ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Antonio Albanese, pur essendo tutt’ora un attore dai formidabili tempi comici, ci ha abituato da tempo a film incentrati su tematiche sociali.
Negli ultimi anni molti dei suoi lavori, pur presentandosi in punta di piedi e senza sembrare militanti, sono ricchi di spunti “politici” e contengono riflessioni mai banali, soprattutto laddove il nostro abbini il ruolo di attore a quello di regista.
Se nelle commedie e negli sketches prevalgono il registro grottesco e l’uso del paradosso, quando è regista di se stesso Albanese predilige infatti interpretare personaggi ordinari e dai sentimenti puliti, uomini ingenui che fa muovere in un mondo popolato da tipi mediocri se non cattivi, proprio come molte delle sue maschere comiche.
Non sfugge allo schema il suo ultimo film in sala, "Cento domeniche”, in cui presta volto e movenze ad un operaio specializzato cui ha dato il suo nome (Antonio), appena mandato in prepensionamento in una fabbrica di un piccolo paese; un personaggio dalla vita normale, che gode di piccole gioie ed è esposto, come tutti, ai rovesci della vita.
Rovesci anch’essi piccoli, ben attutiti da un ambiente in cui è facile e naturale fidarsi degli altri perché ci si conosce tutti da sempre, al di là dei ruoli e dell’età, e si condividono spazi limitati ed accudenti come il bar o la piazza.
E Antonio si fida: del suo datore di lavoro, che lui considera quasi un parente e non un padrone (si danno del tu, sembrano in gran confidenza e l’imprenditore, che lui chiama confidenzialmente Carlo, lo invita persino a cena nella sua magione, in un angolo del giardino della quale consente che Antonio allevi delle galline), dei suoi colleghi, con cui divide le chiacchiere del dopolavoro e i tornei di bocce, della sua donna, che pur appartenendo ad un ambiente evidentemente più altolocato del suo lo ospita nella sua lussuosa villa e con cui divide momenti di tenero amore.
Qualcosa sembra non quadrare del tutto, ma all’inizio non ci si fa quasi caso, mentre assistiamo scena dopo scena allo sgretolamento di questo piccolo (e forse mal riposto) capitale di fiducia: il datore di lavoro lo licenzia da un giorno all’altro, pur consentendogli di continuare a recarsi in fabbrica per aiutare con la sua esperienza gli operai più giovani. E Antonio si fida e continua a lavorare, convinto di essere in un mondo dove una stretta di mano vale più di un contratto.
La donna con cui ha una relazione è sposata, ma anche questo sembra un particolare quasi senza importanza. E Antonio si fida e si lascia andare ai sentimenti e all’amore al punto da chiederle se è pronta a lasciare il marito per lui, salvo fingere di avere scherzato alla incredula e stizzita reazione di lei.
Più la storia va avanti e più sembra che tutto poggi su un pavimento di mera apparenza, destinato a sgretolarsi al primo scossone: una visita ispettiva in fabbrica porta alla immediata reazione del datore che ingiunge ad Antonio di non farsi vedere più, perché altrimenti la fabbrica rischierebbe sanzioni. E tanti saluti all’esperto tornitore e alla sua insostituibile esperienza.
Poco dopo Antonio rivela alla sua amante che la figlia si è accorta della loro relazione e che vorrebbe invitarla al matrimonio: la donna, rendendosi conto improvvisamente del rischio che si sappia di loro in paese lo caccia urlando dalla macchina e tronca da un minuto all’altro ogni rapporto.
Sono solo le prime avvisaglie della tempesta vera e propria, destinata a provocare il crollo dell’intero sistema affettivo del protagonista e che scaturisce da un evento che difficilmente viene spontaneo associare con i sentimenti: la crisi finanziaria dell’istituto di credito del suo paese.
Il fatto è che anche la banca è percepita da Antonio con le lenti comode e deformanti della fiducia: gli impiegati sono persone che ha conosciuto da bambine, ed è bella la sensazione che ogni volta che ha bisogno di recarvisi gli aprono una porta di servizio per non farlo passare dai tornelli, perché sanno che egli soffre di claustrofobia.
È insomma anche quello un ambiente fatto di relazioni consolidate ed informali, a cui affidare con un sorriso i risparmi di una vita, come del resto hanno fatto tutti nella sua piccola comunità (e come, a ben pensarci, tendiamo a fare tutti un po’ ovunque).
Ed è alla sua “amica” banca che Antonio si rivolge per chiedere i soldi per organizzare il matrimonio della figlia, suo momento di massimo orgoglio e piccolo riscatto sociale.
Il nostro tornitore è convinto di avere investito il suo denaro in modo sicuro e facilmente smobilizzabile e che quindi possa avere indietro quanto ritiene suo con un sorriso, magari con un piccolo aiuto tecnico del suo interlocutore per le eventuali quisquilie burocratiche: sarà destinato ad essere deluso ancora una volta.
Il direttore di banca, con la solita finta bonomia che Antonio ha già sperimentato in tutti gli altri suoi interlocutori, gli ricorda che tempo fa ha firmato una modifica del suo investimento, rendendolo da obbligazionario ad azionario (quindi, ad alto rischio); e che in questo momento è meglio non vendere le azioni perché sostanzialmente hanno visto pressoché azzerato il valore che avevano al momento dell’acquisto… di fatto, gli comunica che i suoi risparmi non esistono più.
La reazione del tornitore è quella di sempre: rifiuta di credere che il mondo non sia quello che si è sempre rappresentato, anche se uno degli impiegati lo segue fuori dalla banca per dirgli che la banca è sull'orlo del fallimento e gli consiglia di prelevare tutti i soldi e mettersi in salvo. Rifiuta di capire – e di reagire - anche quando lo stesso impiegato, poco dopo il colloquio, si suicida per la vergogna di avere contribuito a truffare la gente; ed anche quando il barista gli fa leggere i titoli dei giornali ove si parla di crack della banca e del suo prossimo, inevitabile fallimento.
Chiede consiglio al suo ex padrone, rifiutando di accettare come vera la notizia appresa che i ricchi del paese i soldi dalla banca li hanno già prelevati - contribuendo ad aggravare il dissesto - e continua come un sonnambulo a camminare in un mondo che non corrisponde alle sue percezioni.
In un crescendo di drammaticità, Antonio prende coscienza della realtà quando ascolta il racconto di un altro operaio ridotto come lui sul lastrico dal crollo dell’istituto di credito e torna in banca deciso finalmente a chiedere spiegazioni al direttore: ma il direttore è cambiato e il nuovo, inaspettatamente, lo tratta come se fosse lui ad essere in torto: è lui che ha firmato, è lui il responsabile della sua rovina.
Antonio reagisce esclamando (come forse faremmo tutti): “ma chi di noi legge quello che firma?”.
È qui che Albanese metaforicamente ci schiaffeggia, ricordandoci che non sta mettendo in scena una maschera grottesca o esagerata ma la semplice realtà, che anche noi come il protagonista della storia preferiamo fingere di non vedere…. perchè è troppo brutto dire a se stessi che la fiducia non esiste, che si è nudi di fronte alla cattiveria altrui; che sono finiti i tempi della solidarietà, dell’unione fa la forza, dei deboli che alzano la voce per reclamare i propri diritti; che oggi chi è debole può solo subire e semmai cercare di diventare più forte di qualcun altro, per arraffare un briciolo togliendolo a chi è più in basso nella catena alimentare.
In un ultimo sussulto di ricerca di solidarietà il nostro tornitore si reca alla riunione in piazza dei clienti dell’istituto di credito, dove assiste all’ennesima pantomima: quando vede che a prendere la parola non sono gli scontenti ma un avvocato sconosciuto a tutti e poi il sindaco del paese capisce finalmente che nessuno aiuta nessuno.
E va via, deciso all’epilogo individuale che non sveliamo per non "spoilerare".
La tematica del rapporto del singolo con le banche è una delle più attuali e sconvolgenti dei nostri tempi e tocca da vicino il lavoro dei magistrati sia civilisti che penalisti.
Sempre più spesso le disuguaglianze sociali e le istanze di tutela dei diritti individuali e fondamentali prendono le forme processuali della tutela del singolo dallo strapotere degli istituti di credito.
Ne sono prova la giurisprudenza (tremolante e altalenante) sull’usura bancaria in campo penale e le controversie civilistiche su interessi moratori, clausole abusive (“Ma chi di noi legge quello che firma?”), anatocismo, commissioni di massimo scoperto.
Emmanuel Carrère ne ha fatto materia per uno dei ritratti più riusciti della sua galleria di personaggi nel magnifico libro intitolato "Vite che non sono la mia": è la storia (vera) della passione civile della cognata, giudice di prima istanza che ha dedicato la vita a propugnare nelle sue sentenze i semi di un’interpretazione dei contratti bancari volta alla tutela sociale dei più deboli (i clienti).
Nel libro l’autore descrive la pluriennale lotta della magistrata con stuoli di avvocati blasonati e con la stessa giurisprudenza della cassazione francese, sempre pronta a chiudere gli spiragli di giustizia sociale che la protagonista ed un suo collega che fa udienza pochi metri più in là tentano ingegnosamente di aprire dal Tribunale di provincia in cui si trovano ad operare.
Una storia che parla di chi, da dietro le quinte e con le armi della tecnica giuridica e dell’ingegno, prova a ristabilire il filo interrotto della fiducia tra l’individuo e la società e che costituisce l’ideale pendant del film di Albanese.
Il filo della fiducia chiama in causa dunque, per vie sorprendenti, la giurisprudenza di merito nel suo compito insostituibile di tutela dei diritti fondamentali.
Tra le attribuzioni del Consiglio Superiore della Magistratura, quella di carattere consultivo in favore del legislatore non è tra le più studiate e, pur tuttavia, è tra le più controverse, per l’ambito, i modi, l’oggetto. A riportarla di attualità, pur in assenza di contrasti paragonabili a quelli del passato, sono alcune operazioni di revisione critica in ordine alle interferenze dell’attività giurisdizionale nella sfera di pertinenza di altri poteri dello Stato e al ruolo del governo autonomo dei magistrati. Le posizioni esistenti su questi temi influenzano le letture divergenti dell’art. 10, comma 2, della legge 195/1958. Per quanto questa vi si presti, nella sua concisione, esistono però una prassi consiliare, avalli istituzionali autorevoli e punti fermi dottrinali che non possono essere dimenticati.
Sommario: 1. Il dibattito consiliare. 2. Il dato normativo. 3. Leale collaborazione e buon andamento degli uffici giudiziari. 4. A chi si indirizzano i pareri. 5. L’oggetto. 6. Il parere sulla conformità a Costituzione. 7. Gli atti su cui il CSM esprime i pareri. 8. Il parere espresso d’iniziativa.
1. Il dibattito consiliare.
L’approvazione recente di un parere sullo schema di conversione di un decreto legge è stata l’occasione per dibattere in adunanza plenaria dei limiti riconosciuti al Consiglio Superiore della Magistratura nell’esercizio dell’attribuzione consultiva rispetto ai rapporti col legislatore [1]. Nella circostanza v’è stato chi ha mosso critiche alla delibera perché il parere che si proponeva di votare avrebbe esorbitato dal perimetro consentito; lo sconfinamento sarebbe sorto dal fatto che il parere non si limitava a trattare in modo neutro delle ricadute che la nuova disciplina avrebbe avuto sull’organizzazione degli uffici giudiziari, ma esprimeva pure valutazioni negative su singole disposizioni ritenute lacunose o asistematiche.
Nel caso specifico la delibera è stata poi approvata dal Plenum a larga maggioranza (tre astensioni).
Il dibattito ha messo in luce più che in altre recenti occasioni l’esistenza di posizioni molto difformi in seno al Consiglio Superiore. Si tratta di divergenze certamente favorite dall’esistenza di nodi storicamente irrisolti, nella dottrina, nella lettura del dato normativo che assegna al CSM questa attribuzione, ma vistosamente riconducibili a visioni diverse sul ruolo del Consiglio e dei suoi rapporti con il Ministro della giustizia. Non pare casuale che esse emergano nella fase storica in cui gli effetti stessi dell’esercizio dell’attività giudiziaria vengono (ri)messi in discussione con argomenti che investono l’orizzonte della separazione dei poteri.
Intervenendo il 30 novembre nel Plenum straordinario convocato per la sua visita, il Ministro della giustizia ha espresso la volontà di incrementare la richiesta al CSM di pareri su testi che siano non solo di legislazione primaria, ma anche regolamentari. È possibile che questa apertura a un fecondo dialogo giuridico tra Istituzioni stemperi le divergenze emerse settimane prima.
Tuttavia, esse vivono anche al di fuori del CSM, frutto e al contempo causa del tentativo di delimitare con la massima precisione possibile i ruoli degli organi protagonisti dello scenario istituzionale, col risultato inevitabile di valorizzarne alcuni a discapito di altri. Questa operazione, per certi versi comprensibile nel suo intento di prevenire occasioni di possibile frizione tra le istituzioni, rischia di travolgere alcuni paletti che parevano ormai solidamente sistemati; ogni delimitazione di confine, pur se mossa da commendevoli ragioni di certezza, può rivelarsi ancora più dannosa, se non sia basata su mappe e tracciati sicuri.
2. Il dato normativo.
Senza coltivare la pretesa di arrivare a risolvere gli aspetti più controvertibili, conviene dunque ricordare quei punti fermi, per evitare che anche le certezze ormai acquisite vengano travolte da uno spirito revisionista del tutto contingente e non sufficientemente meditato.
Come noto, l’art. 10 della legge n. 195/1958, dopo avere elencato le materie su cui al Consiglio spetta di deliberare, aggiunge, al secondo comma, che “può fare proposte al Ministro per la grazia e giustizia sulle modificazioni delle circoscrizioni giudiziarie e su tutte le materie riguardanti l'organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia. Dà pareri al Ministro, sui disegni di legge concernenti l'ordinamento giudiziario, l'amministrazione della giustizia e su ogni altro oggetto comunque attinente alle predette materie”.
L’ultimo comma è norma di chiusura, giacché aggiunge che il CSM “delibera su ogni altra materia ad esso attribuita dalla legge”.
È venuta così a configurarsi una funzione propulsiva e consultiva, di carattere tecnico-giuridico, attraverso la quale il Consiglio instaura un dialogo con gli organi titolari dell’indirizzo politico e che si esprime attraverso tre tipologie di atto: proposte (art. 10, co. 2, prima parte); pareri (art. 10, co. 2, seconda parte); relazione sullo stato della giustizia (art. 43 del regolamento interno del CSM).
È bene precisare che quest’ultima, per quanto non prevista da norma primaria, trova fondamento in una pratica sorta negli anni sessanta del secolo scorso, prima ancora della sua codificazione nella regolamentazione dell’attività consiliare. Viene ricordato in proposito l’ordine del giorno approvato dal Senato della Repubblica il 29 gennaio 1969, in cui si valutava “sommamente opportuno” che il Ministro presentasse una relazione annuale sullo stato della giustizia accludendovi “analoga relazione del Consiglio superiore della magistratura” [2].
3. Leale collaborazione e buon andamento degli uffici giudiziari.
L’idea di un collegamento tra CSM e legislatore ha quindi una storia condivisa e radicata nel tempo. Già questo sola constatazione basterebbe a inficiare l’ipotesi di un’illegittimità dell’art. 10, secondo comma, della legge 195/1958, avanzata sulla base del fatto che l’espressione dei pareri non sia inclusa tra le potestà elencate espressamente dall’art. 105 della Costituzione [3].
Storicamente i contenuti della relazione tra CSM e Ministro della giustizia, in particolare, vengono maggiormente focalizzati con l’aumentare dell’attenzione verso l’attuazione delle disposizioni costituzionali (specialmente in materia di indipendenza e autonomia dei magistrati) e, in epoca più recente, per l’esigenza di perseguire il buon andamento dell’amministrazione della giustizia [4].
Per quanto concepito come organo di garanzia dell’indipendenza dei magistrati, il Consiglio esercita una funzione di amministrazione della giurisdizione [5] nel quadro costituzionale. Perciò le sue competenze in materia di assetto degli uffici giudiziari (si pensi alle delibere su tabelle e progetti organizzativi) o relative al percorso professionale dei magistrati non possono essere esercitate con riferimento al mero rispetto di regole formali, ma implicano anche valutazioni di adeguatezza delle attività e delle soluzioni, dovendo guardare all’efficienza dell’organizzazione.
Anche sull’estensione delle competenze in tema di organizzazione e funzionamento dei servizi attribuite al Ministro della giustizia (art. 110 Cost.) le opinioni dei costituzionalisti sono varie, non meno di quanto siano quelle relative alle funzioni affidate al CSM. Tutti concordano, però, sul fatto che entrambe queste istituzioni presiedano al sistema giudiziario nell’ambito di poteri che incidono a loro volta sull’amministrazione della giustizia. Da ciò deriva l’ineludibile necessità di una loro cooperazione diretta all’unico scopo, racchiusa nella locuzione “leale collaborazione”.
Questo concetto è stato approfondito dalla giurisprudenza costituzionale soprattutto in riferimento all’istituto del concerto, richiesto al Ministro sulla proposta di conferimento di funzione da parte del Consiglio (art. 11, co. 3, l. 195/58), e racchiude in sé le “regole di correttezza nei rapporti reciproci e di rispetto dell’altrui autonomia” [6], le quali impediscono a ciascuno dei due soggetti di “dare luogo ad atteggiamenti o comportamenti dilatori, pretestuosi, incongrui o contraddittori o insufficientemente motivati” [7].
Una volta che è stata costituzionalizzata la ragionevole durata del processo (art. 111, co. 2), il principio del buon andamento è andato progressivamente a identificarsi, almeno nel dibattito pubblico, con quello di efficienza del servizio; questo passaggio ha reso ancora più evidente l’esigenza di una collaborazione tra i due vertici dell’organizzazione giudiziaria, poiché, se è vero che l’efficienza chiama in causa in prima battuta il Ministero, quale organo deputato a dotare la macchina giudiziaria dei mezzi necessari, nondimeno pressoché ogni iniziativa dell’Amministrazione diretta a innovarne i servizi impatta sull’esercizio della giurisdizione, sicché il Consiglio non può risultarvi estraneo.
L’espressione, da parte di quest’ultimo, dei pareri sugli interventi legislativi e delle proposte normative rientra pertanto in un tale assetto relazionale.
4. A chi si indirizzano i pareri.
L’interrogativo che si è posto in ordine alla destinazione di tale funzione riguarda la possibilità che il CSM indirizzi i pareri e le proposte, almeno in caso specifici, anche al Parlamento, oltre che al Ministro. La prassi non è in questo senso e, probabilmente, non a caso. I regolamenti delle due Camere, infatti, non menzionano il Consiglio come loro possibile interlocutore, diversamente da altri soggetti istituzionali. In difetto di ciò, è difficile ravvisare l’eventualità di una stabile procedura di collegamento tra le Camere e il Consiglio, trattandosi di materia che l’art. 64 Cost. riserva alla disciplina dei regolamenti medesimi [8].
Lo stesso ordine del giorno approvato dal Senato il 29.1.1969, come s’è detto, auspicava una relazione da parte del CSM come mero allegato di quella ministeriale. Anche il regolamento dell’attività consiliare, quando ancora prevedeva la redazione della propria relazione sullo stato dell’amministrazione della giustizia “in conformità” a quell’ordine del giorno, ne disponeva comunque la trasmissione al solo Ministro per la grazia e la giustizia [9]. Dal 2016 quel riferimento è scomparso dal regolamento interno. La relazione sullo stato dell’amministrazione della giustizia continua a essere distribuita, per la sua discussione in seduta plenaria, esclusivamente al Ministro oltre che ai componenti del Consiglio (art. 43, co. 2, reg. int.).
Per altro verso la stessa commissione Paladin giudicava insoddisfacente, rispetto allo scopo dell’atto, l’assenza di un meccanismo che vincoli il Ministro a trasmettere alle Camere la relazione consiliare sullo stato dell’amministrazione della giustizia. È segno, questo, della riconosciuta utilità, per l’istituzione parlamentare, di un apporto del C.S.M. nonché della necessità che la collaborazione tra questo e il Ministro della giustizia sia improntato a lealtà.
In coerenza con questa ricostruzione si ritiene dunque che la funzione consultiva del Consiglio non sia esercitabile nei confronti del Parlamento senza la mediazione ministeriale [10].
5. L’oggetto.
L’art. 10, secondo comma, della legge n. 195/1958 rende evidente che il Consiglio non può dirigere il proprio intervento verso ogni iniziativa normativa e che, anzi, gli è preclusa la possibilità di esprimersi su alcuni terreni che pure toccano l’attività giudiziaria.
L’attribuzione risulta invero limitata a due ambiti specificamente nominati: “ordinamento giudiziario” e “amministrazione della giustizia”.
L’ordinamento giudiziario designa quel settore dell’ordinamento giuridico statale che disciplina, sotto il profilo organizzativo, le attività dei giudici, dei pubblici ministeri e dei loro collaboratori [11]. Si può quindi concludere che la prima locuzione normativa è riferibile a un complesso di norme. Da ciò consegue che il C.S.M. è chiamato a esprimere pareri sulle attività di riforma che incidano sull’assetto e il funzionamento degli organi che esercitano la giurisdizione.
Meno immediata appare l’interpretazione della seconda locuzione. La “amministrazione della giustizia” è astrattamente riferibile, infatti, tanto a un nucleo di elementi materiali e funzionali, che costituiscono l’apparato amministrativo di settore, quanto a un’attività, rappresentata dall’esercizio della giurisdizione.
La prima opzione è contraddetta da due rilievi.
In primo luogo, ci troveremmo di fronte a un concetto sostanzialmente sovrapponibile a quello della prima locuzione normativa, poiché, pur nella sua superiore astrattezza, la complessiva disciplina coincidente con l’ordinamento giudiziario già riguarda l’organizzazione dell’attività giudiziaria, alla quale è dedicata la macchina amministrativa del Ministero della giustizia. Attribuendo quel significato alla seconda espressione si finirebbe dunque per depotenziare del tutto l’efficacia descrittiva del binomio normativo.
In secondo luogo, va considerato che la locuzione integrativa seguente (“.. e su ogni altro oggetto comunque attinente alle predette materie”) chiarisce come i due concetti precedenti vadano a identificarsi con una materia. Ma l’amministrazione della giustizia, intesa nella sua dimensione statica, quale complesso di beni e servizi non è definibile come “una materia”. Lo è, viceversa, l’ordinamento giudiziario.
Molto più convincente, dunque, è la seconda opzione interpretativa, la quale porta a concludere che l’amministrazione della giustizia dell’art. 10, secondo comma, l. 195/1958 altro non è che la iurisdictio.
Una volta che sia stato così chiarito, il dato normativo porta ad affermare quindi che al Consiglio è affidata l’espressione di pareri sugli interventi legislativi che riguardano, da un lato, l’organizzazione e il funzionamento degli organi giudiziari e, dall’altro, l’esercizio concreto della giurisdizione. Da qui l’identificazione del loro possibile oggetto.
Cade dunque in errore chi – anche tra coloro che sono intervenuti nel dibattito plenario menzionato in premessa – ritenga l’attribuzione consultiva del CSM limitata ai pareri sulle sole norme incidenti l’organizzazione giudiziaria.
Vi rientrano, invece, le disposizioni che regolano il (o incidono sul) funzionamento degli organi giudiziari e quelli di natura processuale.
Vi rientrano altresì le norme di natura sostanziale che condizionino l’attività giurisdizionale, per le loro ricadute sul piano organizzativo, su quello processuale o, a maggiore ragione, su entrambi (si pensi all’introduzione di misure amministrative suscettibili d’influire sui flussi processuali).
Quanto al contenuto del rilievo che il CSM è chiamato a muovere, va considerato che l’interpretazione della legge è l’operazione più intimamente connessa alla giurisdizione, la prima, dunque, che, per la sua frequenza, influisce sull’andamento della giustizia e sulla ragionevole durata dei processi. Una norma oscura o aperta a più significati o distonica rispetto agli obiettivi enunciati dal legislatore si espone al rischio di decisioni tra loro contrastanti e dunque a un vulnus al valore della loro prevedibilità in funzione di uno stabile assetto dell’ordinamento giuridico sul quale i cittadini possano confidare [12].
È, pertanto, nella responsabilità del Consiglio superiore – esprimendo pareri improntati alla leale collaborazione che gli è richiesta – evidenziare al legislatore simili imperfezioni, nella misura in cui siano suscettibili di rendere imprevedibili, se non il quadro normativo [13], i risultati dell’attività giurisdizionale che lo interpreterà.
6. Il parere sulla conformità a Costituzione.
Di qui al rilievo di possibile costituzionalità del testo esaminato il passo è breve. Ma è un passo che entra nel territorio riservato alle attribuzioni del Presidente della Repubblica, in via preventiva, e della Consulta, in fase successiva.
La prassi ha conosciuto numerosi pareri in cui il Consiglio ha valutato la conformità a Costituzione di proposte normative. Vi è un drastica opinione contraria a tale facoltà, espressa dal Presidente Giorgio Napolitano: “non può esservi dubbio od equivoco sul fatto che al CSM non spetti in alcun modo quel vaglio di costituzionalità cui, com’è noto, nel nostro ordinamento sono legittimate altre istituzioni” [14]. Nel messaggio si coglie evidente la preoccupazione che una presa di posizione consiliare possa generare un conflitto istituzionale con gli organi ai quali quel controllo è stabilmente affidato.
Eppure anche gli autori meno propensi a una lettura estensiva della funzione consultiva del CSM ritengono dubbia una soluzione che gli neghi ogni valutazione di costituzionalità, soprattutto quando il parere venga espresso su richiesta del Ministro [15]. Altri, invece, non intravedono limiti in questa facoltà [16].
La questione è quindi delicata, poiché, se è difficile immaginare che il Consiglio debba astenersi da rilevare un vizio di legittimità, soprattutto se macroscopico, presente eventualmente in una norma, è altrettanto chiaro che un simile intervento può sconfinare nella sfera di attribuzioni non dell’organo cui il parere è rivolto, bensì di un’istituzione terza, titolare del controllo per Costituzione.
La soluzione potrebbe raggiungersi ricordando l’esigenza generale di salvaguardia della sistematicità e della stabilità dell’ordinamento giuridico. Il Consiglio potrebbe quindi riconoscersi investito del vaglio di costituzionalità di una disposizione, alla stregua della sua ragionevolezza, quando questa sia commisurata al più ampio quadro normativo, nel quale andrà a inserirsi, e al pericolo che l’interpretazione consequenziale possa minarne l’assetto.
Può cioè fondatamente sostenersi che il parere possa avanzare dubbi di compatibilità costituzionale (o di conformità all’ordinamenti euro-unitario) della disposizione in esame ogni volta in cui dal possibile contrasto con una norma sovraordinata possano derivare scelte ermeneutiche tra loro contraddittorie o confliggenti con l’obiettivo stesso enunciato dal legislatore: nel primo caso viene messa in discussione la stabilità del quadro normativo; nel secondo gli effetti delle decisioni giudiziali potrebbero rivelarsi asistematici. In entrambe le situazioni si avrebbe un risultato applicativo incerto che il Consiglio deve segnalare.
7. Gli atti su cui il CSM esprime i pareri.
L’art. 10, co. 2, menziona soltanto i “disegni di legge”, dunque gli atti di iniziativa governativa (art. 87, co. 4, Cost.); il che confermerebbe, tra l’altro, che il Consiglio Superiore dialoga col legislatore solo per il tramite del Ministro della giustizia.
Non sembra dubbio però il fatto che esso possa esprimersi anche sui regolamenti, nella forma dei decreti ministeriali, quando siano adottati in attuazione o siano comunque previsti dalla legge, se, ovviamente, abbiano per oggetto le materie di competenza. Sarebbe del tutto irragionevole, in effetti, che questa possibilità fosse preclusa al Consiglio (e che il Ministro non la attivasse, richiedendo lo specifico parere), dato che, come spesso accade, è il regolamento, più che la norma di legge generale, a impattare sull’organizzazione o sull’amministrazione della giustizia.
Si pone se mai una questione di effettività dell’attribuzione consiliare, quando il tempo a disposizione per fornire il parere sia in concreto inadeguato rispetto alla complessità delle questioni.
È in corso, per esempio, il dialogo istituzionale sull’attuazione delle infrastrutture digitali centralizzate per le intercettazioni telefoniche. L’art. 2, co. 3, d.l. 105/2023 (conv. nella legge 137/2023), che le ha istituite, ne ha demandato la realizzazione al Ministro attraverso almeno tre decreti (commi 2, 3 e 5); su ciascuno il Consiglio deve essere sentito – al pari del Garante per la protezione dei dati personali e del Comitato interministeriale per la cybersicurezza – “entro venti giorni dalla richiesta, decorsi i quali il provvedimento può essere adottato” (art. 2, co. 9, d.l. 105/2023). In ordine ai primi due decreti i venti giorni sono resi di fatto perentori dalla circostanza che al Ministero stesso siano dati termini insuperabili entro cui provvedere (sessanta giorni nel secondo comma e novanta nel terzo).
A chi conosca le procedure di deliberazione consiliare risulta evidente che venti giorni per esprimere un parere su temi altamente specialistici e settoriali – quali i requisiti tecnici specifici per la gestione (accesso, conservazione, trasferimento) dei dati relativi ai flussi delle conversazioni intercettate e per le garanzie di sicurezza delle relative infrastrutture – rappresentano una scadenza ben difficilmente conciliabile con una valutazione ponderata e approfondita.
La rilevanza conferita a tale funzione è testimoniata del resto dall’iter dei pareri, sistematicamente preceduti da una proposta della sesta commissione e previa consultazione formale dell’ufficio studi e documentazioni, mai emessi, per converso, per deliberazione diretta del Plenum [17], sebbene il regolamento consiliare lo consenta in via d’urgenza.
Perciò, quando la ristrettezza dei termini è destinata a comprimere i tempi della deliberazione, deve soccorrere la leale collaborazione tra le istituzioni, fatta anche di interlocuzioni preliminari che pongano il Consiglio nella condizione di rendere la propria consultazione effettiva e non formale.
La clausola di chiusura dell’art. 10, co. 2, l. 195/58 (“e su ogni altro oggetto comunque attinente alle predette materie”) consente infine di affermare che la funzione consultiva del CSM non è circoscritta ai soli disegni di legge e ai regolamenti che vi danno attuazione. L’oggetto è più ampio; il limite viene dalla materia, non dalla forma dell’atto.
Al Consiglio non è preclusa pertanto l’espressione di pareri sulle proposte di legge di origine parlamentare quando investano l’ordinamento giudiziario e l’esercizio della giurisdizione. Ciò vale, innanzi tutto, per gli atti di conversione dei decreti legge, stante l’impossibilità di un parere prima che il provvedimento d’urgenza sia adottato.
Ma ciò non può non estendersi anche al testo delle altre proposte legislative, una volta che questo si trovi formalmente depositato presso una delle Camere e l’iter di approvazione parlamentare sia stato avviato.
8. Il parere espresso d’iniziativa. La facoltà di esprimere pareri anche sulle proposte di legge di origine parlamentare si collega alla questione del possibile esercizio di questa attribuzione consultiva non su richiesta del Ministro, bensì per iniziativa del Consiglio.
V’è una prassi consolidata in tal senso, avallata autorevolmente anche da più di un Presidente della Repubblica [18], difesa espressamente da più di un vicepresidente del C.S.M. [19] e, pur tuttavia, non esente da critiche [20].
Va osservato, in primo luogo, che la legge non prevede alcuna richiesta.
A quello letterale si aggiungono peraltro altri argomenti a conforto della prassi consiliare, alcuni dei quali valgono a contrastare l’obiezione legata alla sua invadenza nella sfera legislativa: innanzi tutto il parere non è vincolante, sicché può fornire un contributo tecnico-giuridico, ma mai interferire con l’autonomia deliberativa del Parlamento, che lo può liberamente disattendere; secondariamente, la “collaborazione” istituzionale ha un contenuto ineludibile di doverosità, che richiede al Consiglio di fornire quel contributo ogni volta in cui ravvisi nell’attività legislativa in corso un intervento che interessi le materie affidate al suo governo. L’iniziativa del CSM pertanto, va letta non come intromissione, ma come ausilio nella ricerca della più efficace soluzione normativa sull’oggetto e rispetto alla linea di orientamento che il legislatore adotta nella più piena e incomprimibile autonomia politica.
D’altronde, se dovesse ritenersi che i pareri possano darsi solo a richiesta, si ammetterebbe la possibilità di una paralisi della funzione consultiva anche rispetto alle proposte di legge, poiché il Ministro stesso potrebbe omettere di richiederli. La storia, da questo punto di vista, insegna. Non convince al riguardo l’obiezione per cui il CSM. ha un’ampiezza di funzioni non azzerabili da un’ipotetica inerzia ministeriale: quella consultiva, infatti, è un’attribuzione specifica e singolare, dai contenuti e dagli effetti infungibili con quelli delle altre riconosciute al Consiglio; essa è l’unica idonea a favorire la formazione di leggi adeguate ai bisogni dell’ordinamento e della giurisdizione.
Collegata a questa considerazione è, infine, la questione dei contenuti dei pareri del CSM; periodicamente vengono commentate con avversione le espressioni di analisi critica che vi sono riportate, quasi che ogni manifestazione di dissenso determini di per sé un conflitto istituzionale.
È invero, invece, il contrario. La lealtà è propria di chi agisce con sincerità; e la sincerità giustifica la sottoposizione al pubblico dibattito e alla dialettica con le altre istituzioni delle problematiche che la legiferazione può comportare nella sfera della giurisdizione.
Altra cosa è il tono del dissenso e su questo non si può concordare con chi ha osservato che la nettezza di un’asserzione vada misurata non solo rispetto al ruolo dell’interlocutore, ma anche al livello del difetto che si intende censurare; perciò, ad esempio, se il C.S.M. intenda evidenziare un possibile profilo d’incostituzionalità, dovrà farlo avendo presente i possibili sconfinamenti della sua attribuzione rispetto al ruolo di altre cariche dello Stato. Ma questo è un problema di misura, non di limiti della funzione istituzionale.
[1] Il dibattito è avvenuto nel corso dell’adunanza plenaria del 25 ottobre 2023 e può essere riascoltato dal sito www.radioradicale.it/scheda/711669/consiglio-superiore-della-magistratura-plenum.
[2] Cfr. S. Gava, La crisi della giustizia. Discorso pronunciato al Senato nella seduta del 29 gennaio 1969 in risposta a varie mansioni, Tipografia delle Mantellate, 1969.
[3] Tesi “non peregrina”, secondo T. E. Frosini, I confini costituzionali del CSM e la riforma del sistema giustizia”, in www.federalismi.it 14, 2008, che richiama la ben più netta affermazione di E. Caianiello, in Istituzioni e liberalismo, Rubbettino, 2005, 56.
[4] Per giurisprudenza costituzionale consolidata, il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, pur essendo riferibile agli organi dell'amministrazione della giustizia, attiene esclusivamente alle leggi concernenti l’ordinamento degli uffici giudiziari e il loro funzionamento sotto l'aspetto amministrativo, mentre è estraneo all'esercizio della funzione giurisdizionale (così, tra le altre, Corte cost. 174/2005, 272/2008, 66/2014, 44/2016, 91/2018 e 90/2019).
[5] L’espressione si deve ad A. Pizzorusso, L’organizzazione della giustizia in Italia. La magistratura nel sistema politico e istituzionale, Einaudi, 1990, 95.
[6] Corte cost., 27 luglio 1992, n. 379. La sentenza viene commentata con riferimento ai rapporti più generali tra C.S.M. e Ministro della giustizia in N. Zanon e F. Biondi, Diritto costituzionale e dell’ordine giudiziario, Status e funzione dei magistrati alla luce deli principi e della giurisprudenza costituzionale, Giuffré, 2002, 15.
[7] Corte cost., 30 dicembre 2003, n. 380.
[8] In tal senso si esprime testualmente la commissione Paladin, istituita il 26 luglio 1990 dal Presidente della Repubblica Francesco Cossiga per rendere un parere sulla posizione istituzionale del Consiglio, reperibile in www.csm.it, pag. 159.
[9] Artt. 21, reg. int. approvato il 26 marzo 1976, e 28, reg. int. del 6 aprile 1988.
[10] N. Zanon, I pareri del Consiglio Superiore della Magistratura tra leale collaborazione e divisione dei poteri, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 2009, 3; F. Biondi, Profili costituzionali e ordinamento giudiziario: il ruolo del Csm, in www.air.unimi.it, 2010, 6.
[11] Così F. Dal Canto, in Lezioni di ordinamento giudiziario, Giappichelli, 2020, XV, secondo cui l’o.g. è altrimenti definibile come “quella parte del diritto pubblico che si occupa, da un punto di vista statico, dell’insieme di principi, regole ed istituti strumentali al funzionamento degli organi che esercitano l’attività giurisdizionale”.
[12] Sul “dovere costituzionale funzionale dei giudici di assicurare l’uniformità dell’interpretazione del diritto” cfr. G. Zagrebelsky, Manuale di diritto costituzionale, I, 1998, 88.
[13] Cfr. Corte cost., 24 gennaio 2017, n. 16, per cui l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica è “elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto”.
[14] Si tratta della lettera di G. Napolitano indirizzata l’1 luglio 2008 al vicepresidente N. Mancino, in www.archivio.quirinale.it/aspr/comunicati, e riferita al parere espresso dal C.S.M. sul c.d. “decreto sicurezza” (d.l. 23 maggio 2008, n. 92).
[15] Ci si riferisce a N. Zanon, I pareri del Consiglio Superiore della Magistratura tra leale collaborazione e divisione dei poteri, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 2009, 13.
[16] Così C. Salazar, in Il Consiglio Superiore della Magistratura e gli altri poteri dello Stato: un’indagine attraverso la giurisprudenza costituzionale, in www.forumcostituzionale.it, 2007, 13. Secondo E. Fortuna, I pareri del C.S.M. e i disegni di legge di sospetta incostituzionalità, in La magistratura, 2008, 241, “mai si sono posti dubbi sulla legittimità e opportunità di esprimersi anche sulla costituzionalità della norma, se ciò appariva necessario o utile al fine di stabilire fino a che punto fosse prevedibile una ricaduta positiva o negativa sull’organizzazione o sul funzionamento della macchina giudiziaria”.
[17] Ci si riferisce all’art. 23, co. 2, del vigente regolamento interno del CSM.
[18] Cfr. il discorso di C. A. Ciampi del 26 maggio 1999, in www.csm.it, e la lettera di G. Napolitano, già citata.
[19] Ci si riferisce agli interventi pubblici di N. Mancino, su La stampa dell’1 luglio 2008, Il Csm boccia la blocca processi. Napolitano, richiamo ai giudici, in www.lastampa.it/politica/2008, e di V. Rognoni, sul Corriere della sera del 7 luglio 2008, Perché i pareri del Csm sono legittimi, riportato in 19luglio1992.com/rassegna-stampa-7-luglio-2008.
[20] N. Zanon, I pareri, cit., 7 ss., il quale evoca per il Consiglio l’immagine della “terza Camera” che interviene, spesso con contenuti fortemente critici, magari dopo che una disegno di legge sia stato già approvato da un ramo del Parlamento, mettendo “in campo profili di rapporto tra poteri, che presentano una loro oggettiva «pesantezza»”.
[21] E. Paciotti, I tempi della giustizia, in I Quaderni di Astrid, Il Mulino, 2005, depreca proprio il fatto che “troppo spesso il Governo e lo stesso Parlamento hanno adottato innovazioni legislative in tema di ordinamento giudiziario e di giustizia senza che fosse richiesto in modo corretto ed effettivo il previsto parere del Consiglio superiore della magistratura. Il decreto sulla competitività, i decreti legge, e le relative leggi di conversione, in materia di proroga dei magistrati onorari, di proroga del procuratore nazionale antimafia, di trasferimento di competenze al giudice di pace, di prescrizione dei reati sono frutto di politiche di breve periodo e, spesso, addirittura emergenziali, che hanno finito per accrescere in via generale le difficoltà operative degli uffici giudiziari ed hanno ostacolato la programmazione dei lavori del Consiglio superiore della magistratura: l’intera politica sulla giustizia è stata sviluppata dal governo in modo profondamente autoreferenziale. Occorre, dunque, che su tutte le iniziative legislative che hanno ricadute in materia di ordinamento giudiziario, ivi comprese le disposizioni processuali di natura sistematica, il Ministro provveda a richiedere al Consiglio superiore un parere che, per le caratteristiche dell’organo da cui proviene, è in grado di fornire indicazioni e valutazioni potenzialmente di grande utilità”.
[22] Così ancora N. Zanon, I pareri, cit., 10.
[23] Così B. Giangiacomo, Le funzioni dei Consigli superiori della magistratura, in www.foroplus.it, 2011, 3.
[24] In tal modo può leggersi l’osservazione di N. Zanon, I pareri, cit., 14.
Tutti, anche i magistrati, hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione (in qualunque forma, anche non verbale). Ma l’esercizio di questa libertà porta con sé obblighi e responsabilità. Questo il quadro di principio come si ricava dalla integrazione dell’art. 21 della Costituzione con l’art. 10 della Convenzione europea dei diritti umani.
Il codice etico della magistratura richiede al magistrato di ispirarsi a “criteri di equilibrio, dignità e misura” in ogni forma di espressione pubblica e, in generale, di mantenere una immagine di imparzialità e di indipendenza.
Vi sono dunque degli obblighi che si traducono in limiti per il magistrato che si esprima pubblicamente fuori dell’esercizio delle sue funzioni. Limiti il cui superamento difficilmente dà luogo a qualche forma di illecito e che tuttavia definiscono la figura del magistrato nella società: essi richiedono sensibilità, prudenza, consapevolezza della speciale natura delle funzioni che sono proprie ed esclusive del magistrato ed anche delle attese sociali in ordine ad esse. Si tratta di un complesso di principi, esigenze e attese che hanno ampi margini di evanescenza. Quella stessa evanescenza che connota la nozione di “cultura della giurisdizione” cui spesso si richiama la magistratura associata e ha ricadute che distinguono il magistrato da ogni altro cittadino.
Da ciò - dev’esser chiaro - non si trae che “il giudice si esprime solo nelle sentenze”, secondo una pretesa di silenzio che non ha base alcuna e non risponde all’interesse pubblico in una società democratica. In questo senso è l’importante orientamento della Corte europea dei diritti umani, più volte investita di ricorsi promossi da magistrati (spesso esponenti di associazioni di magistrati) colpiti da sanzioni penali o disciplinari per le loro dichiarazioni pubbliche.
La Corte, con riferimento alla libertà di espressione, ha più volte indicato che in una società democratica le questioni relative alla separazione dei poteri e l’indipendenza della giustizia costituiscono soggetti importanti che richiedono un’ampia protezione. Da un lato la missione particolare del potere giudiziario impone ai magistrati un dovere di riserbo, anche perché le parole del magistrato sono ricevute come frutto di una valutazione obiettiva. Esse impegnano non solo chi le esprime, ma tutta l’istituzione giudiziaria. Si ha quindi ragione di aspettarsi che il magistrato si avvalga della libertà di espressione con discrezione e misura ogni volta che l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario (la cui protezione è menzionata dallo stesso art. 10 Conv.) rischino di esser messe in discussione. D’altro lato, il fatto che un dibattito su tali temi abbia delle implicazioni politiche non è ragione per impedire ad un giudice di esprimersi in proposito. E quando il magistrato si esprime nella qualità di attore della società civile, come un dirigente di un’associazione di magistrati, egli ha il dovere e non solo il diritto di intervenire su questioni che riguardano il funzionamento della giustizia.
Come si vede, l’insieme di principi ed esigenze che entrano in campo trattandosi della libertà di espressione dei magistrati implicano sempre delicati bilanciamenti e contemperamenti: l’intervento del magistrato (e di un’associazione) può essere addirittura un dovere in una società democratica, ma non deve mettere in discussione la indipendenza ed imparzialità della giustizia, la sua immagine e la fiducia che deve poterne avere la società. Difficile esercizio, sempre legato alle forme del caso concreto, che richiede responsabilità da parte del magistrato e, per converso, pretende rispetto da parte di coloro cui le espressioni del magistrato sono rivolte.
Indipendenza e imparzialità sono doveri fondamentali riguardanti i singoli magistrati e la magistratura nel suo insieme. Vi è un nesso stretto tra ciò che riguarda il singolo magistrato che si esprime e le ricadute sulla magistratura tutta. Quando si dice – e si pretende che abbia portata generale – che la magistratura è “potere diffuso”, si deve poi considerare che il potere giudiziario tutto è coinvolto nel comportamento dei singoli magistrati. D’altra parte, le espressioni pubbliche di un magistrato sono accompagnate da particolare attenzione, proprio perché chi parla è magistrato. Ciò vuol dire che il magistrato spende la sua qualità e quindi, che lo voglia o no, coinvolge la magistratura. Ecco allora un aspetto della “responsabilità” menzionata dall’art. 10 della Convenzione europea dei diritti umani.
L’imparzialità è un aspetto particolarmente delicato ed importante che emerge quando vi sia polemica nei confronti del magistrato (il giudice in particolare) per sue espressioni, nel caso in cui successivamente, nell’esercizio delle sue funzioni, si pronunci su questioni toccate dalle sue precedenti prese di posizione. Si è detto e ridetto recentemente che l’imparzialità si traduce nell’obbligo di motivazione dei provvedimenti, la quale consente di valutarla, anche con le conseguenze possibili in sede di impugnazione. Ma non è così. L’imparzialità è esigenza autonoma ed è un carattere (e dovere) che precede la presa in carico di un affare da parte del giudice. Lo dimostra l’obbligo di astensione e la possibilità di ricusazione. La possibilità che la propria imparzialità sia messa in discussione nel processo impone al giudice una particolare prudenza prima del processo stesso. Il codice etico della magistratura richiede al giudice di valutare con particolare rigore l’esistenza di motivi di astensione per gravi motivi. E non è dubbio che vi sia un dovere del giudice di non mettersi in condizione di doversi astenere. L’imparzialità è qualcosa che riguarda l’idea che se ne fa lo stesso giudice – che si sente imparziale – , ma soprattutto l’idea – non pretestuosa – che se ne fanno le parti processuali, con le ricadute possibili sull’opinione pubblica e sulla fiducia generale nella amministrazione della giustizia. A proposito dell’opinione pubblica o di suoi settori, si può certo volta per volta ritenere ch’essa sbagli nel giudicare l’imparzialità del magistrato. Ma pur nella difficoltà della questione, non si può semplicemente ignorarla, poiché la fiducia nella magistratura è essenziale condizione in una società democratica.
Le prese di posizione pubblicamente espresse dai giudici danno luogo a problemi incidenti sulla loro imparzialità su due livelli: quello della generale fiducia sulla imparzialità della magistratura indipendentemente dall’incidenza su singoli provvedimenti e quello relativo alla partecipazione del giudice alla decisione di uno specifico caso. Con riferimento a questa seconda ipotesi e al tema della astensione rileva la sufficiente specificità del rapporto tra l’opinione espressa e l’oggetto della causa. Così, ad esempio, si ritiene che prese di posizione che esprimono un generale orientamento politico non implichino successivamente un dovere di astensione. Ma quando invece un nesso sufficientemente stretto esista viene in discorso quel che la Corte costituzionale, in tema di incompatibilità, ha chiamato “forza di prevenzione”: la difficoltà di cambiare idea e la naturale tendenza a mantenerla, tanto più quando quell’idea non sia rimasta nel foro interno, ma sia stata esplicitata.
Imparzialità vuol dire anche disponibilità a cambiare idea all’esito dell’ascolto delle ragioni delle parti nel processo. In proposito esiste un campo importante di manifestazioni del pensiero, che il magistrato esprime in campi spesso strettamente legati a ciò che professionalmente deve trattare. Vi è, da sempre, una massiccia e ricca partecipazione di magistrati al dibattito dottrinale, con note a sentenza, articoli, relazioni a convegni, monografie su questioni di diritto, che spesso ricadono nel campo della loro attività giudiziaria. Non risulta che questa tipologia di partecipazione dei magistrati al dibattito sia stata messa in questione sotto il profilo della loro successiva imparzialità (esistono casi di ricusazione?). Forse perché si tratta normalmente di dibattito tecnico-giuridico? O perché zittire i magistrati significherebbe una troppo grave perdita sul piano dello svolgersi della elaborazione del diritto? La “forza di prevenzione” in tali casi non opera? O si ha fiducia nella capacità dei magistrati di allontanarsi dalle posizioni in precedenza espresse e ricollocarsi nel ruolo giudiziario (con le deliberazioni collegiali, quando è il caso, il richiamo ai precedenti, la considerazione degli argomenti sviluppati dalle parti, ecc.)?
La questione però esiste e non è irrilevante nel dibattito generale sull’incidenza delle manifestazioni del pensiero dei magistrati sulla loro imparzialità: vuoi per una improbabile restrizione della partecipazione dei magistrati al dibattito dottrinale, vuoi per una meno schematica e polemica considerazione del tema generale.
(Immagine: Grandville, Descente Dans Les Ateliers De La Liberté De La Presse, Bibliothèque nationale de France, https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b53006319v)
Il 2023 è stato l’anno del centenario della nascita di Italo Calvino. Per ricordarlo, proponiamo la lettura di un racconto breve che scrisse nel 1943, appena ventenne.
Il racconto è di singolare attualità. Nel paese in cui è ambientata la storia, a seguito di iper produzione normativa, gli abitanti hanno dimenticato che “la vera giustizia è ascoltare le querele degli uomini e, a seconda dei casi, giudicare e per ciascuno dire diversa sentenza ma con un animo uguale e rettitudine”.
A seguito di due fatti, solo apparentemente identici, e due possibili condanne all’impiccagione, quando il primo imputato viene assolto e il secondo condannato si scopre che gli articoli di legge, utilizzati a mo’ di algoritmo, non assicurano la giustizia del caso concreto, perché non tutte le circostanze del fatto sono contemplate nella fattispecie astratta.
La sentenza del giudice svela l’inganno dell’algoritmo. In quel paese “qualcosa non va”.
Occorre risolvere il problema. La soluzione adottata è: “fare leggi contro i giudici”. Il giudice riprende il mulo e lascia il paese.
Con questo racconto auguriamo ai Lettori e alle Lettrici di Giustizia Insieme il 2024 migliore possibile, senza leggi contro i giudici e che i giudici, come i pubblici ministeri, possano decidere, come scrive Calvino, "con animo uguale e rettitudine".
Il Giudice sul mulo di Italo Calvino
In un paese impiccavano uno.
Intanto arrivò un vecchio su un mulo e la gente si mise a guardarlo.
Il vecchio si sedette sotto un albero grande che era di quercia e stava in mezzo alla piazza e la gente gli chiese: “Chi sei?”
“Giudice”, rispose il vecchio.
E la gente chiese cos'era giudice.
“Noi lo sappiamo”, dissero gli anziani, “quando le leggi ancora non erano complete succedeva che venivano i dubbi nel condannare uno e nel dar ragione o torto all'altro c'era quello apposta che decideva delle ragioni e dei torti e delle pene da dare a uno ed ecco quello era il giudice.”
“Bene”, disse la gente, “qui ora il giudice non serve qui ora le leggi sono complete, tutto è previsto, non ci sono più dubbi sulla ragione e sul torto sulle pene da dare a uno. Il giudice non serve.”
“Va bè”, disse il giudice. “Io però vi dico che i casi del mondo sono sempre diversi una volta dall'altra e chiedono leggi nuove ogni momento e ogni uomo.”
“Questo è anarchia”, disse la gente che era intorno.
“No che non è", disse il vecchio, “perché vera è giustizia ascoltare le querele degli uomini e a seconda dei casi giudicare e per ciascuno dire diversa sentenza ma con un animo uguale e rettitudine e queste sono le virtù del saggio.”
La gente chiese cos’era saggio ma neanche gli anziani lo ricordavano.
Ora avendo la gente sempre tendenza verso le cose nuove e molti, in essa avendo in dispetto alcuna delle leggi scritte, avvenne che fu detto al vecchio: “Proviamo cosa sai fare”.
Il vecchio diede ordine che togliessero il basto al mulo e indicando un uomo che stavano impiccando, disse: “Cominciamo da quello”.
“Ma quello”, disse la gente, “se lo impiccano è perché deve essere impiccato.”
“Vediamo”, disse il giudice. “Conducetelo a me.”
Così il condannato gli fu condotto e il giudice chiese cosa aveva fatto.
“Ha fatto che ha ammazzato sua moglie con un colpo di scure in testa”, dissero gli altri. “Bisogna vedere le circostanze”, disse il vecchio.
“Le circostanze sono previste dai codici”, risposero gli altri e ci fu chi disse dei numeri.
“Nei codici c'è tutto”, continuarono. “Dei secoli ci sono voluti per farli ma adesso sono completi ci sono tutti i casi che possono succedere. Se uno ammazza sua moglie con un colpo di scure in testa, per esempio. E lì ci sono tutti i casi e le aggravanti e le attenuanti e tutte le combinazioni possibili delle aggravanti e delle attenuanti. Poi, in fondo a ognuna, c'è scritta la pena. Per un caso come il suo c'è scritto: sta impiccato. Dei secoli ci sono voluti per farli.”
“Vediamo”, disse il giudice e interrogò l'imputato, vide che aveva ragione e lo mandò assolto.
La gente rimase lì che non sapeva cosa dire. Avevano impiegato dei secoli a fare delle leggi che fossero complete, adesso che capitava un caso che combinava così bene con le leggi, ecco che veniva fuori uno a dire che tutto era sbagliato.
Così erano tutti lì che non sapevano cosa dire. Uno pensò di trarne vantaggio.
“Facciamo bene i conti”, pensò. “Come è capitato a lui di ammazzare la moglie, così può capitare a me. Tutto sta a non sbagliare i calcoli”
Così andò a casa prese la scure e ammazzò la moglie.
Poi andò a costituirsi. Le guardie lo portarono sotto la quercia dal giudice.
Lui disse come erano andate le cose né più nemmeno come quello di prima.
“Allora”, disse il vecchio, “vuol dire che questo lo impicchiamo”.
Lui ci rimase male.
“Come?”, disse, “che abbia sbagliato i calcoli? Eppure no: ho fatto talquale l'altro”. E ripetè tutto al giudice insistendo che era tutto uguale. Mi sembrava che più quello aggiungesse particolari, più il giudice ostinasse a condannarlo.
“È li il brutto”, diceva, “questi due fatti così uguali. Mai capitate due cose senza niente di differente. Così se lui aveva ragione vuol dire che tu hai torto. Sarai impiccato”. Gli altri però non erano convinti.
“Lui lo impicchiamo”, dissero, “però qui succedono dei pasticci. Vogliamo vederci chiaro.”
Difatti lo impiccarono poi tornarono dal vecchio per vederci chiaro: “Cosa vuol dire questo affare che uno ammazza la moglie e una volta è innocente e una volta è colpevole? Qui uno non sa più come deve comportarsi”.
“Capirselo da sé, deve", disse il vecchio, “sennò le leggi scritte non contano”.
“Capire che cosa?”, chiese la gente, neanche gli anziani si ricordavano che ci fosse qualcosa da capire, al di fuori delle leggi scritte.
“Qui succedono dei pasticci”, dissero, “noi non ci capiamo”. E rimisero il basto al mulo.
Così il vecchio salutò tutti, e risalì sul mulo e andò via, dicono verso la Mecca.
Nel paese, volere o no, s’erano accorti che qualcosa non andava.
Per rimediare, cominciarono a fare leggi contro i giudici.
(tratto da Raccontini giovanili, in Romanzi e racconti vol. III Mondadori Milano 1994, pp 779—781 - scritto nel 1943)
La Carta EDU e la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione contemplano entrambe la clausola generale che impone la interpretazione non limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti dalle normative interne o da altre fonti internazionali.
Tuttavia, vi sono sfide ricorrenti alle fondamenta dell’assetto della Rule of Law, come disegnata dalla Convenzione e dalla Carta dei diritti.
Se la Turchia rifiuta di dare esecuzione alle sentenze della Corte, che hanno più volte sanzionato le gravi violazioni della Convenzione in danno di giudici, pubblici ministeri e avvocati, non meno grave è il rifiuto della Polonia di riconoscere nella gerarchia delle fonti la preminenza di quelle Unitarie e dunque il ruolo del giudice comune e persino la sua legittimazione ad applicare quelle fonti e a sollecitare il rinvio pregiudiziale nella interpretazione dei Trattati.
Tema che, insieme a quello della disapplicazione delle norme nazionali, costituirà certamente oggetto delle relazioni dei nostri illustri relatori, il primo anche per il suo ruolo bifronte, quale giudice europeo e della Corte, la seconda per l’impegno accademico sui valori e quindi sul divieto di regressione nella interpretazione.
Il principio della espansione della tutela dei diritti fondamentali ha radici profonde nelle origini del costituzionalismo.
Si pensi al tema del ruolo contro-maggioritario della Judicial Review, recentemente riemerso polemicamente nel dibattito politico, che ci riporta ai Federalist Papers e alla discussione tra Alexander Hamilton, James Madison e Thomas Jefferson. Negli anni Sessanta del secolo scorso, come ha ricordato recentemente il grande giurista Guido Calabresi, il dibattito si è riacceso intorno alla Counter-majoritarian difficulty, definizione coniata da Alexander Bickel nel 1962.
Per la Corte suprema degli Stati Uniti, l’affermazione che alcuni diritti fondamentali prevalgono e devono comunque trovare protezione, si lega alla Judicial review as a check against anti-democratic majoritarianism.
Nella giurisprudenza dei giudici costituzionali e comuni italiani il principio di massimizzazione si sposa ormai con la condivisione di tale regola anche nello spazio europeo.
Stiamo forse raggiungendo quello Ius Commune europeo, stella polare della navigazione giurisprudenziale in materia di diritti fondamentali, di cui parlava molti anni fa Gaetano Silvestri.
Oggi non ci occuperemo della massimizzazione come espansione verso nuovi diritti – tema controverso e assai ampio – ma essenzialmente delle conseguenze ordinamentali di quel principio.
Questo approccio porta verso due diversi approdi, di cui oggi credo discuteremo:
Il primo riguarda la Rete che unisce le giurisdizioni sovranazionali al giudice nazionale e dunque agli sforzi che nel tempo le Corti superiori e le Corti di Strasburgo e del Lussemburgo per regolare i loro rapporti, in un contesto non meramente gerarchico delle fonti.
A questi aspetti si lega però anche il tema dell’interpretazione e dunque del ruolo del giudice, che si dipana tra applicazione diretta del diritto europeo, ricorso al giudice delle leggi e rinvio pregiudiziale.
Tema politicamente molto sensibile, perché spesso letto come esondazione del potere giudiziario rispetto agli altri poteri dello Stato.
Proprio la ricerca della massima tutela dei diritti, poi, ha portato al dialogo, non sempre facile, tra Corte costituzionale e Corte di Giustizia. Percorso, dunque, che si inserisce tutto nella volontà di far prevalere la più ampia interpretazione dei diritti, letti alla luce delle Carte e della prevalenza della più ampia tutela di diritti fondamentali previsti dalla Costituzione.
La Corte di cassazione e la Corte costituzionale hanno dimostrato nei fatti l’importanza del ricorso al rinvio pregiudiziale, tutte le volte che le incertezze interpretative non possono essere risolte con gli strumenti ermeneutici a disposizione del giudice. Sono ragionevoli le preoccupazioni circa l’introduzione nel nostro ordinamento del Protocollo 16 della CEDU? Certo, effetti diversi del rinvio, che derivano dalla diversa forza della Convenzione rispetto ai Trattati, ma non diversa è l’esigenza di interpretazione uniforme della Convenzione. Sugli effetti del rinvio pregiudiziale nei contesti dei Trattati e della Convenzione credo che i relatori avranno modo di confrontarsi.
La giurisprudenza della Corte EDU ma soprattutto, per le sue implicazioni di carattere generale sulla struttura dell’UE, della Corte di Giustizia in materia di indipendenza della giurisdizione si lega strettamente ai due temi appena citati, come nel caso delle decisioni sulla Polonia, e si basa sul divieto della regressione dei valori nella Unione, di cui ha discusso quale accademica la giudice Rossi.
In tale contesto, fondamentale è non trascurare il ruolo del pubblico ministero nell’attuazione del diritto europeo. La sua indipendenza effettiva – nel penale e, dove ha attribuzioni, nel civile e nella regolazione dei conflitti tra giurisdizioni – esalta la terzietà del giudice. L’indipendenza del pubblico ministero non è certo imposta dalle fonti europee, ma si va espandendo in molti Paesi dell’Unione, in forme diverse.
Nell’ordinamento italiano, il Procuratore generale della Cassazione non è solo indipendente ma partecipa dell’imparzialità del giudice, in questo differenziandosi dal pubblico ministero di merito che, pur gravato dall’obbligo della imparzialità, è comunque parte. Il Procuratore generale – proprio per effetto della sua imparzialità – può contribuire alla nomofilachia delle prassi, che è necessario complemento della nomofilachia anche europea, di cui innanzi si diceva a proposito del Protocollo 16.
La nomina qual giudice costituzionale dell’Avvocato Generale della Corte di Giustizia, Giovanni Pitruzzella, nasce anche dall’imparziale attuazione del diritto, emergente dalle sue conclusioni. Questo ruolo non è affatto diverso da quello che svolge il Procuratore nella Corte di cassazione, ad esempio nell’efficace sollecitazione del ricorso al rinvio pregiudiziale, più volte operato.
Un ruolo anche autonomo che la Procura generale, con il pubblico ministero di merito, svolge per l’attuazione del diritto unitario e la esecuzione delle sue sentenze, ora finalmente disciplinato nelle sue declinazioni rescissorie ed esecutive, rispetto alla intangibilità del giudicato. Esito per la verità già raggiunto in via interpretativa dai nostri pubblici ministeri e giudici di merito, di legittimità e costituzionali.
È stato recentemente sottoscritto un protocollo tra la Procura generale e l’Avvocatura generale dello Stato, per rendere più efficace l’intervento di attuazione delle decisioni in materia civile.
Questo protocollo segue il percorso di intese tra Corti superiori e Corti europee, di cui Guido Raimondi è stato partecipe e promotore, quale presidente della Corte EDU, ora ai vertici della Corte di cassazione.
*Moderazione della sessione Il principio della massima espansione della tutela dei diritti fondamentali: Corte di cassazione CEDU e CGUE del convegno "I Cento anni della Corte di cassazione unica", Roma, 28 novembre 2023.
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