi” possa riferirsi a casi di obbligo di astensione determinato da generiche ed innominate situazioni di “grave convenienza”, espressione che violerebbe il principio di tassatività penale.
Seconda soluzione: abrogazione o depenalizzazione dell’abuso di ufficio
Con riguardo alle proposte C 399 Rossello e C 645 Pittalis, l’eventuale opzione di abrogare l’art. 323 c.p. non persuade e, oltretutto, rischierebbe di esporre l’Italia a una futura procedura di infrazione promossa dall’Unione Europea ove per effetto di tale scelta si venissero a creare vuoti di tutela penale nella lotta alla corruzione, che è un obiettivo ulteriormente ribadito dalla proposta di direttiva europea del 3 maggio 2023, imposto dalle Convenzioni internazionali e dai principi costituzionali del buon andamento della PA, della concorrenza, meritocrazia e trasparenza delle procedure amministrative.
Per le medesime ragioni è da accogliere con sfavore la soluzione di una depenalizzazione dell’abuso d’ufficio evocata dalla proposta di legge C 654 (Costa), che lo vorrebbe sostituire con un illecito amministrativo, dato che anche, da ultimo, le convenzioni internazionali vigenti nonché la proposta di direttiva europea sulla lotta alla corruzione, come anticipato, richiedono che gli Stati membri dell’Unione conferiscano rilevanza penale quantomeno all’abuso di vantaggio patrimoniale per il funzionario pubblico e/o per altri.
Ove si volesse comunque insistere su questa via della abrogazione o depenalizzazione dell’abuso di ufficio, occorrerebbe potenziare le fattispecie penali già esistenti, le quali non sono mai state messe in discussione né hanno mai ingenerato la paura della firma.
Va considerato che nelle Procure la maggior parte dei fascicoli per abuso di ufficio viene iscritta in relazione alle 4 seguenti aree, le quali non possono rimanere sfornite di tutela penale:
a) appalti pubblici: in questa materia gli articoli 353 e 353-bis c.p. apprestano una tutela penale quasi completa. Rimangono fuori da essa gli appalti affidati dal pubblico ufficiale in via diretta e senza gara, nei casi in cui ciò non sia consentito dalla legge: secondo la dizione legislativa e la attuale giurisprudenza, i due articoli in questione si applicano solo alle procedure competitive e non anche agli affidamenti diretti che riceverebbero tutela penale solo grazie all’abuso di ufficio. Occorre quindi intervenire sul tenore letterale degli articoli 353 e 353-bis c.p. in modo da farvi ricadere anche le turbative volte ad affidamenti diretti effettuati contra legem;
b) concorsi pubblici: vari sono i fascicoli per abuso di ufficio iscritti per episodi di favoritismi nei concorsi (universitari, presso gli enti locali etc), predeterminazioni di candidati vincitori, creazione di bandi di concorso su misura etc. Una volta abolito l’abuso di ufficio appare necessario dettare una apposita disciplina per casi del genere, magari estendendo il dato letterale degli articoli 353 e 353-bis c.p.;
c) affidamenti diretti di incarichi fiduciari: una volta abolito l’abuso di ufficio, sarebbe opportuna la creazione di una norma ad hoc che scongiuri l’affidamento di incarichi fiduciari retribuiti (es. consulenziali, di sottogoverno etc.) quando esso avvenga in violazione di legge o di norme secondarie, magari estendendo il dato letterale degli articoli 353 e 353-bis c.p.;
d) liquidazioni non spettanti di denaro: in caso di abrogazione del delitto di abuso di ufficio, è prevedibile che la giurisprudenza (vi è già qualche sentenza in tal senso) allarghi le maglie dell’art. 314 c.p., facendovi rientrare il cd. peculato in favore di terzo (reato più grave dell’art. 323 c.p.). In ogni caso, per episodi del genere appare un valido deterrente quello della responsabilità contabile.
Si propongono quindi le seguenti modifiche:
Art. 353 c.p. – Turbata libertà della gara o del concorso - Chiunque, con violenza o minaccia, o con doni, promesse, collusioni o altri mezzi fraudolenti, impedisce o turba lo svolgimento di concorsi pubblici oppure la gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni private per conto di pubbliche Amministrazioni, ovvero ne allontana i partecipanti, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni(2) e con la multa da euro 103 a euro 1.032.
Art. 353-bis c.p. – Turbata libertà del procedimento di scelta - Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque con violenza o minaccia, o con doni, promesse, collusioni o altri mezzi fraudolenti, turba il procedimento amministrativo diretto ad indire un bando di gara o di concorso o di altro atto equipollente al fine di condizionare le modalità di scelta del vincitore da parte della pubblica amministrazione, oppure elude l’obbligo giuridico di indizione di una gara o di un concorso, al fine di procedere con affidamento diretto ad un soggetto predeterminato, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni e con la multa da euro 103 a euro 1.032.
Si evidenzia infine che l’eventuale abrogazione del reato di abuso di ufficio potrà ragionevolmente comportare una espansione giurisprudenziale del più grave reato di falso ideologico in atto pubblico (art. 479 c.p.): qualora l’abuso avvenga attraverso un provvedimento scritto redatto da pubblico ufficiale, verrebbe data rilevanza al falso consistente nella rappresentazione di inesistenti presupposti di fatto o di diritto del vantaggio attribuito a terzi con quel provvedimento.
Traffico di influenze illecite
In relazione alla proposta C 645 (Pittalis) si osserva quanto segue:
- la specificazione secondo cui l’utilità del trafficante debba essere di tipo “patrimoniale”, contrasta con l’art. 12[3] della Convenzione penale sulla corruzione di Strasburgo del 1999 - il quale discorre di “qualsiasi vantaggio indebito” e con l’art. 18[4] della Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione del 2003 che pure discorre di qualsiasi “indebito vantaggio” – e rischia di frustrare la funzione “ancillare” specificamente riconosciuta alla fattispecie rispetto alla repressione di condotte prodromiche a fatti più propriamente corruttivi , se si pone mente al fatto che la “patrimonializzazione” dell’utilità oggetto dell’accordo/dazione tra il trafficante e il suo cliente sarebbe in controtendenza rispetto ad altre fattispecie più gravi di delitti contro la P.A. (es: corruzione e concussione) dove non è mai stata messa in dubbio la rilevanza tanto del denaro quanto di qualsiasi altra utilità, sia pure non suscettibile di una valutazione patrimoniale, idonea ad arrecare all’agente una qualche forma di appagamento o di beneficio incidente su altre sfere soggettive, che non sia quella economica, comunque rilevanti nella prospettiva dell’agente per fare da contraltare all’esercizio distorto dei propri doveri d’ufficio. Si pone in contrasto anche con la recente proposta di direttiva europea del 3 maggio 2023 in materia di lotta alla corruzione in cui all’art. 10 (Trading in influence) si evoca, nella definizione normativa europea del traffico di influenze illecite, “an undue advantage of any kind” senza, dunque, far alcun riferimento alla patrimonialità che la proposta Pittalis vorrebbe introdurre nell’art. 346 bis c.p. Non può non evidenziarsi, allora, che anche con riferimento a questa proposta di legge potrebbe prospettarsi, ove venisse varata, lo scenario di una procedura di infrazione aperta a danno dell’Italia quando anche la proposta di direttiva europea venisse approvata nel testo attualmente diramato dalla Commissione UE.
- nelle ipotesi di traffico “gratuito” (quello che ricorre quando il trafficante si fa dare utilità per consegnarle al pubblico ufficiale) la proposta di legge fornisce rilevanza penale alla sola condotta del trafficante che si faccia dare l’utilità per remunerare l’agente pubblico “in relazione all’esercizio illecito” delle sue funzioni o dei suoi poteri. In virtù di questa modifica, non costituirebbe più reato la condotta consistente nel consegnare al trafficante delle utilità da impiegare per remunerare il pubblico ufficiale per il compimento di atti di ufficio leciti.
Per cui quest’aggiunta è sostanzialmente inutile e non migliora alcunché sul versante della tipicità: infatti la finalità di “pagare” il pubblico agente rende automaticamente illecita la sua azione amministrativa.
Anzi, a ben vedere questa proposta di modifica legislativa crea un cortocircuito nel codice penale, dato che secondo l’art. 318 c.p. il pubblico ufficiale non può accettare utilità per l’esercizio di potere conforme ai propri doveri di ufficio. Non può allora essere prevista come lecita la mediazione del trafficante che si faccia consegnare delle utilità nella prospettiva di consegnarle al pubblico ufficiale per un atto conforme ai doveri di ufficio.
Sarebbe opportuna una riforma che prenda atto dei più recenti approdi della giurisprudenza di legittimità, la quale ha dato una lettura tassativizzante dell’art. 346-bis c.p., distinguendo il traffico illecito dal lobbismo lecito (Cass., Sez. 6, Sentenza n. 1182 del 14/10/2021, Sez. 6, Sentenza n. 40518 del 08/07/2021 caso Alemanno in procedimento Mafia Capitale; Sez. VI, sent. 14 ottobre 2021 dep. 13 gennaio 2022, n. 1182, caso mascherine commissario Arcuri). In particolare, la Cassazione ha affermato che:
- il traffico “gratuito”, quello che ricorre quando il trafficante si fa dare utilità per consegnarle al pubblico ufficiale, è di per sé illecito perché non è possibile remunerare un pubblico ufficiale;
- il traffico “oneroso”, quello che ricorre quando il trafficante si fa remunerare per la sua opera di mediazione, è illecito solamente ove vi sia l’accordo di indurre il pubblico ufficiale a compiere un atto illecito. Se invece il trafficante viene pagato per indurre il pubblico ufficiale a compiere un atto conforme ai propri doveri, si rientra nell’ambito del “lobbismo” penalmente irrilevante.
Questa interpretazione è peraltro conforme alla Convenzione delle Nazioni Unite, la quale prevede che il traffico “oneroso” rilevi penalmente solo ove miri a far sì che il pubblico ufficiale procuri un indebito vantaggio al privato.
Prendendo atto quindi della indicata evoluzione giurisprudenziale, l’unica ragionevole modifica normativa dovrebbe riguardare il traffico “oneroso” di cui all’art. 346-bis c.p., per cui occorrerebbe eliminare il comma 4 e riscrivere il comma 1 in tale modo: Chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 318, 319, 319 ter e nei reati di corruzione di cui all'articolo 322 bis, sfruttando o vantando relazioni esistenti o asserite con un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all'articolo 322 bis, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione illecita verso un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all'articolo 322 bis, volta a fargli compiere un atto contrario ai doveri di ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio, ovvero per remunerarlo in relazione all'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, è punito con la pena della reclusione da un anno a quattro anni e sei mesi.
L’altra alternativa, pur sempre mossa dall’intento di rendere più tassativa la fattispecie attraverso una migliore delimitazione dell’insieme delle condotte in essa sussumibili, potrebbe essere quella di rendere l’art. 346 bis c.p. un reato a dolo specifico sfruttando l’attuale formulazione della clausola inziale in modo da rendere esplicita la finalità che deve animare il trafficante. In altre parole, si potrebbe inserire nella parte iniziale della disposizione – riformulando quella oggi presente – la seguente clausola: chiunque al fine di commettere i reati di cui agli articoli 318, 319, 319 ter, 322 bis e fuori dal concorso in questi […], elevando il “fine specifico” a elemento essenziale del tipo di reato (traffico di influenza), con l’immediato effetto di restringere l’area del penalmente rilevante lasciando al di fuori di essa, certamente, ogni forma di lobbismo lecito.
[1] Secondo tale articolo: Ciascuno Stato Parte esamina l’adozione delle misure legislative e delle altre misure necessarie per conferire il carattere di illecito penale, quando l’atto è stato commesso intenzionalmente, al fatto per un pubblico ufficiale di abusare delle proprie funzioni o della sua posizione, ossia di compiere o di astenersi dal compiere, nell’esercizio delle proprie funzioni, un atto in violazione delle leggi al fine di ottenere un indebito vantaggio per se o per un’altra persona o entità. Vanno fatte due specificazioni linguistiche a proposito di tale articolo: l’espressione “intenzionalmente” che si trova nelle traduzioni dall’inglese e dal francese, sta semplicemente a significare “volontariamente” o “dolosamente”; l’espressione “ossia” non è disgiuntiva ma esplicativa.
[2] Secondo l’articolo 13 della proposta di direttiva: Member States shall take the necessary measures to ensure that the following conduct is punishable as a criminal offence, when committed intentionally: 1. the performance of or failure to perform an act, in violation of laws, by a public official in the exercise of his functions for the purpose of obtaining an undue advantage for that official or for a third party; 2. the performance of or failure to perform an act, in breach of duties, by a person who in any capacity directs or works for a private-sector entity in the course of economic, financial, business or commercial activities for the purpose of obtaining an undue advantage for that person or for a third party.
[3] Art. 12 Traffico d’influenza
Ciascuna Parte adotta le necessarie misure legislative e di altra natura affinché i seguenti fatti, quando sono commessi intenzionalmente, siano definiti reati penali secondo il proprio diritto interno: il fatto di promettere, offrire o procurare, direttamente o indirettamente, qualsiasi vantaggio indebito, per sé o per terzi, a titolo di rimunerazione a chiunque afferma o conferma di essere in grado di esercitare un’influenza sulla decisione di una persona di cui agli articoli 2, 4–6 e 9–11, così come il fatto di sollecitare, ricevere o accettarne l’offerta o la promessa a titolo di rimunerazione per siffatta influenza, indipendentemente dal fatto che l’influenza sia o meno effettivamente esercitata oppure che la supposta influenza sortisca l’esito ricercato.
[4] Art. 18 Millantato credito
Ciascuno Stato Parte esamina l’adozione di misure legislative e delle altre misure necessarie per conferire il carattere di illecito penale, quando tali atti sono stati commessi intenzionalmente:
a) al fatto di promettere, offrire o concedere ad un pubblico ufficiale o ad ogni altra persona, direttamente o indirettamente, un indebito vantaggio affinché detto ufficiale o detta persona abusi della sua influenza reale o supposta, al fine di ottenere da un’amministrazione o da un’autorità pubblica dello Stato Parte un indebito vantaggio per l’istigatore iniziale di tale atto o per ogni altra persona;
b) al fatto, per un pubblico ufficiale o per ogni altra persona, di sollecitare o di accettare, direttamente o indirettamente, un indebito vantaggio per sé o per un’altra persona al fine di abusare della sua influenza reale o supposta per ottenere un indebito vantaggio da un’amministrazione o da un autorità pubblica dello Stato Parte.