ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’ordinanza del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti del 14.11.2023, relativa all’astensione dal lavoro proclamata da CGIL e UIL per il giorno 17.11.2023, rappresenta un fattore di forte discontinuità nel quadro delle relazioni sindacali. L’esame degli elementi di antinomia del provvedimento rispetto alla tradizione giuridica fondata sull’elaborazione dottrinale e sulle decisioni della Corte costituzionale porta alla luce un risultato estremo: la messa in discussione, da parte dell’autorità governativa, della nozione stessa di sciopero all’interno del nostro ordinamento.
Sommario: 1. Premesse. 2. Il settore dei trasporti. 3. La precettazione prima dell’intervento legislativo. 4. La Commissione di Garanzia. 5. L’ordinanza di “precettazione” nella l. n. 146/1990. 6. Il caso concreto: l’ordinanza del Ministro dei Trasporti 7. Considerazioni conclusive.
1. Premesse
Come è noto, nei lavori dell’Assemblea costituente è stata sollevata la questione del riconoscimento o meno della titolarità del diritto di sciopero ai pubblici dipendenti. Il dubbio aveva la sua ragion d’essere, vista sia la natura giuridica della relazione di pubblico impiego, allora fondata sulla supremazia speciale della pubblica amministrazione nei confronti dei pubblici dipendenti, sia la ricostruzione teorica che giustificava tale supremazia.
L’interrogativo è stato risolto per mezzo della formula costituzionale che rinvia al legislatore ordinario il compito di disciplinare l’esercizio del diritto di sciopero.
Tuttavia, le complesse vicende che non consentirono l’attuazione dell’art. 39 Cost, commi 2, 3 e 4 hanno comportato anche il mancato intervento del legislatore rispetto all’art. 40 Cost.
Ulteriore conseguenza dello scarto fra il disegno costituzionale e il diritto sindacale di fatto è stato l’intervento della Consulta nel rendere compatibile le disposizioni del Codice penale Rocco che qualificano lo sciopero come reato e la Costituzione.
Infatti, la Corte costituzionale ha progressivamente modificato – sostanzialmente montando e smontando – le disposizioni penali con una serie di rilevanti decisioni. In particolare, nell’ambito che in questa sede ci interessa, essa ha avuto l’indubbio pregio di distinguere nettamente la titolarità del diritto di sciopero dal suo esercizio.
La titolarità è riconosciuta a tutte le lavoratrici e a tutti i lavoratori, salvo poche eccezioni, come nel caso dei corpi militari [[1]]. Opportunamente, l’asse della questione è stata spostata verso i c.d. limiti esterni, ovvero verso le esigenze di contemperamento fra l’esercizio del diritto di sciopero e la tutela dei diritti della persona costituzionalmente garantiti.
Come è stato osservato, la costruzione di un corpus giurisprudenziale in materia deve essere contestualizzato. Come è stato già ricordato, la Corte costituzionale si è mossa nell’ambito del diritto penale [[2]]. In questa prospettiva, essa ha elaborato alcune nozioni quali: il necessario contemperamento fra i diritti della persona costituzionalmente garantiti con l’esercizio del diritto di sciopero; i servizi essenziali e la garanzia delle prestazioni indispensabili. Tali nozioni sono rimaste fondamentali anche nell’impianto della legge n. 146/1990.
In particolare, è rimasta ferma la chiara distinzione fra i diritti tutelati dai servizi essenziali, ovvero quelle prestazioni che garantiscono «a regime» il godimento dei diritti della persona, dalle prestazioni indispensabili, cioè quelli che debbono essere garantiti in occasione di sciopero [[3]].
Tuttavia, poiché la conseguenza della scelta di legiferare in materia è stata quella di recidere il rapporto della disciplina normativa con il diritto penale, il Parlamento ha potuto essere meno rigoroso di quanto era stata la Consulta, includendo nell’ambito dei diritti tutelati non solo quelli di rango preminente rispetto al diritto di sciopero, ma un più ampio ventaglio.
Tali premesse sono fondamentali per il corretto inquadramento delle regole contenute nella legge sullo sciopero nei servizi essenziali nel settore dei trasporti.
2. Il settore dei trasporti
Per inquadrare specificatamente questo settore, è necessario partire dalla sentenza Corte Cost. n. 123/1962. Era ivi sollevata la questione di legittimità di uno sciopero svoltosi nell’ambito del settore del trasporto pubblico di Livorno. In quell’occasione, la Consulta affermava che, anche nell’ipotesi in cui fosse ancora vigente l’art. 330 del c.p., esso sarebbe applicabile “solo condizionatamente al rispetto del principio già enunciato, e cioè entro i limiti in cui la perseguibilità penale dello sciopero appaia necessitata dal bisogno di salvaguardare dal danno dal medesimo derivante il nucleo degli interessi generali assolutamente preminenti rispetto agli altri collegati all'autotutela di categoria”. A seguito di tale enunciazione di principio, prosegue “[o]ra la Corte ritiene che i servizi pubblici del genere di quelli di cui è discussione (…) non rivestono il grado di importanza sufficiente a provocare, con la lesione degli interessi predetti, la perdita dell'esercizio del potere garantito dall'art. 40 della Costituzione. Dal che consegue che ai lavoratori addetti ai servizi medesimi, ove si mettano in sciopero, non possano venire inflitte le sanzioni previste dall'art. 330 del Codice penale”.
Quindi, come si diceva, per la Corte costituzionale la libertà di circolazione di cui l’art. 16 della Carta fondamentale non si configura come un diritto della persona tale da impedire l’esercizio del diritto di sciopero.
Tuttavia, in una società sempre più integrata dal punto di vista territoriale, la questione degli effetti sull’utenza dello sciopero nel settore dei trasporti si è presentata in maniera sempre più intensa. Non è un caso che, in questo settore, nel periodo precedente all’emanazione della l. n. 146/1990, siano anche maturate esperienze di autoregolamentazione [[4]].
In effetti, quando le tre grandi Confederazioni sindacali hanno istituito il gruppo di saggi nel 1987 [[5]], attribuendoli il compito di elaborare una proposta di regolazione legislativa dell’esercizio del diritto di sciopero nell’ambito dei servizi essenziali, uno dei settori sul quale la legge avrebbe dovuto incidere era proprio quello del trasporto.
3. La precettazione prima dell’intervento legislativo
L’ordinanza di precettazione rinviene la sua disciplina originaria nell’art. 2 TULPS del 1931: era dunque un prodotto dell’ordinamento corporativo fascista. Di conseguenza, anche essa è stata sottoposta al vaglio della Corte costituzionale. Con la sentenza n. 26/1961, da inquadrare oggi fra le decisioni interpretative di accoglimento, la Consulta ha ritenuto che non sia vietato che “una disposizione di legge ordinaria conferisca al Prefetto il potere di emettere ordinanze di necessità ed urgenza, ma occorre che risultino adeguati limiti all'esercizio di tale potere”. Tuttavia, dichiarando parzialmente incostituzionale l’art. 2, ha proseguito affermando che tale potere è limitato dal rispetto dell’ordinamento giuridico.
In effetti, in ambito giuslavoristico, si è sempre ritenuto che tale decisione fosse motivata dall’esigenza di aver uno strumentoamministrativo che, in situazioni particolarmente gravi, consentisse alla pubblica autorità di intervenire celermente. L’esempio classico, tramandato nelle aule universitarie, è quello di un terremoto o di un’inondazione che avvenga nell’eminenza o durante uno sciopero. Poiché tali circostanze esigono il regolare funzionamento di tutti i servizi, ove mai l’azione di autotutela non sia stata già sospesa, allora deve intervenire l’autorità competente.
In seguito alla manifestazione di disponibilità espressa dalle CGIL-CISL-UIL con la presentazione del citato documento dei saggi, sia l’Esecutivo che il Parlamento si attivavano, come anche la comunità scientifica [[6]]. Non va dimenticato che allora al Senato c’era Gino Giugni, e alla Camera dei deputati Giorgio Ghezzi.
La legge è entrata in vigore il 12 giugno 1990. Come è noto, si tratta di una normativa speciale, il cui titolo per esteso è Norme sull'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia dell'attuazione della legge.
Gli interessi tutelati dalla legge in parola sono, da un lato, l’esercizio del diritto di sciopero e, dall’altro, “nel loro contenuto essenziale”, i diritti della persona costituzionalmente garantiti. Sebbene non sia questa la sede per una puntuale ricostruzione complessiva della legge, per inquadrare la precettazione nell’ambito della disciplina vigente, va rilevato che essa – perlomeno nella sua versione originaria – è stata concepita seguendo un disegno di pesi e contrappesi molto accurato.
In questo disegno, un ruolo importante assumeva la Commissione di garanzia.
4. La Commissione di Garanzia
Istituita dall’art. 12, la Commissione di garanzia dell'attuazione della legge, con il compito di valutare l'idoneità delle misure volte ad assicurare il contemperamento dell'esercizio del diritto di sciopero con il godimento dei diritti della persona costituzionalmente tutelati, si configurava come un’autorità amministrativa indipendente.
Era composta da nove membri, scelti, su designazione dei Presidenti della Camera dei deputati e del Senato, tra esperti in materia di diritto costituzionale, di diritto del lavoro e di relazioni industriali, nominati con decreto del Presidente della Repubblica.
Forse il lettore attento si starà domandando perché si sta qui utilizzando il preterito, visto che, se è vero che qualche modifica è stata apportato all’articolo in questione, come è il caso della riduzione del numero di componenti a cinque, sostanzialmente il suo impianto è rimasto immutato.
Tuttavia, quello che è mutato è il contesto istituzionale in cui si inserisce questa norma. Di conseguenza, anche se per sommi capi, alcuni elementi di questo cambiamento vanno sottolineati. Per comprenderli è necessario tener conto che la novella di cui la l. n. 83/2000 ha introdotto una serie di requisiti che hanno proceduralizzato la proclamazione e l’esercizio del diritto di sciopero, come l’obbligo di avviare un tentativo di conciliazione, le procedure di raffreddamento e di rarefazione soggettiva e oggettiva delle azioni di autotutela [[7]]. Il risultato è quello di sbilanciare la normativa a favore dell’utenza [[8]], rendendo giuridicamente lo sciopero una ultima ratio [[9]]. Al rispetto di questo nuovo impianto sorveglia la Commissione di garanzia.
Non solo. La novella ha anche attribuito alla Commissione il potere di individuare le prestazioni indispensabili che debbono essere garantite in occasione di sciopero in due ipotesi: la prima, è quella per cui l’accordo raggiunto fra le parti non sia stato valutato idoneo dalla stessa Commissione e le parti si siano rifiutate di adeguare il contenuto alle osservazioni sollevate. La seconda ipotesi è quella in cui le parti non abbiano raggiunto nessun accordo. In questi casi, la Commissione adotta un provvedimento amministrativo, ovvero una provvisoria regolamentazione vincolante.
Tali modifiche implicano dunque il passaggio dal disegno originario, per cui la Commissione di garanzia poteva essere inquadrata fra le autorità amministrative indipendenti, ad un nuovo assetto ordinamentale per cui è una autorità amministrativa [[10]].
Inoltre, vi è un altro profilo di carattere sistematico da non sottovalutare. Come già riportato, la nomina degli esperti è di competenza del Presidente della Repubblica su designazione dei Presidenti della Camera dei deputati e del Senato. Quando la legge 146 è stata elaborata, in Italia eravamo sotto la c.d. “prima Repubblica”. In quella fase, era prassi consolidata che i due rami del Parlamento fossero presieduti uno da un rappresentante della maggioranza parlamentare che esprimeva l’Esecutivo, l’altro, da un rappresentante dell’opposizione. In tale prospettiva, la designazione dei membri dell’autorità garante doveva essere necessariamente frutto di mediazione e compromesso. Ora che le prassi sono altre, c’è il rischio di uno sbilanciamento che rispecchi le contingenze politiche immediate. Circostanza questa che non giova all’autorevolezza di un organo con compiti così fondamentali per la salute della democrazia italiana.
5. L’ordinanza di “precettazione” nella l. n. 146/1990
In merito allo specifico profilo che qui ci interessa, è necessario esaminare l’art. 8 della l. n. 146/1990, così come modificato dalla l. n. 83/2000.
Infatti, l’articolo pone, come requisito per l’emanazione dell’ordinanza, la sussistenza di “fondato pericolo di un pregiudizio grave e imminente ai diritti della persona costituzionalmente tutelati (…) conseguente all'esercizio dello sciopero o a forme di astensione collettiva di lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori”.
In altre parole, la pubblica autorità può esercitare il potere se da uno sciopero, esercitato in un dato particolare contesto, ne deriva un rischio concreto di lesione di un diritto della persona costituzionalmente garantito. Non si tratta di uno strumento di fisiologica gestione del conflitto. Anche se, come segnalato dalla dottrina, la tendenza a interpretalo in questa chiave è ricorrente [[11]], in particolare nel settore dei trasporti.
Tutto ciò non concerne né il disagio che lo sciopero può provocare all’utenza, né i costi dell’azione di lotta, né il numero dei soggetti che subiscono il disagio. Sono queste circostanze che non giustificano l’intervento amministrativo. Anzi, ad essere ancora più puntuale, tali circostanze non giustificano alcuna limitazione all’esercizio del diritto di sciopero.
Inoltre, per completezza, va ricordato che la novella del 2000 ha introdotto un art. 20-bis che richiama “per gli aspetti ivi diversamente disciplinati, quanto già previsto in materia (…) dall'articolo 2 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza”. A mio avviso, tale richiamo è un’ulteriore conferma che l’intervento legislativo è caratterizzato da uno sbilanciamento della legge verso la tutela degli utenti, con il sacrificio del diritto di sciopero. Tuttavia, nel caso che qui ci interessa, questa modifica non rileva visto che l’ordinanza di cui si dirà nel prossimo paragrafo è stata emessa sulla base dell’art. 8.
6. Il caso concreto: l’ordinanza del Ministro dei Trasporti
È in questa cornice che si inserisce l’ordinanza del Ministro del 14.11.2023 relativa allo sciopero proclamato da CGIL e UIL per il giorno 17.11.2023.
L’ordinanza in parola contiene un eterogeneo elenco di ragioni che giustificherebbe l’intervento dell’autorità governativa. Esso prende in considerazione gli effetti che lo svolgimento dello sciopero nell’arco temporale di 24 ore potrebbero produrre nei confronti dell’utenza, ma anche alcune conseguenze di carattere più generale.
In sintesi, l’ordinanza, sostiene di tenere conto del disagio per l’utenza che l’astensione provocherebbe; dell’esigenza di considerare “il grado di interconnessione tra le varie tipologie di traffico su strada ferrata, (…) comprendenti le direttrici internazionali, nonché gli assi di collegamento tra le principali città italiane, sia da linee minori che si collocano nell’ambito dei bacini regionali, ma che connettono tra loro anche le direttrici principali”; di considerare anche il “trend positivo del turismo, che torna ad essere un settore trainante per la nostra economia e che si caratterizza con una forte intensificazione dei flussi turistici in entrata e in uscita dal territorio nazionale, prevalentemente nei weekend, in aggiunta alla persistenza degli spostamenti dei lavoratori pendolari”; degli effetti che l’intensificazione del traffico stradale potrebbero produrre sulla sicurezza e sull’inquinamento atmosferico, “anche tenuto conto della sua fissazione nell’ultimo giorno lavorativo della settimana, connotata da maggiori flussi di traffico”.
A questi motivi, si aggiungono l’opinione dell’associazione datoriale ASSTRA, la quale osserva che “il comparto del trasporto pubblico locale muove circa 15 milioni di persone al giorno con inevitabili ripercussioni e danni per imprese e cittadini” e le stime di Trenitalia s.p.a., sulla cancellazione dei treni [[12]]. E dulcis in fondo, dato che lo sciopero è promosso “da Organizzazioni Sindacali altamente rappresentative nel settore dei trasporti, si prevede che la partecipazione ai richiamati scioperi sarà consistente”.
In definitiva, il provvedimento assume che siano rispettati i presupposti di legge, e quindi determina la riduzione – articolata per sottosettore: trasporto locale, marittimo, merci su rotaia, ecc. – dello sciopero indetto da CGIL e UIL.
Tale impostazione, invero un po’ logorroica, è tesa a dimostrare quello che non solo non è dimostrabile, ma neanche verosimile, ovvero che lo sciopero indetto da CGIL e UIL si sarebbe inserito in un contesto tale da provocare o aggravare una situazione dove si potesse verificare un grave e imminente pericolo ai diritti della persona costituzionalmente garantiti.
Infatti, lo sciopero provoca disagio. Esso è una sua naturale conseguenza. È intrinseco al suo essere un mezzo di autotutela. Altrimenti, dovremmo affermare – con grande sprezzo del ridicolo – che le madri e i padri costituenti non sapessero che lo sciopero possa provocare fastidi a chi lo subisce sia come controparte, ma anche come utente. Forse ritenevano che fosse in gioco qualcosa di più, qualcosa chiamata democrazia.
Analogo discorso vale per eventuali danni economici derivanti dallo sciopero. Su questo profili, è d’obbligo citare Cass. 711/1980 [[13]] e la nota distinzione fra danno alla produttività e danno alla produzione: solo la prima tipologia di pregiudizio può condurre alla qualificazione di uno sciopero – qualsiasi sciopero, e quindi non solo quello nell’ambito dei servizi essenziali – come illegittimo. Anche il danno economico è una conseguenza normale dello sciopero. Anzi, per definizione, è il potenziale danno che lo rende uno strumento atto a costringere la controparte a tener conto delle rivendicazioni dei lavoratori e delle lavoratrici.
Inoltre, si dovrebbe anche tenere presente Corte Cost. n. 317/1992, laddove la Consulta rigetta la questione di incostituzionalità sollevata in relazione alla l. n. 146/1990. La Corte, infatti, ribadisce che quest’ultima si riferisce “esclusivamente ai rapporti tra l'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici ed i diritti della persona propri degli utenti di tali servizi o dei cittadini in generale. Esula invece dagli scopi e dal contenuto della legge in esame la disciplina dei rapporti tra l'esercizio del diritto di sciopero e gli interessi dell'impresa in quanto tale, pur se costituzionalmente tutelati”.
Se non sono tutelati dalla legge nemmeno gli interessi economici-patrimoniali delle imprese che operano nel settore dei servizi essenziali, come si può conferire un valore giuridico al “trend positivo del turismo”, tale da limitare l’esercizio del diritto di sciopero costituzionalmente garantito? Lo sciopero è uno strumento di parte. La Costituzione, come è noto, è stata elaborata da un’eterogenea Assemblea ove, però, alcuni elementi comuni hanno costituito una solida base per recidere i legami con l’ideologia corporativo-fascista che espressamente disprezzava l’ordine democratico. Fra questi, il netto superamento di assiomi come quello dell’esigenza di tutelare l’interesse superiore della nazione, in conseguenza del quale – coerentemente – lo sciopero era penalmente punito.
Ancora, quando negli anni 2007-2008, la CGUE con le note sentenze Laval, Viking e Rüffert ha affermato l’equivalenza, se non la primazia, delle libertà economiche nei confronti del diritto di sciopero, le critiche della dottrina sono state particolarmente severe, richiamando il valore costituzionale del riconoscimento del diritto al conflitto [[14]].
7. Considerazioni conclusive
La concezione che l’attuale Ministro sembra avere dello sciopero non corrisponde all’ordinamento giuridico fondato sulla Costituzione. In essa l’Assemblea costituente ha incluso il diritto al conflitto, consapevole che la sfida per una società complessa, necessariamente attraversata da interessi parziali, è quello di trovare principi e regole comuni che garantiscano il pluralismo sociale, politico, economico e ideologico. Tali regole comportano una mediazione fra le parti, e non è detto che essa non comporti disagi e sacrifici ai diversi componenti della società.
Certamente, si potrebbe obiettare che, sebbene il conflitto abbia un valore positivo, andrebbe comunque fatto ogni sforzo per evitare lo sciopero, che rappresenta indubbiamente un danno per tutti, in primo luogo per le stesse lavoratrici e gli stessi lavoratori che lo praticano. Tuttavia, quello che va criticato è l’azione repressiva, non certamente la creazione di canali che riescano a governare il conflitto.
In altri tempi, quando la concertazione sociale spiegava tutte le sue potenzialità – ben inteso, all’interno del sistema di relazioni industriali italiano – chi scrive aveva attribuito la scarsa attenzione del sindacalismo confederale alla difesa del valore positivo del conflitto proprio all’opzione per il metodo concertativo [[15]].
A questi rilievi aggiungo oggi che, nonostante la critica mi sembri ancora fondata, quel periodo, in relazione ai giorni nostri, era comunque caratterizzato da una disponibilità governativa a negoziare con le organizzazioni sindacali. Si formavano tavoli trilaterali e tutte le parti erano impegnate a trattare.
Una dimensione operativa-istituzionale molto diversa da quanto praticato oggi. Quest’affermazione è meramente descrittiva. È perfettamente legittima la scelta dell’attuale Governo di non dare seguito a percorsi analoghi. Quello che non è legittimo è la reazione autoritaria alla posizione assunta da parte di CGIL e UIL come risposta alla politica sindacale/lavoristica praticata dall’Esecutivo. Non è legittimo pretendere di piegare uno strumento concepito come garanzia di diritti fondamentali all’ordinaria gestione del conflitto. Tanto più che lo sciopero in questione era stato proclamato per protestare contro le scelte politico-economico dello stesso Governo.
[1] Art. n. 1475, comma 4 d.lgs. n. 66/2010; v. anche C. Cost. n. 449/1999.
[2] v. P. Curzio, Autonomia collettiva e sciopero nei servizi essenziali, Bari, Cacucci, 1992, 27 ss.
[3] Nelle parole della sentenza n. 222/1976: “La interdipendenza e la correlazione tra i servizi costituiscono l’espressione di un fatto organizzatorio caratteristico di ogni tipo di comunità, da cui, tuttavia, non può trarsi la conclusione che tutti i servizi abbiano uguale grado di importanza e di indispensabilità. Certo, tutti sono necessari e tra loro in qualche modo complementari, quando la complessa attività cui dà luogo la vita della comunità si svolge in regime di normalità.
Ma, quando ragioni di necessità, impongono di ridurre, eventualmente anche al minimo, l'appagamento delle esigenze della collettività o di una più ristretta comunità sociale, è sempre possibile individuare tra i servizi quelli che debbono conservare la necessaria efficienza - e che sono poi quelli essenziali - e quelli suscettibili di essere sospesi o ridotti”.
[4] P. Curzio, op. cit., 34 ss.
[5] Per una ricostruzione dell’iter si v., fra tanti, M. Rusciano – G. Santoro Passarelli (a cura di), Lo sciopero nei servizi essenziali, Giuffrè, Milano, 1991; U. Romagnoli – M. V. Ballestrero, Norme sull’esercizio del diritto di sciopero nei servi pubblici essenziali,Zanichelli – Foro It., Bologna – Roma, 1994.
[6] Basti ricordare, il IX Congresso AIDLLASS, tenutosi a Fiuggi, 8-10 aprile 1988: gli atti sono raccolti in Lo sciopero: disciplina convenzionale e autoregolamentazione nel settore privato e pubblico, Giuffrè, Milano, 1989.
[7] La l. n.146/1990 è stata novellata nel 2000, sia a causa delle sentenze della Corte costituzionale nn. 114/1994 e 171/1996 concernenti l’astensione collettiva dei lavoratori autonomi operanti nell’ambito dei servizi essenziali, sia perché i primi 10 anni di vigenza avevano messo in luce alcune questioni irrisolte, come quid iuris nel caso in cui non ci fosse un accordo sulle prestazioni essenziali. Comunque, per il profilo che stiamo trattando, le modifiche sono marginali e non attengono ai nodi che qui ci interessano. Per un approfondimento v. M. D’Onghia – M. Ricci (a cura di), Lo sciopero nei servizi essenziali, Giuffrè, Milano, 2003
[8] La novella si caratterizza per un maggiore tasso di eteronomia: G. Ghezzi, La Commissione di garanzia nella legge di riforma tra profili funzionali e dinamica delle istituzioni, in ADL 1, 2001, p.2. V. anche G. Orlandini, Sciopero e servizi pubblici essenziali nel processo di integrazione europea, Giappichelli, Torino, 2003, p. 102; E. Ales, Sciopero ultima ratio e principio di libertà sindacale: spunti di riflessioni sulle conseguenze dell’introduzione delle procedure obbligatorie di raffreddamento e conciliazione nei servizi essenziali in Rappresentanza, rappresentatività, sindacato in azienda e altri studi. Studi in onore di Mario Grandi, Cedam, Padova, 2005, p.3.
[9] Sebbene possa sembrare superfluo ribadirlo, è opportuno tener presente che, dal punto di vista materiale, per ogni singola lavoratrice o singolo lavoratore, lo sciopero è sempre ultima ratio, poiché comporta il sacrificio della perdita della retribuzione.
[10] Sulle difficoltà di inquadrare la Commissione di garanzia, v. in una prospettiva giuslavoristica V. Pasquarella, La regolazione amministrativa nel diritto del lavoro tra Authorities e Agencies, Cacucci, Bari, 2018; per una valutazione dell’originario operato della Commissione, si v., volendo, M. McBritton, Sciopero e diritti degli utenti, F. Angeli, Milano, 1995.
[11] M. D’Onghia, Precettazione e sciopero: il rapporto con le tradizionali ordinanze di necessità e urgenze in M. D’Onghia – M. Ricci (a cura di), Lo sciopero nei servizi essenziali, cit. p. 253 ss., a cui si rinvia anche per l’ulteriore bibliografia.
[12] La stima è che “lo sciopero può determinare fino al 25% delle cancellazioni per i treni Freccia, 20% intercity e 15% per i treni internazionali, nonché tra il 20% ed il 40% dei treni regionali, e che sono presumibili effetti anche per il giorno seguente lo sciopero, visti i turni degli equipaggi e del materiale rotabile, con possibili cancellazioni e forti ritardi di circa il 15% dell’offerta in fascia mattutina fino alle ore 12.00.”
[13] V. M. G. Garofalo, Forme anomale di sciopero, in digesto disc. Priv. – sez. comm. V.VI, p. 278. Ora anche in M. Barbieri – R. Voza (a cura di), Gianni Garofalo. Il pane del sapere, Ediesse, Roma, 2013.
[14] V. U. Carabelli, Europa dei mercati e conflitto sociale, Cacucci, Bari, 2009; A. Vimercati (a cura di), Il conflitto sbilanciato: libertà economiche e autonomia collettiva tra ordinamento comunitario e ordinamenti nazionali, Cacucci, Bari, 2009; M. Rusciano, Diritto di sciopero e assetto costituzionale, in RIDL,2009, I, p. 49 ss.
[15] V. M. McBritton, Lo sciopero nei servizi pubblici essenziali: tendenze giurisprudenziali, in Serta iuridica – Scritti dedicati dalla Facoltà di Giurisprudenza a Francesco Grelle, ESI, 2011, I, p. 365 ss. Sul metodo concertativo v. L. Bellardi, Concertazione e contrattazione. Soggetti, poteri e dinamiche regolatrici, Cacucci, Bari, 1999.
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È un bel dire che gli uomini si differenziano dagli altri animali per le capacità logiche.
Molti e importanti studiosi attribuiscono anche ai nostri parenti stretti la facoltà di apprendere e generalizzare sulla base dell’esperienza. Il fatto è che l’uomo intanto è tale in quanto non solo apprende, codifica ed elabora, ma anche conserva, modifica ed è in grado di recuperare pure quello che pensava di aver dimenticato.
Grande miracolo la memoria! Se uno riflette, si rende conto che l’uomo è l’unico essere a potersi definire historicus, proprio perché solo lui, e non gli altri animali, è in grado di recuperare il suo passato, di attingerlo, aprendo quello scrigno con chiavi del tutto originali che ne rendono possibile la lettura.
È necessario, infatti, distinguere la memoria individuale da quella collettiva.
Sul piano soggettivo essa è alimentata da esperienze e stati d’animo, da rappresentazioni acquisite o in via di acquisizione; sul piano sociale la memoria collettiva diventa necessariamente storia.
Il pestaggio e la morte di G. Matteotti sono storia dolorosa e presente come non mai nel vissuto del nostro Paese.
Fin da giovane egli aveva aderito al socialismo e nel 1922, espulso dal partito socialista italiano, con i riformisti ancora vicini al pensiero di Filippo Turati, contribuì alla fondazione del partito socialista unitario e ne divenne segretario. Nel periodo della sua formazione culturale e politica aveva sicuramente individuato i limiti delle costruzioni teoriche del socialismo ottocentesco e condiviso la critica marxiana alle astrattezze ideologiche di quei socialisti utopisti del tutto incapaci di un’analisi scientifica delle condizioni reali delle società esistenti e perciò incapaci di individuare gli strumenti idonei a modificarle.
Già nel 1921 Matteotti aveva pubblicato una “Inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia” pienamente consapevole che l’ordine e la ripresa economica e sociale dell’Italia dopo la guerra non potevano realizzarsi con l’arma dello squadrismo e della repressione di ogni forma di dissenso. Sicuramente una risposta a tutti coloro che giustificavano squadrismo e repressione dopo il biennio rosso che tra il 1919 e il 1920 aveva coinvolto nella lotta politica masse di operai e contadini fino all’occupazione delle fabbriche dall’agosto al settembre del 1920 che ne segnò, insieme, l’apice e la fallimentare conclusione. Tanto che Giorgio Amendola nella sua Intervista sull’antifascismo comparsa nel 1976 definisce biennio rosso-nero quel periodo perché in esso si ebbe un processo di radicalizzazione a sinistra e di corrispondente reazione a destra.
Certo, è ormai opinione quasi del tutto condivisa che non vi era mai stato il pericolo reale di una rivoluzione proletaria: nessuno l’aveva promessa e nessun partito avrebbe potuto guidarla.
La classe operaia ne uscì sconfitta e le classi padronali avevano ricevuto “la scossa di chi è stato rasentato dalla morte”.
Così il fascismo diventò un partito e il partito dell’ordine che, per dirla con Benedetto Croce, una volta “normalizzato” avrebbe garantito il ritorno ad un forte e rinnovato stato liberale. Il grande filosofo dei “distinti” mantenne una posizione di attesa e di fiducia anche quando nel 1923 fu votata la legge Acerbo che attribuiva i due terzi dei seggi alla lista di maggioranza relativa e in vista delle elezioni del maggio 1924 nacque il Listone, ovvero un’alleanza larga che si poneva al di sopra dei partiti: ne fecero parte liberali come Salandra, nazionalisti, monarchici, ex popolari.
I fascisti ottennero il 65% dei voti e tra le opposizioni solo i popolari ebbero una tenuta elettorale.
Il 30 maggio G. Matteotti denuncia i brogli elettorali e nel suo famoso discorso (che i giovani dovrebbero leggere e commentare a scuola e in famiglia), chiede formalmente alla Camera di non convalidare le elezioni avvenute.
Il 10 giugno viene rapito, pestato a sangue e ucciso da cinque squadristi al comando di Amerigo Dumini.
Sepolto in un bosco a pochi chilometri da Roma, il corpo fu ritrovato circa due mesi dopo il 16 agosto 1924.
La risposta delle opposizioni all’assassinio di Matteotti fu l’abbandono dei lavori parlamentari, la cosiddetta secessione dell’Aventino, con la speranza che la protesta potesse suscitare la reazione morale del Paese. Gramsci e i comunisti ritennero del tutto improbabile sul piano politico una protesta morale senza la mobilitazione delle masse.
Non ci fu né l’una né l’altra e col discorso del 3 gennaio del 1925 il fascismo, per dirla con Renzo de Felice, diventò un vero e proprio regime.
Tutto il percorso verso il consolidamento del regime con le leggi fascistissime, parte da quel pestaggio, da quel supplizio, da quel corpo sfigurato e restituito ormai decomposto come un Cristo privo di sudario.
Nell’attuale temperie storica è possibile che si instaurino sistemi autoritari attraverso il pestaggio, la repressione violenta del dissenso, perfino l’assassinio politico?
È davvero morta la bella utopia, quella che ogni cittadino della polis deve coltivare per trasformare e migliorare il mondo in cui vive?
I sistemi democratici sono in grado di arginare la spinta delle destre autoritarie?
Ritorna la lezione di K. Popper contenuta ne “La società aperta e i suoi nemici”, un testo scritto tra il 1944/ 45 mai come oggi tanto attuale proprio perché l’autore rifiutava gli schemi rigidi, i sistemi pre-costruiti, in una parola gli archetipi. Quelli che si sono nutriti di tali pensieri guardano con dolore alla società contemporanea aperta solo in apparenza, un mondo in cui si afferma la legge del più forte come se fosse la più naturale delle soluzioni, in cui la sopraffazione e l’ingiustizia producono guerre e lutti senza fine. H. Marcuse negli anni ’60 rifletteva sulla “fine dell’utopia”. Si trattava. allora, per il filosofo francofortese di dare forza e concretezza ai movimenti giovanili.
Oggi, forse, si tratta di trasformare in azione politica concreta le istanze che provengono non solo dai giovani consapevoli, ma da tutti quei movimenti che pongono al centro delle rivendicazioni i problemi reali del sottosviluppo, delle emarginazioni, delle ingiustizie sociali.
I sistemi democratici non nascono una volta e per sempre, vanno costruiti e ricostruiti ogni giorno.
E ciò vale ancor più quando assistiamo a manifestazioni di intolleranza e di conflittualità tra istituzioni e società civile.
M. Weber ne “La politica come professione” scrive che c’è una differenza assoluta tra l’agire secondo convinzione e l’agire secondo responsabilità. Nel primo caso chi opera si preoccupa appunto dei principi in base ai quali agisce e non si cura allo stesso modo delle conseguenze del suo agire; nel secondo caso chi agisce guarda contemporaneamente agli effetti prevedibili dell’azione e se ne assume la responsabilità. Dunque i politici in modo particolare dovrebbero informare le proprie scelte e le azioni conseguenti ai principi costituzionali e all’etica della responsabilità. Non che sia pacifica e semplice questa sintesi.
S. Hampshire in “Non c’è giustizia senza conflitto” partendo dall’assunto di Eraclito: "[…] occorre sapere che la giustizia è conflitto[…]” sostiene che la conflittualità, cioè l’ambivalenza è propria dell’anima umana ed è propria della città. Posto che la giustizia è l’armonia delle parti e degli elementi ed essa è imposta dalla ragione, si tratta di vedere come operativamente si possa superare il conflitto. Il filosofo invoca per il superamento di ogni controversia procedure concordate e istituzionalizzate che sostituiscano la forza bruta, il dominio, la tirannia. Secondo il filosofo analitico inglese il problema irrisolto del nostro tempo è la relazione tra due tipi di società: da un lato la società e i governi consapevolmente tradizionali in cui preti, rabbini, imam o mullah ed altri esperti del volere divino mantengono e impongono un unico pensiero e le società e i governi democratici che permettono la pluralità dei pensieri e dei punti di vista.
Ora proprio i paesi democratici possono pretendere che debba esistere un’unica concezione “buona” dei valori, cioè la propria?
L’articolo 17 della nostra Costituzione recita che i cittadini hanno il diritto di riunirsi pacificamente e senza armi; l’articolo 21 aggiunge che tutti i cittadini hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
In una democrazia matura non sarebbe dovuto accadere quello che è accaduto ultimamente nelle strade di Pisa e Firenze dove giovani liceali a volto scoperto, con lo zaino in spalla e le belle utopie nel cuore manifestavano liberamente, sicuri di essere protetti e non barbaramente manganellati. È intervenuto, sdegnato, il Presidente della Repubblica rivolgendosi al Ministro degli Interni: "con i ragazzi i manganelli esprimono un fallimento”. E il Ministro: "cortei non autorizzati. Abbiamo difeso il Consolato Usa e la Sinagoga".
Da chi? Si domanda il cittadino italiano, da chi dobbiamo difenderci?
Dalla partecipazione alla vita pubblica, dall’entusiasmo in parte ritrovato dei nostri giovani, dobbiamo forse difenderci dal dissenso?
Il pestaggio e il sangue sul viso di quei ragazzi sono il vecchio-nuovo segno del nostro tempo?
Il fenomeno degli infortuni sul lavoro è da lungo tempo un’emergenza, silente ma drammatica, del nostro Paese.
Secondo dati pubblicati dall’INAIL, negli ultimi cinque anni ci sono stati in media in Italia circa 645.000 infortuni sul lavoro ogni anno.
Di questi, 1072 sono infortuni mortali. Il nostro paese paga un tributo di oltre mille morti l’anno sul luogo di lavoro. Quasi 50 l’anno (217 nei cinque anni) degli infortuni mortali riguarda ultrasettantenni.
La nostra rivista inizia con questo articolo una serie di riflessioni che riguarderanno gli aspetti più problematici della attuale normativa penale antinfortunistica e alcune linee di tendenza della legislazione più recente, oltre a dei fenomeni attuali – quali il caporalato e la precarietà del posto di lavoro – che sembrano avere alterato il sinallagma del rapporto di lavoro in senso (ulteriormente) sfavorevole al lavoratore con conseguenti ricadute sulla sicurezza del luogo di lavoro.
Si esamineranno le problematiche specifiche delle indagini in questo delicato settore ed alcuni dei processi più sintomatici, l’importanza della prevenzione e la particolare declinazione della tutela della salute dei lavoratori nella Pubblica amministrazione, la tematica della corretta individuazione del garante del rischio lavorativo e la sicurezza del lavoro nelle società cooperative.
La legislazione in materia antinfortunistica: uno sguardo alle recenti modifiche ed all’efficacia complessiva del sistema
di Maria Laura Paesano
Sommario: 1. I numeri della prevenzione e sicurezza. – 2. L’impianto normativo della prevenzione e sicurezza. – 3. Le recenti modifiche al TU sulla Sicurezza. Edifici scolastici e studenti in alternanza scuola-lavoro. – 4. Segue - Lavoratori autonomi e fornitori di macchinari. Datore di lavoro. Medico competente. - 5. La resa complessiva del sistema di tutele.
1. I numeri della prevenzione e sicurezza.
Sempre di grande impatto è la lettura annuale dei numeri degli incidenti sul lavoro, delle morti e delle malattie professionali.
Le denunce di infortunio presentate all’Inail entro il mese di agosto 2023 sono state 383.242, in calo rispetto alle 484.561 dei primi otto mesi del 2022 (-20,9%), in aumento rispetto alle 349.449 del 2021 (+9,7%) e alle 322.132 del 2020 (+19,0%), e in diminuzione rispetto alle 416.894 del 2019 (-8,1%).
Quelle con esito mortale presentate nei primi otto mesi del 2023 sono state 657, ossia 20 in meno rispetto alle 677 registrate nel periodo gennaio-agosto 2022, 115 in meno rispetto al 2021, 166 in meno rispetto al 2020 e 28 in meno rispetto al 2019[1].
Se si entra nel dettaglio statistico, il calo rilevato nel confronto tra i primi otto mesi del 2022 e il 2023 è legato solo alla componente femminile, i cui casi mortali denunciati sono passati da 69 a 48, mentre per quella maschile si registra un aumento, da 608 a 609. In calo risultano le denunce dei lavoratori italiani (da 549 a 531) e dei comunitari (da 37 a 32), in aumento quelle degli extracomunitari (da 91 a 94).
Dall’analisi per classi di età, si registrano aumenti tra gli under 25 (da 32 a 49 casi) e tra i 60-74enni (da 137 a 147) e diminuzioni nella fascia 30-59 anni (da 462 a 419).
Da questo quadro emerge con chiarezza come, nonostante qualche riduzione complessiva, le categorie più a rischio infortuni restino - anzi siano le uniche ad aumentare - quelle dei lavoratori extracomunitari, dei lavoratori molto giovani e dei lavoratori molto anziani.
Aumentano invece drasticamente per tutte le categorie le denunce di malattia professionale protocollate dall’Inail: nei primi otto mesi del 2023 sono state 48.514, oltre novemila in più rispetto allo stesso periodo del 2022 (+23,2%). L’incremento è del 32,9% rispetto al 2021, del 74,8% sul 2020 e del 18,2% rispetto 2019[2].
Per quanto si registrino oscillazioni talvolta positive, i risultati complessivi assicurati dal sistema di prevenzione e tutele sono ben lontani dall’essere soddisfacenti in un Paese che ha una legislazione nazionale adeguata agli standard europei e saperi avanzati in materia di sicurezza sul lavoro.
A cadenza periodica, spesso in coincidenza con incidenti o vicende che scuotono l’opinione pubblica, il legislatore interviene a disciplinare aspetti specifici e settoriali che vanno ad incidere sul sistema di prevenzione e sicurezza garantito dal TU in materia di sicurezza, nel tentativo di rafforzarne l’effetto complessivo.
Infatti “il vero nodo” nei percorsi di incremento della tutela della salute dei lavoratori sui luoghi di lavoro è nella garanzia di effettività di quelle tutele, ossia sul piano dell’efficacia più su quello della astratta previsione normativa.
Il fulcro del sistema di tutela approntato dal legislatore risiede nella validità del modello di organizzazione adottato che diviene anche elemento essenziale ai fini della individuazione dei soggetti passivi (lavoratori) ed attivi (datori di lavoro) dell’obbligo di sicurezza [3].
2. L’impianto normativo della prevenzione e sicurezza.
Nell’impianto normativo del TU sulla Sicurezza D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81 e ss.modd, il primo soggetto al quale spetta una posizione originaria di garanzia in materia di prevenzione e sicurezza è il datore di lavoro secondo un’accezione non solo formale, che lo identifica nel titolare del rapporto di lavoro, ma soprattutto in termini di effettività[4] ossia quel soggetto che, secondo il tipo e l'assetto dell'organizzazione (anche nelle pubbliche amministrazioni), ha la responsabilità dell'organizzazione stessa o dell'unità produttiva, in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa (criterio funzionale o sostanziale).
Il datore di lavoro resta la figura centrale di riferimento della tutela della sicurezza secondo un’accezione di natura contrattuale che trova la sua origine e, al contempo, la sua funzione di norma di chiusura generale, nell’art. 2087 c.c., interpretata come obbligo accessorio di protezione discendente dai doveri generali di correttezza e buona fede[5].
Ma la prospettiva a cui si riferisce il TU è quella di un datore di lavoro organizzato, che gestisce, è inserito e si avvale a sua volta di una rete di collaboratori e di un sistema di valutazioni, controlli e vigilanza che, una volta validamente approntato, non solo dovrebbe scongiurare il rischio per l’incolumità e salute dei lavoratori ma dovrebbe anche essere idoneo a tenerlo indenne dalle responsabilità conseguenti agli eventi lesivi o nocivi, in primis di carattere penale.
Il datore di lavoro previsto dal TU, quindi, non è soltanto tenuto al rispetto delle norme sulla prevenzione e sulla sicurezza ma deve anche dotarsi di un apparato organizzativo per la gestione dell’attività, i cui caratteri sono stabiliti a monte dal legislatore in maniera rigida ma che possono anzi debbono variare a seconda della complessità della struttura di riferimento e del tipo di attività o lavorazioni che si svolgono nel luogo di lavoro.
Compiti fondamentali del datore di lavoro, come tali non delegabili secondo l’impianto normativo (art. 17), sono la valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori con la conseguente elaborazione del relativo documento e la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione una volta che sia stato obbligatoriamente istituito.
Il datore di lavoro, questa volta anche tramite l’eventuale delegato alla sicurezza, deve fornire ai lavoratori una preventiva e adeguata formazione ed una completa informazione su tutti i rischi per la salute e sicurezza sul lavoro connessi all’attività dell’impresa.
Il modello di organizzazione e di gestione idoneo deve essere adottato ed efficacemente attuato assicurando un sistema aziendale per l'adempimento di tutti gli obblighi giuridici relativi a: attrezzature, impianti, luoghi di lavoro, agenti chimici, fisici e biologici; valutazione dei rischi e di predisposizione delle misure di prevenzione e protezione; emergenze, primo soccorso, gestione degli appalti, etc.; sorveglianza sanitaria; informazione e formazione dei lavoratori; rispetto delle procedure e delle istruzioni di lavoro; acquisizione di documentazioni e certificazioni obbligatorie di legge; verifiche dell'applicazione e dell'efficacia delle procedure adottate. Il modello organizzativo deve altresì prevedere un idoneo sistema di controllo sulla sua attuazione.
La ricostruzione dell’organizzazione, delle concrete attività che si svolgono in un luogo di lavoro, dei rischi che esse comportano, dello studio preventivo e delle ricadute sull’assetto complessivo delle competenze, dell’assolvimento degli obblighi di formazione ed informazione, sono aspetti imprescindibili di qualunque istruttoria che, principalmente in ambito penale, intenda risalire ai concreti ed effettivi comportamenti (per lo più) colposi del soggetto a cui essi siano riconducibili per rimanere ancorati al principio costituzionale della responsabilità personale.
Il datore di lavoro, peraltro, non ha discrezionalità nella gestione della sicurezza sul lavoro secondo modelli organizzativi che gli siano più congeniali: gli articoli 28 e 29 del TU gli impongono di procedere preventivamente alla individuazione e valutazione di tutti i rischi aziendali, che verranno poi riprodotti nella redazione del “Documento di valutazione”, che contiene le misure di prevenzione che è necessario adottare sulla base dei rischi rilevati.
La redazione del documento di valutazione dei rischi e l'adozione di misure di prevenzione non escludono peraltro la responsabilità del datore di lavoro quando, per un errore nell'analisi dei rischi o nell'identificazione di misure adeguate, non sia stata adottata idonea misura di prevenzione[6].
Recentemente, il D.L. 21 ottobre 2021, n. 146, convertito con modificazioni dalla L. 17 dicembre 2021, n. 215, dimostrando come sia stata compresa la fondamentale importanza per la prevenzione della effettiva conoscenza, “sul campo” delle condizioni di lavoro e della sicurezza, ha rafforzato il ruolo ed i poteri del “preposto” attribuendogli facoltà di segnalazione e financo di interruzione temporanea delle attività nel caso di mancato rispetto o di ravvisato rischio per l’incolumità dei lavoratori.
Il TU Sicurezza, oltre ad avere individuato i soggetti originariamente provvisti di una posizione di garanzia per così dire assimilabile a quella datoriale (dirigente e preposto), ha anche enucleato altri protagonisti della prevenzione e sicurezza.
Uno dei pilastri del sistema della sicurezza è costituito infatti dall’istituzione del servizio di prevenzione e protezione, interno o esterno all’azienda, che ha funzioni di consulenza del datore di lavoro, il cui responsabile è in generale esonerato da responsabilità diretta a meno che non emerga che la falla al sistema di sicurezza sia da ricondurre ad un suo difetto di valutazione e di comunicazione[7].
Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione ambientale, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e, ove previsto, il medico competente, hanno quindi tutti funzione di collaborazione con il datore di lavoro, per garantire un sistema articolato e composto di tutele.
Recenti modifiche normative al TU sono intervenute nell’anno appena passato.
Tra le disposizioni di maggior interesse vi sono quelle che integrano i doveri previsti a carico del datore di lavoro, attraverso l’inserimento di alcuni nuovi adempimenti: nominare il medico competente (per il quale sono stati introdotti, a sua volta, nuovi obblighi); provvedere alla propria formazione ed addestramento specifico ai fini dell'utilizzo di attrezzature che richiedono conoscenze particolari. Ancora, sono stabiliti obblighi di sicurezza a carico del noleggiatore di macchinari. Infine, sono inserite norme in materia di sicurezza degli edifici scolastici e di sicurezza per gli studenti che siano in attività di alternanza scuola-lavoro, queste ultime individuate come risposta alle recentissime vicende che hanno annoverato fra i morti sul lavoro anche giovanissimi studenti.
3. Le recenti modifiche al TU sulla Sicurezza. Edifici scolastici e studenti in alternanza scuola-lavoro.
L’art. 14 del D.L. 4 maggio 2023, n. 48 “Decreto Lavoro”, convertito con modificazioni con legge 3 luglio 2023, n. 85 (GU 3 luglio 2023, n. 153), interviene direttamente su alcune norme del D.Lgs. n. 81/2008 e ss.modd.
Si tratta di un intervento legislativo che non ha nessuna pretesa di organicità e mira a correggere alcuni profili specifici della sicurezza.
Per quanto concerne la sicurezza degli edifici scolastici, l’art. 14, D.L. n. 48/2023, nel modificare l’art. 18, D.Lgs. n. 81/2008 e ss.modd., ha inserito il comma 3.3, che dispone che gli obblighi di sicurezza – che sono già previsti a carico delle amministrazioni tenute alla fornitura e alla manutenzione degli edifici scolastici statali - si intendono assolti con la valutazione congiunta dei rischi connessi a tali edifici e con l’individuazione delle misure necessarie a prevenirli di cui al precedente comma 3.2, alla quale sia seguita la programmazione degli interventi necessari nel limite delle risorse disponibili.
Un correttivo che appare più volto ad esonerare e liminare le responsabilità che ad aumentare la sicurezza delle strutture scolastiche.
Sembra di poter dire, infatti, che l’adempimento degli obblighi imposti da parte delle amministrazioni che hanno redatto la valutazione congiunta, individuato le misure e programmato gli interventi nel limite delle risorse, ossia “a costo zero”, non dia alcuna certezza che quanto sia necessario per la sicurezza delle scuole venga effettivamente e tempestivamente realizzato.
L’efficacia della tutela non potrebbe che basarsi, al contrario, su un investimento di risorse specificamente finalizzate a rendere effettivi e pronti gli interventi strutturali che si dovessero rendere necessari.
Diversa è la questione delle tutele approntate per gli studenti in quanto inseriti in percorsi di scuola-lavoro a partire dal dato che, in questo caso, sono previsti nuovi stanziamenti economici.
L’art. 17, D.L. n. 48/2023 istituisce un Fondo per i familiari degli studenti vittime di infortuni in occasione delle attività formative, al fine di assicurare un contributo economico ai familiari degli studenti delle scuole o istituti di istruzione di ogni ordine e grado, anche privati, e delle Università, deceduti a seguito di infortuni occorsi, successivamente al 1° gennaio 2018, durante le attività formative. La dotazione del Fondo sarà pari a 10 milioni di euro per l’anno 2023 e 2 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2024.
Lo stesso art. 17 interviene a revisionare, integrandola, la normativa vigente sui percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento (PCTO), con obiettivi di maggiore coerenza dell’offerta formativa rispetto all’indirizzo scolastico scelto dallo studente, di migliore informazione sui dispositivi di sicurezza adottati e sulle specifiche misure di prevenzione necessarie, anche per la identificazione immediata dello studente e di maggiore trasparenza e conoscibilità dei PCTO e dei percorsi formativi da svolgersi presso le imprese che aderiscono ai progetti di inserimento scuola-lavoro. Il registro nazionale per l’alternanza scuola-lavoro, istituito presso le Camere di commercio, e la piattaforma dell’alternanza scuola-lavoro, istituita presso il Ministero dell’istruzione e del merito, ridenominata “Piattaforma per i percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento”, dovranno assicurare, infatti, l’interazione e lo scambio di informazioni e di dati per l’individuazione degli enti e delle imprese, le modalità di svolgimento dei percorsi lavorativi e formativi, i periodi di tempo previsti, il numero massimo di studenti occupabili, etc.
Resta, sotto il profilo della sicurezza, il grande vulnus della estemporaneità e velocità della formazione, dell’inserimento necessariamente precario e non strutturato, di un duplice ruolo del soggetto destinato alle attività che pare difficilmente conciliabile con quella assunzione di responsabilità, anche in proprio, del lavoratore che informa il sistema generale della sicurezza come previsto nel TU in funzione della organizzazione complessiva delle attività che si svolgono all’interno di un determinato luogo di lavoro[8].
4. Segue - Lavoratori autonomi e fornitori di macchinari. Datore di lavoro. Medico competente.
Anche per i lavoratori autonomi sono state introdotte nuove norme in materia di sicurezza con l’intento di avvicinare sempre più la prevenzione per queste categorie che si “auto organizzano” a quella dei lavoratori etero organizzati. In base all’art. 21 del TU Sicurezza su di essi gravavano già due specifici obblighi di sicurezza, ossia l’utilizzo di attrezzature idonee e conformi alle prescrizioni in materia di sicurezza e la dotazione ed impiego regolare dei dispositivi di protezione individuale.
Al fine di prevenire gli infortuni nei cantieri temporanei e mobili e soprattutto nei lavori in quota, è stato ora inserito, con l’art. 14 del D.L. n. 48/2023, l’obbligo di utilizzare idonee opere provvisionali quando si lavora nei cantieri edili e nei lavori in quota, ovunque essi si svolgano.
Questo specifico obbligo di sicurezza è attratto nell’orbita del penalmente rilevante in quanto la sua violazione ha come sanzione l’arresto fino a un mese o l’ammenda da 245,70 a 737,10 euro.
L’art. 72, comma 3 secondo periodo, a proposito degli obblighi già a carico dei fornitori (venditori, noleggiatori o concessionari in uso o locazione finanziaria), di macchinari e attrezzature, impone loro che d’ora in avanti dovranno acquisire e conservare agli atti, per tutta la durata del noleggio o della concessione in uso, una dichiarazione autocertificativa del soggetto che le riceve, che attesti l’avvenuta formazione e addestramento specifico, erogati conformemente alle disposizioni del TU.
La violazione di tali disposizioni costituisce illecito amministrativo, fermo restando che l’eventuale falsità della autodichiarazione integra il reato di cui all’art. 76 DPR n.445/2000.
Con riferimento agli obblighi del datore di lavoro che opera personalmente su attrezzature di lavoro che richiedono conoscenze particolari (art. 71, comma 7), l’art. 14, D.L. n. 48/2023 aggiunge il comma 4-bis all’art. 73, D.Lgs. n. 81/2008 e ss.modd. Anche il datore di lavoro, se fa uso di tali attrezzature per svolgere attività lavorativa, dovrà provvedere alla propria formazione e al proprio addestramento specifico, al fine di garantire l’utilizzo delle stesse in modo idoneo e sicuro, anche ottenendo le eventuali necessarie abilitazioni (es. “patentino”). In caso contrario, verrà penalmente sanzionato (con l’aggiunta fatta all’art. 87, comma 2, lett. c) con l’arresto da tre a sei mesi o con l’ammenda da 3.071,27 a 7.862,44 euro.
L’art. 15, D.L. n. 48/2023 dispone infine che, allo scopo di orientare l’azione ispettiva nei confronti delle imprese che evidenziano fattori di rischio in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, di lavoro irregolare ovvero di evasione od omissione contributiva, nonché di poter disporre con immediatezza di tutti gli elementi utili alla predisposizione e definizione delle pratiche ispettive, gli enti pubblici e privati condividano gratuitamente, anche attraverso cooperazione applicativa, le informazioni di cui dispongono con l’Ispettorato Nazionale del Lavoro e le rendano altresì disponibili alla Guardia di Finanza.
L’articolo 14 comma 1, lettera a), amplia infine casi in cui il datore di lavoro e il dirigente sono obbligati alla nomina del medico competente in materia di sicurezza dei lavoratori; si introduce infatti l’ipotesi in cui la richiesta della nomina avvenga da parte dello stesso documento di valutazione dei rischi, fattispecie che si aggiunge alle ipotesi in cui essa sia richiesta dalla disciplina la sorveglianza sanitaria (la quale presuppone la nomina del medico). La violazione dell’obbligo in oggetto rientra nell’ambito delle sanzioni penali di cui all’articolo 55, comma 5, lettera d), del D.Lgs. n. 81 del 2008 e s.modd. - sanzioni costituite dall'arresto da due a quattro mesi o dall'ammenda da 1.691,99 euro a 6.767,95 euro.
La lettera c) integra la disciplina degli obblighi del medico competente, inserendo norme inerenti alla cartella sanitaria e di rischio rilasciata al lavoratore al momento di risoluzione del precedente rapporto di lavoro e all’esigenza di sostituzione provvisoria del medesimo medico.
5. La resa complessiva del sistema di tutele.
L’approccio al TU della Sicurezza, specialmente nelle sue disposizioni di dettaglio, determina sempre un certo senso di sperdimento per la puntigliosità delle previsioni e dei dettagli del “sistema finalizzato di organizzazione” che il datore di lavoro e i suoi omologhi o collaboratori sono tenuti ad assicurare.
Ancor più alla luce delle recenti modifiche normative, si presenta evidente lo scarto fra il rispetto rigoroso delle regole e la concreta prevenzione del rischio che richiede uno sforzo di responsabilità individuale e collettiva, in una rete di connessioni e di adempimenti che deve essere concepita come unitaria e condivisa da tutti coloro i quali, a diverso titolo, prendono parte al sistema.
Le recenti modifiche ed integrazioni sinteticamente innanzi descritte non fanno che aumentare e moltiplicare gli obblighi, non solo in maniera per nulla organica, ma riproponendo lo stesso schema di fondo che si è rilevato disfunzionale, ossia ponendo l’attenzione sul rispetto formale degli stessi piuttosto che sull’effettività del sistema di tutele, nell’illusione che il primo possa avere ricadute significative sul secondo.
Se da un lato si amplia per così dire la dimensione pubblicistica del sistema di prevenzione e sicurezza, che interviene finanche sullo stesso datore di lavoro imponendo obblighi “autotutelanti”, l’impressione che se ne ricava è che ancora una volta l’effetto che sembra voler perseguire il legislatore è quello di esonerare da responsabilità più che di prevenire con efficacia gli eventi lesivi.
Ma anche sulla responsabilità formale il difetto di armonizzazione, la sovrapposizione delle incombenze, la farraginosità degli adempimenti scevri da una necessaria operazione organica di aggiornamento che segua in maniera adeguata le novità tecniche degli strumenti di lavoro adottati[9], fa permanere un rischio di inadeguatezza, di un difetto ultimo di attenzione e di sforzo adattivo che incombe gravosamente sulla organizzazione datoriale.
A quest’ultima allora spetta – come ben sanno le realtà organizzative complesse che si dotano volontariamente di sistemi di sicurezza in termini di soft law ispirati agi standard europei della cd. “responsabilità sociale di impresa” (RSI) [10]– non tanto di recepire e farsi calare dall’alto il complesso farraginoso di adempimenti previsti dal legislatore, bensì di adattare il proprio sistema interno in maniera tale da conformare fin dall’inizio le attività lavorative in un complesso integrato e virtuoso di buone prassi – squadra di lavoro, interrelazioni fra lavoratori, inferenze fra imprese, interrelazione con l’ambiente (in termini anche di sostenibilità), rispetto dei diritti fondamentali etc.- che abbiano già inserito la sicurezza, ampiamente intesa, fra gli obiettivi prioritari.
La sicurezza e la prevenzione in tal modo non entrano come fattori esterni rallentanti - quando non paralizzanti - delle attività lavorative, ma come modalità intrinseche delle lavorazioni con efficacia modellante delle stesse anche nella direzione di una maggiore sostenibilità, di un maggiore benessere organizzativo, di una migliore produttività e, in finale, anche di un più alto livello di rendimento.
Solo un sistema di sicurezza integrato può consentire che le regole e le loro concrete applicazioni non vengano percepite come corpo estraneo e ostile ma virtuosamente conglobate nella organizzazione di impresa in termini qualitativi, laddove “rischio ed opportunità” diventano facce della stessa medaglia per assicurare che il sistema raggiunga i risultati preventivati, possa ridurre gli effetti indesiderati e possa garantire il suo costante miglioramento.
[1] Fonte Open data dal sito Inail al 12.12.2023.
[2] Le patologie del sistema osteo-muscolare e del tessuto connettivo, quelle del sistema nervoso e dell’orecchio continuano a rappresentare, anche nei primi otto mesi del 2023, le prime tre malattie professionali denunciate, seguite dai tumori e dalle patologie del sistema respiratorio.
[3] G. Natullo, Il quadro normativo in Salute e Sicurezza sul lavoro, Utet, 2015, p. 16 ss.
[4] “La previsione dell'art. 299 del TU (principio di effettività), elevando a garante colui che di fatto assume ed esercita i poteri del datore di lavoro, amplia il novero dei soggetti investiti della posizione di garanzia, senza tuttavia escludere, in assenza di delega dei poteri relativi agli obblighi prevenzionistici in favore di un soggetto specifico, la responsabilità del datore di lavoro, che di tali poteri è investito ex lege” (Cass. Sez. 4, 23/11/2021, Baccalini; Sez. 4, 6/4/2023, Di Rosa).
[5] S. Giubboni, Infortuni sul lavoro e responsabilità civile, in Infortuni sul lavoro e malattie professionali, 3^ ed., Cedam, 2023, P. 362 ss.
[6] (così, per tutte, Cass. Sez. 4, 05/10/2021, Mara).
[7] “Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, in quanto consulente del datore di lavoro privo di potere decisionale, risponde dell'evento in concorso con il datore di lavoro solo se abbia commesso un errore tecnico nella valutazione dei rischi, dando un suggerimento sbagliato od omettendo di segnalare situazioni di rischio colposamente non considerate” (Cass. Sez. 4, 17/10/2019, Moi)
[8] Da un’indagine dell’Osservatorio sui PCTO, pubblicata il 28.4.2023 nel portale Skuola.net, proprio nella Giornata dedicata alla Sicurezza sul Lavoro e costruito interpellando 2.500 alunni dell’ultimo triennio delle scuole superiori, è emerso che “un quinto degli studenti (19%) si è presentato sul luogo di lavoro senza aver svolto il corso apposito - erogato online dal Ministero dell'Istruzione e del Merito - e senza indicazioni, da parte delle realtà di approdo, sulle procedure da osservare. Solamente 1 su 3 ha potuto beneficiare di entrambi i percorsi formativi (corso online e approfondimento in loco), quasi la metà (47%) solo del corso ministeriale. E, tra chi si è trovato a svolgere mansioni "manuali", con l'utilizzo di macchinari o strumentazioni, il 17% ha temuto in almeno un'occasione per la propria incolumità e il 4% per buona parte della sua presenza in azienda”.
[9] G.M. Monda, La valutazione dei rischi per la sicurezza e salute dei lavoratori, in L. Zoppoli, P. Pascucci, G. Natullo (a cura di), Le nuove regole per la salute e sicurezza dei lavoratori, Commentario al D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81. Aggiornato al D.Lgs. agosto 2009 m. 106, Ipsoa, 2010, p. 397 ss.
[10] V. S. Battistelli, Hard law e soft law alla prova della sicurezza sul lavoro negli appalti, in Diritto della Sicurezza sul Lavoro, 2019, 2, p. 29 ss. la quale, per definire il concetto di RSI richiama le definizioni che sono state formulate in sede comunitaria a partire dal “Libro Verde della Commissione del 18 luglio 2021” il cui punto 20 descrive la RSI come “l’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”.
Sillogismi, inferenze e illogicità argomentative, nella prospettiva di sviluppo della discrezionalità tecnica nell’epoca dell’intelligenza artificiale. Nota a T.A.R. Lazio, sez. Quarta Ter, Ordinanza 27 luglio 2023, n. 4567
di Luca Gili e Edgardo Marco Bartolazzi Menchetti
Con l’ordinanza 27 luglio 2023, n. 4567, emessa nel giudizio distinto con n. 9566/2023 reg. ric., il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio (Sezione Quarta Ter) ha respinto la domanda cautelare presentata dal partecipante ad un concorso bandito dal Ministero della Cultura nel giudizio per l’annullamento di una prova scritta concorsuale.
Il ricorrente agiva per l’annullamento degli atti con cui era stato disposto il mancato superamento, da parte sua, della prova scritta, derivato dal mancato raggiungimento nella valutazione, per un solo punto, della soglia di sbarramento.
La doglianza del ricorrente verteva specificamente su un quesito di “capacità logico deduttiva e di ragionamento critico-verbale”, per il quale la risposta fornita dal concorrente era stata considerata errata. L’Amministrazione chiedeva di identificare, tra una serie di risposte, quella che seguirebbe logicamente dall’enunciato: “se dici la verità, andrà tutto bene”. L’unica risposta corretta, secondo l’Amministrazione, era la seguente: “non è andato tutto bene, quindi non hai detto la verità”. Il ricorrente sosteneva invece che tale risposta fosse sbagliata e che fosse corretta invece quella da lui prescelta: “se non dici la verità le cose potrebbero andare male ma non necessariamente”.
Il caso permette di svolgere alcune considerazioni in ordine alla formulazione del quesito ed alla sua interpretazione da parte del concorrente, sia sotto il profilo logico-inferenziale, sia per quanto attiene i profili giuridici sottostanti alla formazione delle prove concorsuali che vengono somministrate ai concorrenti. I due aspetti vengono affrontati separatamente dai due autori, per i rispettivi profili di competenza.
Una analisi logica di un quesito a risposta multipla e di una ordinanza
Luca Gili
Prescindendo dalla validità della risposta prescelta dal ricorrente[i] (essa, infatti, all’interno della logica modale aristotelica, appare compatibile con l’affermazione contenuta nel quesito proposto dall’Amministrazione, e quindi seguirebbe logicamente da essa),[ii] l’ordinanza ha correttamente respinto il ricorso, entrando nel merito del quesito e argomentando che la risposta prescelta dall’Amministrazione era corretta. Ma se l’ordinanza è impeccabile nelle sue conclusioni e nel dispositivo che da esse dipende, ci sembra che l’argomentazione contenga più di una confusione di ordine logico, che questa nota si propone di dissipare.
Dopo aver correttamente sostenuto che il giudice amministrativo non può entrare nel merito della correttezza delle risposte selezionate da un gruppo di esperti, come più volte ribadito dalla Giurisprudenza (l’ordinanza richiama le sentenze n. 2296 e n. 2302 del 29 marzo 2022, e n. 531 del 16 gennaio 2022 della sesta sezione del Consiglio di Stato), il giudice prosegue chiarendo che in casi di manifesta illogicità il tribunale può intervenire. Non essendo presente alcuna irragionevolezza o incongruità nella risposta considerata corretta dalla Amministrazione, contrariamente a quanto sostenuto nella doglianza, il ricorso avrebbe senz’altro dovuto essere respinto, come effettivamente previsto dal dispositivo.
A questo proposito, tuttavia, occorre rilevare che l’argomentazione seguita dal TAR risulta assai difettosa dal punto di vista delle distinzioni e dei concetti logici richiamati.
Nell’ordinanza si legge quanto segue:
“la risposta considerata corretta dall’Amministrazione identifica, invero, l’esito di un ragionamento logico aristotelico, completando un sillogismo categorico o perfetto, ovverosia un discorso consequenziale che parte da due premesse, una maggiore – “se dici la verità” -ed una minore – “andrà tutto bene” – per arrivare all’unica conclusione logicamente necessaria: “non è andato tutto bene, quindi sicuramente non hai detto la verità”. Le due premesse, nel sillogismo perfetto qual è quello proposto al candidato dal quiz in contestazione, sono date per certe e portano deduttivamente ad una conclusione che è logica e necessaria. Tanto a differenza del sillogismo retorico (detto anche “dialettico”), diverso da quello categorico e perfetto somministrato al ricorrente, rispetto al quale, essendo le “premesse” date per probabili (e non per certe come nella fattispecie), avrebbe potuto essere valutata corretta, quale conseguenza deduttiva, una risposta probabilistica (“se non dici la verità le cose potrebbero andare male ma non necessariamente”) qual [sic] è quella prescelta dal ricorrente”.
In questo brano si riscontrano numerosi errori.
Innanzi tutto, il quesito proposto dalla Amministrazione non è un sillogismo aristotelico, perché l’argomento non rientra in nessuna delle tre figure del sillogismo descritte dallo Stagirita nei capitoli 4-7 del primo libro dei suoi Analitici Primi, ossia nel testo in cui viene esposta la dottrina del sillogismo categorico. Siamo piuttosto di fronte a un ragionamento di logica proposizionale ed è noto che Aristotele non ha sviluppato un calcolo proposizionale,[iii] che fu piuttosto il contributo che dopo di lui gli Stoici diedero alla storia della logica.[iv] In gergo tecnico, il quesito proposto dalla Amministrazione è una contrapositio e la sua validità riposa sulle tavole di verità dei connettivi logici (in particolare della negazione e della implicazione materiale). Dati due valori di verità per le variabili proposizionali (il Vero e il Falso) e una variabile proposizionale “p”, l’operatore di negazione (“non…”) è definito come segue:
p | Non p |
Vero | Falso |
Falso | Vero |
Date due variabili proposizionali “p” e “q”, l’implicazione materiale (“se…, allora…”) sarà invece definita come segue:
p | q | Se p, allora q |
Vero | Vero | Vero |
Vero | Falso | Falso |
Falso | Vero | Vero |
Falso | Falso | Vero |
Date queste definizioni, comunemente accettate nel calcolo delle proposizioni, e assegnata la lettera p all’enunciato “dici la verità” e la lettera q all’enunciato “andrà tutto bene”, il quesito e la risposta corretta scelti dall’Amministrazione formano il seguente enunciato:
Questo enunciato, noto come contrapositio, è vero in virtù delle definizioni dei connettivi logici (“non…” e “se…, allora…”) che in esso occorrono.
L’ordinanza fa riferimento erroneamente al sillogismo categorico che è identificato col sillogismo perfetto. Aristotele invece chiama “perfetti” o “completi” (teleioi) i sillogismi che non abbisognano di procedimenti ulteriori per mostrare la loro correttezza (si veda in proposito Aristotele, Analitici Primi, A 1, 24b23-24b26): tali sono, secondo lo Stagirita, i sillogismi di prima figura, ossia, secondo la nomenclatura tradizionale, Barbara, Celarent, Darii e Ferio. Il quesito proposto dall’Amministrazione non si configura come alcuno di questi sillogismi, anzitutto perché non è un sillogismo categorico. Se anche è vero che nella letteratura secondaria più datata il sillogismo categorico è stato presentato anche come una implicazione materiale,[v] le premesse figuravano nella protasi, laddove la apodosi conteneva soltanto la conclusione.
L’ordinanza oppone poi il sillogismo perfetto o categorico a quello retorico o dialettico. Anche in questo caso siamo di fronte a una serie di confusioni. Come si è detto, il sillogismo perfetto si oppone, al più, ai sillogismi imperfetti, cioè ai sillogismi che hanno bisogno di elementi ulteriori (ad esempio, di riduzioni alla prima figura) per dimostrare il carattere necessario del nesso inferenziale. Il sillogismo categorico, invece, si oppone ai sillogismi modali, che Aristotele tratta in Analitici Primi A, 8-22. Il sillogismo retorico secondo Aristotele è un entimema, ossia un sillogismo con una premessa implicita (cfr. Aristotele, Retorica, A, 1, 1354a12-1354a31), e non è sinonimo di sillogismo dialettico: la dialettica è anzi il “corrispettivo” della retorica nell’ottica di Aristotele e non si confonde con quest’ultima (cfr. Aristotele, Retorica, A, 1, 1354a1-1354a11). Se invece si guarda al contenuto delle premesse, come sembra voler fare l’ordinanza, abbiamo infine una opposizione tra sillogismo dimostrativo (con premesse vere e necessarie e conclusione necessaria) e sillogismo dialettico (con premesse “probabili” ovvero “endossali” – anche in questo caso la distinzione è tracciata da Aristotele in Analitici Primi, A, 1).
A questo punto però l’ordinanza commette un ulteriore errore che, se non pregiudica la correttezza della decisione di respingere il ricorso, ci appare però foriero di possibili decisioni sbagliate anche in sede giurisprudenziale, qualora il contendere vertesse non tanto sulla presunta scorrettezza della risposta scelta dall’Amministrazione, quanto sulla necessità di determinare se anche la risposta selezionata dal ricorrente sia corretta. L’errore dell’ordinanza, nel gergo logico, consiste nella confusione tra forma e materia dell’inferenza, ovvero tra la validità dell’argomento e la verità delle premesse e della sua conclusione. Un argomento probabile, se logicamente corretto, inferisce necessariamente una conclusione probabile, tanto quanto un argomento corretto con premesse necessarie e conclusione necessaria inferisce necessariamente la conclusione necessaria. Nel lessico medievale, si sarebbe detto che altra cosa è la necessitas consequentiae (ovvero la necessità dell’inferenza) e altra la necessitas consequentis (ossia la qualificazione della conclusione di un argomento come necessaria). In quest’ottica, anche se la conclusione “se non dici la verità le cose potrebbero andare male ma non necessariamente” è probabile, essa può comunque seguire necessariamentedall’enunciato proposto dall’Amministrazione nel quesito. Evitando il lessico fuorviante della probabilità scelto nell’ordinanza, potremmo piuttosto qualificare con un operatore modale di possibilità la conclusione considerata scorretta dalla Amministrazione ma prescelta dal ricorrente. L’intero enunciato, che includa il quesito dell’Amministrazione e la risposta prescelta dal ricorrente, sarebbe quindi il seguente:
L’inserzione dell’operatore di possibilità, come intravede la stessa ordinanza (“avrebbe potuto essere valutata corretta, quale conseguenza deduttiva, una risposta probabilistica”), complica le cose. Se l’Amministrazione avesse formulato il quesito senza di esso, la risposta prescelta dal ricorrente si qualificherebbe come una falsa contrapositio e sarebbe quindi scorretta nel calcolo classico delle proposizioni:
L’enunciato (iii) è falso in virtù delle definizioni date nelle tavole di verità già menzionate per i connettivi logici impiegati. Ma l’enunciato (ii), a ben vedere, potrebbe essere corretto in alcune logiche[vi]. E se l’enunciato (ii) è corretto in un modello di interpretazione del linguaggio adottato (come noi riteniamo che sia), l’intera consequentia sarà necessaria.
Ciò ovviamente non inficia il dispositivo dell’ordinanza, che rimane corretto nella sostanza. Ma come talvolta accade in una connessione sillogistica invalida, la conclusione è vera, ma non segue necessariamente dalle premesse, né le premesse assunte sono vere[vii].
Discrezionalità tecnica, prove concorsuali e uno sguardo sul contributo dell’Intelligenza artificiale.
Edgardo Marco Bartolazzi Menchetti
1. Il caso esaminato dal T.A.R. del Lazio offre spunti di riflessione sul procedimento di ragionamento sotteso alla predisposizione dei quesiti concorsuali. La fattispecie è già stata oggetto delle considerazioni compiute, sotto il profilo logico-critico, da Luca Gili, sicché pare interessante approfondire anche le prospettive che si delineano dal punto di vista giuridico, tanto più sotto una veste di attualità, data dall’incombente contributo che l’intelligenza artificiale potrà essere in grado di fornire in materia.
La predisposizione dei quesiti di cui si compone una prova concorsuale è un’attività che richiede il possesso di competenze qualificate, così come l’esame dei candidati che redigano un elaborato scritto, o che siano sottoposti ad una prova orale. Tali incombenti sono disciplinati dal D.P.R. 9 maggio 1994, n. 487, che nel testo come da ultimo modificato, in esito al D.P.R. 16 giugno 2023, n. 82, prevede, per quanto qui di rilievo, che le prove siano valutate da commissioni composte “da tecnici esperti nelle materie oggetto del concorso, scelti tra dipendenti di ruolo delle amministrazioni, docenti ed estranei alle medesime” e che alle stesse commissioni sia demandata la preparazione delle tracce di ciascuna prova scritta, in numero di tre e che siano “elaborate con modalità digitale”.
La fase, eventuale, della “preselezione” viene adottata nelle prove concorsuali ove si preveda un significativo afflusso di candidati, al fine di rendere possibile alla commissione di procedere con gli esami, scritti o orali che siano, con adeguato tempo e approfondimento[viii]. Le indicazioni ministeriali mostrano che anche tali prove preselettive devono essere tuttavia costruite con criterio, dunque senza privilegiare coloro che abbiano “il tempo di svolgere uno studio mnemonico, che non necessariamente corrispondono a quelli più preparati e più capaci”, e includendo, al fine di valutare “non solo la preparazione, ma anche le capacità e le competenze” dei candidati, “sia quesiti basati sulla preparazione (generale e nelle materie indicate dal bando), sia quesiti basati sulla soluzione di problemi, in base ai diversi tipi di ragionamento (logico, deduttivo, numerico)”[ix]. I quesiti, sia nel caso di prova scritta o orale, che di preselezione scritta, vengono poi sottoposti ai singoli candidati mediante estrazione a sorte[x], con predisposizione casuale delle singole schede contenenti i quesiti a risposta multipla, e tramite sorteggio, da parte di almeno due candidati, delle tracce delle prove scritte.
2. Coerentemente con il quadro normativo delineato, dal quale emerge in particolare il necessario possesso, da parte dei membri della commissione, di specifiche competenze tecniche, l’operato del gruppo degli esaminatori, sia nella predisposizione dei quesiti, che nella correzione dell’elaborato con cui il candidato risponda ad essi, rientra, secondo quanto indicato dal T.A.R. del Lazio con l’ordinanza in commento, nell’esercizio della discrezionalità tecnica. Caratteristica principale di tale categoria è quella di essere, per definizione, sottratta al sindacato giurisdizionale in quanto avente ad oggetto valutazioni tese non ad apprezzare il pubblico interesse, ma soltanto un fatto, sotto i profili della tecnica, e inoltre non verificabile in modo indubbio[xi].
Va quindi evidenziato che il T.A.R. dapprima, riferendosi alla giurisprudenza del Consiglio di Stato, rammenta che “rientra nella discrezionalità tecnica dell'Amministrazione la corretta formulazione dei quesiti, con conseguente impossibilità per il giudice amministrativo di compiere un sindacato sulla esattezza delle risposte ritenute corrette dalla commissione di esperti che li ha elaborati”, facendone discendere che “in relazione alla elaborazione dei quesiti oggetto di prova concorsuale, sono rilevabili vizi di legittimità solo in presenza di veri e propri errori, che possano ritenersi accertati in modo inequivocabile in base alle conoscenze proprie del settore di riferimento e ferma restando la non erroneità di scelte discrezionalmente compiute, in rapporto alle peculiari finalità delle prove da espletare”. Successivamente, lo stesso Giudice, pur formalmente limitando la propria valutazione ad una disamina circa la possibile sussistenza di “manifesta irragionevolezza, illogicità e incongruità del quesito contestato”, afferma, nel merito, che “la risposta considerata giusta dall’Amministrazione appare, in effetti, come l’unica corretta e completa, costituendo, invece, le altre risposte dei meri “distrattori””.
3. La decisione si muove quindi sul sottilissimo confine tra discrezionalità tecnica nell’individuazione della risposta corretta di un quesito concorsuale, e possibilità di individuare con certezza, in applicazione delle semplici conoscenze proprie del settore, la soluzione. Nel caso considerato, il T.A.R. ritiene di poter individuare, in quella prescelta dall’Amministrazione, la risposta oggettivamente corretta, e così perviene al rigetto del ricorso.
Presupposto di tale operato è che il Tribunale abbia considerato l’individuazione della risposta corretta come possibile in maniera oggettiva, senza dunque “sconfinare nel merito amministrativo, ambito precluso al giudice amministrativo, il quale non può sostituirsi ad una valutazione rientrante nelle competenze valutative specifiche degli organi dell’Amministrazione a ciò preposti, e titolari della discrezionalità di decidere quale sia la risposta esatta ad un quiz formulato”[xii]. Spiega infatti la decisione in commento che “in relazione alla elaborazione dei quesiti oggetto di prova concorsuale, sono rilevabili vizi di legittimità solo in presenza di veri e propri errori, che possano ritenersi accertati in modo inequivocabile in base alle conoscenze proprie del settore di riferimento e ferma restando la non erroneità di scelte discrezionalmente compiute, in rapporto alle peculiari finalità delle prove da espletare”. La prospettiva corretta da assumere non è pertanto nel senso che il Giudice amministrativo può ritenere corretta una risposta ove essa sia oggettivamente individuabile, bensì che esso può censurare come illegittima l’attività di predisposizione della prova concorsuale ove la risposta individuata dall’amministrazione risulti, in maniera oggettivamente accertabile, errata.
Nel caso considerato, dunque, la risposta che l’amministrazione aveva individuato come corretta viene confermata dal T.A.R. in quanto inattaccabile. Infatti, dovendosi assumere, nel contesto del quesito, come vere le due premesse (se dici la verità / tutto andrà bene) risulta con esse logicamente compatibile, far discendere la conseguenza “non è andato tutto bene” dall’assunto “sicuramente non hai detto la verità”. Ciò è ritenuto sufficiente per considerare immune da censure l’operato della commissione.
4. La fattispecie esaminata, però, oltre a quelle propriamente logiche e giuridiche viste sopra, suscita riflessioni in prospettiva futura. In particolare, nell’epoca del digitale, ci si chiede se le stesse considerazioni potrebbero valere laddove i quesiti di una prova concorsuale vengano predisposti mediante strumenti “ad intelligenza artificiale”.
Nel caso in commento, infatti, il Tribunale Amministrativo è stato interessato della verifica circa la correttezza del ragionamento svolto da una commissione esaminatrice “umana”, per appurare che la risposta ad un quesito presentata come corretta dall’Amministrazione non potesse essere messa in discussione, ma analoga indagine potrebbe essere richiesta nel caso in cui un quesito fosse predisposto da un computer, a maggior ragione se vertente su quegli ambiti di ragionamento che, come indicato sopra, devono essere esaminati al fine di valutare non solo la stretta preparazione del candidato per la prova, ma anche le sue capacità e competenze parimenti “umane”.
4.1. Sul punto, va presupposto il richiamo a tutte le indicazioni già fornite dalla giurisprudenza amministrativa in tema di motivazione della decisione fondata su algoritmi, e pertanto la necessità che il criterio di “ragionamento” della macchina sia reso noto a chi debba subirne le conseguenze. La giurisprudenza del Consiglio di Stato[xiii] ha infatti ritenuto che “il meccanismo attraverso il quale si concretizza la decisione robotizzata (ovvero l’algoritmo) deve essere “conoscibile”, secondo una declinazione rafforzata del principio di trasparenza, che implica anche quello della piena conoscibilità di una regola espressa in un linguaggio differente da quello giuridico” e che, conseguentemente, “il giudice deve poter sindacare la stessa logicità e ragionevolezza della decisione amministrativa robotizzata, ovvero della “regola” che governa l’algoritmo, di cui si è ampiamente detto”. Tale regola sembra infine poter essere specificata, secondo gli indirizzi espressi in tema di chiara e specifica individuazione del trattamento di dati personali compiuto da strumenti ad intelligenza artificiale, nel senso per cui a dover essere resi conoscibili “in chiaro” sono i dati di partenza considerati dalla macchina, e il procedimento con cui da essi si pervenga ad un risultato o si risolva un determinato problema[xiv].
4.2. A fronte della descritta situazione, la predisposizione di quesiti di prove concorsuali, a maggior ragione se “di logica”, da parte di sistemi ad intelligenza artificiale pone rilevanti interrogativi, fondati essenzialmente sulle modalità proprie di funzionamento di tali macchine.
Infatti, senza poterci addentrare più nello specifico data la profonda tecnicità del tema, da più parti si è osservato che quello che appare un “ragionamento” del software è in realtà la mera applicazione di criteri statistici, e il risultato di prove comparative che esso compie tra numerosissimi risultati, per individuare quale maggiormente si avvicini a quello che, sempre secondo statistica, e secondo le “nozioni” inserite ed eventualmente apprese, il sistema riconosca come più prossimo a quello individuabile come ottimale[xv], senza tuttavia comprendere effettivamente il significato dei dati oggetto di valutazione.
Studi molto noti hanno messo in luce che a questi sistemi manca ancora, ad esempio, la capacità di compiere valutazioni etiche, limiti che precludono – ancora – di assimilare il loro operato a quello della mente umana[xvi].
Deve quindi ritenersi, in una prospettiva tecnica ancor prima che giuridica, che la predisposizione di quesiti in particolari ambiti, ove possano assumere un rilievo maggiore le valutazioni più strettamente logiche e causali, e non meramente nozionistiche, i quali dovrebbero essere comunque presenti secondo le vedute indicazioni ministeriali, potrebbe suscitare problemi ove demandata a meccanismi di intelligenza artificiale.
4.3. In tale prospettiva, risultano pienamente condivisibili e attuali, nonostante la velocità con cui il mondo della tecnologia evolve, gli indirizzi che emergono dalla giurisprudenza amministrativa, ma anche dalla produzione normativa, in fieri, interna e dell’Unione Europea.
Sotto il primo aspetto, può citarsi l’orientamento tracciato dal T.A.R. del Lazio[xvii], secondo cui l’utilizzo di procedure informatiche, rispetto ai procedimenti amministrativi, deve sempre collocarsi “in una posizione necessariamente servente rispetto agli stessi”. La stessa giurisprudenza, con notevole lungimiranza, ha infatti posto in rilievo l’importanza de “l’attività dianoetica[xviii] dell’uomo” nell’ambito dei procedimenti che richiedono, per l’adozione del provvedimento finale, un’attività “talora ponderativa e comparativa di interessi e conseguentemente necessariamente motivazionale”. Sembra di poter cogliere, in questo passaggio, un rinvio proprio a quegli studi, citati poco sopra, che sul presupposto del riscontro di una carenza razionale nel meccanismo di funzionamento delle attuali Intelligenze Artificiali[xix], si concentrano sulla ricerca di strumenti per dotare gli stessi software di capacità di inferenza causale.
Nello stesso senso si sviluppano le riflessioni contenute nel “Libro Bianco sull’Intelligenza artificiale” in corso di sviluppo da parte dell’Agenzia per l’Italia Digitale[xx], ove la soluzione etica per i problemi che l’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale pone alla Pubblica amministrazione è rinvenuta nell’adozione di un approccio “antropocentrico, secondo cui l’Intelligenza Artificiale deve essere sempre messa al servizio delle persone e non viceversa”[xxi]. In senso analogo depongono le indicazioni provenienti dall’Unione Europea, che menziona tra i requisiti fondamentali delle applicazioni ad Intelligenza Artificiale, a maggior ragione se destinate all’impiego in procedure pubbliche, la presenza di “intervento e sorveglianza umani”, volti in particolare ad “aiutare le persone a compiere scelte migliori e più consapevoli nel perseguimento dei loro obiettivi”[xxii].
5. Sulle premesse esposte risulta, allo stato, che l’intervento e il controllo umano restano imprescindibili, sia nella predisposizione dei procedimenti che portano l’Intelligenza Artificiale agli esiti deduttivo-statistici suoi propri, che nella finale valutazione di tale risultato[xxiii].
Il che, tornando ai quesiti concorsuali oggetto della decisione in commento, porta a concludere che non sarebbe possibile, tantomeno con riguardo ad un quesito di logica, delegare interamente ad una macchina “non senziente” la predisposizione di un elaborato destinato a fungere da prova concorsuale. Sotto tutti i profili, dunque tecnico, giuridico e, infine, etico, morale e di dignità della persona umana, quest’ultima garantita da norme fondamentali[xxiv] e comunque considerata valore universale[xxv] - emergendo sotto tale aspetto il diritto dell’uomo ad essere giudicato da un suo pari[xxvi] - tutti gli indirizzi appaiono concordanti nel rendere necessario che il quesito sia predisposto dal pubblico incaricato, o comunque da esso validato mediante propria personale valutazione, compiuta alla luce delle specifiche conoscenze possedute, e dunque suscettibile di conferma e validazione nel sistema di riferimento.
La competenza umana, richiesta attualmente in capo all’esaminatore nella individuazione dei quesiti e delle risposte, e in futuro nella validazione di quelli eventualmente predisposti dall’intelligenza artificiale, resta pertanto, almeno allo stato, imprescindibile.
[i] Il punto, però, non è secondario. Il giudice ritiene che esista un’unica risposta corretta, ossia quella individuata dall’Amministrazione: “la risposta considerata giusta dall’Amministrazione appare, in effetti, come l’unica corretta e completa, costituendo, invece, le altre risposte dei meri “distrattori”, la cui funzione è proprio quella di “distrarre” il candidato dall’individuazione dell’unica risposta corretta”. A noi sembra che questa affermazione, che pure non inficia il dispositivo, sia contestabile.
[ii] L’argomento per validare la risposta scelta dal ricorrente, alla luce delle definizioni che saranno date nel seguito di questa nota, potrebbe essere il seguente:
1. Se (se p, allora q), allora (se non-p, allora o q o non-q). Tautologia
2. Se (se p, allora q), allora (se non-p, allora è necessario che sia possibile che [o q o non-q]). Da 1, sistema B di logica modale proposizionale
3. Se (se p, allora q), allora (se non-p, allora è possibile che [o q o non-q]). Da 2, per assioma modale T (eliminazione del necessario)
4. Se (se p, allora q), allora (se non-p, allora è possibile che [non-q]). Da 3, per la definizione aristotelica di “possibile”, in virtù della quale “è possibile x” se e solo se “è possibile x ed è possibile non-x”.
[iii] Si consultino, per questa affermazione, le classiche storie della logica di Jozef Bocheński (Formale Logik, Freiburg [CH] - Munich, K. Alber, 1956), di Martha e William Kneale (The Development of Logic, Oxford, Clarendon Press, 1962) e il manuale collettivo curato da Dov Gabbay e James Woods (Handbook of the History of Logic. Volume 1. Greek, Indian and Arabic Logic, Amsterdam, Elsevier, 2004).
[iv] Aristotele argomenta in Analitici Primi A, 23 che tutte le inferenze corrette possano essere ricondotte ad uno dei modi che rientrano nelle tre figure del sillogismo. Prout verba sonant, ciò significa che anche una inferenza di calcolo proposizionale debba in linea di principio essere ricondotta al sillogismo categorico, ma il ragionamento di Aristotele si muove soltanto all’interno della logica dei termini e non contempla affatto il calcolo proposizionale. Quando i commentatori di Aristotele si trovarono a discutere il teorema proposto in Analitici Primi A, 23 dopo l’introduzione del calcolo proposizionale da parte degli Stoici ebbero più di un problema a giustificare l’assunto dello Stagirita, tanto che Alessandro di Afrodisia (III sec. d.C.), ad esempio, sostenne che gli argomenti degli Stoici erano “superflui”, né potevano rientrare tra le inferenze definite da Aristotele in Analitici Primi A, 1, 24b19-24b22, perché non inferivano nulla di “nuovo” rispetto a quanto già contenuto nelle premesse (e la novità, per Alessandro che in questo è un fedele seguace dello Stagirita e della sua impostazione terministica, consiste in una nuova connessione predicativa tra termini). In questo modo non era negata l’affermazione che tutte le inferenze non superflue possono essere ricondotte alla forma sillogistica proposta in Analitici Primi A, 4-7. Intorno a tale problema ci sia permesso rimandare a L. Gili, La sillogistica di Alessandro di Afrodisia, Olms, Hildesheim, 2011.
[v] Si veda in particolare J. Łukasiewicz, Aristotle’s Syllogistic from the Standpoint of Modern Formal Logic, Oxford, Clarendon, 1957. L’impostazione di Łukasiewicz, che qui si richiama, in virtù del cosiddetto principle of charity, per segnalare l’approccio storiografico che più somiglia a ciò cui l’ordinanza sembra alludere, è oggi in larga parte abbandonata e la maggior parte dei tentativi di ricostruire il sillogismo aristotelico adottando i formalismi contemporanei ricorre alla deduzione naturale, presentando quindi il sillogismo categorico come una regola deduttiva in cui, date due premesse di una certa struttura, segue una conclusione di una certa struttura.
[vi] Si veda in proposito l’argomento esposto nella nota 2.
[vii] Si consideri il seguente argomento invalido.
Premessa maggiore: Qualche essere umano è un sasso
Premessa minore: Qualche sasso è razionale.
Conclusione: Tutti gli esseri umani sono razionali.
Il modo è invalido (in virtù della regola: nihil sequitur geminis ex particularibus unquam) e le premesse sono scorrette, ma la conclusione è vera. Il dispositivo dell’ordinanza non differisce molto dalla conclusione di questo esempio.
[viii] Secondo la direttiva n. 3 del 24 aprile 2018 del Ministero per la semplificazione e la pubblica amministrazione, “La preselezione dovrebbe essere rivolta a selezionare un numero di candidati non talmente grande da rendere il concorso difficile da gestire e la preselezione inutile, né talmente piccolo da rendere poco competitivo lo svolgimento successivo del concorso”.
[ix] Ministero per la semplificazione e la pubblica amministrazione, direttiva n. 3/2018, cit.
[x] Art. 12, D.P.R. n. 487/1997.
[xi] Cfr. A. Pubusa, (voce) Merito e discrezionalità amministrativa, in Dig. Disc. Pubb., IX, 1994, 411. Viene peraltro osservato che ove oggetto della valutazione fossero fatti semplici, verificabili in modo indubbio secondo le conoscenze tecniche e scientifiche, la tecnica diverrebbe fonte di regole obiettivamente verificate e comunemente accettabile, aprendo la possibilità del sindacato giurisdizionale (C. Marzuoli, Potere amministrativo e valutazioni tecniche, Milano, 1985, 1).
[xii] Cons. di Stato, sez. VI, sent. 29 marzo 2022, n. 2302, richiamata nella decisione qui commentata.
[xiii] Cons. di Stato, sentenza 8 aprile 2019, n. 2270.
[xiv] Cass., ord. 10 ottobre 2023, n. 28358, secondo cui “Ciò che rileva, invece, è che sia possibile tradurre in linguaggio matematico/informatico i dati di partenza, cosicché il tutto divenga opportunamente comprensibile alla macchina, grazie ai soggetti esperti programmatori, secondo le sequenze e le istruzioni tratte dai dati "in chiaro"”, e ancora, risulta necessario che il soggetto interessato “sia in grado di conoscere l'algoritmo, inteso come procedimento affidabile per ottenere un certo risultato o risolvere un certo problema, che venga descritto all'utente in modo non ambiguo ed in maniera dettagliata, come capace di condurre al risultato in un tempo finito”.
[xv] Interessanti, in merito, gli spunti forniti da A. D. Signorelli, Sarà mai realizzata un’intelligenza artificiale che pensa come una persona?, in Il Tascabile, 2021, che spiega, ad esempio, che quella che appare come intelligenza dei sistemi quali ad esempio GPT-3 è allo stato piuttosto il risultato “di un immenso taglia e cuci statistico”. Ulteriori indicazioni tecniche in questo senso in B. Bergstein, What AI still can’t do, in MIT Technology Review, 2020, che spiega che l’utilizzo tradizionale dell’IA è riconducibile alle tecniche di deep learning, con le quali, partendo da un enorme ammontare di dati relativi a situazioni familiari, si può pervenire a previsioni molto accurate, e che le sfide di questa tecnologia risiedono, ora nell’evoluzione della capacità di affrontare in maniera più approfondita i rapporti di causalità, divenendo in grado di comprendere l’evoluzione di situazioni molto più caotiche e imprevedibili, quali quelle riscontrabili nel mondo reale, e di formulare ipotesi sugli esiti dei differenti andamenti che una medesima situazione avrebbe potuto assumere. L’autore da ultimo citato pone altresì in luce la differenza nel procedimento di individuazione delle risposte mediante meccanismi correlativi e causativi, questi ultimi, inerenti la capacità di comprendere compiutamente meccanismi di causa ed effetto, approfonditi da J. Pearl, An introduction to causal inference, in The international Journal of Biostatistics, 2010 e ancora non suscettibili di efficace e concreta implementazione nei software ad intelligenza artificiale, pure oggetto di intensi studi, quali quelli rappresentati in E. Bareinboim-J. Pearl, Causal inference and the data-fusion problem, in PNAS, Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, 2016 o E. Bareinboim – J.D. Correa - D. Ibeling, On Pearl’s hierarchy and the foundations of causal inference, in Aa. Vv., Probabilistic and Causal Inference: The Works of Judea Pearl, New York, 2022, 507.
[xvi] G. Tamburrini, Etica delle macchine. Dilemmi morali per robotica e intelligenza artificiale, Roma, 2020.
[xvii] In particolare, T.A.R. Lazio - Roma, sentenza n. 9224 del 10.09.2018, che ha applicato principi già espressi in precedenti decisioni (T.A.R. Lazio – Roma, Sez. III bis, sent. 20 luglio 2016, n. 8312; Cons. di Stato, Sez. VI, sent. 7 novembre 2017 n. 5136; T.A.R. Lazio – Roma, Sez. III bis, sent. 8 agosto 2018, n. 8902)
[xviii] Formula con evidente rinvio a quelle virtù proprie dell’intelletto umano secondo la dottrina morale aristotelica, che ne enumera cinque, ovvero: l’arte (τέχνη), la scienza (ἐπιστήµη), la saggezza pratica o prudenza (φρόνησις), l’intelletto (νοῦς) e la sapienza (σοφὶα).
[xix] Eloquente il passaggio in cui il TAR del Lazio indica che “Il Collegio è del parere che le procedure informatiche, finanche ove pervengano al loro maggior grado di precisione e addirittura alla perfezione, non possano mai soppiantare, sostituendola davvero appieno, l’attività cognitiva, acquisitiva e di giudizio che solo un’istruttoria affidata ad un funzionario persona fisica è in grado di svolgere” (sent. n. 9224/2018, cit.).
[xx] Reso disponibile per pubblica consultazione all’indirizzo https://whitepaper-ia.readthedocs.io/.
[xxi] AgID, Libro Bianco sull’Intelligenza artificiale, Cap. III, “Sfida 1: Etica”.
[xxii] Comunicato della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al comitato delle Regioni: Creare fiducia nell’intelligenza artificiale antropocentrica, COM/2019/168 final adottato il 08.04.2019, che prosegue specificando il requisito nei seguenti termini: “I sistemi di IA dovrebbero [..] promuovere lo sviluppo di una società fiorente ed equa sostenendo l'intervento umano e i diritti fondamentali e non ridurre, limitare o fuorviare l'autonomia umana”.
[xxiii] Anche su questo punto, sono particolarmente significative le osservazioni della giurisprudenza amministrativa, secondo cui il funzionario “deve seguitare ad essere il dominus del procedimento stesso, all’uopo dominando le stesse procedure informatiche predisposte in funzione servente e alle quali va dunque riservato tutt’oggi un ruolo strumentale e meramente ausiliario in seno al procedimento amministrativo e giammai dominante o surrogatorio dell’attività dell’uomo; ostando alla deleteria prospettiva orwelliana di dismissione delle redini della funzione istruttoria e di abdicazione a quella provvedimentale, il presidio costituito dal baluardo dei valori costituzionali scolpiti negli artt. 3, 24, 97 della Costituzione oltre che all’art. 6 della Convezione europea dei diritti dell’uomo” (T.A.R. Lazio, sent. n. 9224/2018).
[xxiv] Quali l’art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea,
[xxv] Così nella CEDU, come si desume dalla necessità di protezione del diritto alla vita “per il pieno riconoscimento della dignità inerente a tutti gli esseri umani” (Premessa al Protocollo n. 13 adottato a Vilnius il 3 maggio 2002), ma come è pure accettato dalla nostra giurisprudenza costituzionale (tra le ultime, Corte Cost., sent. 21 luglio 2023, n. 159, ove i più gravi crimini internazionali vengono indicati come “lesivi di valori universali come il rispetto della dignità umana e dei diritti umani”).
[xxvi] Può essere a questo proposito richiamato l’insegnamento di Montesquieu, che interrogandosi sulla legittimità della previsione per cui i Lords inglesi avrebbero potuto essere giudicati solo da una commissione di loro pari osservava che “I grandi sono sempre esposti all’invidia; e se fossero giudicati dal popolo, potrebbero correre pericolo e non godrebbero del vantaggio che ha il più piccolo dei cittadini di un paese libero, quello di essere giudicato dai suoi pari. Bisogna dunque che i nobili siano chiamati non davanti ai tribunali ordinari della nazione, ma davanti a quella parte del Corpo legislativo che è composto di nobili (lib. II, e. 6)” (così P.O. Vigliani, Questioni sulla giurisdizione penale del Senato del Regno, in Annali di giurisprudenza italiana, I, 1866/67, nt. 4).
Dissenso dei condòmini, legittimità urbanistica e controlli dell’amministrazione: un ritorno alla tutela civilistica dei terzi (nota a CGARS, sez. giurisdizionale, 5 giugno 2023, n. 392).
di Ippolito Piazza
Sommario: 1. Il tema e i fatti all’origine della controversia. – 2. Dissenso dei condòmini e legittimità urbanistica. – 3. La distinzione di piani nella sentenza del CGARS. – 4. Le ragioni per la tesi civilistica.
1. Il tema e i fatti all’origine della controversia.
Il Consiglio di Giustizia amministrativa adotta, nella sentenza in commento, una posizione netta circa la natura delle controversie edilizie tra vicini e il ruolo che (non) deve avere l’amministrazione. Ad avviso dei giudici siciliani, l’illegittimità urbanistica di un’opera non può mai dipendere dalla presunta lesione di un diritto civilistico del terzo-vicino di casa: non è infatti compito dell’amministrazione effettuare un simile accertamento, come non lo è quello di dare esecuzione a eventuali pronunce del giudice ordinario intervenute sul punto. Come si proverà ad argomentare, si tratta di una tesi condivisibile, perché consente di tenere distinti il piano delle relazioni civilistiche tra vicini da quello delle relazioni pubblicistiche tra costruttore e pubblica amministrazione, evitando così di attribuire a quest’ultima un compito che l’ordinamento non le attribuisce.
La pronuncia è importante perché sembra discostarsi da alcuni diffusi indirizzi giurisprudenziali: il primo è quello in base al quale l’amministrazione, se edotta dell’esistenza di contestazioni sul diritto del richiedente il titolo abilitativo, debba effettuare un controllo sull’attendibilità di quanto affermato dal richiedente, pur non potendosi sostituire al giudice ordinario nell’effettuare valutazioni civilistiche[i]; il secondo è quello che afferma l’esistenza della cosiddetta ‘doppia tutela’, in base alla quale il terzo-vicino di casa sarebbe titolare sia di un diritto derivante dal rispetto delle norme civilistiche sugli immobili, sia di un interesse legittimo al rispetto della normativa edilizia, da far valere rispettivamente di fronte al giudice ordinario e al giudice amministrativo[ii]. La sentenza del CGARS consente quindi di svolgere alcune considerazioni riguardo all’incidenza dei rapporti privati sull’attività di controllo dell’amministrazione e alla tutela dei terzi in materia edilizia.
Prima di tutto è, però, necessario descrivere la vicenda. La controversia nasce dall’ordinanza di demolizione di una canna fumaria a servizio esclusivo di un’attività di ristorazione, posta su un muro esterno condominiale comune. La presenza della canna fumaria aveva già dato luogo a un giudizio civile tra il proprietario dell’immobile al piano terra, adibito a ristorante, e la proprietaria degli immobili soprastanti, conclusosi con una sentenza che imponeva la rimozione dell’opera per alterazione del decoro architettonico dell’edificio. Il proprietario dell’immobile al piano terreno aveva, pertanto, dapprima rimosso la canna fumaria e poi ne aveva installata una diversa, che riteneva conforme alla legge e al giudicato. La nuova collocazione della canna fumaria era autorizzata dal Comune, previo parere dell’ARPA. Anche la nuova canna fumaria veniva però rimossa, stavolta a opera dell’ufficiale giudiziario, in esecuzione della sentenza civile sopra richiamata. A questo punto, gli interessati, dopo aver presentato una Scia nel 2020 ritenuta inammissibile dal Comune, trasmettevano al Comune una CIL e reinstallavano la canna fumaria. Il caso tuttavia rimaneva aperto: in esito a un sopralluogo, i tecnici comunali e i vigili urbani evidenziavano nella loro relazione come la installazione della canna fumaria, già autorizzata dal Comune, avesse bisogno del consenso di tutti i condòmini, consenso che invece mancava nel caso di specie. In base a tale relazione, il Comune ingiungeva la demolizione della canna fumaria, pur confermando che quest’ultima rispettasse i parametri fissati dal regolamento edilizio.
Gli odierni proprietari e il conduttore dell’immobile al piano terra ricorrevano quindi al Tar per l’annullamento dell’ordine di demolizione e dei provvedimenti conseguenti[iii]. Il Tar respingeva il ricorso[iv], tra l’altro, perché condivideva la tesi dell’amministrazione secondo cui occorresse il previo assenso degli altri condòmini per la realizzazione dell’opera. La necessità di tale consenso, assente nel caso di specie, risponde secondo il Tar, «(anche) all’esigenza di prevenire controversie in ordine alla gestione della cosa comune ed alla potenziale lesione delle prerogative proprietarie»: in quest’ottica, il provvedimento dell’amministrazione svolge una funzione arbitrale rispetto a una questione civilistica.
2. Dissenso dei condòmini e legittimità urbanistica.
La asserita mancanza del consenso dei condòmini viene quindi a condizionare, nella ricostruzione del giudice di primo grado, la legittimità dell’intervento edilizio, a causa della violazione dell’art. 1102, c. 1, del codice civile. Quest’ultima disposizione prevede che ciascun partecipante possa servirsi della cosa comune «purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto»; le modifiche apportate dal singolo condomino sono soggette inoltre al rispetto del decoro architettonico dell’edificio, limite posto in generale dall’art. 1120, c. 4, c.c., per le innovazioni nel condominio di edifici[v].
Nella prospettiva adottata dal Tar, il rispetto di questi limiti civilistici costituisce un presupposto necessario per la sussistenza della legittimazione a richiedere il titolo edilizio e deve pertanto essere soggetto a un controllo da parte dell’amministrazione. Sulla natura di questo controllo si è più volte espressa la giurisprudenza amministrativa: se, infatti, può sembrare ragionevole che l’amministrazione effettui un simile controllo (così da evitare che sia concesso un titolo edilizio a chi non è legittimato), è pur vero che su una questione civilistica la parola non può che essere affidata al giudice ordinario. In ragione di ciò, la giurisprudenza maggioritaria (sia in materia di interventi su parti condominiali comuni che, in generale, in materia di rilascio di titoli edilizi) si attesta, come noto, su una linea interpretativa mediana, in base alla quale l’amministrazione, «quando venga a conoscenza dell’esistenza di contestazioni sul diritto del richiedente il titolo abilitativo, debba compiere le necessarie indagini istruttorie per verificare la fondatezza delle contestazioni, senza però sostituirsi a valutazioni squisitamente civilistiche (che appartengono alla competenza del giudice ordinario), arrestandosi dal procedere solo se il richiedente non sia in grado di fornire elementi prima facie attendibili»[vi]. La specificazione della attendibilità prima facie consente di evitare che l’amministrazione sia tenuta a effettuare dispendiosi accertamenti sulla titolarità di un diritto civilistico.
Una recente giurisprudenza del Consiglio di Stato ha poi precisato che il controllo dell’amministrazione debba «sempre collegarsi al riscontro di profili d’illegittimità dell’attività per contrasto con leggi, regolamenti, piani, programmi e regolamenti edilizi, mentre non può essere esercitato a tutela di diritti di terzi non riconducibili a quelli connessi con interessi di natura pubblicistica, quali ad esempio il rispetto delle distanze dai confini di proprietà o del distacco dagli edifici». In altre parole, il controllo dell’amministrazione riguarderebbe solo la legittimità urbanistica delle opere; tuttavia, la stessa sentenza – in linea con l’orientamento maggioritario – fa salvo il caso in cui «de plano risulti l’inesistenza di un titolo giuridico che fondi la legittimazione attiva del richiedente il titolo edilizio»[vii]. Se da quest’ultima giurisprudenza emerge l’idea che l’amministrazione non debba, almeno in linea di principio, occuparsi di questioni civilistiche, vi sono altre pronunce, proprio in tema di opere su parti comuni, che, pur scindendo il profilo della conformità urbanistica da quello del consenso dei condòmini, ammettono invece che il controllo dell’amministrazione risponda specificamente «alla esigenza di prevenire controversie in ordine alla gestione della cosa comune ed alla potenziale lesione delle prerogative proprietarie»[viii].
Queste oscillazioni giurisprudenziali sulla finalità del controllo e sulla effettiva distinzione tra legittimità urbanistica e titolo civilistico mostrano come, una volta accettata l’idea che all’amministrazione competa un controllo sui titoli, non sia facile individuarne il limite. Del resto, il criterio della facile rilevabilità della contestazione – pur fondato sulle ragioni richiamate: evitare il rilascio di titoli edilizi a chi non ne abbia la legittimazione e al contempo non gravare l’amministrazione di un onere di controllo eccessivo – non appare pienamente convincente dal punto di vista teorico. Infatti, o si ritiene che la legge imponga all’amministrazione un controllo sui titoli del richiedente[ix] – e, allora, se così fosse, il controllo dovrebbe essere sempre fatto e in modo completo – oppure si ritiene che tale controllo non competa all’amministrazione.
Proprio quest’ultima è la via intrapresa dal CGARS nella sentenza che si annota: basandosi sulla distinzione tra rapporti fra condòmini e rapporto con l’amministrazione, il giudice ‘libera’ quest’ultima dall’onere del controllo sul rispetto delle regole civilistiche da parte del richiedente e si fa carico in maniera convincente delle conseguenze di tale distinzione.
3. La distinzione di piani nella sentenza del CGARS
La pronuncia ruota attorno alla questione dell’assenza del consenso dei condòmini alla costruzione della canna fumaria: il punto è, del resto, «dirimente» per i giudici dal momento che l’ordinanza di demolizione è motivata con rinvio alla relazione di sopralluogo nella quale «dopo il riferimento all’art. 1102 del c.c., testualmente è riportato che “in conseguenza del mancato assenso preventivo reso dagli altri soggetti comproprietari, viene meno la piena legittimità da parte del sig. …, alla collocazione dell’opera in argomento su parti comuni…”».
Ebbene, ad avviso del CGARS, l’errore dell’amministrazione è consistito proprio nell’aver sovrapposto il piano dei rapporti civilistici tra condòmini con quello relativo alla conformità urbanistica dell’opera. Si legge, infatti, nella pronuncia che l’amministrazione «dalla supposta violazione dell’art. 1102 c.c., il cui accertamento invece appartiene al Giudice ordinario, ha fatto derivare l’illegittimità urbanistica, con conseguente emissione dell’ordinanza di demolizione e, a seguire, quella di acquisizione»: secondo i giudici siciliani, invece, l’abusività di un’opera «che sia urbanisticamente realizzabile» non può essere «in alcun senso condizionata dall’assenso o dal dissenso degli altri comproprietari», essendo pacifico che i loro diritti «non sono giammai pregiudicati dal rilascio del titolo edilizio». E tra questi diritti rientrano anche quelli connessi all’eventuale violazione dei limiti posti dall’art. 1102 c.c. e alla lesione del decoro architettonico dell’edificio. La distinzione dei piani non porta naturalmente ad affermare l’irrilevanza delle norme civilistiche ma a prendere atto che la loro violazione rileva unicamente nei rapporti fra condòmini: ricorrendo ancora alle parole della sentenza, alla violazione di tali norme «corrispondono diritti soggettivi individuali di ogni altro condomino, e non già interessi legittimi tutelabili in via amministrativa».
Ne consegue che «i diritti dei terzi sono tutelabili (esclusivamente) mediante azioni civili innanzi al Giudice ordinario». Il CGARS nega dunque la possibilità per il terzo, in un caso di questo tipo, di ottenere la ‘doppia tutela’, cioè la tutela dei diritti di fronte al giudice ordinario e degli interessi legittimi lesi dal titolo edilizio di fronte al giudice amministrativo: il condomino è, infatti, estraneo al rapporto tra l’amministrazione e il costruttore e, per definizione, non può venirne leso.
La tesi del CGARS è molto lineare e porta con sé alcune conseguenze, esplicitate nella sentenza.
In primo luogo, secondo i giudici siciliani, la legittimità di un intervento edilizio che uno dei condòmini richieda di fare sulla parte comune ai sensi dell’art. 1102 c.c. deve essere valutata dall’amministrazione «senza riguardo ai profili civilistici e ai connessi limiti posti dal cit. art. 1102», incluso quindi il rispetto del decoro architettonico. L’amministrazione è infatti competente ad autorizzare un simile intervento «solo per i profili amministrativi», mentre sui profili civilistici ha titolo di pronunciarsi unicamente il giudice civile.
La stessa distinzione di profili si realizza anche sul piano esecutivo. Secondo la tesi del CGRAS, non è compito dell’amministrazione quello di dare esecuzione alle sentenze del giudice civile[x]. Del resto, come sottolinea la sentenza, l’amministrazione ha la possibilità di intervenire in autotutela per revocare o annullare un’autorizzazione illegittima, senza che ciò dipenda da una precedente o sopravvenuta sentenza del giudice civile. Il CGARS ammette naturalmente che dalla sentenza del giudice civile possa sorgere un obbligo di rimozione di un’opera: tuttavia, un simile intervento repressivo è azionabile da chi ne abbia titolo nei modi previsti dal codice di procedura civile.
Infine, mentre la tesi del giudice di primo grado si fondava sulla difesa dei diritti dei condòmini, il CGARS svolge in proposito un ragionamento opposto: l’amministrazione non solo difetta del potere di intervenire in tal senso, ma difetta anche «degli strumenti tecnici per valutare» simili questioni civilistiche. Vi è di più: i diritti dei condòmini – prosegue la sentenza – potrebbero addirittura essere lesi dall’intervento dell’autorità pubblica («anche solo in via di stretta esecuzione delle sentenze rese dal giudice civile»). Infatti, anche dopo la demolizione imposta dal giudicato civile, le parti «restano perfettamente libere di transigere o novare ogni loro diritto od obbligo scaturente da esso»: pertanto, l’esecuzione della pronuncia da parte dell’amministrazione potrebbe ledere «il diritto di tutte le parti a ulteriormente esercitare la propria autonomia negoziale pur dopo il giudicato civile». Se, invece, la condomina controinteressata avesse inteso opporsi ancora all’attività edilizia, avrebbe dovuto coerentemente «rivolgersi nuovamente al Giudice ordinario per accertare se la nuova canna fumaria violasse ancora il decoro architettonico».
4. Le ragioni per la tesi civilistica.
La soluzione individuata dal CGARS si distingue per chiarezza dei presupposti e coerenza degli sviluppi. A fronte di una vicenda che, pur nella sua ordinarietà di lite condominiale, si era intricata per il susseguirsi di provvedimenti amministrativi e giurisdizionali, i giudici siciliani individuano la soluzione nella separazione dei rapporti che intercorrono, rispettivamente, tra i condòmini e tra il costruttore e la pubblica amministrazione.
Non si tratta di una novità: la stessa Corte di Cassazione[xi] afferma che è irrilevante, sul piano civilistico, che l’attività edilizia sia stata acconsentita dalla pubblica amministrazione. Meno limpida è invece, come s’è detto, la giurisprudenza amministrativa[xii], che anche quando riconosce che l’amministrazione non debba occuparsi di questioni civilistiche, tuttavia ritiene sussistente un dovere di controllo prima faciedell’amministrazione sul titolo del richiedente. Non sembra però potersi tenere tutto insieme: se si ammette che l’amministrazione debba – più o meno approfonditamente – occuparsi delle vicende civilistiche, allora i due piani finiscono per sovrapporsi[xiii], con le conseguenze stigmatizzate dallo stesso CGARS, cioè l’assenza dei mezzi per dirimere la controversia in capo all’amministrazione e la potenziale lesione dell’autonomia privata[xiv].
Che la soluzione di un contrasto tra privati circa la titolarità di un diritto sia un compito complesso, che sfugge alla competenza dell’amministrazione pubblica, è dimostrato anche dal caso che ci interessa, nel quale la questione civilistica pareva invece chiara, sia perché evidente risultava il dissenso di un condomino, sia perché si era addirittura formato sul punto un giudicato civile: eppure, come ammesso dallo stesso Tar nella pronuncia di primo grado, i limiti di quel giudicato non erano facilmente identificabili (si poneva infatti, in concreto, la questione di individuare a quale delle diverse canne fumarie installate nel tempo si riferisse l’ordine di demolizione del giudice civile)[xv].
Di là dalla difficoltà pratica, occorre però ancor prima domandarsi se sul piano giuridico l’amministrazione sia tenuta a svolgere una simile funzione arbitrale e se la sua attività debba essere condizionata da una contestazione sul titolo civilistico. La risposta alla domanda dovrebbe dipendere dalla disciplina della singola fattispecie: l’amministrazione è, infatti, titolata a intervenire e a effettuare un controllo quando una norma lo richieda[xvi]. Ebbene, in questo caso, sia che si ritenga (come fa il Tar) che l’installazione della canna fumaria necessitasse del permesso di costruire, sia che si ritenga invece (come il CGARS) che l’intervento richiedesse una semplice s.c.i.a., le norme che disciplinano l’attività dell’amministrazione non richiedono un controllo sul titolo del richiedente[xvii]. A quest’ordine di idee aderisce anche il CGARS, che addirittura offre un esempio in motivazione: dopo aver ribadito che non spetta all’amministrazione, «neanche incidentalmente», di valutare se l’opera integri un’alterazione della destinazione della cosa comune o se il suo utilizzo sia incompatibile con l’uso paritario altrui o se l’opera sia lesiva del decoro architettonico, i giudici sottolineano che quest’ultimo compito potrebbe spettare semmai «solo nei congrui casi» all’amministrazione dei beni culturali.
Vero è che il permesso di costruire deve essere rilasciato dall’amministrazione al «proprietario dell’immobile o a chi abbia titolo per richiederlo», tuttavia lo stesso articolo del testo unico sull’edilizia si chiude con la clausola di salvezza dei diritti dei terzi (art. 11, c. 3, d.P.R. n. 380/2001), sulla quale si fonda il sistema. I terzi non sono pregiudicati dal rilascio del titolo edilizio e non sono privati di tutela, ma possono richiederla nelle forme previste dalle leggi e dal processo civile[xviii].
Questa non è l’unica possibile interpretazione della clausola di salvezza dei diritti dei terzi. Si è, infatti, anche sostenuto in dottrina che i diritti dei terzi non solo non possano, ma neppure debbano essere lesi dall’attività dell’amministrazione. Ne conseguirebbe che l’amministrazione sarebbe tenuta a negare il rilascio del titolo edilizio ogni volta che vi sia una contestazione sul diritto del richiedente, «pur in presenza di un progetto astrattamente conforme alla normativa urbanistica della zona di riferimento»: ciò non solo nel caso in cui emerga «con chiarezza» l’assenza del titolo di godimento ma anche quando la sua sussistenza sia «incerta o contestata»[xix]. Simile ricostruzione supera, quindi, anche l’impostazione della giurisprudenza prevalente (che richiede solo un controllo prima facie sui titoli) ed è certamente coerente con le proprie premesse.
Si può, tuttavia, obiettare che il significato della clausola di salvezza sembra proprio quello di separare il rapporto che corre tra amministrazione e richiedente da quello privatistico che lega quest’ultimo a eventuali terzi. Si arriverebbe inoltre, sul piano pratico, alla conseguenza, difficilmente accettabile, che il rilascio di un titolo edilizio dovrebbe essere negato, pur se vi sia la conformità urbanistica, almeno[xx] fino alla pronuncia del giudice civile[xxi], e in presenza di una semplice opposizione[xxii] da parte di un controinteressato.
[i] Per questo orientamento, in dottrina, v. F. Gaffuri, Il permesso di costruire e i diritti dei terzi, in Urb. App., 2/2012, 150 ss., secondo cui «(…) il potere amministrativo di conformazione delle iniziative edilizie si pone in stretta correlazione con tutte le altre discipline che hanno come “terminale”, immediato e diretto, il territorio, nel suo complesso o nelle singole parti di cui si compone, quali, ad esempio, la materia ambientale, la materia paesaggistica e, per l’appunto, la disciplina dei rapporti negoziali e dei diritti reali contenuta nel codice civile» (ivi, 157).
[ii] Per una rassegna degli orientamenti giurisprudenziali in materia, si vedano, tra altri, A. Berra, R. Damonte, Art. 11, in M.A. Sandulli (a cura di), Testo unico dell’edilizia, III ed., Giuffrè, Milano, 2015, spec. 336 ss. e A. Chierichetti, Testo unico in materia edilizia, Art. 11, in R. Ferrara, G.F. Ferrari (a cura di), Commentario breve alle leggi in materia di urbanistica ed edilizia, III ed., Wolters Kluwer-Cedam, Milano, 2019, spec. 293 ss.
[iii] Cioè il conseguente accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione, nonché il provvedimento con cui veniva comunicata la immissione in possesso e l’acquisizione gratuita al patrimonio del Comune ai sensi dell’art. 31, c. 3, d.P.R. n. 380/2001.
[iv] Tar Sicilia, Catania, I, 13 dicembre 2021, n. 3730.
[v] In particolare, l’art. 1120, c. 4, c.c. prevede che «Sono vietate le innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino».
[vi] La citazione è tratta da Cons. Stato, VI, 13 marzo 2023, n. 2618, pronuncia conforme alla più recente giurisprudenza del massimo giudice amministrativo. Nella stessa sentenza si legge che, in un caso simile a quello di cui ci si sta occupando, «era preciso compito dell’Amministrazione verificare l’effettiva legittimazione dell’appellante a richiedere il titolo richiesto» e che il Comune «non poteva ignorare la posizione esplicitamente espressa dal condominio» in senso contrario all’intervento edilizio. Si vedano anche, sempre in tema di costruzioni su parti comuni, Cons. Stato, VI, 30 agosto 2022, n. 7540 e Cons. Stato, IV, 4 maggio 2010, n. 2546 (dove i giudici ritengono che, pur mancando il consenso dei condòmini, lo stesso non era necessario poiché, nel caso di specie, appariva «manifesta» la «osservanza dei limiti posti dagli artt. 1102 e 1120 c.c. all’uso del tetto comune da parte dei singoli comproprietari»).
[vii] Cons. Stato, IV, 24 febbraio 2022, n. 1302, citata da M.A. Sandulli, Edilizia, in Riv. Giur. Ed., 3/2022, 171 ss., cui si rinvia in generale sul tema. Netta circa la distinzione tra rapporto pubblico e rapporti privati è anche Cons. Stato, 24 marzo 2011, n. 1770, ove si legge che «la concessione edilizia è un atto amministrativo che rende semplicemente legittima l’attività edilizia nell’ordinamento pubblicistico, e regola solo il rapporto che, in relazione a quell'attività, si pone in essere tra l'autorità amministrativa che lo emette ed il soggetto a favore del quale è emesso, ma non attribuisce a favore di tale soggetto diritti soggettivi conseguenti all’attività stessa, la cui titolarità deve essere sempre verificata alla stregua della disciplina fissata dal diritto comune» (in proposito v. anche A. Chierichetti, Testo unico in materia edilizia, Art. 11, cit., 293). La distinzione tra attività pubblicistiche e questioni civilistiche trova conferma anche nella giurisprudenza della Cassazione: si veda, per esempio, Cass. civ., II, 20 gennaio 2022, n. 1764, secondo cui «[…] in tema di distanze nelle costruzioni, il principio secondo cui la rilevanza giuridica della licenza o concessione edilizia si esaurisce nell’ambito del rapporto pubblicistico tra P.A. e privato, senza estendersi ai rapporti tra privati, deve essere inteso nel senso che il conflitto tra proprietari interessati in senso opposto alla costruzione deve essere risolto in base al diretto raffronto tra le caratteristiche oggettive dell’opera e le norme edilizie che disciplinano le distanze legali, tra le quali non possono comprendersi anche quelle concernenti la licenza e la concessione edilizia, perché queste riguardano solo l’aspetto formale dell’attività costruttiva, con la conseguenza che, così come è irrilevante la mancanza di licenza o concessione edilizia allorquando la costruzione risponda oggettivamente a tutte le prescrizioni del codice civile e delle norme speciali senza ledere alcun diritto del vicino, così l’aver eseguito la costruzione in conformità della ottenuta licenza o concessione non esclude di per sé la violazione di dette prescrizioni e quindi il diritto del vicino, a seconda dei casi, alla riduzione in pristino o al risarcimento dei danni».
[viii] Tar Campania, VI, 18 aprile 2017, n. 2114, ove si legge che l’assenso dei condòmini «non rileva ai fini della conformità urbanistica […] trattandosi di aspetti rimessi alla esclusiva valutazione della autorità amministrativa», ma tuttavia «la necessità di acquisire il previo assenso dei condomini ai fini del rilascio di titoli abilitativi al posizionamento sulle facciate dei fabbricati di canne fumarie, risponde alla esigenza di prevenire controversie in ordine alla gestione della cosa comune ed alla potenziale lesione delle prerogative proprietarie».
[ix] L’obbligo del controllo si potrebbe ricavare dall’art. 11, c. 1, d.P.R. n. 380/2001, che stabilisce che il permesso di costruire sia rilasciato «al proprietario dell’immobile o a chi abbia titolo per richiederlo» oppure, in generale, dall’art. 6, c, 1, lett. a) della l. n. 241/1990, laddove richiede che il responsabile del procedimento valuti «le condizioni di ammissibilità i requisiti di legittimazione ed i presupposti che siano rilevanti per l’emanazione del provvedimento» (in tal senso, v. A. Berra, R. Damonte, Art. 11, cit., 338); si veda anche F. Gaffuri, Il permesso di costruire e i diritti dei terzi, cit., 157.
[x] In senso conforme, v. anche la successiva sentenza del CGARS, sez. giurisdizionale, 21 agosto 2023, n. 535.
[xi] Cass. civ., SS.UU., 22 settembre 2016, n. 18571; Cass. civ., II, 20 ottobre 2021, n. 29166.
[xii] Non tutta, però: si vedano per esempio Tar Abruzzo, L’Aquila, I, 23 marzo 2016, n. 177 e Cons. Stato, V, 7 settembre 2009, n. 5223.
[xiii] Per usare le parole di A. Berra, R. Damonte, Art. 11, cit., 325, «la disciplina civilistica si proietta su quella amministrativa per quanto riguarda l’esatta individuazione del soggetto titolare dello jus aedificandi ed in quanto tale abilitato a conseguire il titolo edificatorio».
[xiv] Sul punto sia consentito rinviare a L. Ferrara, G. Mannucci, I. Piazza, Sui rapporti di vicinato in una giurisprudenza recente. Diritti soggettivi e interessi legittimi, diritti soggettivi trasformati in interessi legittimi o soltanto diritti soggettivi?, in Dir. Pubbl., 2023, spec. 315.
[xv] Si trova in ciò conferma, incidentalmente, che in sede di esecuzione civile vengono compiuti accertamenti preordinati alla stessa esecuzione della sentenza: in generale sul tema si rinvia, per tutti, a P. Biavati, Argomenti di diritto processuale civile, BUP, Bologna, 2023, 783 ss.; in particolare sulla analogia, da questo punto di vista, tra processo di esecuzione e giudizio di ottemperanza si rinvia invece a L. Ferrara, Dal giudizio di ottemperanza al processo di esecuzione. La dissoluzione del concetto di interesse legittimo nel nuovo assetto della giurisdizione amministrativa, Giuffrè, Milano, 2003, spec. 57 ss. e 250 ss.
[xvi] Per questa impostazione, v. G. Mannucci, La tutela dei terzi nel diritto amministrativo. Dalla legalità ai diritti, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2016, 246 ss.
[xvii] Diverso è il caso delle norme sulle distanze tra le costruzioni, che, come noto, costituiscono limiti legali e integrano il parametro di conformità edilizia: oltretutto, in questo caso, «trattandosi (…) di vincoli direttamente imposti dalla legge, per essi non si pongono certo problemi in tema di “conoscibilità” dei medesimi da parte dell’Amministrazione» (A. Berra, R. Damonte, Art. 11, cit., 322). Anche su questo punto, v. G. Mannucci, La tutela dei terzi nel diritto amministrativo, cit., 249 ss. Nega che la verifica dell’amministrazione sul titolo del richiedente possa «mai tradursi in una funzione arbitrale o paragiudiziale» G. Pagliari, Il permesso di costruire, in F.G. Scoca, P. Stella Richter, P. Urbani (a cura di), Trattato di diritto del territorio, vol. I, Giappichelli, Torino, 2018, 771 s., secondo cui l’attività dell’amministrazione debba limitarsi a una «verifica dell’idoneità giuridico-formale del documento prodotto ad attestare la titolarità del diritto di proprietà o della diversa qualità vantata per legittimare la richiesta del permesso di costruire».
[xviii] Come ricorda anche il CGARS nella sentenza, il rilascio del titolo edilizio deve avere «esclusivo riguardo alla compatibilità urbanistica» dell’opera; il che «non implica affatto che essa non sia lesiva di diritti soggettivi altrui», ma ogni questione che li riguarda ha una «unica sede competente, che è il giudizio civile». Una ricostruzione simile è seguita anche in L. Ferrara, G. Mannucci, I. Piazza, Sui rapporti di vicinato in una giurisprudenza recente, cit., spec. 314 ss.
[xix] F. Gaffuri, Il permesso di costruire e i diritti dei terzi, cit., 158.
[xx] Ché, come abbiamo visto, neppure il giudicato civile è a volte in grado di chiudere la questione.
[xxi] F. Gaffuri, Il permesso di costruire e i diritti dei terzi, cit., 159.
[xxii] Lo stesso Autore specifica che la contestazione dovrebbe essere «puntuale e dettagliat[a]» (F. Gaffuri, Il permesso di costruire e i diritti dei terzi, cit., 158), introducendo tuttavia così un elemento di valutazione che si scontra con la linearità della stessa tesi; anche D. Chinello, Legittimazione edilizia dei singoli condòmini per intervenire sulle parti comuni e poteri comunali di verifica, in Urb. App., 4/2012, 461, che aderisce alla tesi del controllo sui titoli da parte dell’amministrazione, suggerisce di porre a carico del richiedente una «accurata verifica tecnica» circa la applicazione dell’art. 1102 c.c. e, quindi, circa possibilità di effettuare un intervento sulle parti comuni senza aver prima ottenuto il consenso dei condòmini. Sulla necessaria ‘serietà’ delle contestazioni sul titolo civilistico, si veda la recente sentenza del CGARS, sez. giurisdizionale, 15 settembre 2023, n. 569.
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