ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Giudici laici ed Onorari Europei. Viaggio attorno alla conoscenza delle norme CEDU e della Carta Europea.
Report dell'assemblea dei giudici laici e onorari europei che si è tenuta a Lipsia dal 10 al 12 maggio 2024 in occasione della giornata del Giudice Laico.
di Alessia Perolio
Sommario: 1. Premessa – 2. Dal Processo di Lipsia al principio di legalità - 3. Il Primo Processo di Lipsia quale antecedente alla creazione della Corte Penale Internazionale - 4. Il Secondo Processo di Lipsia e la violazione del diritto di legalità e dei diritti umani - 5. Il principio di legalità - 6. Lo stato della magistratura laica ed onoraria in Europa - 7. Commissione per la redazione di un comune codice etico.
1. Premessa
Si è svolta a Lipsia, città nello Stato della Sassonia, nella ex Germania dell'Est, l’annuale assemblea della Rete Europea dei Giudici Laici ed Onorari Enalj.
La città, culturalmente attiva sin dall’antichità, è famosa per ospitare nella chiesa tardo gotica di San Tommaso la tomba del compositore J.S Bach, nonché per essere stata scelta nel 1519 quale sede per la celebre disputa fra Lutero e Johammes Eck ed ancora, per essere stata la sede universitaria ove studiò Goethe.
In epoca più recente, la chiesa di San Nicola ebbe un ruolo importante per la caduta del regime comunista, nel 1989, in quanto sede di incontro per le "manifestazioni del lunedì".
2. Dal Processo di Lipsia al principio di legalità
L’assemblea di Enalj cui hanno partecipato delegazioni di Italia, Germania, Austria, Polonia, Svezia, Finlandia, Belgio e Bulgaria, è stata preceduta da una visita alla sede della Corte Amministrativa Federale, suprema corte della giustizia amministrativa della Germania, che si occupa principalmente di dispute tra i cittadini e lo Stato ad eccezione delle materie riguardanti le politiche sociali, devolute alla Corte sociale federale, e a quelle riguardanti al finanza, gestite dalla Corte fiscale federale.
Il palazzo, dopo la prima guerra mondiale era stato sede del Supremo Tribunale Costituzionale della Repubblica di Weimar, che decideva nei casi di conflitto fra il governo del Reich e quelli dei singoli stati.
3. Il Primo Processo di Lipsia quale antecedente alla creazione della Corte Penale Internazionale
Presso la Corte Suprema Tedesca dal 23 maggio al 16 luglio 1921 si tenne il Processo di Lipsia. Un processo a criminali di guerra tedeschi della prima guerra mondiale, celebrato come parte delle sanzioni imposte al Governo Tedesco nel Trattato di Versailles.
Di attuale importanza anche ai giorni nostri, per le vicende che riguardano le guerre alle porte dell’Europa, il processo di Lipsia viene ricordato in quanto fu il primo tentativo di elaborare un sistema globale per il perseguimento delle violazioni del diritto internazionale. Tendenza rinnovata nel corso della seconda guerra mondiale, e dopo la fine della Guerra fredda, sino a giungere alla costituzione della Corte penale internazionale nel 2002.
4. Il Secondo Processo di Lipsia e la violazione del diritto di legalità e dei diritti umani
Maggiormente famoso, è il processo che si svolse a Lipsia a seguito dell’incendio del Reichstag davanti alla IV Sessione penale del tribunale del Reichstag e che iniziò nell’aprile del 1933 e terminò con la sentenza pronunciata il 23 dicembre.
Imputati tre comunisti bulgari, uno dei quali, Georgi Dimitrov (eroe bulgaro) figura di spicco del comunismo internazionale in quanto capo del Komintern per l’Europa Occidentale.
Il processo ebbe un’enorme risonanza mediatica, sia in Europa che negli Stati Uniti e fu consentito di seguire il dibattito a ottantadue corrispondenti di giornali stranieri, oltre dodici tedeschi.
Il caso fu emblematico in quanto vennero violate alcune delle procedure ordinarie quali la mancata fornitura di un’immediata assistenza legale agli imputati e l’uso delle catene con modalità degradanti e prive del rispetto della dignità umana.
Infatti i sospettati vennero tenuti incatenati dal 4 aprile al 31 agosto 1933, sia di giorno che di notte, addirittura durante le prime tre settimane vennero ammanettati anche alle caviglie, violando apertamente le più elementari procedure carcerarie.
Inoltre quale corollario al processo si ricorda che al fine di riuscire a condannare i ritenuti colpevoli dell’incendio del Reichstag il governo nazista aveva fatto approvare una legge, la cosiddetta Lex van der Lubbe (dal nome di uno degli imputati) del 29 marzo 1933, secondo la quale era prevista la condanna a morte per reati volti a sovvertire l’ordine.
Tuttavia il reato era stato commesso il 27 febbraio, quindi prima dell’entrata in vigore della normativa. Il Governo dell’epoca tuttavia aveva estesero la validità della legge a tutti i crimini compiuti a partire dal 30 gennaio.
La legge risultava così essere una vera e propria lex contra personas.
Nella sala dove si svolse il processo, i membri di Enalj hanno avuto modo di riflettere su alcuni aspetti che concernono il processo moderno.
Innanzitutto il rimando ai processi celebrati nel palazzo visitato ha permesso di focalizzare l’attenzione sull’uso ed abuso di procedure che ledono il rispetto della dignità umana e dell’attualità del tema, in relazione alla violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo cui “nessuno può essere sottoposto a trattamenti inumani o degradanti”.
5. Il principio di legalità
Richiamando le vicende del Processo di Lipsia del 1933, si è posta l’attenzione su di un importante principio: il Nullum crimen, nulla poena sine praevia lege poenali.
L’articolo 7, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 stabilisce che: «Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso».
Parimenti, sul versante del diritto dell’Unione, Il Trattato sull’Unione europea, e più precisamente l’articolo 49 della Carta rispecchia che amplia l’articolo 7, paragrafo 1, della CEDU, prevede che «1. Nessuno può essere condannato per un’azione o un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso. Se, successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, occorre applicare quest’ultima.
2. Il presente articolo non osta al giudizio e alla condanna di una persona colpevole di un’azione o di un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, costituiva un crimine secondo i principi generali riconosciuti da tutte le nazioni.»
L’Assemblea di Enalj, guidata dal Presidente Rainer Sedelmayer e dal segretario Hasso Lieber ha trattato alcuni tempi importanti quali la richiesta di maggior partecipazione dei giudici laici all’amministrazione della giustizia quale principio di democrazia.
Il Presidente per la ricerca scientifica, Prof. Piotr Juchaz, professore di Filosofia del diritto presso l’Università Adam Mickiewicz University (che ha ospitato l’Assemblea di Enalj nel 2022) ha esortato le organizzazioni nazionali a farsi portavoce affinché sia garantita la loro partecipazione nei rispettivi Consigli Nazionali.
Questa richiesta va di pari passo a quella avanzata da tempo dalla magistratura onoraria italiana che chiede di poter eleggere propri rappresentanti non solo presso i consigli giudiziari ma anche presso il Consiglio Superiore della Magistratura al fine di portare la voce dei tanti magistrati onorari che contribuiscono ad amministrare la giustizia.
La professoressa Daniela Heid, Ph.D alla Università Federale di Scienze amministrative applicate ha tenuto una lezione relativa alla struttura dell’Unione Europea, ripercorrendo le tappe che vanno dalla prima approvazione dei trattati che istituivano la CECA e l’EURATOM al Trattato di Lisbona.
L’assemblea ha avuto modo di instaurare un dibattito con la professoressa Heid e la Professoressa Karolina M. Cern, vicedirettore per la ricerca e la cooperazione internazionale, intervenuta all’assemblea per parlare dei modelli di partecipazione laica alla giustizia. La professoressa Cern ha ipotizzato che le istituzioni europee possano raccomandare agli stati membri di promuovere maggiormente la partecipazione laica all’amministrazione della giustizia, inserendo la previsione nel dettato costituzionale dei singoli paesi membri.
Vi è quindi una maggior richiesta di partecipazione all’amministrazione della giustizia da parte di tutte le associazioni europee che vogliono sensibilizzare la cittadinanza circa il lavoro svolto.
6. Lo stato della magistratura laica ed onoraria in Europa
Tra i report nazionali si segnala quello bulgaro, che, in vista di una riforma della figura di giudice laico, ha portato i giudici laici bulgari a chiedere aiuto a tutti i partecipanti al fine di confrontarsi sulla natura, l’impegno, la tutela dei diritti dei lavoratori nonché il trattamento economico. Ciò a significare che l’esigenza di maggior tutela non è solo una prerogativa della magistratura italiana ma è sentita in varie parti dell’Unione.
Di rilievo è la dichiarazione di Solidarietà alla causa della magistratura onoraria italiana votata dall’Assemblea che ha dato mandato di firma al Presidente Sedelmayer affinché inoltrasse alle autorità italiane una lettera di supporto e di auspicio ad una rapida definizione delle annose vicende che riguardano la magistratura onoraria italiana.
Report molto interessante è quello dell’associazione tedesca di giudici laici DVD che con la sua rivista Richter Ohne Robe (letteralmente giudici senza toga) si occupa di trattare vari temi concernenti la magistratura onoraria tedesca. In particolar modo dal report del 2024 emerge l’attenzione dell’associazione circa le modalità di reclutamento dei magistrati laici. Soprattutto in relazione all’esigenza di maggior controllo dei soggetti che vengono arruolati tra le file della magistratura laica. La preoccupazione che viene messa in rilievo anche da altre associazioni tedesche è che i magistrati laici ed onorari non siano soggetti asserviti alla politica, poiché vi è il rischio, in mancanza di regole deontologiche ed etiche, che vi sia una deriva xenofoba.
7. Commissione per la redazione di un comune codice etico
Tale argomento si collega con l’ultimo punto trattato all’ordine del giorno dell’Assemblea. Volutamente lasciato per ultimo in quanto merita un approfondimento maggiore. Si tratta della creazione di una commissione per la redazione dei principi del Codice Etico comune ai giudici onorari e laici.
Della commissione fanno parte la Polonia che tramite il Prof. Juchaz la presiede, nonché la Germania con il proprio rappresentante Hasso Lieber dell’associazione Parijus, l’Italia rappresentata dalla dott.ssa Alessia Perolio, magistrato onorario di Tribunale, e delegata UNIMO, nonché la Bulgaria con il Mimo Gracia fondatore della Fondazione Giudici laici e la Finlandia rappresentata da Ollavi Kuikka. L’obbiettivo è quello di redigere un codice che contenga delle norme etiche che rappresentino la sintesi tra la normativa di tutti gli stati membri e siano considerate il minimo denominatore comune applicabile a tutte le variegate figure di giudici onorari e laici che compongono l’associazione.
(Immagine: la sede di Lipsia della Corte amministrativa federale, foto via Wikimedia Commons)
1. Il tema della sessione odierna, all’interno di un convegno dedicato a magistratura e social network, è assai ampio perché investe la comunicazione istituzionale ed extraistituzionale e, quindi, anche le esternazioni dei magistrati non concernenti i procedimenti dagli stessi trattati ed attinenti a vicende politiche, giudiziarie e di costume. Non mi soffermo sulla differenza tra social network e social media e, muovendo dalla nozione data di questi ultimi dal Consiglio Consultivo dei giudici europei (CCJE)[1], svolgo alcune considerazioni esclusivamente in ordine ai limiti che si impongono ai magistrati nella comunicazione extraistituzionale stabiliti da norme di diritto positivo e la cui violazione può dare luogo a responsabilità disciplinare.
2. I social media, soprattutto nei primi anni di diffusione, hanno costituito uno spazio in cui tutto sembrava possibile, regolamentato dal legislatore, non solo italiano, con ritardo e non sempre con efficacia. Questo spazio virtuale è occupato anche dai magistrati, non di rado con esternazioni su questioni della politica e di costume e su vicende giudiziarie, con esiti spesso criticati dall’opinione pubblica, ma non solo, soprattutto in quanto rischierebbero di appannare l’immagine di imparzialità. Il loro uso da parte dei magistrati è quindi diventato «argomento di attuale preoccupazione» per la stessa magistratura[2] ed ha reso pressante la questione delle regole che devono governarlo. Il Consiglio consultivo dei giudici europei (CCJE) ha infatti sottolineato «che ancora pochi codici di condotta forniscono orientamenti pratici specifici a questo riguardo»[3]; nel senso di una carente regolamentazione positiva è l’indicazione contenuta in un atto dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di cassazione[4].
È difficile dissentire da tale constatazione, se si ha riguardo ai doveri stabiliti dal codice disciplinare recato dal d.lgs. n. 109 del 2006 (di seguito, codice), i soli la cui violazione dà luogo a responsabilità disciplinare, sui quali mi soffermo brevemente.
3. La cautela raccomandata da molti atti sovranazionali ed internazionali nell’utilizzo dei social mediada parte dei magistrati[5] costituisce il contenuto dei doveri generali stabiliti dall’art. 1, comma 1, del codice, concernenti però esclusivamente quelli nell’esercizio delle funzioni. Questa disposizione stabilisce i doveri del «riserbo»[6], dello «equilibrio», della «imparzialità» (anche come immagine della stessa), i quali implicano e sanciscono quello di cautela. Riduce, ma non vanifica l’importanza dell’enunciazione la sua «funzione prevalentemente simbolica (o se si vuole "pedagogica") e deontologica», poiché, ferma l’inidoneità ad incidere sulla tipizzazione contenuta nel codice, assume rilievo «nell'ambito delle valutazioni rimesse al giudice in presenza di clausole generali»[7]. Nondimeno, la riferibilità dei doveri alle condotte tenute nell’esercizio delle funzioni esclude che possano riguardare la comunicazione social extraistituzionale, strutturalmente inidonea ad integrare le fattispecie dell’art. 2 del codice, salvo, forse, quanto a due delle stesse.
La prima è quella prevista dal comma 1, lettera c) (violazione dell’obbligo di astensione), che può assumere rilievo non soltanto sul piano probatorio, circostanza questa da sola insufficiente a desumere dalla previsione un limite concernente l’uso dei social[8]. La considerazione che i social sono caratterizzati da un’ampia gamma di modalità di interazione (like, commenti, post, segni grafici di differente significato, quali il pollice alzato, il cuore ecc.), in continua evoluzione, pone infatti la questione del significato di detti segni e del nuovo significato di risalenti nozioni (in particolare dell’amicizia) e può preludere ad un rilievo della stessa ai fini dell’integrazione di detto illecito. La questione è stata approfondita in altri ordinamenti[9], di recente anche dal Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa con riguardo alla nozione di «amicizia»[10]. Quest’ultimo si è orientato nel ritenere che «le amicizie sui profili social non costituiscono un elemento di per sé rilevante a manifestare la reale consuetudine di rapporto personale» e, quindi, i presupposti dell’obbligo di astensione. Nondimeno, ha dato atto che «le amicizie e i contatti sui social network e media, pur non equiparabili a quelli della vita reale, quando concernono persone coinvolte nell’attività professionale del magistrato devono essere contenute ovvero evitate, allorché essi possano incidere sulla sua immagine di imparzialità». La direttiva è improntata a ragionevole prudenza, ma occorre andare oltre. In un tempo in cui sempre più evapora la distinzione tra mondo reale e mondo virtuale, è necessario riflettere sull’ammissibilità di un’interpretazione che omologhi le nozioni dei due diversi mondi e tenga altresì conto della forza del significato dei richiamati segni[11]. Tanto, ancora più in considerazione della natura di illecito di mera condotta della violazione dell’obbligo di astensione, che tutela l’immagine di imparzialità e non richiede, sotto il profilo soggettivo, il dolo specifico e, quindi, l’intento di favorire o danneggiare una delle parti[12]. Per dette ragioni, dalla fattispecie funzionale potrebbero essere desunti nuovi, precisi limiti che si impongono nella comunicazione in esame, con diretta ricaduta sull’esercizio delle funzioni di una condotta tenuta al di fuori delle stesse.
La seconda fattispecie è quella dell’art. 2, comma 1, lettera d) (comportamenti abitualmente o gravemente scorretti). Secondo la giurisprudenza di legittimità, i comportamenti che la integrano non devono necessariamente essere frutto dell'esercizio delle funzioni. Il concetto di "ufficio" non ha infatti una mera connotazione "logistica" e, quindi, i comportamenti non concernono i soli rapporti direttamente investiti dall'esercizio delle funzioni e riguardano anche le relazioni di tipo personale con soggetti che le hanno intessute con il magistrato per il ruolo che questi svolge, non essendo altresì necessario che la scorrettezza abbia avuto in concreto una ricaduta negativa in termini funzionali sui compiti istituzionali[13]. Non occorrendo che il comportamento sia frutto dell'esercizio delle funzioni, la norma prefigura «una responsabilità disciplinare “di posizione”»[14], che rende rilevante, ai fini dell’integrazione dell’illecito, la comunicazione social extraistituzionale.
Limitando l’attenzione ai social consistenti in applicazioni che permettono lo scambio di informazioni e documenti tra più di due persone (più complessi problemi si pongono per le app di scambio tra due sole persone) e che danno luogo ad una vera e propria piazza, sia pure virtuale, la comunicazione in esame può integrare l’illecito quando concerna colleghi e personale dell’ufficio[15], ovvero una parte del procedimento[16] e non di rado concorre con quello dell’art. 4, lettera d), del codice[17]. I doveri enucleabili dalla fattispecie sono dunque riferibili alla stessa, benché la rilevanza della condotta con riguardo ad un numero limitato di soggetti (magistrati, collaboratori dell’ufficio, parti, difensori e quanti abbiano avuto rapporti con il magistrato nell’ambito dell’ufficio giudiziario) ed a rapporti intessuti per ragioni di ufficio[18], tendenzialmente non li renda applicabili alle esternazioni socialaventi ad oggetto i più generali temi sopra indicati.
La comunicazione social extraistituzionale può, infine, venire in rilievo, in relazione alle fattispecie dell’art. 2, comma 1, lettere e), u), v)[19], ma esclusivamente sul piano probatorio, non al fine di identificare limiti alla stessa, fatta forse eccezione per la prima[20], ciò che rende inutile soffermarsi su di esse.
4. Le esternazioni a mezzo social non sembrano suscettibili di integrare le fattispecie dell’art. 3 del d.lgs. n. 109 del 2006. Il codice, nel disegno originario, contemplava, nell’art. 1, comma 2, i doveri inerenti ai comportamenti al di fuori dell’esercizio delle funzioni e stabiliva che non dovevano compromettere «la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio dell’ordine giudiziario». A tale dovere generale corrispondevano la fattispecie dell’art. 3, comma 1, lettera l), recante una rigorosa, ma generica, norma di chiusura secondo cui costituiva illecito «ogni altro comportamento tale da compromettere la terzietà e l’imparzialità del magistrato, anche sotto il profilo dell’apparenza», nonché quella della lettera f), in virtù della quale costituiva illecito disciplinare «la pubblica manifestazione di consenso o dissenso in ordine a un procedimento in corso quando, per la posizione del magistrato o per le modalità con cui il giudizio è espresso, sia idonea a condizionare la libertà di decisione nel procedimento medesimo».
L’abrogazione di dette disposizioni da parte della legge n. 269 del 2006 ha relegato fuori dell’ambito disciplinare le esternazioni che, per la polemica ed inappropriata presa di posizione del magistrato sui temi più vari (anche politici), potrebbero in tesi metterne in discussione l’immagine di imparzialità. Su tale conclusione non incide la riferibilità, sostenuta da una parte della dottrina, del dovere di riserbo dell’art. 1 all’attività extrafunzionale del magistrato[21] che, a tacere d’altro[22], deve fare i conti con la ricordata, limitata funzione dei doveri generali. Irrilevante, come accennato, è poi la valenza meramente probatoria della comunicazione social, extraistituzionale, al fine della prova dei presupposti delle fattispecie dell’art. 3.
5. Le esternazioni a mezzo social possono, infine, costituire illeciti disciplinari configurabili in relazione a fatti reato che, nei casi previsti dall’art. 4 del codice, assumono detta connotazione indipendentemente da una loro connessione con l’esercizio delle funzioni e concorrono con gli illeciti previsti dagli artt. 2 e 3 del codice[23].
In disparte l’analisi nel dettaglio delle fattispecie dell’art. 4, comma 1, lettere a), b), c), che qui non interessa, è sufficiente osservare che si tratta di un illecito in relazione al quale viene in rilievo il magistrato quale cittadino, che nei comportamenti incontra i limiti che si impongono a tutti e, con riguardo ad esternazioni che possono integrare il reato di diffamazione – quello cui, tendenzialmente, può dare luogo la comunicazione extraistituzionale social – si pongono le ordinarie questioni concernenti i presupposti della natura diffamatoria delle dichiarazioni[24] e l’idoneità dell’esternazione ad integrare una «comunicazione» con più persone[25].
Un elemento di specificità è costituito dalla previsione della lettera d), secondo cui costituisce illecito disciplinare «qualunque fatto costituente reato idoneo a ledere l'immagine del magistrato, anche se il reato è estinto per qualsiasi causa o l'azione penale non può essere iniziata o proseguita». La considerazione che l’archiviazione del procedimento penale non esclude l’illecito[26] rende chiaro l’aggravamento della posizione del magistrato rispetto a chi non è tale, ancora più dopo il rafforzamento dell’irrilevanza del provvedimento in ambito extrapenale con la riforma Cartabia[27]. Aggravamento che rinviene la sua ratio nell’esigenza di garantire un livello di correttezza più alto di quello che può essere preteso dal comune cittadino[28], di evidente importanza con riguardo al reato di diffamazione integrato dalle esternazioni nei social.
La configurazione dell’illecito è condizionata alla compromissione dell'immagine del magistrato e della funzione giudiziaria, sotto il profilo della credibilità e della imparzialità, unico bene giuridico protetto dalla richiamata disposizione[29]. Può dunque «accadere che un determinato fatto, pur integrando un’ipotesi di reato, sia però concretamente privo di una effettiva idoneità lesiva dell'immagine sociale del magistrato»[30]. La circostanza che la lesione dell’immagine dipende dalle concrete modalità di consumazione dell’illecito[31] e non è esclusa dalla «circostanza che l'immagine pubblica dell'incolpato sia stata, in concreto e direttamente, compromessa a seguito dello strepitusconseguente all'esercizio dell'azione disciplinare»[32], connota peraltro la norma di evidente rigore.
6. Il breve excursus dimostra la sostanziale inesistenza di limiti alla comunicazione socialextraistituzionale stabiliti dal codice. Sembra dunque emergere un vuoto nel sistema di tutela dei doveri deontologici del magistrato, nonostante sia convincimento pacifico e condiviso che questi anche nei comportamenti al di fuori dell’esercizio delle funzioni è tenuto ad una condotta in grado di preservare la considerazione di cui deve godere presso la pubblica opinione e la fiducia dei cittadini verso la funzione giudiziaria.
In realtà, non esiste il paventato vuoto assoluto. Il sistema deontologico della magistratura ordinaria si caratterizza rispetto a tutti gli altri (concernenti impiegati pubblici e professionisti) in quanto è articolato su più piani. A seguito dell’attribuzione all’A.N.M. dell’approvazione del codice etico[33], accanto ai doveri deontologici stabiliti dal codice, la cui violazione dà luogo a responsabilità disciplinare, sussistono infatti ulteriori, per certi versi più rigorosi, doveri deontologici, riferibili anche alla comunicazione in esame[34], dei quali è garante l’A.N.M. che, qualora ne accerti la violazione, irroga una sanzione che incide sul rapporto associativo.
Ulteriori doveri deontologici concernenti (per quanto qui interessa) il ‘saper essere’ magistrato, pure riferibili alla comunicazione in esame, sono altresì stabiliti dalle norme primarie, secondarie e dalle direttive consiliari[35], della cui osservanza è garante il C.S.M. e che vengono in rilievo, tra l’altro, in occasione delle valutazioni di professionalità e del conferimento degli incarichi semidirettivi e direttivi.
Si tratta di un articolato sistema che è rispettoso dei principi sovranazionali, i quali non esigono un’imprescindibile relazione tra dovere deontologico e responsabilità disciplinare[36] e che esclude l’esistenza del paventato vuoto assoluto.
7. Non è tuttavia possibile ignorare l’istanza per la previsione di limiti all’utilizzo dei social da parte dei magistrati proveniente dall’opinione pubblica, ma non solo, tenuto conto della richiamata presa di posizione del CGJE con l’Opinion n. 25-2022, che auspica l’introduzione nel codice di previsioni che rendano disciplinarmente sanzionabili le esternazioni social che non li osservano e che, tuttavia, deve fare i conti con complessi problemi.
Il primo è dato dalla difficoltà, se non dalla sostanziale impossibilità, della tipizzazione dell’illecito in esame che, peraltro, è questione che riguarda il complessivo sistema disciplinare, di cui ha dato atto anche il CCJE[37], ritenendo non «necessario (in virtù del principio nulla poena sine lege o su qualsiasi altra base) o anche possibile cercare di specificare in termini precisi o dettagliati a livello europeo la natura di tutti i comportamenti scorretti che potrebbero portare a procedimenti e sanzioni disciplinari»[38]. Siffatta difficoltà potrebbe far pensare all’introduzione nel codice di una clausola generale che renda disciplinarmente sanzionabili le esternazioni social lesive dei beni della credibilità della funzione, dell’imparzialità e della fiducia nella magistratura.
L’ardua praticabilità di una tale scelta è tuttavia nota, come lo è il risalente dibattito sulla questione della previsione degli illeciti disciplinari mediante una clausola generale, giudicata dalla Corte costituzionale rispettosa del principio di legalità[39], ma autorevolmente contrastata[40], non avendo avuto successo la tesi intermedia, prospettata nella Relazione Paladin, che suggeriva di prevedere «clausole finali con cui si colpisce ogni “comportamento idoneo” a ledere interessi specificamente individuati dalla legge»[41], accolta nel disegno originario del codice, ma, come accennato, abrogata dalla legge n. 269 del 2006.
La compatibilità con la Costituzione della scelta in favore di una clausola generale è tuttavia destinata a scontrarsi con ostacoli pressoché insormontabili, soprattutto con riguardo al tema in esame.
Il principio che dovrebbe informarla è chiaro, è stato più volte concordemente enunciato dalla giurisprudenza costituzionale e convenzionale[42] e da atti sovranazionali[43] ed è stato efficacemente sintetizzato dal C.S.M.[44]: i magistrati, come tutti i cittadini, godono della libertà riconosciuta e garantita dall’art. 21 Cost., ma la funzione svolta fa venire in rilievo valori costituzionali, che impongono un bilanciamento e, quindi, una compressione dell’espansione di detta libertà, la quale non deve compromettere l’affidabilità, la credibilità e l’immagine di imparzialità della magistratura. Ed è altresì arduo, pressoché impossibile, trovare chi non condivida le parole di Piero Calamandrei: «I giudici, per godere della fiducia del popolo, non basta che siano giusti, ma occorre anche che si comportino in modo da apparire tali»[45].
Se è facile concordare sul principio generale, assai difficile, se non impossibile, è giungere ad una condivisa applicazione dello stesso, per quanto chiaro, almeno all’apparenza. Stabilire quali siano gli accennati limiti, alla luce del bene protetto, pur essendo indiscusso che questo è costituito dalla credibilità e dall’immagine di imparzialità della funzione giudiziaria, vuol dire confrontarsi con un rebus sostanzialmente non risolubile. La pratica impossibilità di una soluzione condivisa emerge, in sintesi: x) dalla giurisprudenza costituzionale, dato che l’apprezzamento del contenuto e della rilevanza dei «più rigorosi standard di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio nell’esercizio delle funzioni» che si impongono nel bilanciamento, ha condotto la Corte, nella decisione di due questioni di legittimità costituzionale, in relazione a due fattispecie, a soluzioni non del tutto collimanti, della cui diversità potrebbe almeno discutersi, come qui non è possibile[46]; x-1) dalla giurisprudenza convenzionale, in quanto la recente sentenza della Corte EDU Danileţ c. Romania, per le ben tre opinioni dissenzienti, ma forse anche per quella concorrente, è emblematicamente espressiva della difficoltà (se non dell’impossibilità) di stabilire un condiviso discrimine tra opinioni legittime e censurabili; x-2) dagli atti sovranazionali, tra gli altri, le Linee guida predisposte dalla Rete globale sull’integrità dei giudici e l’Opinion n. 25 (2022) del CCJE, favorevoli all’utilizzo dei social media, ma consapevoli dell’esigenza di «preservare l’autorità morale, l’integrità, il decoro e la dignità della loro funzione» (art. 5 delle prime) e del fatto che «azioni relativamente piccole e casuali (come ad es. un “like”) […] possono avere potenzialmente implicazioni significative (art. 6 delle Linee guida), sicché «I giudici non dovrebbero impegnarsi nei social media in un modo che possa influenzare negativamente la percezione pubblica dell’integrità giudiziaria» (§ 73 dell’Opinion), che, quindi, indulgono in prospettazioni che, in definitiva, non sciolgono i nodi che dovrebbero essere dipanati; x-3) dalla dottrina, come si desume, da ultimo, dal complesso delle autorevoli opinioni contenute in un numero monografico di Questione giustizia[47], emblematiche della difficoltà di scrivere lo statuto dell’imparzialità del magistrato – anche, e soprattutto, con riguardo al profilo dell’immagine della stessa – in una moderna società democratica, specie al tempo di internet.
Siffatta difficoltà non solleva dall’obbligo di dare contenuto all’imperativo di «trovare un equilibrio tra il diritto fondamentale di un singolo giudice alla libertà di espressione e l'interesse legittimo di una società democratica a preservare la fiducia del pubblico nella magistratura»[48]. Non ho, ovviamente, soluzioni salvifiche e, per il tempo a disposizione, devo limitarmi ad osservare che la questione è complicata, tra l’altro, perché investe la concezione della figura e del ruolo del giudice, del rapporto tra il magistrato e la legge, tra il legiferare ed il giudicare. Nell’impossibilità di affrontare in questa sede detta questione, dovremmo almeno concordare con la considerazione che il giudice «non è una macchina sillogizzante»[49] e prendere atto che si è affermata la «discrezionalità (della interpretazione) giudiziaria» e che questa, unitamente ad altre note ragioni, ha determinato l’espansione del potere giudiziario. Ma se i giudici hanno assunto poteri che li portano a decisioni concernenti interessi vitali ben oltre quanto accadeva nel passato, anche recente, se «il giudice è anche, in una certa misura, un creatore di diritto», si impongono allora – come ha sottolineato l’European Network of Councils for the Judiciary (ENCJ) – «responsabilità e regole etiche coerenti con questa evoluzione» ed «il serio rispetto della deontologia professionale»[50]. Più si riduce il tecnicismo e si espande la discrezionalità giudiziaria, più si amplia il dovere dell’apparenza di imparzialità, che impone al magistrato di non essere coinvolto nelle vicende politiche, sulle quali maggiormente si focalizza l’attenzione, ma anche giudiziarie. Ed emerge altresì il "paradosso del giudice", in quanto deve essere "terzo" rispetto alle dinamiche culturali e sociali e, tuttavia, allo stesso tempo, in esse deve essere "immerso", affinché possa correttamente e compiutamente svolgere l’attività diretta a realizzare i valori costituzionali[51].
A questo antico problema se ne è aggiunto uno nuovo, determinato dal fatto che nel mondo della rete il verdetto, in un’ansia di velocità della risposta, assurta a valore assoluto e dominante ben oltre quanto imposto dalla ragionevole durata del processo, tende ad essere abnormemente attratto alla «smisurata giuria pubblica» dei social, che giudicano in tempo reale, attraverso anomali plebisciti, nel dilagare del processo mediatico. Questo fenomeno va contrastato, tenendo altresì conto che in questi distorti processi mediatici le esternazioni dei magistrati non irragionevolmente, per competenza e professionalità, sono accreditate di particolare peso. L’esito, devastante, è che le esternazioni, benché non provenienti dai magistrati che trattano i processi, hanno un alto potenziale lesivo della presunzione di innocenza, concorrendo a comporre il quadro probatorio della c.d. giustizia mediatica, alimentandone le distorsioni, fenomeno che va decisamente contrastato e che esige, quanto ai magistrati, di evitarle.
Le complesse questioni poste dalle esternazioni social extraistituzionali vanno dunque affrontate muovendo dalla premessa che nel tempo che stiamo vivendo, del «crepuscolo del dovere», occorre una rinnovata attenzione ai doveri; ce lo impone la Costituzione, come altrove ho cercato di dimostrare[52]. La funzione di giudicare, scriveva Piero Calamandrei, implica un «potere misterioso, che può essere straziante per il giudice più che per il giudicato» e, se «la vocazione del missionario è vocazione di sacrificio», «quella del giudice [aggiungo, e del pubblico ministero] esige uno spirito di sacrificio anche più inflessibile»[53]. Chi decide di fare parte della magistratura, opera una scelta non solo lavorativa, ma di vita, di una missione al servizio del Paese, che richiede consapevolezza di svolgere un servizio fondamentale per garantire la sicurezza, la legalità, i diritti fondamentali, la democrazia. Ed è alla luce di tale significato della funzione che vanno riempiti di contenuti doveri e limiti che vengono in gioco nel bilanciamento della libertà di manifestazione del pensiero e della tutela dell’immagine di imparzialità ed indipendenza, della presunzione di innocenza. Per meritare la fiducia, bene ha detto Giorgio Lattanzi, «il giudice, come anche il pubblico ministero, non solo deve essere imparziale ma deve anche apparire imparziale, e per apparire tale occorre che sia privo di legami politici, economici, sociali, personali o anche solo ideologici che possano farlo ritenere condizionato o condizionabile»[54] e, aggiungerei, pregiudizialmente schierato.
La rinnovata attenzione ai doveri va assicurata attraverso la maturazione di una condivisa professionalità, che condensa il complesso delle regole patrimonio comune della funzione giudiziaria concernenti anche il ‘saper essere’ magistrato, da garantire anzitutto mediante la formazione, che non è soltanto affinamento delle conoscenze tecnico-giuridiche, ma è costruzione di una comunanza di idee e di valori, in vista della condivisione del più profondo significato di detti doveri, della funzione e del significato dell’essere magistrato quale scelta di vita. È questa la strada da percorrere per contrastare la pretesa di un diritto disciplinare quale principale, se non addirittura unico, strumento di garanzia della correttezza dei comportamenti, per evitare la riproposizione in tale ambito delle dinamiche degenerative che affliggono il diritto penale. Ed è una strada che impone di abbandonare la tentazione dell’autoreferenzialità, di non indulgere nel ritenere il ruolo attribuito alla funzione giudiziaria assistito da una sorta di primazia culturale all’interno e fuori del processo, di riscoprire il significato della funzione come dovere, che impone limiti, i quali ne costituiscono necessario corollario, strumentali a garantire autonomia e indipendenza. Una strada da percorrere interrogandosi sull’esigenza di dare nuova forza, significato ed effettività agli interventi del C.S.M. nel corso della vita professionale, sulla possibilità di innovare il sistema deontologico non disciplinare che oggi fa capo all’A.N.M.[55] Le singole sentenze, «per quanto rese “in nome del popolo italiano” non hanno bisogno del consenso popolare», ma «la funzione giudiziaria, considerata nella sua interezza, invece ne ha necessità assoluta»[56] e ciò esige anche un’affidante definizione dei confini della comunicazione extraistituzionale social, nella consapevolezza che, se non siamo in grado di dare risposte alle legittime istanze dell’opinione pubblica e dei cittadini, è alto il rischio di una caduta di fiducia che la magistratura non può permettersi.
Pubblichiamo il testo dell’intervento al convegno organizzato dal C.S.M. sul tema “La magistratura e i social network”, Roma 16/17 maggio 2024, in attesa del suo inserimento agli atti da parte del Consiglio Superiore.
[1] Nel Parere n. 25 (2022) sulla libertà di espressione dei giudici.
[2] Parere del CCJE n. 25 (2022), § 21.
[3] Parere del CCJE n. 25 (2022), § 21.
[4] Recante le Risposte della Suprema Corte di Cassazione al questionario, proveniente dalla Corte Suprema della Repubblica Ceca, su “Le attività secondarie e l’uso dei social media da parte dei magistrati“, ottobre 2021, in cui si legge: «L’attività compiuta dai singoli magistrati sui social network non è invece oggetto di regolamentazione positiva, neppure nella forma di regole non vincolanti aventi funzione di direttive o raccomandazioni. Peraltro, deve ritenersi che essa trovi la sua misura e i suoi limiti nelle norme che connotano la deontologia del magistrato».
[5] Limitatamente alla comunicazione extraistituzionale, tra i principali: Bangalore Principles of Judicial Conduct (2002), Aja, 2002, specie artt. 4.6-4.8; Linee guida non vincolanti sull’utilizzo dei social media da parte dei giudici, predisposte dalla Rete Globale sull’integrità dei giudici, Vienna, 2019; Guida sulla comunicazione con i media e il pubblico per i tribunali e le autorità giudiziarieDocumento preparato dal Gruppo di lavoro CEPEJ sulla qualità della giustizia, Strasburgo, 2018, dedicato alla comunicazione istituzionale; ma con riferimenti al tema in esame (v. art. 3.5); Parere del CCJE n. 25 (2022), cit. nella nota 1. Cfr. anche Parere n. 3 (2002) del Consiglio Consultivo dei Giudici Europei (CCJE) all'attenzione del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa sui principi e le regole che disciplinano la condotta professionale dei giudici (v., in particolare, la parte concernente l'imparzialità, paragrafo B); Statuto universale del giudice, adottato dal Consiglio Centrale dell’UIM a Taiwan il 17 novembre 1999, aggiornato a Santiago del Cile il 14 novembre 2017 (specie art. 6.2); Rapporto ENCJ sulla fiducia del pubblico e l’immagine della giustizia, rapporto 2019-2020 sulla comunicazione con gli altri rami del potere; Rapporto ENCJ sulla fiducia del pubblico e l’immagine della giustizia, rapporto 2018-2019 sull’uso individuale e istituzionale dei social media all’interno della magistratura. Per ulteriori indicazioni, anche in ordine alla disciplina negli Stati al di fuori dell’Europa, F. Buffa, La libertà di espressione dei magistrati e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Questione giustizia,1/2, 2024, 313; G. Grasso, Riferimenti internazionali e comparati sui rapporti tra giustizia, comunicazione e informazione, AA.VV., Comunicazione e giustizia, SSM, Roma, 2024, 3.
[6] Termine dal significato più forte di «riservatezza», che descrive «un atteggiamento richiesto al magistrato all’evidente fine di evitare che, facendo percepire i propri sentimenti e le proprie opinioni, possa suscitare dubbi sulla sua indipendenza e imparzialità, danneggiando la considerazione di cui il magistrato deve godere presso la pubblica opinione», S.U. n. 6827 del 2014.
[7] S.U., n. 6827 del 2014.
[8] Post, immagini ecc., possono concorrere a dimostrare l’esistenza della «amicizia» o della «grave inimicizia» con uno dei difensori e/o delle parti, ovvero la manifestazione di un parere sull’oggetto del procedimento, così da integrare una causa di astensione. Ma questione diversa è, come si precisa nel testo, la rilevanza ex se dei segni. Per la rilevanza sul piano probatorio, Sezione disciplinare, sentenza n. 52 del 2018, concernente la pubblicazione nel profilo Facebook della magistrata di fotografie che la ritraevano in atteggiamenti confidenziali con un avvocato.
[9] Si rinvia sul punto a F. Buffa, La libertà di espressione dei magistrati, cit.; G. Grasso, Riferimenti internazionali e comparati, cit.
[10] Linee guida in materia di uso dei mezzi di comunicazione elettronica e dei social media da parte dei magistrati amministrativi, Delibera del 25 marzo 2021, n. 40, su cui G. Grasso, Libertà di espressione e regole di condotta: l’uso responsabile dei social media da parte della magistratura, Foro it., 2021, III, c. 313.
[11] In ordine alla valenza da attribuire al «richiamo sul proprio profilo Facebook, [di] una pubblica petizione» su una data piattaforma, Sezione disciplinare, sentenza n. 86 del 2021. Sulla sufficienza dell’utilizzo di un nickname in un blog, per escludere la responsabilità, Sezione disciplinare, sentenza n. 67 del 2018, che comunque ha ritenuto le dichiarazioni prive di carattere diffamatorio.
[12] Per la cui integrazione non si richiede uno sviamento di potere o un vantaggio per il magistrato o per il terzo. Per la giurisprudenza disciplinare in tema di astensione, da ultimo, R. Sanlorenzo. Imparzialità, libertà di espressione del magistrato e illecito disciplinare, Questione giustizia,1/2, 2024, 161.
[13] Ex plurimis, S.U. n. 22302 del 2021. Tuttavia, va segnalato che la Sezione disciplinare, sentenza n. 81 del 2018, ha ritenuto che la mail inoltrata nella mailing list riservata a magistrati aderenti all'A.N.M., contenente un’aspra critica di un provvedimento giurisdizionale costituisce condotta non tenuta nell’esercizio delle funzioni, ma ha poi assolto il magistrato sulla scorta della concorrente motivazione che nell’esternazione «non si rinvengono riferimenti individualizzanti che consentano di identificare l'autore del provvedimento oggetto di critica», non essendo stati indicati «in modo specifico l'organo giudicante dell'atto stesso, né la sua data di emissione, né il numero di registro, né tanto meno le parti ed i rispettivi difensori».
[14] Così, peraltro criticamente, G. Verde, La vicenda Palamara e le ripercussioni sulla magistratura: una riflessione “eretica”, in, Sul potere giudiziale e sull’inganno dei concetti, Torino, 2023, 207.
[15] Sezione disciplinare, sentenza n. 79 del 2023, avente ad oggetto la pubblicazione nel profilo Facebook, in bacheca libera e visibile a tutti gli utenti del portale, di numerosi post contenenti espressioni ed apprezzamenti dal contenuto gravemente sconveniente, offensivo, minaccioso ed anche diffamatorio di colleghi e funzionari dello stesso ufficio in cui svolgeva le funzioni il magistrato incolpato; analogamente, sentenza n. 153 del 2021.
[16] Sezione disciplinare, sentenza n. 127 del 2017, relativa all’inserimento nel profilo Facebook dell’incolpato di espressioni di apprezzamento sull’avvenenza di un attore, parte del procedimento assegnato alla magistrata, assolta, perché il fatto è stato giudicato di scarsa rilevanza.
[17] Sezione disciplinare, sentenza n. 79 del 2023, avente ad oggetto la pubblicazione nel profilo Facebook, in bacheca libera e visibile a tutti gli utenti del portale, di numerosi post contenenti espressioni ed apprezzamenti dal contenuto gravemente sconveniente, offensivo, minaccioso ed anche diffamatorio di colleghi e funzionari dello stesso ufficio in cui svolgeva le funzioni il magistrato incolpato; analogamente, sentenza n. 153 del 2021.
[18] Sentenza n. 81 del 2018, avente ad oggetto l’aspra critica di un provvedimento giudiziario in una mail inoltrata nella mailing listdell'A.N.M., ritenuta tuttavia priva di riferimenti individualizzanti. Anche in relazione alla tipologia di rapporti indicati nel testo si pone, ovviamente, la generale questione dei limiti della libertà di manifestazione del pensiero, come accaduto nel caso deciso dalla Sezione disciplinare con la sentenza n. 86 del 2021, che ha assolto il magistrato dall’illecito dell’art. 2, lettera d), ritenendo che l’avere postato nel proprio profilo Facebook, a carattere pubblico, una petizione divulgata da una piattaforma, diretta ad ottenere che la Sezione disciplinare rivedesse un’ordinanza cautelare, aspramente criticata, aveva «assunto i connotati della "inopportunità", ovvero della riprovevolezza professionale, sotto il profilo della carenza di equilibrio, ma non appare aver trasmodato oltre il limite della liceità disciplinare».
[19] Lettera e) «l'ingiustificata interferenza nell'attività giudiziaria di altro magistrato»; lettera u), «la divulgazione, anche dipendente da negligenza, di atti del procedimento coperti dal segreto o di cui sia previsto il divieto di pubblicazione, nonché la violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione, o sugli affari definiti, quando è idonea a ledere indebitamente diritti altrui»; lettera v), «pubbliche dichiarazioni o interviste che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione, ovvero trattati e non definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria, quando sono dirette a ledere indebitamente diritti altrui nonché la violazione di quanto disposto dall'articolo 5, commi 1, 2, 2-bis e 3, del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 10».
[20] In tal senso viene in rilievo un caso deciso dalla Sezione disciplinare, sentenza n. 99 del 2015: promossa azione disciplinare anche in relazione all’illecito dell’art. 2, lettera e), in quanto l’incolpato con le dichiarazioni contenute in una mail inoltrata nella mailing listdell’A.N.M., concernenti un procedimento pendente, avrebbe compiuto «anche una grave interferenza nei riguardi dei componenti il collegio giudicante e dello stesso PM di appello, esposti tutti ad una sorta di censura preventiva», la Sezione riqualificava l’illecito in quello dell’art. 4, lettera d), del codice, sicché non ha risolto la questione, in vero assai dubbia, dell’idoneità delle esternazioni in esame ad integrare l’illecito della lettera e). Vicenda analoga è quella decisa dalla sentenza n. 23 del 2014 (pure concernente dichiarazioni contenute in una mail inoltrata nella mailing list dell’A.N.M.), che ha riqualificato gli illeciti contestati dell’art. 2, comma 1, lettere d), e) e u), ritenendo «unica norma applicabile quella prevista dall'art. 4 lettera d)».
[21] Su detta questione, anche per riferimenti, S. Di Amato, La responsabilità disciplinare dei magistrati. Gli illeciti - Le sanzioni - Il procedimento, Milano, 2013, 303.; D. Cavallini, Gli illeciti disciplinari dei magistrati ordinari prima e dopo la riforma del 2006, Milano, 2011, 239.
[22] L’espresso richiamo nell’art. 3, comma 1, lettera d), del d.lgs. n. 109 del 2006 «dei doveri disciplinati dall’articolo 1» costituisce, infatti, già da solo indice dell’irriferibilità di detti doveri alle fattispecie dell’art. 3, risultando altrimenti del tutto privo di senso e giustificazione quello operato dalla richiamata lettera.
[23] S.U. n. 1719 del 2020.
[24] Tra le altre, Sezione disciplinare, sentenza n. 98 del 2019, avente ad oggetto apprezzamenti in post pubblicati nei profili Facebook, Instagram e Twitter, giudicati «estranei ad una critica lecita essendosi tradotti in un autentico insulto»; sentenza n. 95 del 2016, concernente un post pubblicato dal magistrato nel proprio profilo Facebook, interpretato nel senso che le frasi contestate, nel contesto complessivo del post, non erano affatto offensive. Relativamente alle mailing list: ordinanza n. 50 del 2020, avente ad oggetto una mail inoltrata in una mailing list di magistrati; sentenza n. 99 del 2015, concernente una mail inoltrata nella mailing list dell’A.N.M., di cui è stata ritenuta la natura diffamatoria, ma il fatto giudicato di scarsa gravità ai sensi dell’art. 3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006.
[25] Ritenuta integrata dalla Sezione disciplinare con la sentenza n. 107 del 2016, in riferimento al caso di post nel profilo Facebook che aveva una «pluralità dei destinatari, circa tremila, nonostante si trattasse di un'area riservata del proprio profilo Facebook». La sentenza aveva peraltro fatto applicazione dell’art. 3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006, ma è stata in tale capo cassata con rinvio dalle Sezioni unite civili ed all’esito del relativo giudizio la Sezione disciplinare ha irrogato la sanzione dell’ammonimento, con la sentenza n. 20 del 2018. Le dichiarazioni contenute in una mail inoltrata in una mailing list dell’A.N.M. sono state ritenute idonee ad integrare una comunicazione con più persone: sentenza n. 99 del 2015 (sintetizzata nella nota che precede); ordinanza n. 120 del 2011, («non v'è dubbio che l'immissione in una mailing list gestita da un'associazione di messaggi contenenti frasi offensive o denigratorie dell'altrui reputazione in astratto è senz'altro riconducibile al delitto di diffamazione commesso attraverso il peculiare "mezzo di pubblicità" della rete Internet»); ordinanza n. 167 del 2010.
[26] Tanto se disposta per estinzione del reato, per improcedibilità, ovvero per infondatezza della notizia di reato, oppure per difetto dell’elemento soggettivo, S.U. n. 16277 del 2010.
[27] Come di recente sottolineato dalla Corte costituzionale, sentenza n. 41 del 2024.
[28] S.U. n. 10796 del 2015, con riguardo al caso dei messaggi telematici nel dominio informatico dell'A.N.M.
[29] Tra le molte, S.U. n. 18987 del 2017; n. 6327 del 2012; n. 25091 del 2010. Per detta ragione, è irrilevante la mancata percezione dell'offesa da parte della vittima del reato, S.U. n. 18987 del 2017.
[30] S.U. n. 34992 del 2022.
[31] S.U. n. 28263 del 2023 che sembra farle assurgere ad elemento necessario ma anche sufficiente ai fini della lesione del bene giuridico protetto dalla disposizione.
[32] S.U. n. 34992 del 2022.
[33] Art. 58-bis del d.lgs. n. 29 del 1993, trasfuso nell’art. 54 d.lgs. n. 165 del 2001, riscritto, senza sostanziali modifiche, dalla legge n. 190 del 2012.
[34] In particolare, cfr. l’art. 6.
[35] Tra l’altro, nella Circolare n. 20691 dell’8 ottobre 2007 “Nuovi criteri per la valutazione di professionalità dei magistrati, con le modifiche apportate dall’Assemblea plenaria”, e succ. mod. e nella Circolare n. P 14858 del 28 luglio 2015, recante il Testo Unico sulla Dirigenza giudiziaria, e succ. mod.
[36] La Magna carta dei giudici stabilisce, infatti, che «L’azione dei giudici deve essere guidata da principi di deontologia, distinti dalle norme disciplinari» (art. 18); la Opinion no. 3 (2002) del CCJE esplicita che, «anche se c'è una sovrapposizione e un'interazione, i principi di condotta dovrebbero rimanere indipendenti dalle regole disciplinari applicabili ai giudici» (art. 48); secondo l’European judicial systems CEPEJ Evaluation Report 2020, «per quanto riguarda i procedimenti disciplinari, le violazioni dell’etica professionale non giocano un ruolo importante»
[37] Opinion n. 3 (2002) del CCJE: «alla fine, tutti ricorrono a formulazioni generali catch-all» e non è «necessario […] o anche possibile cercare di specificare in termini precisi o dettagliati a livello europeo la natura di tutti i comportamenti scorretti».
[38] Opinion n. 3 (2002) del CCJE, § 63.
[39] Sentenza n. 100 del 1981.
[40] È sufficiente ricordare la presa di posizione in favore della tipizzazione contenuta nel Messaggio alle Camere del Presidente della Repubblica del 26 luglio 1990, nel Parere reso dal CSM nel settembre del 1984 su un disegno di legge sulla responsabilità del magistrato presentato nel corso della IX Legislatura, nella dottrina, ex plurimis, G. Zagrebelsky, La responsabilità disciplinare dei magistrati. Considerazioni su alcuni aspetti generali, in Scritti in onore di C. Mortati, IV, Milano, 1977, 857.
[41] Relazione della Commissione Presidenziale per lo studio dei problemi concernenti la disciplina e le funzioni del Consiglio superiore della magistratura, presieduta da L. Paladin, 10 gennaio 1991, 138.
[42] Per riferimenti sulla prima, C. Bologna, La libertà di espressione dei «funzionari», Bologna, 2020, 147 ss; sulla seconda, di recente, F. Buffa, La libertà di espressione dei magistrati, cit.; ID, La libertà di espressione dei magistrati e la Convenzione europea dei diritti dell'uomo, Questione giustizia, 9 giugno 2022; R. Sabato, Una nuova tutela “genetica” dell’indipendenza-imparzialità giudiziaria nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo?, Questione giustizia, n.1/2, 2024, 222.
[43] Agli atti citati nella nota 5 adde, European Commission for Democracy through Law, Opinion n. 806/2015 On the Freedom of Expression of Judges, 23 giugno 2015 (Commissione di Venezia), in cui, pur ribadendo che la garanzia della libertà di espressione si estende anche ai giudici, è sottolineato che «la specificità dei doveri e delle responsabilità» e «il bisogno di assicurare l’imparzialità e l’indipendenza del giudiziario, vengono considerati obiettivi legittimi per imporre restrizioni specifiche alla (loro) libertà di espressione, associazione e riunione, incluse le attività politiche». Benché nessuno Stato aderente al Consiglio d’Europa preveda norme costituzionali che limitino la libertà di manifestazione del pensiero dei giudici, la legislazione e la giurisprudenza individuano spesso limiti alla libertà di espressione degli appartenenti all’ordine giudiziario, limiti la cui ampiezza è connessa anche al sistema di reclutamento dei magistrati e alle caratteristiche generali dell’ordine giudiziario medesimo.
[44] Nel sito web ufficiale del C.S.M., nella sezione dedicata all’autonomia della magistratura, che ospita anche le principali, pertinenti sentenze della Corte costituzionale e delibere consiliari, si legge: «I magistrati, come tutti i cittadini, godono della libertà riconosciuta e garantita dall’art. 21 Cost., la libertà, cioè, di manifestare il proprio pensiero. Tale libertà, però, attesa la peculiare funzione svolta dalla magistratura, si declina diversamente rispetto al cittadino comune, venendo in rilievo altri valori costituzionali, che consentono un ideale bilanciamento e, quindi, una compressione dell’espansione del diritto di libera manifestazione del pensiero. In particolare, la necessaria imparzialità e indipendenza che devono caratterizzare l’esercizio delle funzioni giudiziarie impongono dunque che il diritto in discorso non sia esercitato in modo anomalo o se ne abusi, abuso che si concreta ove vengano lese proprio imparzialità e indipendenza del magistrato».
[45] P. Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Firenze, 1954, 239.
[46] Il riferimento è alle sentenze n. 197 del 2018 e n. 51 del 2024. La prima ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 109 del 2006, nella parte in cui prevede in via obbligatoria la sanzione della rimozione per il magistrato che sia stato condannato in sede disciplinare per i fatti previsti dall’art. 3, lettera e). La seconda ha invece dichiarato l’illegittimità costituzionale del richiamato art. 12, comma 5, limitatamente alla parte in cui stabilisce l’automatismo della rimozione del magistrato che «incorre in una condanna a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata sospesa, ai sensi degli articoli 163 e 164 del Codice penale o per la quale sia intervenuto provvedimento di revoca della sospensione ai sensi dell’articolo 168 dello stesso Codice».
[47] Magistrati: essere ed apparire imparziali, Questione giustizia, 1/2, 2024.
[48] CCJE, Opinion n. 25 (2022), § 31.
[49] Sono parole di P. Calamandrei, La vocazione del giudice, La Stampa, 8 maggio 1956, e in Opere giuridiche di Piero Calamandrei, vol. X, Roma 2019, 422.
[50] ENCJ working group. Judicial Ethics Report 2009-2010-Groupe de travail RECJ. Déontologie judiciaire Rapport 2009-2010.
[51] S. Mannuzzu, il fantasma della giustizia, Bologna, 1998, 43.
[52] Per esigenze di sintesi, mi permetto di rinviare a L. Salvato, Il ruolo del pubblico ministero nell’ordinamento costituzionale quale garante e promotore dei diritti fondamentali, Atti del Convegno su La giustizia al servizio del Paese, Palermo 12/13 ottobre 2023, Quaderni della Rivista della Corte dei conti, 2/2023, 105.
[53] P. Calamandrei, La vocazione del giudice, cit., 423.
[54] Intervento all’Incontro del Presidente della Repubblica con i magistrati ordinari in tirocinio nominati con d.m. 2 marzo 2021, Roma, 30 marzo 2022.
[55] Muovendo dalla considerazione che, se le regole deontologiche presidiate dalla responsabilità disciplinare non sono preordinate a garantire l’ordine giudiziario ed i valori propri di quest’ultimo, ma sono strumentali alla tutela dell’ordinamento giuridico generale (cfr. Corte cost., sentenze n. 289 del 1992, n. 119 del 1995), tale connotazione dovrebbe caratterizzare anche le regole la cui violazione non dà luogo a detta responsabilità, con tutte le conseguenze che da ciò derivano.
[56] S. Mannuzzu, il fantasma della giustizia, cit., 28.
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Il cammino di Area DG verso una diffusione della attitudine organizzativa.
di Graziella Viscomi
Sommario: I. Premessa. 1. La riduzione del numero dei semidirettivi. 2. L’adozione di un modello partecipato di gestione degli uffici. 3. La valorizzazione della capacità organizzativa. 4. L’obbligo di completare l’incarico direttivo o semidirettivo. 5. La durata massima per ciascun incarico direttivo e semidirettivo. II. Considerazioni conclusive.
I. Premessa.
Il tema della dirigenza negli uffici giudiziari è risultato figlio di diverse prospettive nel tempo.
Va premesso che la procedura per il conferimento di incarichi direttivi è appannaggio dell’organo di autogoverno ed è presieduta dalla garanzia della riserva di legge in materia di ordinamento giudiziario, che si traduce nel fatto che deve essere la legge a stabilire i criteri generali di valutazione e di selezione degli aspiranti e le conseguenti modalità della nomina.
In passato, era la cosiddetta anzianità senza demerito a determinare la direzione di un ufficio. Si trattava di un sistema che non solo impediva un ricambio generazionale, ma prescindeva anche dalla valorizzazione di particolari caratteristiche gestionali. Se da un lato, infatti, risultava indiscutibilmente (e rigidamente) oggettivo, dall’altro lato, partiva dal presupposto della equivalenza di tutti i magistrati ad occuparsi delle varie tematiche di gestione dell’ufficio, cosa che -l’esperienza concreta insegna- non è.
Ciò emergeva in modo tanto più chiaro quanto complessa diveniva la macchina giudiziaria ed il sistema entro cui si muove.
Dunque, si è passati ad un sistema in cui è centrale la valutazione delle attitudini dell’aspirante.
Gli incarichi di direzione (direttivi e semidirettivi) sono assegnati sulla base della valutazione del percorso professionale dei candidati - il c.d. merito- e della c.d. attitudine direttiva. Il Consiglio Superiore della Magistratura deve, cioè, valutare le capacità di organizzare e gestire l’ufficio e di programmare e gestire le risorse (art. 12 d.lgs. 160 del 2006). I generali criteri di valutazione fissati dalla legge sono poi oggetto di una disciplina adottata dal CSM d’intesa con il Ministro della Giustizia, nella quale vengono indicati gli indicatori dell’attitudine direttiva e vengono definite le fonti di conoscenza e la procedura applicabile. Attualmente la normativa regolamentare di riferimento è contenuta nel Testo Unico sulla dirigenza giudiziaria di cui alla circolare n. P‐14858‐2015 del 28 luglio 2015, in costante aggiornamento.
In poche parole, ai fini della selezione, la normazione secondaria elenca i parametri di riferimento per la valutazione dei candidati; ciascun parametro, al momento dell’esame dei profili degli aspiranti è oggetto di comparazione con gli altri candidati.
Progressivamente, maggiore importanza è stata attribuita anche alla formazione del candidato.
Chiedersi che dirigenza vogliamo non è questione fine a se stessa: non si tratta, infatti, solo di prediligere un modello organizzativo, ma di pensare a tutto l’impianto normativo che, occupandosi del percorso professionale del magistrato, ne traccia tutti gli aspetti (valutazione di professionalità, pareri attitudinali, formazione, criteri di selezione), così permeando l’intero autogoverno.
Area Dg ha iniziato, mesi fa, grazie all’iniziativa promossa da Claudio Castelli, fautore di un gruppo di lavoro che si è interessato di collazionare argomenti sul tema, un percorso di studio a proposito della “dirigenza che vorremmo”.
L’arricchente contributo dei partecipanti ha fatto emergere le diverse prospettive ed i diversi modi di pensare alla dirigenza e così, si è giunti ad una sintesi con il rilascio di un documento da parte del Coordinamento Nazionale, qui oggi in commento.
Queste le proposte operative del detto documento, il cui contenuto si commenterà nelle pagine che seguono:
Nell’ottica del miglioramento della dirigenza è stata evidenziata la necessità della riduzione/razionalizzazione degli incarichi di semi-direzione.
Il dato di partenza è l’assenza di una analisi che, alla stregua della elaborazione delle piante organiche del personale di magistratura di merito, si proponga di comprendere quanti sono gli incarichi semidirettivi veramente utili e funzionali ad assicurare l’andamento dell’ufficio.
Risulta indispensabile, dunque, sia per gli uffici requirenti che giudicanti, la necessità di oggettivizzazione delle esigenze: il numero e la qualità delle risorse da amministrare (in termini di organico, carico di lavoro, udienze, tipologie di servizi, qualità delle materie trattate) devono determinare il numero degli incarichi semi-direttivi da assegnare. Sarà necessario, dunque, formulare criteri oggettivi al fine di ancorare il numero di posti direttivi realmente funzionali ad assicurare il buon andamento dell’ufficio, coniugando efficienza, efficacia e compiti di coordinamento.
Solo a fronte di uno studio di tal fatta che esamini le concrete esigenze degli uffici dando centralità al ruolo di coordinatore che compete al semidirigente, sarà possibile dire quanti dirigenti servono.
Per quanto attiene la funzione giudicante, in particolare, è stato evidenziato che venga razionalizzato, a monte, il numero delle sezioni e che non vi sia coincidenza automatica fra il loro numero e l’individuazione dei dirigenti: appare, infatti, più razionale una previa verifica concreta.
Medesimo ragionamento deve indurre alla verifica delle effettive risorse dei gruppi di lavoro e dei servizi collaterali presso gli Uffici di Procura al fine della individuazione del numero degli Aggiunti che quelle risorse devono gestire.
Non si tratta solo di un calcolo “logico”.
Area Dg crede che sia necessaria un nuovo approccio culturale alla Dirigenza, evidenziando come vi sia circolarità di principi ed intenti.
Se l’incarico a contenuto dirigenziale (direttivo o semidirettivo) è svolto in chiave di coordinamento all’interno di una organizzazione in cui varie deleghe sono (con)divise, va da sé che più agevole sarà il compito dell’incaricato, con conseguente razionalità (e razionalizzazione) della decisione di ridurre il numero dei posti di semidirettivo.
2. L’adozione di un modello partecipato di gestione degli uffici.
Se il dibattito ha certamente rivelato la condivisa sensazione del generale miglioramento delle condizioni degli uffici rispetto al passato, d’altra parte è emersa anche necessità di superare le tante criticità da cui l’attuale modello organizzativo non è immune.
Il sistema corrente, invero, si è prestato ad una distorsione della copertura di incarichi significativi della espressione della partecipazione all’organizzazione degli uffici (rid, magrif, formatori decentrati, ecc.) che, svincolati da una valutazione dei risultati conseguiti finisce per risultare uno sterile elenco di titoli e, a monte, un procacciamento dei medesimi.
Area DG ha scelto di valorizzare la prestazione del magistrato in favore dell’organizzazione dell’Ufficio. In tal senso, nel corpo del documento si è anche riflettuto sulla necessità che le circolari che si occupano della materia diano modificate al fine di agevolare e rendere fruibile l’opportunità di occuparsi di un aspetto organizzativo del proprio ufficio, secondo le proprie attitudini ed inclinazioni.
Attualmente, le vigenti circolari (cfr. in particolare, articolo 4 della circolare sulle Procure) al fine di arginare la balcanizzazione delle deleghe funzionale allo strumentale procacciamento dei titoli, prevede il relativo conferimento solo previa accurata motivazione che dia conto delle ragioni che, sostanzialmente, giustifichino lo svolgimento in capo ai semidirettivi in servizio.
La norma ha avuto la sensibilità di stigmatizzare la frammentazione di competenze col solo fine di creare titoli ad hoc, peraltro sfuggenti a qualsivoglia forma di valutazione.
Dal confronto promosso da Area DG è emersa una volontà di superamento del sistema mediante un coinvolgimento responsabile dei magistrati alla gestione del loro ufficio. Si badi bene che l’espressione responsabile guarda, prima di tutto, ai Dirigenti i quali non saranno esonerati dalle loro competenze, né deresponsabilizzati, ma onerati di scelte adeguate e funzionali al raggiungimento di buoni risultati nell’interesse dell’Ufficio. Responsabilità è, inoltre, richiesta a coloro che assumeranno l’onere della co-gestione di un determinato aspetto della vita professionale poiché, per un verso, costituirà un quid pluris rispetto alle competenze ordinarie e, per altro verso, deve essere oggetto di specifica valutazione.
Sotto il primo profilo, sebbene il dibattito abbia evidenziato posizioni secondo cui l’esercizio di determinati incarichi postuli necessariamente il riconoscimento di un esonero dal lavoro, altra opinione, al contrario, ha evidenziato che per evitare l’effetto distorsivo dell’inseguimento del titolo deve trattarsi di un servizio ulteriore, in modo da incentivare chi è mosso da reale passione, voglia di partecipazione, desiderio di dare un contributo al miglioramento delle condizioni di lavoro.
Del resto, l’idea di Area DG della diffusione delle competenze organizzative favorisce, in nuce, una divisione equa dei compiti, già di per sé idonea a sopperire al plus di impegno richiesto: maggiore è la distribuzione, minore è l’impegno. Speculare a tale tema è la previsione necessaria dello svuotamento di compiti meramente amministrativi, da delegare solo ed esclusivamente al Dirigente Amministrativo prevedendo che tale figura vi sia in ogni ufficio.
Va da sé che l’attribuzione dei compiti debba essere preceduto da interpello.
Area DG ha scelto di offrire un modello concreto e non una mera visione utopistica. Per questo, ha scelto di accompagnare alla condivisione delle competenze organizzative una valutazione del modo in cui il magistrato le ha svolte, tenendo conto dei risultati conseguiti, non dissimilmente da quanto accade nella prospettiva dirigenziale.
Anzi, come meglio si dirà trattando, al paragrafo che segue della relativa proposta di Area DG, si è colta l’occasione per dare un senso al nuovo parametro di valutazione del magistrato, la capacità di organizzare il proprio lavoro,introdotto con la recente riforma dell’ordinamento giudiziario.
3. La valorizzazione della capacità organizzativa.
Area DG crede fortemente nel contributo che ciascun magistrato può offrire alla crescita del proprio ufficio, così come è convinta che -specularmente- il miglioramento del servizio offerto ai cittadini richieda, innanzitutto, una buona organizzazione.
Chi meglio dei soggetti dell’organizzazione può conoscere gli strumenti per migliorarla?
La prossimità di ciascun magistrato al fenomeno organizzativo determina la sua consapevolezza di ciò che funziona e ciò che non funziona. Naturalmente, ciò implica una visione non limitata al proprio personale interesse, ma alla funzionalità dell’Ufficio di riferimento nel suo complesso, finalizzata alla tutela dell’utente finale: il cittadino. Sono molteplici gli aspetti della vita di un uffizio: la necessità di aggiornamento nello studio delle ultime novità legislative e giurisprudenziali, gli aspetti informatici, il monitoraggio dei tempi delle decisioni, la verifica della tempestività dei processi di notificazione, le esigenze logistiche, l’uniformità delle decisioni, prassi e protocolli di ogni genere, ecc. ecc.
Ciascun aspetto richiede attitudini ed inclinazioni differenti la cui valorizzazione non può che giovare all’Ufficio medesimo.
Il nuovo criterio di valutazione di professionalità “la capacità di organizzare il proprio lavoro” è, fra gli aspetti più controversi della riforma dell’ordinamento giudiziario, in quanto sottratto alla tradizionale valutazione in termini di positività, non positività o negatività nell’ambito del più ampio parametro della “capacità” e divenuto oggetto, invece, di valutazione nuova e diversa, secondo le caratteristiche che la normazione secondaria potrà attribuirgli.
Area Dg, preoccupata dal rischio che l’espressione si traduca in un criterio di giudizio che imponga ai magistrati (sin dall’esordio) di burocratizzare la propria funzione, traducendo la valutazione in meri termini di smaltimento (odiosa espressione con la quale non vorremmo più confrontarci), propone, invece, di trasformare in una occasione tale nuovo parametro.
Area Dg crede fortemente che il magistrato debba sentire che il proprio lavoro includa anche l’aspetto organizzativo ed auspica, contemporaneamente, che voglia essere parte attiva fornendo il proprio contributo nella gestione.
Orbene, dare un peso alla partecipazione significa anche darle un valore concreto, mediante valutazione dei risultati conseguiti, quale indice di valutazione della capacità di organizzare il lavoro.
4. L’obbligo di completare l’incarico direttivo o semidirettivo.
La Dirigenza è un servizio. Esserne coinvolti a vari livelli non può che contribuire alla diffusione di questa cultura, per la cui diffusione Area DG intende spendersi concretamente.
Il percorso di studio intrapreso sulla dirigenza è stato reso possibile anche grazie al franco confronto con tanti dirigenti in carica, i quali hanno messo a nudo le difficoltà della funzione, orgogliosamente rivendicato la fatica e l’impegno che richiede occuparsi di organizzazione, soprattutto quando le risorse a disposizione sono scarse ed i ruoli colmi, nonché invitato alla prudenza nella ricerca di soluzioni che, appunto, non si rivelino eccentriche rispetto alle criticità che sono emerse.
Proprio l’ultimo richiamo ha determinato una riflessione su ciò che consenta di conciliare l’efficienza dell’ufficio con la caratteristica di mero possibile momento di una carriera che l’incarico dirigenziale deve rappresentare.
Ne è conseguita la necessità di una riflessione sulla temporaneità che si è rivelato meccanismo insufficiente nella misura in cui ha consentito di formare “la carriera del Dirigente”, mediante la copertura di plurimi incarichi consecutivi senza soluzione di continuità.
Area DG vorrebbe esprimere dirigenti che non perdano mai il contatto con la giurisdizione e, soprattutto, non perdano mai la passione per l’esercizio della giurisdizione medesima.
Un incarico dirigenziale è un impegno. Pertanto, deve essere portato a termine.
In quest’ottica si è proposto di codificare l’effettività del periodo di svolgimento dell’incarico prevedendo che esso debba essere portato ad esaurimento solo alla scadenza effettiva, senza legittimazioni che ne consentano la cessazione anzitempo, con ordinario ritorno alle funzioni giurisdizionali per il tempo necessario allo svolgimento di nuovi concorsi cui il magistrato aspiri.
Preme ad Area DG che il Dirigente non consideri una deminutio il ritorno in servizio, ma una mera conseguenza naturale della cessazione di un munus a termine. Un munus che arricchisce indubbiamente il magistrato e la sua professionalità con maturare di un bagaglio professionale ulteriore che, sempre nell’ottica della condivisione dirigenziale, non può che apportare benefici all’ufficio e, conseguentemente, al servizio che prestiamo per i cittadini. In quanto tale, è un bagaglio che non è disperso dal rientro in servizio, semmai patrimonio da condividere anche nella prospettiva di crescita degli altri colleghi e del loro coinvolgimento attivo.
L’effettività della proposta circa lo svolgimento effettivo dell’incarico per tutta la durata legale, richiede un ripensamento del termine di svolgimento, aspetto oggetto dell’ultimo punto della proposta e che tratteremo nel paragrafo che segue.
5. La durata massima per ciascun incarico direttivo e semidirettivo.
Non può tacersi che la concreta esperienza dimostri come la procedura di conferma sconti lungaggini che, anche nei casi patologici, laddove vi siano state segnalazioni di manifesta incapacità del Dirigente, portano all’esaurimento dell’intero ottennio anche giungendo a pareri negativi postumi e, dunque, oramai inutili.
Si tratta di una criticità sulla quale Area DG ha ritenuto di dover riflettere.
Come si è detto, inoltre, risulta importante segnare un cammino di passi effettivi verso una riforma, sì da non limitarsi a mere petizioni di principio dal facile consenso, ma concretamente inattuabili, né da -al contrario- arroccarsi su posizioni conservative ostacolo al cambiamento.
Per rendere concreta la prospettiva di effettività del termine di svolgimento dell’incarico, dunque, si rende necessario rimodulare la tempistica del medesimo.
Ecco perché, cercando di bilanciare:
si è giunti alla conclusione che sia opportuno prevedere un termine unico di durata dell’incarico dirigenziale, di sei anni.
L’incarico deve essere, comunque, oggetto di valutazione stante anche il fatto che il giudizio è propedeutico a poter fare domanda per nuovi incarichi, ostando in radice un parere negativo.
Consapevoli che, nei casi di manifesta incapacità, tale termine non possa spirare senza che l’autogoverno reagisca, tuttavia, si è pensato che sarà necessario istituire e disciplinare una procedura d’urgenza per la rimozione dall’incarico, anche in questo caso auspicando in significative novità che la rendano effettiva (si può immaginare di mutuare la disciplina di cui all’art. 700 c.p.c adattandola al momento dell’autogoverno, anche pensando ad un organo unico che curi istruzione e decisione).
II. Considerazioni conclusive.
Area DG è consapevole che le condizioni di lavoro in molti, troppi uffici, determini la difficoltà dei magistrati di avvicinarsi (ed appassionarsi) alle competenze diverse da quelle strettamente giurisdizionali.
Così come deve segnalarsi il rischio che la cartolarizzazione del processo, soprattutto nel settore civile, nonché in grado di appello, allontani (fisicamente e moralmente) i magistrati dalla sede fisica che è luogo di incontro, confronto e, ove valorizzato, vera e propria fucina culturale.
Tuttavia, proprio una diffusa insofferenza denota che, sotto cenere, è acceso il fuoco che stimola i magistrati a percepire quali siano i problemi ed a pensare ad alternative. La presenza di dirigenti accentratori o ostili ai cambiamenti non aiuta, mentre positiva è la presenza di magistrati con compiti di direzione illuminati e propositivi.
Non può, tuttavia, lasciare che sia il caso a determinare la positività delle esperienze. Bisogna, dunque, lavorare a livello normativo (primario e secondario) ed impegnarsi a livello associativo al fine di diffondere la cultura ordinamentale, accrescere la consapevolezza che le questioni ordinamentali riguardano tutti e si inseriscono pienamente fra le mansioni del magistrato, incentivare il coinvolgimento orizzontale nella gestione dell’ufficio, assecondando l’inclinazione dei colleghi.
È impegno di Area DG camminare su questa strada.
È disponibile il primo fascicolo 2024 di Giustizia Insieme
Cento anni di leggi sugli stupefacenti
a cura di Lorenzo Miazzi
con i contributi di Paola Filippi, Lorenzo Miazzi, Michele Toriello, Pierluigi Di Stefano, Giuseppe Bersani, Franco Corleone, Alfredo Pompeo Viola, Tommaso Chirco, Paolo Nencini, Sonia Bergamo, Emanuele Bignamini, Maurizio Sgrò
La pubblicazione raccoglie e rielabora gli interventi del Convegno organizzato dalla nostra rivista il 1° dicembre 2023.
Tutti i fascicoli e gli ebook pubblicati dalla nostra Rivista si possono leggere gratuitamente a questo link https://www.giustiziainsieme.it/it/fascicoli.
Introduzione
di Paola Filippi
Questo fascicolo contiene gli atti del convegno “Cento anni di leggi sugli stupefacenti”, organizzato dalla Rivista in occasione dei 100 anni dalla legge del 18 febbraio 1923 “Recante provvedimenti per la repressione dell’abusivo commercio di sostanze velenose aventi azione stupefacente”.
Riteniamo sia importante tenere accesi i riflettori sull’assunzione, gli effetti e la repressione del traffico degli stupefacenti per le molteplici implicazioni sociali, economiche, sanitarie e di criminalità organizzata sottese a detto fenomeno.
La celebrazione del centenario c’è parsa un’ottima occasione per ribadirlo.
(…)
La disciplina penale delle sostanze stupefacenti tocca temi sensibili la cui cura è diversamente declinata a seconda delle posizioni ideologiche, morali ed etiche, di cui è espressione il legislatore.
Si tratta di temi che peraltro coinvolgono diritti costituzionali di libertà e protezione,
di liberismo e interventismo dello Stato, di salute ed economia.
Con riguardo alla disciplina in materia di stupefacenti, quanto all’approccio repressi- vo, si registrano contrasti anche con riguardo alle pene edittali e lo scontro è sulle sanzioni per le droghe leggere e la lieve entità.
Si tratta poi di una materia che, è bene ricordarlo, deve anche confrontarsi con il diritto alla salute avuto riguardo all’uso terapeutico di talune sostanze stupefacenti nonché, nel settore economico, con lo sfruttamento dei terreni abbandonati dalle culture tradizionali, in questo contesto, non a caso, si inserisce la legge n. 146/2016.
Sono queste le ragioni che spiegano il numero delle leggi che si sono succedute in questi 100 anni – anche in ragione dell’espandersi dell’uso delle droghe –, dei numerosi interventi della Corte costituzionale e addirittura dal ricorso al referendum popolare[1].
In questa raccolta degli atti del convegno l’articolo dal titolo “La legislazione sulle droghe nella società italiana” di Lorenzo Miazzi offre un quadro esaustivo delle discipline in materia di sostanze stupefacenti che hanno caratterizzato il sistema repressivo da quella prima legge del 1923 a oggi.
Naturalmente significativa, in quadro legislativo in costante mutamento, è l’attività giurisprudenziale e lo sforzo dei giudici alla reductio a unum. Su questo tema troverete in questa raccolta gli interessanti articoli di Michele Toriello “La disciplina degli stupefacenti tra normativa e giurisprudenza” e di Pier Luigi Di Stefano “Fatto di lieve entità e le prospettive di riforma”.
Sotto il profilo sociale ed economico è fondamentale avere un’idea concreta dell’impatto della tossicodipendenza. La situazione l’hanno fotografata Alfredo Viola nell’articolo dal titolo “La rilevanza della questione sociale e i risvolti di natura economica” e Sonia Bergamo nell’articolo dal titolo “Persone che usano droghe e stigma socio spaziale”.
La questione che Gramsci già poneva nel 1918 con la domanda: “È la proibizione il modo giusto per affrontare i rischi sociali connessi alle droghe?” la troverete trattata nell’articolo di Giuseppe Bersani intitolato “Riflessioni scientifiche e psichiatriche in tema di legalizzazione della cannabis” e nell’articolo di Franco Corleone “Canapa tra diritto e salute”.
Il tema degli effetti delle sostanze stupefacenti e, in particolare, della cannabis è
trattato da Tommaso Chirco nel suo articolo dal titolo “La cannabis da un punto di vista medico”. Paolo Nencini si è occupato degli effetti dell’uso delle droghe in “I riflessi sanitari e sociali del traffico di droga”.
I rimedi sociali per far fronte alle dipendenze sono trattati da Emanuele Bignamini nell’articolo dal titolo “L’attività dei Servizi pubblici per le dipendenze: utenza, efficacia, caratteristiche, risorse, organizzazione”, infine Maurizio Sgrò tratta delle difficili soluzioni per contemperare l’esecuzione della pena allo stato di dipendenza nell’articolo dal titolo “Giustizia penale e prestazioni sanitarie penitenziarie nell’ambito della dipendenza da sostanze psicoattive”.
[1] Il codice Rocco del 1930, puniva come reato contravvenzionale l’uso palese delle droghe; successivamente la legge del 1957 ha introdotto il delitto punendo indiscriminatamente la detenzione e l’uso personale; nel 1975 è stata introdotta la modica quantità, la materia è stata rivista e sistemata nel testo unico di cui al DPR 309/90, l’art. 74 è stato oggetto di referendum popolare ed è stata così abrogata la modica quantità; il dPR 309/09 è stato oggetto di interventi d’urgenza d.l. 247/91, d.l. 272/05 d.l. 78/13 d.l. 36/14, dlvo 202/16 d.l. 14/17, e di interventi della Corte costituzionale da ultimo le sentenze n. 32/14 e n. 40/19.
Sommario: 1. Giorgio La Pira, l’attualità del suo pensiero e delle sue opere. 2. Giorgio La Pira in Assemblea costituente, i diritti sacri, naturali e inviolabili dell’uomo. 3. Giorgio La Pira e la priorità della coscienza individuale sulla legge formale, la proiezione del film “Non uccidere”. 4. Segue: l’impegno a tutela del lavoro, la vicenda Pignone. 5. Segue: l’impegno per la tutela della casa, gli sfratti a Firenze. 6. La realizzazione della nuova centrale del latte. 7. Giorgio La Pira e l’impegno per la pace. 8. Giorgio La Pira e il valore della vita, Spes contra spem.
1. Giorgio La Pira, l’attualità del suo pensiero e delle sue opere
È un grande piacere per me ricordare un illustre personaggio del secolo che abbiamo alle spalle quale Giorgio La Pira, proprio qui a Pozzallo, nella sua città natale[1].
Premetto che non ho titoli per ricordare Giorgio La Pira, e quindi mi appresto a rendere questo omaggio con la massima modestia.
Il mio vuol essere solo un ricordo; non c’è né storia, né diritto né scienza in quello che andrò ad esporre.
D’altronde, lo stesso Giorgio La Pira abbandonava la c.d. produzione scientifica giovanissimo, ovvero trentenne, visto che gli ultimi suoi studi di diritto romano, del quale era titolare di cattedra nell’Università di Firenze, risalgono alla prolusione del 1934[2] e ad un successivo saggio del 1938[3]; poi si occupò solo dell’uomo, nei suoi bisogni terreni e nella sua spiritualità; ed è su questo suo impegno che io voglio far cadere l’attenzione, poiché è essa, e solo essa, la ragione per la quale noi, ancora oggi, con riverenza, lo ricordiamo.
Se qualcuno, poi, dovesse chiedersi per quale motivo un giurista positivo, quale io posso essere considerato, si mette a fare simili cose, risponderei che riaffermare i diritti inalienabili e primi della persona, attraverso il pensiero e l’opera di Giorgio La Pira, è di questi tempi quanto più necessario, poiché viviamo in un’epoca ove la pace e le libertà individuali sono di nuovo, purtroppo, a rischio.
E inoltre, ricordare Giorgio La Pira è per me in ogni caso un piacere perché a lui mi lega, oltre all’ossequio che porto al suo rigore morale, il suo essere stato fiorentino.
Voi sapete che Giorgio La Pira, siciliano di Pozzallo, ha amato però profondamente la città di Firenze, e non ha mai perso occasione per lodarla.
Dal Natale del 1952, sindaco di Firenze da solo un anno, Giorgio La Pira prese l’abitudine di rivolgersi ai ragazzi delle scuole elementari con una lettera, accompagnata da un piccolo panettone e da un libretto, curato da Piero Bargellini, anch’egli poi sindaco di Firenze nel periodo dell’alluvione del 1966, autore di quattro volumi su La splendida storia di Firenze, volumi che si trovavano all’epoca in molte case fiorentine[4].
Scriveva Giorgio La Pira nella lettera del 1952: “Vi auguro di nuovo tanto bene, ragazzi cari per questo Natale……..Tutto il vostro essere cresca spiritualmente e fisicamente robusto, come pianticella saldamente radicata in questo giardino del mondo che è Firenze…….Di questa città incomparabile, radicata sui monti santi della grazia e della bellezza, voi siete, ragazzi cari, le pietre vive più preziose”[5].
2. Giorgio La Pira in Assemblea costituente, i diritti sacri, naturali e inviolabili dell’uomo
Il primo ricordo di Giorgio La Pira non può non risalire al 1946 e alla sua partecipazione all’Assemblea costituente[6].
Giorgio La Pira fece infatti parte della prima sottocommissione dei 75, ovvero di quella sottocommissione che si occupò dei diritti fondamentali.
2.1. Il tema da ricordare è dunque quello dei diritti naturali, inalienabili dell’uomo, che lo Stato non può toccare, ma solo riconoscere e proteggere, e ciò in contrapposizione allo Stato fascista, che viceversa, per tutto il ventennio, aveva calpestato e negato le libertà della persona.
Giorgio La Pira nell’adunanza del 9 settembre 1946 dichiarava: “E’ necessario che alla costituzione sia premessa una dichiarazione dei diritti dell’uomo, ciò in conformità anche a tutta la tradizione giuridica cosiddetta occidentale. Ma oltre che in omaggio alla tradizione, una dichiarazione dei diritti dell’uomo deve essere ammessa soprattutto come affermazione solenne della diversa concessione dello Stato democratico, che riconosce i diritti sacri, inalienabili, naturali del cittadino, in opposizione allo Stato fascista, che con l’affermazione dei diritti riflessi, e cioè con la teoria che lo Stato è la fonte esclusiva del diritto, negò e violò alla radice i diritti dell’uomo”[7].
Dunque, per Giorgio La Pira esistono dei diritti, che egli arriva a qualificare sacri, che preesistono allo Stato, e che lo Stato non può negare senza commettere abuso, poiché sono diritti che l’uomo ha per natura, o, nella concezione religiosa di Giorgio La Pira, per volontà di Dio, e non diritti che l’uomo ha in quanto concessi dallo Stato.
Uno Stato democratico, infatti, rifiuta la teoria dei diritti c.d. riflessi, tipici dei sistemi totalitari e della filosofia hegeliana dello Stato.
Al riguardo Giorgio La Pira ancora esponeva: “Esiste una base filosofica, che sia a fondamento di questa teoria dei diritti riflessi? Alla domanda si può rispondere affermativamente, in quanto la teoria dei diritti riflessi corrisponde alla concezione hegeliana, che vede lo Stato come un tutto e l’individuo come elemento integralmente subordinato alla collettività, in contrapposto all’altra concezione che, pur rispettando l’esigenza della collettività, vede la persona come un ente dotato di una sua interiore autonomia e quindi considera la libertà e i diritti subiettivi non come concessione, ma come conseguenza di questa interiore autonomia”[8].
2.2. Dunque, la persona è dotata di una sua autonomia, e l’individuo non è integralmente subordinato alla collettività.
La posizione di Giorgio La Pira, peraltro, era interamente condivisa dalle forze politiche del cattolicesimo progressista, delle quali lui faceva parte, e sotto questo profilo merita altresì ricordare l’intervento di Giuseppe Dossetti, avvenuto nell’adunanza della prima sottocommissione sempre il 9 settembre 1946.
Disse Giuseppe Dossetti: “Si vuole o non si vuole affermare l’anteriorità della persona di fronte allo Stato? Questo concetto fondamentale dell’anteriorità della persona, che dovrebbe essere gradito alle correnti progressiste qui rappresentate, può essere affermato con il consenso di tutti”[9].
Sono questi, dunque, i cardini della nuova Repubblica, e di quello che poi sarà lo stesso art. 2 della Costituzione: diritti naturali inalienabili e anteriorità della persona allo Stato.
Tuttavia per Giorgio La Pira i diritti della persona non potevano essere solo quelli dell’individuo, tipici della rivoluzione francese del 1789, ma dovevano necessariamente estendersi anche a quelli della collettività, o dei gruppi intermedi, che segnavano così il passaggio dallo Stato liberale allo Stato sociale.
Al riguardo Giorgio La Pira completava il suo intervento asserendo ancora: “Può con questo dirsi completato il quadro dei diritti dell’uomo? Evidentemente no; per completarlo è necessario tener conto delle comunità fondamentali, nelle quali l’uomo si integra e si espande, cioè dei diritti delle comunità…….si arriva così alla teoria del c.d. pluralismo giuridico, che riconosce i diritti del singolo e i diritti delle comunità e con questo dà una vera integrale visione dei diritti imprescrittibili dell’uomo”[10].
Questa era quindi la posizione di Giorgio La Pira su questo delicatissimo tema: i diritti di libertà, individuali e collettivi, seppur in una logica di solidarietà, sono sacri e inalienabili, e la loro soppressione o compressione, per qualunque ragione pretesa, si porrebbe al di là e fuori dall’idea di Stato democratico, il quale, contrapponendosi ai regimi totalitari, rifiuta, e deve rifiutare, le teorie dei diritti riflessi.
2.3. Giorgio La Pira avrà modo di specificare questi concetti anche in periodi successivi, e qui desidero ricordare quanto egli disse il 26 maggio 1956 nel suo discorso di chiusura della campagna elettorale: “V’è un insanabile contraddizione fra due civiltà, la civiltà che ha il vessillo della bandiera comunista e la civiltà che ha un altro vessillo, che, pur essendo cristiano, abbraccia tutti gli uomini che amano la libertà e hanno il gusto della spiritualità e dei valori supremi dell’uomo; sono due mondi contrapposti: uno materialista e l’altro spirituale: sono due tipi di governo e di reggimento della cosa pubblica: l’uno fondato sulla libertà economica, politica, sociale, culturale, religiosa, da correggere, magari, da integrare, ma sempre libertà nelle sue fondamentali strutture di governo e di democrazia; e l’altro che non ammette nessuna libertà: ne’ libertà economica, ne’ libertà politica, ne’ religiosa”[11].
Probabilmente, la contrapposizione che qui ci propone Giorgio La Pira è troppo netta, troppo radicale; tuttavia essa rimarca la sua distanza dal comunismo, la sua solidarietà umana che non rinuncia mai ai valori della libertà, la sua giustizia sociale che non sfocia mai in autoritarismo statuale; perché, appunto, lo Stato viene dopo la persona, in quanto esistono, lo si ripete ancora con le sue parole, i diritti sacri, inalienabili, naturali del cittadino, in quanto la nostra democrazia vede la persona come un ente dotato di una sua interiore autonomia e quindi considera la libertà e i diritti subiettivi non come concessione, ma come conseguenza di questa interiore autonomia.
3. Giorgio La Pira e la priorità della coscienza individuale sulla legge formale, la proiezione del film “Non uccidere”
La seconda vicenda che desidero ricordare risale al 18 novembre 1961[12].
Siamo a Firenze, Giorgio La Pira è sindaco della città per la seconda volta.
3.1. In quel periodo circolava un film di un registra francese, certo Claude Autant-Lara, che si intitolava Tu ne tueras point (“Tu non ucciderai”), e che trattava dell’obiezione di coscienza al servizio militare.
In quegli anni, ancora, nessuna normativa sull’obiezione di coscienza esisteva in Italia, visto che il primo riconoscimento dell’obiezione di coscienza arrivava oltre dieci anni dopo con la legge 15 dicembre 1972 n. 772, cui poi susseguivano le ulteriori leggi 8 luglio 1998 n. 230 e 14 novembre 2000, n. 331.
Il film, già vietato in Francia, era stato bloccato anche a Roma, e ne era interdetta la diffusione.
Giorgio La Pira desiderava tuttavia proiettarlo e farlo conoscere, in quanto lo giudicava di particolare valore morale e utile per aprire un dibattitto sul tema.
Per evitare la censura Giorgio La Pira ha l’idea di proiettarlo in forma privata.
Organizza, così, una sorta di sala cinematografica al Parterre di Firenze, e offre una visione del film solo alle persone da lui espressamente invitate.
Giorgio La Pira fa ciò a tutela di due valori: quello della libertà di manifestazione del pensiero e quello della libertà di coscienza contro la guerra e gli obblighi militari.
La sala si racconta fosse gremita, e gli invitati erano magistrati, giuristi, politici, giornalisti, perfino militari.
3.2. L’iniziativa di Giorgio La Pira, soprattutto in considerazione del fatto che lo stesso aveva un incarico istituzionale, trovò non poche reazioni critiche: tra queste si ricordano quelle dell’allora Ministro della difesa Giulio Andreotti, del direttore dell’Osservatore romano Raimondo Mazzini, e poi di giornalisti, di politici, perfino di componenti del consiglio comunale di Firenze quali Bettino Ricasoli[13].
Addirittura, il ministro dell’interno Scelba emanò una circolare comunicata al Consiglio dei Ministri il 22 novembre 1961, nella quale si prescriveva il divieto di iniziative analoghe per il futuro[14].
Giorgio La Pira rimase assai amareggiato da queste critiche, che a lui sembravano offendere la libertà di coscienza.
Scrisse addirittura a Papa Giovanni XXIII: “Beatissimo Padre, si può andare avanti così? Il retroterra non è il film Non uccidere; è la politica interna italiana, e direi soprattutto il fatto che Firenze sostenga da anni queste tesi: la guerra è impossibile: alla pace non può essere contrapposta altra alternativa che la pace”[15].
Rispose a Giulio Andreotti, asserendo che non capiva: “quale sia il fondamento della tua meraviglia, del tuo stupore e del tuo giudizio”[16], e soprattutto rispondeva al consigliere comunale democristiano Bettino Ricasoli, con un puntiglio che merita di essere ricordato: “Caro Bettino, sarai persuaso anche tu che la lettera (la sua lettera di protesta) è stata scritta senza adeguata responsabile meditazione: perciò la restituisco. Non abbiamo violato nessuna norma giuridica e nessuna norma morale; abbiamo solo affermato il grande principio strutturalmente antitotalitario in base al quale lo Stato non può violare le coscienze e l’intelligenze. E’ il principio cardine della libertà: lo sottoscriverebbe anche il Bettino Ricasoli di ieri! Per queste ragioni non posso permettere che il Bettino Ricasoli di oggi scriva la lettera che ha scritto”[17].
3.3. Giorgio La Pira, per la proiezione del film, verrà denunciato in base all’art. 688 c.p. e in base all’art. 68 della legge di polizia, visto che la proiezione era avvenuta senza la licenza del Questore.
Difeso dagli avvocati Giorgio Della Pergola e Paolo Barile (principi del foro fiorentino dell’epoca, l’ultimo allievo dello stesso Piero Calamandrei), Giorgio La Pira si difese negando di aver diffuso il film in pubblico, e nell’interrogatorio del 14 dicembre 1961 asserì che infatti tutti i partecipanti erano stati da lui invitati, che le autorità erano state preventivamente avvertite, che il film era stato proiettato per sollecitare un dibattito sul tema della pace, e che infine doveva considerarsi incostituzionale ogni censura non riconducibile alla tutela del buon costume.
Il Tribunale di Firenze rimise gli atti alla Corte costituzionale, la quale tuttavia, con ordinanza del 7 febbraio 1963 n. 11, li rinviò al Tribunale di Firenze, per essere stata emanata nel frattempo in materia la nuova legge 21 aprile 1962 n. 161.
Il Tribunale di Firenze, infine, giudicando Giorgio La Pira in forza di questa nuova legge, lo assolveva “perché il fatto non costituisce reato”[18].
Il 29 novembre 1963 Giorgio La Pira scriveva all’arcivescovo di Firenze Ermenegildo Florid: “ormai tutto è passato: resta, in questa crisi, la grande luce di S. Agostino: in necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas”[19].
3.4. Perché ricordare questa vicenda?
Perché essa rappresenta in modo eloquente la posizione di Giorgio La Pira nel contrasto fra legge scritta e coscienza individuale, tra autorità e libertà.
E’ un esempio concreto di coerenza pratica di quanto egli, quindici anni prima, aveva sostenuto teoricamente in Assemblea costituente.
La legge morale e i diritti inalienabili dell’uomo, tra i quali certamente Giorgio La Pira ricomprendeva la pace e la libertà di pensiero, non possono non prevalere sulla legge formale, quando questa li contrasti.
Ancora una volta si riafferma la persona, come un ente dotato di una sua interiore autonomia.
4. Segue: l’impegno a tutela del lavoro, la vicenda Pignone
Giorgio La Pira impegnerà tutta la sua vita nella difesa degli ultimi, secondo i valori del Vangelo.
Scriveva di lui Piero Bargellini: “Quando scendeva dalla cattedra universitaria, non si recava a discutere in un caffè o a conversare in un salotto, ma andava a visitare i poveri della San Vincenzo……Era considerato l’amico dei poveri, per i quali aveva organizzato, a San Procolo, anche una Messa domenicale”.
Continuava poi Piero Bargellini: “Restavano ancora da risolvere due gravi e dolorosi problemi: quello della disoccupazione e quello dell’abitazione. Disoccupati e sfrattati accorsero in Palazzo Vecchio dove si era insediato l’amico dei poveri”[20].
Merita allora ricordare quanto Giorgio La Pira fece per i disoccupati e gli sfrattati, in difesa del lavoro e in difesa della casa.
4.1. Sul tema del lavoro va senz’altro ricordata la vicenda della Pignone.
La Pignone, in origine, era una industria metalmeccanica dell’area fiorentina.
Nel periodo della guerra si era ingrandita producendo armi, ma dopo la guerra stentava a trovare una propria identità, e la riconversione nel campo dei telai tessili immaginata dalla proprietà, la Snia Viscosa, non aveva prodotto alcun benefico risultato.
La Pignone riduceva allora il personale, e nel novembre del 1953 annunciava la chiusura degli stabilimenti, nonché il licenziamento di 1750 operai.
Precisamente il 17 novembre 1953 la società veniva messa in liquidazione, e il 18 novembre Giorgio La Pira, in difesa dei lavoratori, inviava una lettera a tutti i vescovi d’Italia.
Il 21 novembre successivo i dipendenti occupavano la fabbrica.
Il giorno dopo, 22 novembre, gli occupanti venivano denunciati in sede penale.
Quello stesso giorno, alle 11,30, i lavoratori occupanti si trasferivano nel piazzale antistante la fabbrica, per assistere ad una Messa celebrata da don Bruno Borghi, prete operaio della Pignone nel 1951; li raggiungeva Giorgio La Pira, e al termine della Messa si intratteneva con loro per esaminare i problemi più urgenti[21].
4.2. Giorgio La Pira scrisse ad una miriade di persone, tra le quali, addirittura, al Pontefice Pio XII: “Beatissimo Padre, l’atto temuto si è verificato: 1750 licenziamenti alla Pignone (totalità dei lavoratori e chiusura dell’azienda)……Qui c’è da salvare qualcosa di più saldo: la fiducia nella democrazia: fiducia non affidata solo alle leggi elettorali, quanto alla reale capacità di risolvere i veri problemi degli uomini: lavoro e casa”[22].
E poi scrisse all’amico Amintore Fanfani: “Caro Amintore, Marinotti ha deciso di chiudere la Pignone………E’ una decisione irresponsabile, illegittima ed ingiustificata: quando capiranno questi proprietari che la vita dei lavoratori non è nelle mani loro?”[23]
4.3. Ma la lettera principale, a mio sommesso parere, è quella che Giorgio La Pira inviava ad Edilio Rusconi, allora direttore del diffusissimo settimanale “Oggi”, che lo aveva attaccato in modo denigratorio per quanto egli stava facendo in difesa dei lavoratori.
Rispondeva Giorgio La Pira: “La Pira? Un imbecille per non dire altro, un visionario, un comunista bianco; lasciatelo cantare, tanto non concluderà nulla”[24].
E poi: “Ma cosa ha fatto? Nessuno lo sa con precisione; tutti sanno che ha fatto cose gravissime: - si figuri, ha fatto occupare dagli operai licenziati la fabbrica del Pignone; ha fatto celebrare la messa per gli occupanti, ha fatto stanziare due milioni per assisterli”[25].
E poi, di nuovo, proprio su quel rapporto tra legge scritta e legge morale: “La legge scritta? Noi siamo seguaci di S. Tommaso d’Aquino – il dottore della Chiesa per definizione – caro Rusconi. Ella non sa: quando la legge scritta fosse in intimo contrasto con quella naturale, allora non è più lex, sed corruptio legis (I,II,95,2; I,II,96,6) non tiene, non vincola non habet legis vigorem”[26]. Ed inoltre: “Anche le creature più alte dell’antichità pagana sentirono vivo questo dramma del contrasto fra la lettera della legge che uccide e lo spirito della giustizia che vivifica: ricorda Antigone? Vi sono leggi di natura, da Dio derivata, che nessuna legge umana può violare”…Non licet tibi……..ibant gaudentes a conspectu concilii quoniam digni habiti sunt pro nomine Jesu contumeliam pati”[27].
4.4. Giorgio La Pira, però, non si limitò a scrivere lettere e a fare teoria, ma si mosse anche concretamente per salvare l’azienda, e questo è l’altro importante aspetto; Giorgio La Pira non era solo un sognatore, era un uomo concreto.
Decise allora di prendere contatti con un altro suo importante amico, Enrico Mattei, presidente ENI, al quale gli propose di rilevare l’azienda.
L’idea era quella di convertire la Pignone nella produzione di turbine, idonee per l’estrazione del petrolio.
Ovviamente la cosa, a questo punto, poteva interessare Enrico Mattei, il quale avrebbe potuto salvare la Pignone non solo alla luce di quello spirito di solidarietà cristiana fatta avanti da Giorgio La Pira, ma anche per una buona ragione imprenditoriale.
Si stavano creando le basi, dunque, per salvare il lavoro a 1750 famiglie.
Dopo varie trattative, tutte seguite attentamente da Giorgio La Pira, la sera del 13 gennaio 1954, al Ministero del lavoro, verrà raggiunto l’accordo con i rappresentanti sindacali dei lavoratori e ENI, e finalmente si potrà comunicare l’acquisto del pacchetto azionario della Pignone[28].
Nascerà la Nuova Pignone, officina meccanica e fonderie, produttrice di turbine idonee all’estrazione di petrolio, con la partecipazione dell’ENI, presieduta da Enrico Mattei, al 60%, e la partecipazione altresì della vecchia proprietà, la SNIA VISCOSA al 40%[29].
5. Segue: l’impegno per la tutela della casa, gli sfratti a Firenze
Un egual impegno sociale Giorgio La Pira poneva in difesa della casa; considerava la casa, insieme al lavoro, un diritto inalienabile della dignità umana; e, da sindaco, voleva fermamente che nessuno, a Firenze, potesse rimanere senza un tetto.
5.1. Giorgio La Pira, anche su questo problema, intervenne, però, potremmo dire di nuovo, a modo suo, sopra le righe.
Requisì ville deserte e case sfitte, seppur la legge lo consentisse solo in ipotesi di calamità naturali.
Ma a chi gli citava articoli di legge, Giorgio La Pira tranquillo rispondeva: “Per questa povera gente la calamità è già avvenuta. Lo sfratto è come il terremoto e l’aumento delle pigioni oltre il livello delle possibilità economiche è peggiore d’un alluvione”[30].
Poi ebbe l’ardire di scrivere ai Pretori, competenti per materia all’epoca in tema di locazioni e di sfratti: “Signor Pretore…………io sono proprio preoccupato per questo crescere quotidiano di sfratti e per questa inquietudine – legittima – che va creandosi nella popolazione più povera……….La prego con tutta l’anima di aiutarmi, cioè a dare tutte le proroghe necessarie affinché ci sia dia tempo di provvedere a quella costruzione di case minime per le quali siamo impegnati un po’ tutti”[31].
5.2. Questo, era, dunque l’impegno concreto di Giorgio La Pira: ampliare la città di Firenze con la costruzione di case popolari da poter assegnare ai cittadini in difficoltà economiche in modo che nessuno a Firenze potesse rimanere senza casa.
Di nuovo, una perfetta sintesi tra sentimenti di carità cristiana e senso pratico per la risoluzione dei problemi.
Nel Verbale del Consiglio comunale del 16 ottobre 1952 risulta che Giorgio La Pira disse: “Venendo a parlare delle case, dirò che si è già iniziata la costruzione di case minime a Novoli ed a Varlungo, e presto si inizierà quella al Galluzzo. Vi sono poi le case per gli sfrattati, case vere e proprie e non baracche, che importano una spesa di 96 milioni. Vi è stato aggiunto anche un asilo, che è già in costruzione. In complesso quindi a Firenze noi facciamo investimenti per l’edilizia popolare in questa misura: mille alloggi comunale; mille alloggi per conto del Ministero degli Interni; millecinquecento alloggi Ina-Casa”[32].
5.3. Il problema è che, nel frattempo, Giorgio La Pira immaginava di risolvere provvisoriamente il problema con la requisizione degli alloggi vuoti a Firenze, e per questo ricevette molte critiche e vi furono numerosi contenziosi nei quali il Comune di Firenze restò soccombente.
Il giornale fiorentino La Nazione ricordava la posizione del Ministro dell’Interno su ciò, in base alla quale si doveva riaffermare il principio dell’inviolabilità della legge, ovvero del fatto che un Comune può requisire un immobile solo in ipotesi di calamità naturali.
E qui torniamo, ancora, al rapporto tra legge e coscienza.
Giorgio La Pira rispondeva così al direttore de La Nazione il 12 febbraio 1955: “Egregio direttore, sa lei quante sono le abitazioni sfitte in Firenze? Sono cauto se le dico che si va ben oltre le mille! E davanti a questo spreco di vuoti ecco il dramma di migliaia di famiglie già sfrattate o con l’incubo dello sfratto! Un sindaco che per paura dei ricchi e dei potenti abbandona i poveri, sfrattati, licenziati, disoccupati, è come un pastore che per paura del lupo abbandona il suo gregge. Posso io fare questo? Lei certamente risponderà di no: ed io pure”[33].
6. La realizzazione della nuova centrale del latte
Una ultima vicenda relativa all’impegno sociale di Giorgio La Pira riguarda la realizzazione della nuova centrale del latte di Firenze; essa è stata oggetto addirittura di uno studio monografico[34].
6.1. Ed infatti, appena insediato quale sindaco, Giorgio La Pira avverte la necessità di organizzare un servizio pubblico di distribuzione del latte per consentire a tutta la popolazione, e soprattutto alle classe sociali più disagiate, di poter godere di questo alimento, fino ad allora marginale nei consumi familiari[35].
Giorgio La Pira intende realizzare questo progetto con la creazione di una vera e propria “Centrale del latte”, e come in altre occasioni riesce a coniugare perfettamente i sentimenti di carità cristiana con il senso pratico.
Chiede aiuto, come in altre occasioni, all’amico Amintore Fanfani, che fa arrivare a Giorgio La Pira un finanziamento tramite il Ministero dell’Agricoltura; e poi, soprattutto, riceve l’aiuto di Lodovico Montini, fratello di Giovanni Battista Montini, futuro Papa Paolo VI, che riuscì ad ottenere per Giorgio La Pira un finanziamento addirittura dall’America.
Scriveva Giorgio La Pira a Lodovico Montini: “Caro Montini, il latte va benissimo; ormai da un mese i bambini delle scuole di Firenze ricevono ogni giorno questo sostanziale alimento: sono felici! Ora aspetto i denari: mandami, in anticipo, 15 milioni” [36].
Già nel 1952, così, “fra il 21 gennaio e il 31 maggio, prende avvio l’esperimento pilota della distribuzione di latte in 85 scuole elementari fiorentine”[37]; inizia la distribuzione quotidiana del latte ai bambini nelle scuole, agli operai pendolari nelle fabbriche, ai carcerati; sarà anche questo un forte legame tra il sindaco Giorgio La Pira e la sua città.
6.2. Giorgio La Pira ebbe ad esternare infatti il 19 febbraio 1952: “L’esperimento del latte è in pieno, felice sviluppo……E’ una idea elementare di vasta ripercussione, feconda per i suoi risultati fisici, spirituali, politici ed anche economici. Ringraziamo il Signore che ci ha permesso di condurre a termine, a Firenze, questa bella iniziativa assistenziale e fraterna…..Il latte sarà come l’asse attorno al quale potrà svilupparsi tutta una nuova azione assistenziale di dimensioni nazionali”[38].
7. Giorgio La Pira e l’impegno per la pace
Non si può, infine, ricordare Giorgio La Pira senza rimarcare il suo grande impegno per la pace e contro le guerre, impegno al quale egli dedicò enormi energie fino alla fine dei suoi giorni[39].
7.1. Nel 1952 iniziano a Firenze i Convegni internazionali per la pace e la civiltà cristiana; saranno in tutto cinque, dureranno fino al 1957; ad essi Giorgio La Pira invita esponenti politici di tutti i paesi, nella convinzione che il dialogo sia la base imprescindibile per la pace nel mondo.
Nel 1955 Giorgio La Pira prende un’ulteriore iniziativa, che è quella di invitare a Palazzo Vecchio i sindaci delle città capitali del mondo, per siglare un patto di amicizia tra loro; sosteneva che le città avessero la possibilità di svolgere un ruolo centrale per la pace, e dovevano così unirsi in un patto di salvaguardia della stessa.
Nel 1958 iniziano i Colloqui mediterranei, e invita a parteciparvi arabi e israeliani, convinto parimenti che nessuna pace potesse darsi nel mondo se non lavorando sulla pace nel mediterraneo, crocevia di più culture e più religioni, crocevia di diversi sistemi economici e politici, che tuttavia avevano lo specifico dovere di dialogare tra loro e collaborare.
Si è detto di Giorgio La Pira che “negli anni successivi si fece sempre più intenso il suo impegno a favore della pace, come testimoniano le lettere a Nikita Krusciov e al Presidente del Consiglio dell’URSS, il sostegno alla causa dell’indipendenza algerina, e soprattutto i pellegrinaggi, che lo condussero nel cuore medesimo dei popoli cristiani d’Europa”[40].
7.2. Soprattutto, nei giorni tra il 24 – 28 aprile 1965, a Firenze, al Forte di Belvedere, Giorgio La Pira organizza un Symposium sul Vietnam.
Oltre ai laburisti inglesi, era presente l’ex presidente del Consiglio francese Jules Moch, l’osservatore sovietico Modest Rubinstein dell’Accademia delle scienze di Mosca ed alcuni esponenti di organizzazioni internazionali[41].
Disse in quell’occasione Giorgio La Pira: “Il problema vietnamita è arrivato a rappresentare una vera minaccia per la pace mondiale…..Naturalmente i conflitti sono due. Uno è il conflitto che si svolge all’interno del Vietnam fra vietnamiti. L’altro è il conflitto sul Vietnam fra coloro che appoggiano una delle parti contendenti e coloro che appoggiano l’altra. E’ quest’ultimo conflitto che mette in pericolo la pace mondiale. Il primo invece è un conflitto del tutto normale, a cui si possono trovare molti paralleli e precedenti nel corso della storia”[42]
Ovviamente, anche per questa iniziativa Giorgio La Pira fu fortemente criticato.
Giorgio La Pira lo ricorderà in una lettera inviata allo stesso Papa Paolo VI: “Quante accuse ci furono fatte e quanti insulti sulla stampa “indipendente” italiana…..si disse: “e’ cosa comunista!” E’ l’accusa –così ingiusta- che viene, da 15 anni, fatta alle cose di Firenze”[43].
7.3. Infine, il 2 giugno 1965 è in programma la sessione della Tavola Rotonda Est-Ovest a Belgrado sulla questione del disarmo e sul ruolo di un’Europa inedita: denuclearizzata e pacificata.
Giorgio La Pira resta a Firenze e affida a Mario Primicerio il testo del suo intervento da presentare alla tavola rotonda: “La via della pace è costituita da quello che noi abbiamo chiamato a Mosca il “sentiero di Isaia”, cioè la via del disarmo…….convertire, cioè, in investimenti di pace gli investimenti di guerra, trasformare in aratri le bombe, in astronavi di pace i missili di guerra”[44]
7.4. Non v’è bisogno di sottolineare quanto il pensiero di Giorgio La Pira sulla pace e sul disarmo sia attualissimo a fronte dei fatti che stiamo, purtroppo, di nuovo in questo periodo vivendo.
Non v’è bisogno di sottolineare quanto sia importante il monito di Giorgio La Pira verso i potenti del mondo, che hanno il dovere di non trasformare un conflitto interno in un conflitto internazionale, prendendo posizione a favore, oppure contro, una parte, poiché è sempre quest’ultima posizione che trasforma una guerra locale in una guerra di tutti, è quest’ultimo conflitto che mette in pericolo la pace mondiale.
E non v’è bisogno di sottolineare che, se si vuole la pace, come correttamente sosteneva Giorgio La Pira, si deve seguire il sentiero di Isaia, ovvero si deve perseguire il disarmo.
Se si pensa, ad esempio, alla nostra Europa, che con la recente legge francese 1 agosto 2023 n. 703, avente ad oggetto la programmazione militare per gli anni 2024 – 2030, ha invece aumentato le spese militari del 40%, nonché aumentato l’impiego di forze umane, che consentirà di raggiungere il numero di 275.000 militari entro il 2030, ai quali si aggiungeranno 105.000 riservisti entro la fine del 2035, va da sé di quanto si sia lontani da quel sentiero di Isaia predicato da Giorgio La Pira.
8. Giorgio La Pira e il valore della vita, Spes contra spem.
Arriviamo, così, all’ultimo periodo della vita di Giorgio La Pira.
8.1. Già malato, l’amico Giorgio Giovannoni gli chiede di accompagnarlo a Livorno per salutare una nave in partenza della Croce Rossa carica di medicinali per i profughi palestinesi nel Libano.
Giorgio La Pira così risponde all’amico: “Vedi, questa che ho addosso non è una malattia qualsiasi è la malattia. Però quella che si cerca in Palestina non è una pace qualsiasi, è la pace.
Andiamo dunque a salutare quella nave”[45].
8.2. Moriva a Firenze poco dopo, il 5 novembre 1977.
Gli operai del Nuovo Pignone portarono la bara a spalla, da Piazza della Signoria, lungo via Calzaiuoli, fino alla cattedrale di Santa Maria del Fiore, ove il Cardinale Giovanni Benelli tenne la Messa funebre.
Il 4 agosto 1977 Giorgio La Pira aveva fatto testamento nominando “suo erede universale il Convento di S. Marco in Firenze”[46].
Nel 1986 l’arcivescovo di Firenze Silvano Piovanelli apriva il processo diocesano per la causa della sua beatificazione.
Sepolto inizialmente nel cimitero di Rifredi, veniva successivamente trasferito nella Basilica di San Marco, dove ancora oggi si trova, a seguito del suo riconoscimento a venerabile.
8.3. La sua vita fu sempre illuminata da questo principio: Spes contra spem, la speranza, anche ove non c’è niente da sperare.
Relazione tenuta a Pozzallo (RG) il 17 maggio 2024, in un incontro organizzato dall’Università degli studi di Siena con il Comune e l’Ordine degli avvocati di Pozzallo, e con la partecipazione degli alunni delle scuole superiori di Pozzallo e Ispica.
[1] Su Giorgio La Pira si veda principalmente U. DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, Cultura nuova editrice – Comune di Firenze, 1988, diviso in tre volumi, un primo (1951 – 1954), un secondo (1955 – 1957) e infine un terzo (1961 – 1965); e poi G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, University Press Firenze, 2022, anch’esso diviso in tre volumi.
[2] G. LA PIRA, La genesi del sistema della giurisprudenza romana, in Studi Virgili, Siena, 1934, 159 e ss.
[3] Lo ricorda anche P. GROSSI, Stile fiorentino, Milano, 1986, 199, il quale alla nota 13 ebbe a scrivere al riguardo di Giorgio La Pira: “Come romanista, l’unico saggio successivo fondato su ricerche originali verte su La personalità scientifica di Sesto Pedio, ed è pubblicato in bull. Dell’Istituto di diritto romano, XLV (1938). Altrimenti ripeterà stancamente temi e prospettive già consolidati, senza aggiungervi alcunché”. Si veda anche C. PARENTI, Spunti di riflessione su maestri di luce: Luigi Lombardi Vallauri e Giorgio La Pira, in Scritti per Luigi Lombardi Vallauri, Padova, 2016, II, 1123 e ss.
[4] P. BARGELLINI, La splendida storia di Firenze, Vallecchi editore, Firenze, 1964.
[5] In U. DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit. I, 199.
[6] Mi piace ricordare, con riferimento all’intervento in Assemblea costituente da parte di Giorgio La Pira, quanto è stato scritto in G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, cit., I, 626: “La mattina dell’8 settembre La Pira è stato alla messa di San Procolo, alla badia fiorentina, a festeggiare i suoi poveri. In serata è dovuto partire per Roma. Lo attende un compito impegnativo l’indomani 9 settembre: presentare la sua Relazione sui principi relativi ai rapporti civili alla I sottocommissione del 75”. Avrebbe voluto un articolo in costituzione del seguente tenore: “Nello Stato italiano che riconosce la natura spirituale, libera, sociale dell’uomo, scopo della Costituzione è la tutela dei diritti originari ed imprescindibili della persona umana e delle comunità naturali nelle quali essa organicamente e progressivamente si integra e si perfeziona” (cit., pag. 628).
[7] V. La Costituzione della Repubblica italiana nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, Roma, 1971, VI, 316.
[8] V. La Costituzione della Repubblica italiana nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, cit., 316.
[9] V. La Costituzione della Repubblica italiana nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, cit., 322.
[10] V. La Costituzione della Repubblica italiana nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, cit., 316.
[11] U. DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., II, 193.
[12] La vicenda è ricordata da U. DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., II, 105 e ss.; e poi G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, cit., II, 1251 e ss.
[13] V. infatti, U. DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., II, 106/7
[14] V. ancora DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., II, 106.
[15] G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, cit., II, 1253.
[16] DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., II, 106.
[17] DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., II, 107.
[18] V. il resoconto in G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, cit., II, 1254: “Il sindaco di Firenze verrà dunque prosciolto in istruttoria “perché il fatto non costituisce reato”, ma dovrà attendere fino al gennaio del 1964”.
[19] G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, cit., II, 1255.
[20] P. BARGELLINI, La splendida storia di Firenze, cit.. IV, 238.
[21] G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, cit., II, 866.
[22] U. DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., II, 257.
[23] G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, cit., II, 864.
[24] U. DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., II, 253.
[25] U. DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., II, 251.
[26] U. DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., II, 250.
[27] Non ti è lecito………..Uscivano felici dal Tribunale perché avevano avuto l’onore di sopportare offese per il nome di Gesù”.
[28] G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, cit., II, 869.
[29] Ancora G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, cit., II, 894.
[30] P. BARGELLINI, La splendida storia di Firenze, cit.. IV, 238.
[31] U. DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., I, 159.
[32] V. al riguardo, P.L. BALLINI, Giorgio La Pira. Sindaco di Firenze, ambasciatore di pace, Pagliai Polistampa, 2024, 71.
[33] P.L. BALLINI, Giorgio La Pira. Sindaco di Firenze, ambasciatore di pace, cit., 76.
[34] V. infatti L. PAGLIAI, Giorgio La Pira e il piano latte, Edizioni polistampa, 2010.
[35] U. DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., II, 121 e ss.
[36] V. U. DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., II, 121.
[37] Così, L. PAGLIAI, Giorgio La Pira e il piano latte, cit., 125.
[38] Richiamato da L. PAGLIAI, Giorgio La Pira e il piano latte, cit., in quarta di copertina.
[39] V., fra i molti, M. GIOVANNONI, Il professore Giorgio La Pira amico della Cina, in AA.VV., Chang’an e Roma, Padova, 2019, 37 e ss.;
[40] Così, A. MATTONE, La Pira, Giorgio, in Dizionario biografico dei giuristi italiani, I, 2013, 1152. Si veda anche T. ALEXEEVA, Diritto romano attuale e costituzione: prospettive geopolitiche, Padova, 2020, 138, sui rapporti tra la Costituzione sovietica e la Costituzione della Repubblica romana.
[41] G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, cit., III, 1508.
[42] P.L. BALLINI, Giorgio La Pira. Sindaco di Firenze, ambasciatore di pace, cit., 173.
[43] G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, cit., III, 1509.
[44] P.L. BALLINI, Giorgio La Pira. Sindaco di Firenze, ambasciatore di pace, cit., 173.
[45] In www.TOSCANAOGGI.IT.
[46] G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, cit., III, 1847.
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