ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Pubblichiamo questo contributo in occasione del centenario della morte del Maestro Giacomo Puccini, nato a Lucca il 22 dicembre 1858 e scomparso a Bruxelles il 29 novembre 1924. La prima parte del contributo, apparsa su Questa Rivista il 30 novembre 2024, si può leggere qui.
All’alba vincerò!
La vittoria di Giacomo Puccini sul tempo. PARTE SECONDA.
di Gerardo Casiello
Sommario: PARTE PRIMA 1. Sei generazioni di musicisti – 2. Trenta chilometri a piedi per Aida – 3. Anni difficili a Milano – 4. Tonio Puccini e la fine di una stirpe di musicisti – 5. Un miracolo a Milano – 6. Le Villi, l’esordio operistico di Puccini – 7. L’influenza di Wagner – 8. Edgar: “la cosa più orribile che sia mai stata scritta” – 9. Anni difficili alla vigilia della gloria – 10. In anticipo sulla musica per il cinema – 11. Puccini e i suoi contemporanei – 12. Bohème: una sfida tra amici – 13. Il gioco e la caccia – 14. Caruso e Puccini: due amici ambasciatori dell’Italia nel mondo – 15. E lucean le stelle – 16. Il grammofono di casa Puccini – 17. Puccini e le “sue donne” – 18. Madama Butterfly – 19. Un fortunatissimo fiasco. PARTE SECONDA 20. Una tragedia in casa Puccini – 21. Il figlio illegittimo – 22. La fanciulla del west – 23. La grande guerra e La rondine – 24. Tre opere in una – 25. Un capolavoro incompiuto – 26. “Qui termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto” – 27. Puccini ascolta Puccini.
20. Una tragedia in casa Puccini.
Giacomo Puccini ha sempre viaggiato molto nonostante preferisse restarsene in disparte nella sua adorata villa di Torre del Lago. Durante i suoi viaggi che il più delle volte coincidevano con allestimenti delle sue opere, il Maestro aveva la possibilità di confrontarsi con altre realtà sociali, di conoscere nuove persone e suggestionarsi per trovare nuove storie sulle quali lavorare.
Fu nel gennaio del 1907, durante un allestimento a New York della terza revisione di Madama Butterfly, che Puccini ebbe l’occasione di assistere al nuovo dramma teatrale di David Belasco intitolato The girl of the golden west rimanendone fortemente impressionato, tanto da chiedere subito all’autore di poterne trarre un’opera lirica. Nell’autunno del 1907 era già al lavoro; essendo Giuseppe Giacosa morto nel 1906, e con Luigi Illica il rapporto non era proprio dei migliori, per il libretto della nuova opera La fanciulla del West, si affidò al poeta Carlo Zangarini e allo scrittore Guelfo Civinini.

[Giacomo Puccini durante l’allestimento di un’opera]
Gli anni tra il 1907 e il 1910 furono molto tumultuosi nella vita privata di Puccini. La Fanciulla del West ha un modello femminile riconducibile alla vita reale del Maestro: Giulia Manfredi, giovane donna che gestiva, insieme al padre, una trattoria sulla terrazza del molo di fronte casa di Puccini a Torre del Lago.
Giacomo era un assiduo frequentatore del posto, soprattutto dopo le sue battute di caccia. La ragazza, dal carattere forte e deciso, affascinò il compositore a tal punto che divennero amanti. La cugina di Giulia, Doria Manfredi, lavorava da alcuni anni come domestica a casa Puccini ed era il tramite tra il musicista e la sua amante, era colei che recapitava le lettere e i messaggi. La giovane Doria ebbe la sventura di cogliere in flagrante adulterio la figliastra di Puccini, Fosca, con il librettista Guelfo Civinini. Fosca, avendo notato la vicinanza di Doria al Maestro, si vendicò instillando in sua madre Elvira il dubbio di una relazione di Giacomo con la ragazza. La moglie del compositore divenne intrattabile e, dopo aver licenziato la ragazza, la ingiuriò per tutto il paese a tal punto che la giovane, non sopportando più il peso delle calunnie, si suicidò avvelenandosi.
Dall’autopsia risultò che Doria era vergine e la famiglia Manfredi denunciò Elvira che fu condannata a cinque mesi di carcere; non scontò mai la pena perché Puccini pagò 12.000 lire ai parenti della ragazza per chiudere il caso.
La figura di Doria la si ritroverà poi con il personaggio di Liù in Turandot.
Dopo questo scandalo Puccini si separò dalla moglie e vissero divisi per un periodo.

[Giacomo Puccini in uniforme da marinaio]
21. Il figlio illegittimo.
Giulia Manfredi, che fu amante del Maestro per circa 16 anni, nel 1923 si allontanò da Torre del Lago e, nella città di Pisa, diede alla luce un figlio nato dalla relazione con il musicista; il bambino fu chiamato Antonio, come il fratellastro, e portò il cognome della madre. Per più di un anno Puccini mandò regolarmente soldi alla famiglia che cresceva il bambino a Pisa ma poi, dalla morte del compositore avvenuta nel 1924, Giulia dovette provvedere da sola al mantenimento del figlio “segreto”. Ad Antonio fu sempre proibito di andare dalla madre a Torre del Lago.
Nel 1976, alla morte di Giulia, il figlio si recò al paese per prendere tutte le cose ereditate dalla madre, tra cui una valigia rimasta sepolta nella cantina di Manfredi per molti anni. Antonio scomparve nel 1988.
Nel 2008, il regista Paolo Benvenuti, dopo aver fatto interviste a persone molto anziane di Torre del Lago, venne a conoscenza dell’esistenza degli eredi di Giulia Manfredi residenti a Pisa. Benvenuti riuscì a rintracciare Nadia Manfredi nipote di Giulia e, dopo varie interviste che ricostruirono la storia fu recuperata, nella cantina che fu di Antonio, una valigia che conteneva numerosi documenti che riguardavano Giacomo e Giulia, numerosissime lettere e persino un filmino amatoriale risalente al 1915 che ritraeva il Maestro in scene di vita quotidiana nella sua casa.
Grazie a questa scoperta il regista Paolo Benvenuti e la moglie Paola Baroni hanno tratto un soggetto dalla storia e realizzato il film intitolato Puccini e la fanciulla.
22. La fanciulla del west.
Oltre al dramma di Belasco, Puccini fu ispirato anche dalla sua tragedia personale per la composizione de La fanciulla del west.
L’opera è ambientata in California nel contesto della corsa all’oro, un’epoca di grande tumulto e opportunità dove emergono temi di avventura e conflitto. La storia è situata in un saloon e tra i cercatori d’oro, conferendo un’atmosfera western che fu molto innovativa per l’epoca.
La protagonista Minnie è proprio come Giulia Manfredi, una figura forte e autonoma che sa difendersi e prendere decisioni coraggiose.
La donna è disposta a mettere a rischio la sua vita e il suo benessere per difendere il suo amato Dick, facendo emergere sentimenti di amore, sacrificio e giustizia. Puccini incorpora nell’opera scale esatonali, forti dissonanze e passaggi cromatici, mostrando ancora l’influenza di compositori a lui contemporanei come Debussy e Strauss. Questa evoluzione armonica segna una distanza rispetto alle convenzioni melodiche più tradizionali delle sue opere precedenti.
L’uso di accordi di nona e l’impiego di scale per toni interi contribuiscono a creare atmosfere nuove e suggestive.
Puccini utilizza inoltre melodie folkloristiche americane come Dooda dooda day, Ninna-nanna Pellerossa ispirata ai canti indiani, e ritmi di danza americani tipici dell’epoca come il Cakewalk per dare autenticità all’ambientazione western.
Questo approccio non solo arricchisce la partitura ma rende anche omaggio alla cultura statunitense.
A differenza delle opere precedenti di Puccini, i personaggi in La Fanciulla del West non cantano melodie o temi ricorrenti nel modo consueto; piuttosto, il loro stile è più parlato e azione-orientato, riflettendo una nuova direzione nella scrittura operistica.
Altre grandi innovazioni che Puccini inserisce nell’orchestra sono gli effetti sonori che saranno poi ampiamente utilizzati nel cinema: utilizza l’eliofono ossia una macchina che riproduce il suono del vento; si fa costruire apposta uno strumento chiamato Fonica che produce un particolare effetto di vibrato. Specifica inoltre in partitura l’inserimento di fogli di carta tra le corde dell’arpa per imitare il suono del banjo. In quest’opera Puccini porta la sua drammaturgia a un punto molto alto e cerca di fondere insieme tradizione europea e americana.
La fanciulla del west esordì il 10 dicembre del 1910 a New York presso il Metropolitan diretta da Arturo Toscanini con un cast di primordine tra cui Enrico Caruso, Emmy Destinn e Antonio Pini-Corsi.
Fu un clamoroso successo di pubblico ma la stampa specializzata come al solito fu spietata. Alcuni critici, come Sylvester Rawling, contestarono l’autenticità dell’opera, affermando che le melodie all’italiana suonavano fuori luogo nel contesto dei minatori americani. Gustav Kobbé invece sottolineò che l’opera non riusciva a catturare l’atmosfera locale e che i personaggi sembravano solo italiani travestiti da americani.
La storia si svolge nel saloon Polka gestito da Minnie, una giovane donna forte e indipendente. Il locale è frequentato da cercatori d’oro e fuorilegge. Tra i vari personaggi c’è Dick Johnson, un fuorilegge che si innamora di Minnie. Anche se Minnie è affascinata da lui, è insicura riguardo la sua vera identità. I minatori parlano della vita difficile nella miniera e della loro speranza di trovare oro; si fa anche riferimento al fatto che il bandito Jack Rance, il capo dei fuorilegge e sceriffo della zona, ha un interesse per Minnie.
Dick e Minnie approfondiscono il loro legame, lei però scopre che lui è un fuorilegge. Nonostante ciò, i loro sentimenti si intensificano. Nel frattempo, Jack Rance cerca di sedurre Minnie e, scoprendo la presenza di Dick, minaccia di rigorosamente farlo arrestare. La situazione si fa drammatica quando Minnie deve fare una scelta: il suo amore per Dick o la sua lealtà verso la legge.
Dick viene poi braccato dagli uomini di Rance e Minnie, nel tentativo di proteggerlo, affronta le forze dell’ordine e costruisce poi un piano per salvarlo. Con astuzia e coraggio, la donna riesce a salvare Dick dimostrando che il vero amore può superare le avversità. Alla fine Minnie e Dick riusciranno finalmente stare insieme.
23. La grande guerra e La rondine.
Dopo un periodo di separazione, a seguito della tragedia di Doria Manfredi del 1909, Puccini ritornò a vivere con la moglie Elvira; il rapporto però fu sempre conflittuale e il compositore si distraeva immergendosi nella lettura, nella scrittura della sua musica, ricercando sempre materiale per nuovi progetti.
Nel 1913 il Carltheater di Vienna gli commissionò un nuovo lavoro: un’operetta in un solo atto, ma il Maestro fu fortemente insoddisfatto del lavoro dei librettisti Alfred Willner e Heinz Reichert. Il contratto con Vienna fu poi sciolto a causa dello scoppio della prima guerra mondiale e Puccini, liquidati i librettisti affidategli dal teatro di Vienna, ripensò completamente l’assetto drammaturgico e trasformò il progetto iniziale in un’opera in tre atti. Per il libretto contattò il commediografo Giuseppe Adami con il quale intrecciò un rapporto di profonda amicizia e grande intesa professionale.
La Rondine occupa un posto unico nella produzione pucciniana, rappresentando una transizione verso un’opera più moderna e disincantata. È l’unica opera di Puccini priva di dialoghi parlati e può configurarsi come una commedia lirica.
La sua struttura atipica e i numerosi ripensamenti del Maestro mettono in discussione il concetto di capolavoro; l’uso di ritmi di danza riflette le influenze musicali contemporanee, dal valzer al tango, creando un’atmosfera meno drammatica e più giocosa. Mentre molte opere pucciniane esplorano il sacrificio e la tragedia, La Rondine affronta l’amore in modo più leggero e autoironico, con un finale che promuove la consapevolezza e la libertà essendo dunque un esperimento audace nella sua carriera drammaturgica.
Il valzer e il tango non sono utilizzati come elementi di sfondo ma come strumenti narrativi che riflettono le emozioni dei personaggi e la loro evoluzione. Questa scelta contribuisce a rendere l’opera una commedia lirica ibrida, caratterizzata da una varietà musicale che riflette l’influenza viennese, rendendo i momenti coreografici essenziali per la narrazione.
Adami fornì un libretto che permise a Puccini di esplorare temi di amore e libertà in un’atmosfera leggera ma emotivamente complessa. Tuttavia, la scarsa convinzione di Puccini nel progetto e la sua stanchezza creativa comportarono continui ripensamenti durante la gestazione dell’opera, influenzandone il risultato finale.
La storia si svolge a Parigi dove la giovane e bella Magda Civry si intrattiene nel lussuoso salotto della sua casa insieme a un gruppo di amiche, il suo ricco amante Rambaldo, il poeta Prunier e la cameriera Lisette. Magda rievoca con nostalgia il suo amore giovanile per uno studente. Ad un tratto entra nel salotto Ruggero, giovane amico di Rambaldo venuto dalla campagna, Magda resta subito colpita dalla sua serietà e timidezza. Quando Ruggero saluta i presenti per recarsi in un locale a passare la serata, Magda riesce a scoprire la destinazione del ragazzo e, travestendosi, si reca anch’ella al caffè Bullier.
Al locale Ruggero siede da solo a un tavolo non curandosi delle ragazze che gli ronzano intorno; giunta Magda si unisce a lui e iniziano a conversare e poi a danzare.
Intanto arrivano al locale Prunier, Lisette e infine anche Rambaldo che cerca di convincere Magda a tornare a casa con lui ma lei rifiuta dicendogli che si è innamorata di Ruggero.
I due amanti andranno poi a vivere sulla Costa Azzurra e il ragazzo chiede a Magda di sposarlo; Magda gli rivela il suo passato di donna mantenuta dagli uomini e che non avrebbe potuto sposare un uomo così sincero e di sani princìpi. Come una rondine, fa quindi ritorno alla lussuosa vita finta e monotona insieme al suo protettore Rambaldo.
Magda è quindi la bella mantenuta che cerca l’amore autentico. È romantica e nostalgica, ma anche consapevole della sua comoda situazione sociale e delle sue limitazioni; Ruggero è invece un giovanotto provinciale che rappresenta l’innocenza, la ricerca di un amore puro e di una vita semplice e felice.
Rambaldo, ricco banchiere e protettore di Magda, è il simbolo del denaro e dell’amore possessivo. Prunier, poeta cinico e arguto, incarna le nuove e frivole mode amorose parigine; infine Lisette, cameriera di Magda, ragazza concreta e pragmatica, rappresenta il contrasto alle aspirazioni romantiche di Magda.
La prima rappresentazione de La rondine si tenne Grand Théâtre de Monte Carlo il 27 marzo del 1917 e fu accolta da un pubblico caloroso, ma subì una stroncatura dalla critica.
Durante la Prima Guerra Mondiale (1915-1918), Puccini visse un periodo di grande angoscia e preoccupazione; era profondamente turbato dagli orrori del conflitto che definì in una lettera «[…] un’orribile sospensione della vita […]». Grande ansia gli procurò inoltre l’impiego al fronte del figlio Antonio. Il tutto influì pesantemente sulla sua produttività creativa, infatti in una lettera lamentava «[…] ho lavorato poco, questa guerra mi distorna […], che vale? Se non finisce questa guerra, che cosa se ne fa il mondo della musica? […]».
Puccini non si schierò mai politicamente, nel 1915 dichiarò: «[…] Un artista dovrebbe tenersi completamente fuori dalla politica. Almeno, questo è ciò che penso […]». Nonostante tutte le difficoltà continuò a comporre, e riuscì a ultimare un trittico composto dalle opere Il tabarro, Suor Angelica e Gianni Schicchi.
24. Tre opere in una.
Già nei primi anni del Novecento, il compositore aveva avuto l’idea di lavorare a un’opera composta da tre episodi tratti dalla Divina Commedia; per lungo tempo pensò a questo progetto che non si realizzò mai ma di cui se ne ha traccia con l’episodio di Gianni Schicchi per il trittico.
Nel 1812 aveva assistito a Parigi alla rappresentazione del dramma La houppelande di Didier Gold restandone molto colpito e dalla quale pensò di trarre un’opera. Affidò il soggetto al librettista Giuseppe Adami; tra l’estate e l’autunno del 1913 e poi dall’ottobre 1915 al novembre 1916, Puccini lavorò alla composizione de Il tabarro.
Dopo aver messo in scena Le rondini, il compositore pensò di riprendere l’opera in un atto e associarla ad altre due di argomento completamente diverso per avere un’opportunità rappresentativa caleidoscopica sotto il punto di vista musicale, drammaturgico e narrativo. Tra il 1917 e il 1918 compose Suor Angelica e Gianni Schicchi su libretto di Giovacchino Forzano.
Nonostante le sue qualità musicali, Il tabarro è una delle opere meno rappresentate del repertorio pucciniano. La sua narrazione cruda, che affronta il tema del proletariato parigino, l’hanno resa meno popolare rispetto ad altri titoli del compositore. Tuttavia, è considerata un’opera di grande originalità che mostra la capacità di Puccini di inserirsi nelle tendenze musicali europee del suo tempo.
Il Tabarro è caratterizzata da una forte drammaticità e una cupa atmosfera che riflette il tema del tempo che passa simboleggiato dal tramonto e dal lento scorrere della Senna. Puccini utilizza leitmotiv brevi e una struttura musicale basata su grandi blocchi tonali anticipando stilemi tipici dell’espressionismo.
L’opera è ambientata su un barcone da carico ancorato sulla Senna a Parigi, al tramonto. Michele, il proprietario del barcone e marito di Giorgetta, sospetta che la moglie lo tradisca. Giorgetta è innamorata di Luigi, un giovane scaricatore che lavora per Michele. Ogni sera, Luigi raggiunge Giorgetta attratto dal segnale di un fiammifero acceso. Michele, tormentato dalla gelosia e dalla perdita del loro figlio, medita vendetta. Una sera, Michele sorprende Luigi sul barcone, lo costringe a confessare il suo amore per Giorgetta e lo strangola. Nasconde poi il corpo nel suo tabarro. Quando Giorgetta si avvicina a Michele egli le mostra il cadavere di Luigi.
L’opera fu concepita per essere rappresentata insieme a Suor Angelica e Gianni Schicchi, offrendo così un’esperienza teatrale completa e variegata.
Ogni episodio del Trittico esplora temi diversi ma interconnessi.
Il Tabarro si concentra sulla gelosia e la tragedia, rappresentando un mondo cupo e senza speranza che può essere visto come infernale; Suor Angelica tratta l’espiazione e la redenzione, evocando il purgatorio. Infine, Gianni Schicchi offre una visione comica dell’avidità, con un tono più leggero e un finale paradisiaco.
Il Trittico è stato concepito come un percorso dall’oscurità alla luce. Questo viaggio emotivo è reso possibile attraverso la rappresentazione delle diverse sfumature dell’animo umano: passione, redenzione e avidità. L’ordine delle opere è cruciale per mantenere questo equilibrio drammatico.
Le tre opere si distinguono per i loro contrasti stilistici e tematici. Il Tabarro è un dramma realistico ambientato nella Parigi contemporanea a Puccini, mentre Suor Angelica in un convento del XVII secolo seguendo una narrazione lirica e religiosa. Gianni Schicchi è invece una commedia che si svolge nella Firenze medievale.
Suor Angelica è ambientata in un monastero nei pressi di Siena, verso la fine del XVII secolo. La protagonista è una giovane donna di famiglia aristocratica che da sette anni vive nel convento per espiare un peccato d’amore.
Durante questo lungo periodo, Angelica non ha avuto notizie del suo bambino nato da una relazione clandestina e che le era stato strappato subito dopo la nascita. Un giorno riceve la visita inaspettata della zia. Tuttavia, la donna non è venuta per concederle il perdono ma per chiederle di firmare un atto di rinuncia alla sua parte di eredità familiare, necessaria per costituire la dote della sorella minore prossima al matrimonio.
Angelica chiede insistentemente informazioni sul suo bambino e, con fredda crudeltà, la zia le rivela che il bambino è morto da oltre due anni a causa di una grave malattia.
Disperata per la notizia, la ragazza decide di togliersi la vita per ricongiungersi al figlio. Di notte si reca nell’orto del monastero e raccoglie delle erbe velenose con cui prepara una pozione mortale.
Dopo aver bevuto il veleno, Angelica implora il perdono della Vergine Maria e in quel momento avviene il miracolo: la Madonna appare sulla soglia della chiesetta e spinge il bambino tra le braccia della madre morente. Angelica muore riconciliata mentre un coro di angeli la accoglie in cielo.
Gianni Schicchi invece è ambientata a Firenze nel 1299. La storia si svolge attorno alla morte del ricco Buoso Donati e alle macchinazioni dei suoi avidi parenti per assicurarsi l’eredità.
L’opera si apre con i parenti di Donati riuniti intorno al suo letto di morte preoccupati per una voce che circola per cui il ricco avrebbe lasciato tutto il suo patrimonio ai frati. I parenti, ansiosi di conoscere il contenuto del testamento, lo cercano freneticamente e, una volta trovato, le loro paure sono confermate: Buoso ha effettivamente lasciato tutti i suoi beni ai frati.
In preda alla disperazione, il giovane Rinuccio suggerisce di chiamare Gianni Schicchi, uomo noto per la sua astuzia. Schicchi arriva insieme alla figlia Lauretta che è innamorata di Rinuccio.
Dopo aver valutato la situazione, Schicchi escogita un piano audace: si sostituirà al defunto Buoso, fingendosi ancora vivo, per dettare un nuovo testamento al notaio.
Schicchi si mette nel letto di Buoso e, imitandone la voce, detta un nuovo testamento al notaio. Con grande sorpresa e disappunto dei parenti, Schicchi lascia la maggior parte dei beni a se stesso, assicurando così un futuro per sua figlia Lauretta innamorata di Rinuccio.
L’opera si conclude con Schicchi che si rivolge direttamente al pubblico chiedendo l’assoluzione per il suo inganno che ha però permesso ai due giovani innamorati di sposarsi.
Puccini tratta questa vicenda, ispirata a un episodio dell’Inferno di Dante, con grande ironia e leggerezza musicale, trasformando il personaggio di Schicchi da tremendo falsario a simpatico furbetto, in una commedia sull’astuzia e la corruzione nella società italiana.
Il compositore utilizza diversi registri musicali per riflettere le diverse atmosfere delle tre opere. La musica de Il Tabarro è intensa e drammatica, con un’orchestrazione densa e dissonante che crea tensione, senza melodie semplici o facilmente riconoscibili. Suor Angelica presenta toni più lirici e spirituali, l’uso della vocalità femminile è predominante con cori celesti che aggiungono elementi eterei. La musica è raffinata e le sonorità sono vicine al canto gregoriano.
Gianni Schicchi, opera buffa dai toni grotteschi e giocosi che offrono un contrasto netto rispetto alle altre due opere, è caratterizzata da una scrittura brillante e ritmica; le melodie sono accattivanti e sottolineano il tono comico e la satira sociale della trama.
La prima rappresentazione italiana del Trittico, sotto la direzione di Gino Marinuzzi, fu l’undici gennaio 1919 presso il Teatro Costanzi di Roma con successo di pubblico e critica anche se, come già successo a New York, Gianni Schicchi fu l’opera più apprezzata; Suor Angelica fu “riabilitata” rispetto alle critiche ricevute in America mentre Il Tabarro fu aspramente criticata perché troppo cruda e violenta.
Arturo Toscanini espresse il giudizio definendola solo “Grand Guignol” (riferendosi al carattere violento e sensazionalistico).
È interessante notare che ci furono giudizi discordi non solo tra il pubblico ma anche tra gli addetti ai lavori. Mentre Toscanini criticava Il Tabarro, il compositore Ferruccio Busoni lo definì un vero capolavoro.
Il musicologo Fedele D’Amico spiegò queste differenze di giudizio sostenendo che Toscanini valutava l’opera secondo “categorie ottocentesche”, guardando principalmente al nucleo del dramma, mentre Busoni la giudicava secondo “categorie novecentesche”, prestando più attenzione all’elaborazione musicale e al paesaggio sonoro. Puccini, presente alla prima rappresentazione, che si dichiarò soddisfatto. Le reazioni contrastanti portarono presto allo “smembramento” del Trittico, con le tre opere spesso rappresentate separatamente negli anni successivi, contrariamente alle intenzioni originali del compositore.
25. Un capolavoro incompiuto.
Nei primi mesi del 1920 Puccini ricevette, dal critico teatrale e commediografo Renato Simoni, il testo della fiaba teatrale Turandot. Originariamente il dramma fu scritto dal veneto Carlo Gozzi e messo in scena nel 1762; il tedesco Friedrich Schiller ne realizzò poi una versione in tedesco che fu successivamente tradotta in italiano dal poeta Andrea Maffei.
Il compositore quindi non lesse la versione originale di Gozzi ma l’adattamento di Schiller/Maffei e ne fu subito profondamente affascinato.
Nella seconda metà del 1920 Puccini era già a lavoro su Turandot insieme ai librettisti Giuseppe Andami e Renato Simoni.
Turandot è un’opera al contempo semplice e complessa, è caratterizzata da forti contrasti enfatizzati da un costrutto simbolico importante, dove il binomio luce/oscurità è scenografato da un tramonto rosso sangue che si contrappone alla fredda luce lunare; la combinazione caldo/freddo è resa dal calore passionale del protagonista Calaf in contrapposizione alla gelida principessa Turandot. Calaf rappresenta la vita e l’amore mentre la morte è impersonata da Turandot.
Abbiamo quindi nei personaggi degli archetipi contrastanti: Liù, schiava devota, è l’emblema dell’amore sacrificale; Calaf è l’eroe redentore portatore di amore; Turandot è la principessa algida e crudele, simbolo di un femminile distruttivo.
Il nodo centrale dell’opera è la trasformazione psicologica di Turandot da principessa gelida e vendicativa a donna innamorata; fondamentali sono anche l’amore sacrificale di Liù e la passione vitale di Calaf. L’opera è intrisa di tragedia, rappresentata dal suicidio di Liù, di lirismo appassionato dato dalle arie di Calaf; troviamo inoltre momenti ironici e grotteschi con il trio dei ministri Ping, Pang e Pong.
Turandot rappresenta l’apice della sperimentazione musicale di Puccini, combinando elementi tradizionali dell’opera italiana con innovazioni armoniche e timbriche.
L’esotismo è un tratto distintivo della drammaturgia musicale dell’intero lavoro; Puccini incorpora autentiche melodie cinesi come l’inno imperiale e la canzone popolare Mo-li-hua, ascoltata su un carillon durante un soggiorno termale a Bagni di Lucca; utilizza scale pentatoniche per evocare l’atmosfera orientale. La partitura include una vasta sezione di percussioni accordate, gong e altri strumenti della tradizione cinese per ricreare sonorità asiatiche.
Essendo fortemente influenzato dalla musica del primo novecento, Puccini introduce dissonanze, bitonalità e cluster tonali. L’opera si apre infatti con un accordo dissonante che simboleggia il conflitto centrale della storia; l’orchestrazione ricca e variegata si avvale del più grande organico orchestrale mai utilizzato dal compositore.
Il coro ha un ruolo molto più prominente rispetto alle opere precedenti, quasi fosse un personaggio aggiuntivo. Puccini riesce con Turandot a coniugare l’innovazione tecnica e stilistica con la tradizione melodica italiana che trova il suo punto massimo nell’aria Nessun dorma, il cui motivo aleggia in molte parti dell’opera.
La storia si svolge a Pechino in un tempo non specificato; tutto ruota attorno alla principessa Turandot, donna bellissima ma dal cuore di ghiaccio, che ha giurato di non sposarsi mai. Per scoraggiare i pretendenti ha stabilito che chiunque voglia sposarla deve risolvere tre enigmi e coloro che falliscono verranno condannati a morte. La narrazione inizia con l’esecuzione dell’ultimo pretendente fallito, il Principe di Persia.
Tra la folla che assiste all’esecuzione c’è il principe Calaf che, folgorato dalla bellezza di Turandot, decide di tentare la prova degli enigmi nonostante le suppliche del padre Timur e della fedele schiava Liù.
Calaf riesce a risolvere i tre enigmi di Turandot, ma vedendo la principessa disperata, le offre una via d’uscita: se lei riuscirà a scoprire il suo nome prima dell’alba potrà farlo giustiziare. Turandot ordina quindi che nessuno dorma a Pechino finché non verrà scoperto il nome del principe. I ministri della principessa, Ping, Pang e Pong, cercano di corrompere Calaf ma senza successo. Liù e Timur vengono catturati e torturati per rivelare il nome del principe. Liù, per proteggere il segreto di Calaf di cui è segretamente innamorata, si uccide. Calaf, rimasto solo con Turandot, la bacia appassionatamente. Questo gesto scioglie finalmente il cuore della principessa che si innamora di lui.
Puccini purtroppo venne a mancare prima di completare l’opera, la sua scrittura si fermò con la morte di Liù.
La figura di Liù, ragazza devota che si toglie la vita per non tradire la fiducia di Calaf, è un riferimento abbastanza esplicito alla vicenda di Doria Manfredi che Puccini volle riabilitare immortalandola nell’opera.
Incredibile coincidenza che il compositore termini la sua carriera e la sua esistenza proprio in questo punto della composizione.
26. «Qui termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto».
Sin dall’adolescenza, Puccini fu fumatore incallito. Per tutta la vita amò il profumo e il sapore del tabacco, fu grande consumatore di sigarette ma anche di sigari Toscano. Verso l’estate del 1923 iniziò ad avvertire dei fastidi alla gola che, col passare dei mesi, divennero sempre più insistenti fino a quando non si trasformarono in dolori lancinanti. Il Maestro, assistito dal figlio Tonio, fu visitato dai migliori medici specialisti dell’epoca tra i quali Addeo Toti, Camillo Arturo Torrigiani e in fine, suggerito dalla sempre presente fedele amica Sybil Seligman, Giuseppe Gradenigo al tempo il più esperto chirurgo al mondo e pioniere dell’otorinolaringoiatria.
Gli fu diagnosticato un cancro all’epiglottide in stadio avanzato dovuto dal fumo. Puccini non fu mai messo al corrente della gravità del suo male.
Così scriveva all’amico Carlo Clausetti: «[…] Caro Carlo, il mio male è un papilloma, non grave, ma bisogna levarselo e presto; è situato sotto l’epiglottide. Ho telegrafato al professor Gradenigo, dovrò operarmi... col radio, a Firenze o a Parigi: Bella noia! Ma almeno ora so cos’è il mio male che da mesi m’impensierisce e mi tormenta. Ti prego, appena a Milano, di mandarmi una Tosca e una Bohème e inoltre i tre spartiti del Trittico che non ho, divisi. Vorrei sapere se nel Tabarro fu cambiato il monologo finale, e anche vorrei sapere perché queste tre opere rimangono inerti! Speriamo che possa guarire, che Turandot riprenda. Per ora tutta la musica di casa mia un silenzio doloroso! […]».
Al librettista e fedele amico Giuseppe Adami scrisse «[…] Caro Adamino, che volete che vi dica? Sono in un periodo tremendo. Questo mal di gola mi tormenta ma più moralmente che per pena fisica. Andrò a Bruxelles da un celebre specialista. Partirò presto. Aspetto risposta di là e Tonio che ritorni da Milano. Mi opererò? Mi si curerà? Mi si condannerà? Così non posso più andare avanti. E Turandot è lì. […] Vedremo, quando mi rimetterò al lavoro, al ritorno da Bruxelles. Speriamo che io ne esca bene di questa gola! Vi abbraccio[…]».
Il quattro novembre 1924, accompagnato dal figlio Tonio e dall’amico amministratore di Casa Ricordi Clausetti, Puccini partì alla volta di Bruxelles per curarsi presso la clinica del Dottor Ledoux. Giacomo fu raggiunto anche da Sybil Seligman che, avendo compreso la gravità dello stato di salute di Giacomo, sollecitò più volte sia Elvira sia Fosca a raggiungerli, dopo vari contatti solo Fosca si recò a Bruxelles. Le terapie al radio procedettero bene e gli specialisti avevano scongiurato il peggio e, dopo l’intervento chirurgico, diedero a Puccini certezze di guarigione; purtroppo la sera del 28 novembre sopraggiunse un infarto del miocardio che fece collassare la situazione.
Il Maestro si spense alle undici e trenta della mattina del 29 novembre a Bruxelles lontano dal suo amato paese.
Il primo funerale di Puccini a Bruxelles fu un evento solenne che si tenne il primo dicembre 1924.
La cerimonia funebre si svolse nella chiesa di Sainte-Marie e fu celebrata dal Nunzio Apostolico Micara, conferendo all’evento un carattere di grande importanza e rispetto.
Oltre alla cerimonia religiosa, il Teatro reale De La Monnaie rese omaggio al grande compositore con una rappresentazione speciale di Bohème. Durante questa commemorazione fu posta una grande corona di fiori al centro del palcoscenico, simboleggiando il lutto per la perdita del maestro. Prima dell’inizio dell’opera, il direttore del teatro pronunciò un commosso discorso per ricordare la figura artistica del compositore scomparso.
Il due dicembre 1924, alle ore 17, un treno speciale da Bruxelles giunse a Milano trasportando la bara di Puccini avvolta nel tricolore italiano. La salma fu accompagnata dai figli Antonio e Fosca.
La bara fu inizialmente trasferita nella chiesa di San Fedele dove venne allestita una camera ardente. La chiesa era stata addobbata a lutto e la bara fu disposta su un imponente catafalco circondato da 200 ceri accesi. Per tutta la notte, la salma fu vegliata nella chiesa.
Il giorno seguente, tre dicembre, alle 6:30 del mattino, la bara fu trasferita nel Duomo di Milano per la solenne cerimonia funebre. Qui fu collocata su un maestoso catafalco di velluto nero con frange d’oro, gli stessi paramenti utilizzati per il funerale di re Vittorio Emanuele II.
La cerimonia in Duomo fu particolarmente solenne e significativa:
fu celebrata alla presenza eccezionale del cardinale, un onore concesso in precedenza solo per i funerali di Alessandro Manzoni; l’orchestra del Teatro alla Scala, diretta da Arturo Toscanini, eseguì brani musicali, interpretando in chiave mistica la marcia funebre da Edgar; il coro del Duomo accompagnò la cerimonia; la chiesa e la piazza antistante erano gremite di autorità, figure istituzionali e comuni cittadini.
Dopo la cerimonia al Duomo, si formò un lungo corteo funebre che attraversò le strade di Milano; il percorso incluse una sosta significativa davanti al Teatro alla Scala.
Il corteo si concluse al Cimitero Monumentale di Milano. La bara fu portata a spalla nel Famedio dove si tenne un breve rito funebre. Infine, alla presenza dei parenti e degli amici più stretti, la salma di Puccini fu temporaneamente deposta nella cappella della famiglia Toscanini.
La scelta della sepoltura nella tomba di famiglia dell’amico Arturo Toscanini fu una soluzione provvisoria, due anni dopo, nel 1926, i resti del compositore furono trasferiti nel mausoleo appositamente costruito a Torre del Lago, come desiderato dal Maestro.

Turandot era rimasta incompiuta. La prima rappresentazione era già in cartellone per il febbraio del 1925 ma fu ovviamente cancellata. Puccini, dopo alti e bassi nel rapporto di amicizia con Arturo Toscanini, nei mesi precedenti alla sua morte, aveva riallacciato i rapporti e lo aveva convinto a occuparsi della nuova opera e dirigerne le prime esecuzioni.
Nei suoi ultimi giorni di vita Giacomo disse al figlio: «… se non finisco Turandot voglio che tu la faccia finire a Zandonai».
Scomparso il Maestro, l’editore Ricordi e Toscanini presero in mano l’opera ma affidarono il completamento a Franco Alfano.
La scelta ricadde su Alfano perché era l’autore de La leggenda di Sakùntala che aveva affinità tematiche e stilistiche con Turandot, entrambe le opere avevano un’ambientazione esotica e caratteristiche musicali simili.
Alfano era considerato uno degli ultimi rappresentanti della scuola verista italiana ed era quindi in linea con lo stile pucciniano; in più anche lui stava evolvendo verso sonorità più moderne. L’opera Risurrezione gli aveva dato fama internazionale dimostrando la sua capacità di comporre opere di successo.
Nonostante queste motivazioni, il compito di completare l’opera si rivelò molto complesso. Alfano dovette lavorare basandosi sui 36 fogli di appunti lasciati da Puccini. Produsse inizialmente una versione del finale molto estesa e troppo personale che poi dovette rivedere e tagliare su richiesta di Ricordi e Toscanini, creando così una versione più breve che è quella che viene generalmente eseguita.
La prima rappresentazione di Turandot ebbe luogo il 25 aprile 1926 presso il Teatro alla Scala di Milano sotto la direzione Arturo Toscanini.
Durante la prima, Toscanini interruppe l’esecuzione a metà del terzo atto subito dopo la morte di Liù, nel punto in cui terminava la partitura completata da Puccini, si rivolse al pubblico e disse: «Qui termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto».
L’impatto emotivo sul pubblico fu enorme. La sera successiva l’opera fu rappresentata nella sua interezza, includendo il finale composto da Alfano.
Turandot ebbe un grande successo di pubblico e critica e fu consacrata come uno dei capolavori di Puccini nonostante fosse rimasta incompiuta.
A cento anni dalla sua scomparsa Giacomo Puccini ha lasciato dunque un’indelebile eredità musicale che ha influenzato, e influenzerà, generazioni di compositori e amanti dell’opera.
27. Puccini ascolta Puccini.
Concludo questo scritto proponendo uno studio che renda omaggio, in modo originale, alla musica del grande Maestro e che ne valorizzi ulteriormente l’importanza: “Puccini ascolta Puccini - 1902/1924: uno studio filologico e comparato delle incisioni discografiche a 78 giri”.
Puccini ascolta Puccini è un ambizioso lavoro di digitalizzazione e restauro dei dischi a 78 giri incisi in Italia dalle società Gramophone-Società Nazionale del “Grammofono” e Fonotipia, dal 1902 al 1924. Questo progetto mira a preservare e diffondere l’opera di Puccini creando una risorsa digitale di inestimabile valore per gli ascoltatori, gli studiosi della musica e gli appassionati del repertorio pucciniano in tutto il mondo.
La parte fondamentale di Puccini ascolta Puccini verte sulla digitalizzazione accurata dei documenti fonografici incisi in Italia dal 1902 al 1924 e sull’individuazione della corretta velocità di rotazione dei dischi con la correzione operata in digitale. Questo processo richiede un attento studio di ciascun documento al fine di garantire che le registrazioni possano essere riprodotte alla veritiera intonazione, cosa che permetterà il fruire dell’interpretazione originale dell’esecuzione.
Poiché la bibliografia esistente relativa alle incisioni italiane del repertorio di Giacomo Puccini si presenta in modo discontinuo e frammentario, l’obiettivo è quello di ricostruire in modo accurato e unitario la discografia italiana del grande compositore, dagli albori della fonoriproduzione sino al 1924, anno della scomparsa dell’illustre Maestro.
Il rilevante ruolo giocato all’interno dell’allora giovane mercato discografico dalle compagnie fonografiche oggetto di studio, la Gramophone-Società Nazionale del “Grammofono” e la Fonotipia, le ha favorite nel porle al centro di questo progetto: è noto infatti il loro fondamentale contributo allo sviluppo e alla diffusione del “nuovo mezzo di comunicazione” in Italia nonché alla veicolazione della musica, sia come intrattenimento che come trasmissione di cultura. Il progetto Puccini ascolta Puccini adotta un approccio filologico rigoroso, enfatizzando l’accuratezza storica e l’integrità delle registrazioni. L’obiettivo è che i documenti sonori digitali siano il più fedeli possibile alle incisioni originali che Puccini e i suoi contemporanei usavano ascoltare con i fonoriproduttori dell’epoca. Questo approccio filologico mira a preservare non solo il suono, ma anche il contesto in cui queste registrazioni furono create. Lo studio dei documenti sonori propone anche la ricostruzione cronologica delle incisioni e la comparazione tecnico-stilistica delle esecuzioni dei vari interpreti; un obiettivo importante di questo lavoro comparativo è la valorizzazione degli esecutori la cui memoria è stata offuscata dallo scorrere del tempo. Grazie a contemporanee tecnologie mirate è dunque possibile fruire delle registrazioni del periodo acustico con un’esperienza di ascolto filologico, fedele il più possibile alle sonorità dell’epoca e che consenta di ipotizzare come Puccini stesso potesse ascoltare le proprie composizioni. Il restauro dei documenti autentici, attingendo a fondi fonografici pubblici e privati, sarà effettuato nel massimo rispetto dell’integrità e della tutela del documento originale, andando a intervenire unicamente sui difetti prodotti dall’usura del tempo, puntando a esaltare il suono originario. Puccini ascolta Puccini mira a ottenere risultati significativi che soddisfino sia il mondo del professionismo musicale e musicologico come quello dei melomani e dei comuni fruitori ed appassionati di musica. La creazione di una collezione digitale di registrazioni “autentiche” delle opere di Puccini consentirà ai fruitori di studiare in dettaglio le interpretazioni del repertorio dell’artista toscano incise da suoi contemporanei. Questo progetto favorirà la conservazione di queste preziose registrazioni preservandone la loro autenticità per le future generazioni. Inoltre permetterà al pubblico di tutto il mondo di accedere a questa eredità musicale unica e di immergersi nelle esecuzioni delle opere di Puccini quando egli era ancora in vita. Puccini ascolta Puccini rappresenta dunque un omaggio straordinario al genio di Giacomo Puccini nel centenario della sua morte. Questa iniziativa, che fonde la ricerca storica e musicologica con l’utilizzo di avanzati sistemi digitali, costituisce un prezioso contributo alla preservazione del patrimonio musicale italiano e alla diffusione della sua bellezza in tutto il mondo. La realizzazione di questo progetto richiede un impegno collettivo, unito dalla passione per la musica e dalla volontà di onorare e celebrare l’eredità di Giacomo Puccini per le generazioni future. La musica di Puccini è destinata a risuonare per sempre nei cuori e nelle orecchie di coloro che si immergono in questo viaggio sonoro.
Immagini tratte dell’Archivio del DMI – Dizionario della Musica in Italia – per gentile concessione del Maestro Claudio Paradiso.
Veicoli sequestrati per violazione del codice della strada. Quadro normativo e prospettive di riforma
di Ludovico Di Benedetto
La gestione pubblica dei veicoli sequestrati per violazione del codice della strada si radica su un quadro normativo complesso e scarsamente coordinato.
Dopo un imprescindibile riferimento al sistema sanzionatorio fissato nel codice, lo studio propone un’analisi dei singoli interventi normativi che si sono affastellati nel corso dei decenni, il cui archetipo - a tutt’oggi in vigore in funzione residuale - risale al dpr 571 del 1982. Tale decreto prevede che la gestione dei veicoli sequestrati sia conferita ad imprese private, autorizzate dal prefetto competente territorialmente, in cambio di un corrispettivo tariffario giornaliero.
Questo primigenio intervento normativo, a causa delle farraginosità procedimentali, ha portato, nel corso degli anni, alla lievitazione del numero dei mezzi depositati presso i soggetti autorizzati, con corrispondente aumento degli oneri custodiali. Pertanto, agli albori del nuovo millennio, il legislatore si è attivato, inaugurando la fase delle rottamazioni straordinarie. In prima battuta, col d.l. 269/2003 (art. 38), è stato infatti previsto che i veicoli depositati, aventi certi requisiti legalmente sanciti, passassero ex lege in proprietà dei custodi, in cambio di un prezzo da compensare coi debiti di custodia. Tuttavia, tale normativa è stata dichiarata incostituzionale (C. cost. 92/2013) per le ragioni che verranno indicate nel corpo, con conseguente riespansione del diritto comune fissato dal citato dpr.
Successivamente, il modello dell’alienazione straordinaria è stato riproposto dal legislatore con la l. 147/2013 (art. 1 commi 444, 445 e 446), con la fondamentale differenza rispetto a quanto previsto nel 2003 di subordinare la cessione al consenso negoziale del custode.
Infine, con l’art. 214 bis del codice della strada (d.lgs. 285/1992), il legislatore ha previsto un nuovo sistema di gestione ordinaria dei veicoli sequestrati, incentrato sulla figura del custode-acquirente, selezionato tramite gara pubblica. Nondimeno, anche questo strumento ha generato delle criticità, particolarmente evidenti nei territori metropolitani ad alto tasso di circolazione veicolare, con un aumento esponenziale dei costi a carico dell’erario. Pertanto, viene qui proposto un armamentario poliedrico che, memore dell’esperienza delle rottamazioni straordinarie, si ipotizza possa comportare un importante sgravio dei costi di deposito.
Sommario: 1 - Cenni sul sistema sanzionatorio di diritto amministrativo. In particolare, le sanzioni reali del codice della strada; 2.1 - Il quadro normativo vigente in tema di gestione dei veicoli sequestrati: il dpr 571/1982; 2.2 - Segue: la stagione delle rottamazioni straordinarie; 2.3 - Segue: il sistema del custode-acquirente; 2.4 - Un parallelismo: la gestione dei beni sequestrati giudiziariamente; 3.1 - Criticità applicative; 3.2 - Proposte di intervento sul piano normativo e negoziale.
1 - Cenni sul sistema sanzionatorio di diritto amministrativo. In particolare, le sanzioni reali del codice della strada
L’amministrazione, come soggetto chiamato alla cura concreta dell’interesse pubblico, è titolare, tra gli altri, di poteri sanzionatori; allorquando, cioè, un consociato abbia integrato gli estremi di un illecito amministrativo[1], violando un dato precetto posto a tutela dell’interesse generale, l’autorità reagisce, punendo questo comportamento. La fondamentale cornice normativa a cui occorre guardare e che funge da autentico diritto comune dell’intera materia è la l. 689/1981, confezionata al duplice scopo di ridimensionare l’area del penalmente rilevante (cosiddetta depenalizzazione)[2] e di fornire un retroterra legislativo generale alla potestà sanzionatoria amministrativa[3]. La citata legge codifica i principi basilari[4], gli istituti sostanziali[5], la sequenza procedimentale[6] e, fino ad un recente passato, pure l’assetto processualistico[7].
Le sanzioni di stampo amministrativo possono essere pecuniarie, personali o reali, a seconda che affliggano le liquidità, le facoltà o le proprietà del singolo; sulle prime due, per ragioni di trattazione, non ci soffermeremo. Per quanto concerne le altre, in breve, le sanzioni reali della l. 689 cit. consistono in provvedimenti duraturi, sfavorevoli, ablatori, come tali soggetti ai principi di tipicità provvedimentale e di legalità procedimentale, all’obbligo di motivazione e alla necessaria conoscibilità (artt. 1 c.1, 3 c. 1 e 21 bis l. 241/90). La legge del 1981 annovera, in particolare, il sequestro e la confisca, atteggiandosi, il primo, come strumento cautelare, strumentale e provvisorio finalizzato allo spossessamento della res a vantaggio della p.a., con cui si assicura ex auctoritate sua l’osservanza dei doveri pubblici gravanti sui consociati[8]; il secondo, consequenziale l’altro, come provvedimento sanzionatorio di acquisizione definitiva in favore dell’amministrazione[9].
Essendo gli obblighi di non fare incoercibili in forma specifica (cfr. art. 2933 c. 1 c.c.), con questo potere cautelare l’ordinamento risolve il conflitto del privato dando temporaneamente prevalenza agli interessi pubblici e sacrificando quelli del cittadino. Il sequestro è dunque funzionale ad impedire che, in attesa dell’accertamento definitivo della illiceità del contegno, una data situazione di fatto si protragga nel tempo e si consolidi a tal punto da essere difficilmente ripristinabile. Per mezzo di tale cautela, l’autorità pubblica riesce a fugare i dubbi circa la conformità all’ordinamento dell’attività del singolo, a bloccare preventivamente le violazioni delle disposizioni legislative e provvedimentali, ad arrestare l’illecito ed i suoi effetti[10].
La l. 689/81, nel regolare l’istituto, rispecchia quest’ultima finalità. L’art. 13 lo declina infatti secondo due sfumature: in generale prevede la misura come facoltativa per quanto riguarda le cose che possono poi essere confiscate (comma 2); nell’evenienza specifica di veicoli (o natanti) non coperti da assicurazione o privi di documenti di circolazione, il sequestro diviene invece obbligatorio e connotato da una smaccata finalità dissuasiva, in sostituzione della precedente pena detentiva (comma 3)[11].
In tema di ablazione definitiva, la legge discerne tra una confisca come sanzione accessoria rispetto ad un’ordinanza ingiunzione che dispone una pena pecuniaria (art. 20 c. 3), la quale, a sua volta, può essere facoltativa, quando ricada sulle cose che furono usate per commettere l’illecito, o obbligatoria, se riguardi i beni che costituirono il prodotto del medesimo[12]; e una misura autonoma e vincolata che affligge i beni la cui fabbricazione, detenzione, alienazione ovvero il cui uso o porto integrino ex se un illecito amministrativo (art. 20 c. 5; si vedano anche le ipotesi puntuali riferite al settore della tutela sul luogo di lavoro del comma 4 del medesimo articolo e della circolazione stradale di cui all’art. 21 commi 1 e 3[13]).
In questi termini, la confisca amministrativa non persegue altro obbiettivo che quello di retribuire l’illecito perpetrato, non certo di reintegrare l’interesse leso, come dimostrato peraltro dalla pacifica confiscabilità persino di beni non intrinsecamente pericolosi. Il suo carattere punitivo la distingue dalle sanzioni risarcitorie e decadenziali civilistiche; sono invece i profili di competenza, di rito e di beni giuridici a differenziarla dalle misure reali di diritto penale.
Il circuito sanzionatorio recato dal codice della strada (d.lgs. 285/1992, d’ora in poi anche cds) - oggetto della presente dissertazione - è parzialmente derogatorio rispetto alla matrice di cui alla legge appena ricordata. A parte alcune specificità rituali e sostanziali di sicuro rilievo ma che qui occorre tralasciare[14], preme rimarcare come il codice preveda per le sue trasgressioni, a fianco della sanzione principale pecuniaria, molteplici misure accessorie, operanti ipso iure, distinte all’art. 210 c. 2 cds in quelle afferenti ad attività (artt. 211 e 212), ai documenti di circolazione (artt. 216 e ss.), al veicolo (artt. 213 e ss.). Tra queste ultime si annoverano la rimozione/blocco (art. 215)[15], il fermo (art. 214)[16] e la confisca[17], intesa, analogamente al disposto della l. 689 cit., come provvedimento sanzionatorio ablatorio che porta all’acquisizione in via autoritativa del bene al patrimonio pubblico. La confisca, praticamente, viene disposta dal prefetto con l’ordinanza con cui ingiunge il pagamento della sanzione pecuniaria o con un distinto provvedimento.
Ora, affinché l’ablazione abbia successo e per evitare altresì che il mezzo rimanga nella materiale disponibilità del trasgressore, in ogni caso in cui il codice prescrive la punizione della confisca, l’organo accertatore provvede a sequestrarlo (art. 213 c. 1 cds). Al sequestro deve comunque seguire, a tutela dell’interessato, la confisca entro 5 anni[18].
In questa veste, lo strumento del sequestro assume dei chiari connotati cautelari (cfr. gli artt. 7 c. 2 e 21 bis, ultimo periodo, l. 241/90), allontanandosi dall’archetipo penalistico (artt. 253 e 321 c.p.p.), in quanto non è proteso a garantire la conservazione delle prove né tantomeno ad evitare che l’illecito sia portato ad ulteriori conseguenze (o ne sia commesso un altro). Semmai, si avvicina al modello del sequestro conservativo di diritto civile (artt. 2905 e 2906 c.c. e art. 671 c.p.c., che trova il suo omologo nell’art. 316 c.p.p.), avente per l’appunto finalità di assicurare la soddisfazione del credito tramite il blocco giuridico di una porzione del patrimonio del debitore, rendendo conseguentemente inopponibili al sequestratario gli eventuali atti dispositivi effettuati medio tempore. Con ciò, si badi, non si vogliono misconoscere le diversità strutturali, rituali e sostanziali. È superfluo rammentare che nei rapporti amministrativi il soggetto pubblico spende un potere unilaterale, scandito da una apposita sequenza procedimentale, laddove invece nei rapporti privatistici, retti da formale eguaglianza, il sequestro è disposto da un’autorità terza (il giudice) all’esito di un processo giurisdizionale in contraddittorio; ma queste differenze non elidono né la corrispondenza degli effetti (inefficacia relativa degli atti reali) né l’affinità funzionale dei due strumenti (lato sensu garanzia del credito).
Ebbene, tutto ciò premesso, è evidente che, per ragioni tanto di tutela degli interessi proprietari del sanzionato quanto delle finalità punitive del soggetto procedente, i veicoli sequestrati vadano amministrati accuratamente fin quando l’iter burocratico non si concluda (id est, non vengano restituiti o assorbiti definitivamente alla mano pubblica); i prossimi paragrafi sono appunto dedicati alla normativa di settore.
2.1 – Il quadro normativo vigente in tema di gestione dei veicoli sequestrati: il dpr 571/1982
La primigenia disciplina normativa dei veicoli sequestrati - a tutt’oggi in vigore - si deve al dpr 571/82, il quale regolamenta in guisa di diritto comune la gestione dei beni mobili sequestrati in via amministrativa. Ciò significa che, in materia di circolazione veicolare, tale risalente testo trova applicazione in ogni caso in cui, per qualsiasi ragione, non vi sia spazio per la normativa del codice della strada[19].
In particolare, gli artt. 8 e ss. sono dedicati agli autoveicoli sequestrati, quando era ancora vigente la precedente regolamentazione organica di cui al dpr 393/1959 (recante il testo unico delle norme sulla circolazione stradale) che tuttavia non prefigurava una sanzione del genere; il referente normativo del potere cautelare amministrativo andava infatti rinvenuto all’esterno di questa cornice e, precisamente, nei già ricordati commi 2 e 3 dell’art. 13 l. 689/1981.
A fronte della regola generale di cui all’art. 7 c. 1 del dpr n. 571, che prevede la custodia dei beni sequestrati presso l’ufficio cui appartiene l’organo sequestrante, le disposizioni successive, assecondando il principio derogatorio scolpito all’art. 7 c. 3, prescrivono l’individuazione di un soggetto pubblico o privato che assuma le vesti di custode ad hoc (art. 8 c. 1). È compito del prefetto territorialmente competente procedere ad una ricognizione degli operatori che possono ricoprire quest’ultimo incarico, su base annuale (art. 8 c. 2)[20]. Una volta proceduti alla verbalizzazione della consegna del mezzo (art. 8 ult. c.) e alla registrazione in apposito elenco (art. 9), il decreto codifica un potere ispettivo in capo all’amministrazione accertatrice - che può effettuare rilievi fotografici e disporre gli opportuni accertamenti - e al trasgressore (art. 10).
Gli artt. 11 e 12 si occupano, d’altra parte, del delicato profilo attinente alle spese di custodia. Nel dettaglio, questi articoli prescrivono che le somme siano liquidate, previa apposita istanza documentata del custode, dall’amministrazione prefettizia, solo dopo che sia divenuto inoppugnabile il provvedimento di confisca oppure che sia disposta la restituzione del bene[21]. Le somme sono calcolate sulla base delle tariffe fissate dal prefetto e degli usi locali; è fatto espressamente salvo il diritto di ripetizione di quanto pagato a danno del trasgressore (art. 11 c. 2).
Agli artt. 13, 14 e 16 si rinviene la disciplina della restituzione delle res[22], mentre all’art. 15 viene sancita la regola secondo cui, divenuto definitivo il provvedimento ablatorio, il bene sequestrato deve essere alienato (o distrutto)[23].
Non è operazione ermeneutica agevole quella di inquadrare giuridicamente la natura del rapporto che si instaura tra prefettura e custode in forza del sopra citato art. 8. Da un lato, troviamo l’ente pubblico che, in base al dato legislativo, “individua” e “riconosce” i soggetti a cui affidare la custodia; dall’altro, i custodi che sono “obbligati” a conservare il mezzo e per la cui attività hanno diritto ad un compenso monetario. Sulla sola scorta del dettato normativo, dunque, parrebbe che la prefettura sia chiamata ad emanare un provvedimento meramente accertativo; eppure, un’interpretazione funzionale e sistematica porta alla diversa conclusione che si tratti di atto costitutivo, di matrice autorizzatoria. Difatti, con la sua attività, la prefettura amplia in senso favorevole la sfera giuridica dei custodi, conferendo loro la possibilità di essere coinvolti nel servizio di conservazione dei veicoli; possibilità che in precedenza non potevano all’evidenza sfruttare, a causa di limiti giuridici[24].
L’autorizzazione, più propriamente, si atteggia a precondizione di un rapporto paritetico tra p.a. e custode, fonte di reciproche obbligazioni di stampo negoziale (art. 1766 e ss. c.c.). Da ciò scaturiscono conseguenze giuridiche di sicuro rilievo. Sul versante del diritto pubblico, per esempio, il rapporto p.a.-custode potrebbe essere formalizzato in un accordo sostitutivo ex art. 11 l. 241/90. Sul fronte civilistico, troveranno applicazione le regole codicistiche sul rapporto contrattuale (in primis, le norme sulla responsabilità - artt. 1218 e ss. c.c.). Non vi è dubbio circa la competenza del giudice ordinario in materia di contenzioso sulla relazione bilaterale; è salva quella dell’autorità giurisdizionale amministrativa in punto di valutazioni imperative della prefettura. Giova infine rammentare che, in C. cost. 92/2013, si parla di rapporto iure privatorum, derivante da un accordo contrattuale[25].
2.2 - Segue: la stagione delle rottamazioni straordinarie
Negli anni, a causa della lentezza delle procedure e della carenza di risorse, il sistema congegnato dal dpr 571/82 ha portato ad un considerevole aumento dei veicoli depositati presso custodi privati, con corrispondente lievitazione degli oneri finanziari. Onde far fronte a questa emergenza e facilitare l’avvio del nuovo sistema del custode-acquirente[26], il legislatore è intervenuto in due momenti, inaugurando la fase delle rottamazioni straordinarie.
Dapprima con l’art. 38, commi 2 e seguenti, del d.l. 269/2003[27] è stata costruita una procedura di alienazione coattiva ope legis dei veicoli sequestrati, in uno con quelli fermati e quelli già confiscati ma non venduti, aventi precise caratteristiche indicate dal testo di legge[28]. Nel dettaglio, il comma 2 delimita l’ambito applicativo oggettivo, prevedendo che la procedura coinvolga esclusivamente i mezzi sequestrati (assieme a quelli soggetti a fermo e a quelli che non siano stati alienati per mancanza di acquirenti) a seguito di violazione del codice della strada, immatricolati da almeno 5 anni e collocati presso i depositi di cui al dpr del 1982 da almeno 2 anni[29], purché sprovvisti di interesse storico o collezionistico. Ebbene, tali mezzi, persino se non sottoposti a confisca e carenti della documentazione sullo stato di conservazione, sono ex lege alienati ai medesimi custodi, anche ai soli fini della rottamazione, secondo elenchi disposti su base provinciale dalle prefetture. L’efficacia traslativa discende dalla notificazione di questi ultimi al depositario.
Il quantum della cessione è calcolato dalle amministrazioni in modo cumulativo, tenuto conto delle condizioni di conservazione, del tipo di veicolo, degli eventuali oneri di rottamazione (comma 4), compensandolo con i costi di custodia che, per espressa eccezione legislativa (comma 6), sono rivisti in deroga (e a ribasso) delle tariffe di cui al dpr 571/82.
Il meccanismo brevemente descritto è stato tuttavia colpito da declaratoria di incostituzionalità, con la sentenza n. 92/2013. In sintesi, il giudice delle leggi radica la pronuncia sul fatto che col decreto-legge richiamato si sia snaturata l’originaria relazione p.a.-custode, imponendo a quest’ultimo - in assenza del suo consenso - di rendersi cessionario dei veicoli, derogando per giunta in peius alle tariffe che quantificano il suo corrispettivo. L’intervento legislativo ha in questo modo frustrato l’aspettativa del privato, aggiungendo oneri non prevedibili ad un rapporto di durata e comportando, peraltro, una sperequazione tra quei rapporti di custodia che, in quanto concernenti veicoli immatricolati o detenuti da più tempo, rimangono assoggettati al regime del 1982 e quegli altri che, seppur esauriti, rientrando nella cornice applicativa delineata, sono regolati dal decreto del 2003.
Sebbene sia dunque pacifico l’assunto che una norma retroattiva in materia extrapenale possa essere costituzionalmente legittima, nella specie difetta quel fondamentale requisito di ragionevolezza (art. 3 Cost.), declinato nei termini di un giusto bilanciamento tra le posizioni in gioco, che avrebbe reso immune da censure la novella.
È risaputo che, a seguito della incostituzionalità di una norma speciale, si riespanda la normativa comune, nel nostro caso rappresentata come visto dal dpr 571/82[30]; in special modo, avrebbero dovuto applicarsi le tariffe custodiali (generalmente più onerose) ratione temporis vigenti di cui all’art. 12, al posto dei criteri di calcolo fissati dal citato art. 38 c. 6[31]. Il legislatore, al fine di evitare un aggravio della finanza pubblica, si è nuovamente attivato, sfruttando lo stesso istituto dell’alienazione straordinaria, ma, memore del dictum della Consulta, vi ha apportato alcuni correttivi di non poco momento.
Con la l. 147/2013, art. 1 commi 444 e seguenti, è stato così confezionato un nuovo procedimento, da concludere entro 30 giorni dall’entrata in vigore della legge[32]; l’ambito di applicazione è quasi sovrapponibile a quello del 2003 (veicoli sequestrati, fermati, confiscati o non alienati per mancanza di acquirenti giacenti in deposito da almeno 2 anni, stavolta anche se di interesse storico-collezionistico), mentre è del tutto identico il meccanismo giuridico (alienazione massiva al custode). Le novità sono rappresentate dal coinvolgimento del proprietario (comma 445) e dal ruolo del custode (comma 446). Infatti, sotto il primo versante, redatto e pubblicato ad opera della prefettura l’elenco dei mezzi nelle condizioni descritte, il titolare del bene ha l’onere di ritirarlo entro 60 giorni dalla pubblicazione del menzionato elenco, pagando contestualmente il compenso al custode. È bene precisare che questa strada è rimasta del tutto priva di riscontro pratico, visto che, nella stragrande maggioranza delle ipotesi, i costi di deposito esorbitano il valore del veicolo.
In riferimento al secondo profilo, decorso inutilmente il termine per il ritiro, la prefettura invia una proposta contrattuale di alienazione cumulativa al custode con valenza transattiva (gli artt. 1965 e ss. c.c. sono espressamente richiamati); con essa, viene fissato il corrispettivo della cessione, considerando il tipo e le condizioni del veicolo e gli oneri di rottamazione, al netto di quanto dovuto al privato per il servizio di custodia (comma 447; cosiddetta rottamazione straordinaria transattiva)[33]. L’offerta negoziale è sottoposta expressis verbis ad un termine di efficacia di 15 giorni dalla notifica.
Pertanto, a differenza del modello del 2003, il legislatore ha dato giusta enfasi alla posizione del custode il quale, se vuole concludere l’alienazione transattiva, deve manifestare la sua volontà negoziale; in caso contrario, in armonia col dictum della Corte costituzionale, nessuna cessione può essergli imposta e continuerà ad applicarsi il regime vigente (a seconda dei casi, il dpr del 1982 o il nuovo codice della strada).
2.3 - Segue: il sistema del custode-acquirente
Le rottamazioni straordinarie summenzionate hanno aggredito il carico residuo di veicoli derivanti dal vecchio sistema del 1982, sull’idea che l’entrata in vigore del nuovo meccanismo incastonato nel codice della strada ed incentrato sulla figura del custode-acquirente avrebbe risolto per l’avvenire tutte le difficoltà riscontrate. Come vedremo più avanti, così non è stato.
Procedendo con ordine, occorre analizzare la novella codicistica che risulta attualmente essere la procedura ordinaria; le disposizioni di nostro interesse si rinvengono negli artt. 213, 214 bis e 215 bis cds, per come riscritti negli anni[34]. Il codice sancisce che, ogniqualvolta sia prevista la sanzione della confisca del veicolo, l’organo accertatore ne dispone il sequestro a fini cautelari (art. 213 c. 1 cds). Le successive norme - che invero non brillano per chiarezza testuale né sistematica - si appuntano sulle modalità gestorie del mezzo, onde garantirne un’adeguata conservazione, preferibilmente, non onerosa per la p.a.. È d’altronde chiaro che in questa sede il canone del buon andamento (art. 97 c. 2 Cost.) non si traduce solamente nell’evitare che il singolo sia esposto sine die all’azione amministrativa (art. 1 c. 2 bis l. 241/90), ma anche nell’economicità dell’operazione (art. 1 c. 1 l. 241 cit.).
La prima evenienza, che funge da regola, ma che nella prassi non è così frequente, è che sia nominato custode il proprietario del bene (o, ove sia assente, il conducente o uno degli obbligati in solido, a dire i soggetti dell’art. 196 c. 1 cds: acquirente con patto di riservato dominio, l’utilizzatore a titolo di locazione finanziaria, il locatario). Per prescrizione legislativa, infatti, questi è vincolato a trasportarlo e a detenerlo in luogo non sottoposto a pubblico passaggio (art. 213 c. 2 cds)[35]. In questo ordine di idee, la sequenza viene a concludersi sic et simpliciter con la confisca, a cui segue, decorsi 30 giorni dalla sua definitività, il trasferimento del veicolo nella proprietà del custode-acquirente (art. 213 c. 6 cds)[36].
L’art. 213 c. 5 cds annovera due situazioni che deviano dal meccanismo consegnato dal comma 6. Abbiamo innanzitutto il caso in cui il proprietario del veicolo non possa (in quanto infermo di mente, incapace naturalmente[37] o soggetto a misure di prevenzione personale; si veda il combinato disposto degli artt. 120 e 259 c. 1 c.p.p.) o non voglia assumerne la custodia ovvero non adempia agli obblighi prescritti. Da un lato, quest’ultimo viene colpito da pena pecuniaria e sospensione della patente; dall’altro, allo scopo di tutelare l’effettività della sanzione reale, entra in gioco la figura del custode-acquirente, presso il quale viene depositato il mezzo su ordine dell’autorità pubblica. Dell’avvenuto deposito viene data notizia sul sito della prefettura, in uno con l’avvertimento che, se entro i successivi 5 giorni, l’avente diritto non ne assuma la custodia (contestualmente liquidando gli oneri di conservazione), il bene sarà ceduto in proprietà del custode-acquirente[38].
La seconda casistica contemplata dal menzionato alinea ridonda nella prima, in quanto concerne l’eventualità, assai comune nella pratica, in cui il sequestro venga ordinato in assenza del trasgressore (e non sia stato possibile rintracciare nell’immediatezza il proprietario o l’obbligato in solido) - quindi un altro esempio di trasgressore che non ha possibilità di assumere la diretta custodia della res. Qui a mutare sono le sole regole della comunicazione: ferma la consegna al custode-acquirente[39], l’organo accertatore è gravato di ben due adempimenti, a dire la notificazione ai predetti soggetti del verbale di contestazione e di sequestro e, contestualmente, l’affissione sull’albo pretorio comunale dell’avvenuta consegna al custode. Qualora risulti impossibile procedere al primo onere, esso si dà per avvenuto dopo 30 giorni dall’adempimento del secondo[40].
L’art. 213 cds dà per presupposta la più volte citata figura del custode-acquirente, la cui disciplina normativa risiede tuttavia nel successivo art. 214 bis. Tale è il soggetto che, in esito ad una procedura ristretta ad evidenza pubblica, sulla base del canone dell’offerta economicamente più vantaggiosa, addiviene alla stipula di un contratto misto con la prefettura ed il demanio, ergendosi così ad unico interlocutore per quanto concerne la gestione dei mezzi sequestrati. Tramite questo accordo, mentre la parte privata si obbliga ad assumere la custodia dei veicoli e, allo stesso tempo, a rendersi alienataria dei medesimi secondo gli snodi dell’art. 213 cds; invece, quella pubblica si vincola a cederle quei beni e a corrisponderle un prezzo per la custodia, sulla base di valori prestabiliti bilateralmente. Il valore della res è calcolato in concreto dall’agenzia demaniale, previa istanza prefettizia.
Pertanto, le differenze rispetto al vecchio meccanismo delineato dal dpr 571/1982 sono lampanti: alla valutazione imperativa e discrezionale del prefetto nel selezionare i depositi, si sostituisce una gara competitiva; alla fissazione unilaterale amministrativa delle tariffe, l’accordo negoziale; alla pluralità delle depositerie, l’unicità dell’aggiudicatario. Comunque, va ricordato che, in ogni caso in cui non si raggiunga, nel contesto provinciale, la sottoscrizione del contratto ex art. 214 bis cds o questo per qualsiasi causa risulti inefficace, la disciplina a cui fare riferimento resta quella del dpr.
Da ultimo, del tema della liquidazione delle spese di custodia - beninteso quando un custode terzo sia presente, ossia fuori dai casi ordinari di cui al comma 2 - si occupa l’art. 213 c. 3 cds[41]. La norma vuole che, fintantoché perduri la custodia, di essa si occupino le amministrazioni cui appartengono le forze dell’ordine accertatrici; dunque, il comune per la polizia locale, la prefettura per i corpi statali. A seguito della confisca, d’altra parte, le spese sono liquidate dall’agenzia del demanio, dal momento che il mezzo è divenuto bene di proprietà pubblica.
L’impalcatura architettata dagli artt. 213 e 214 bis cds si incentra peraltro su un software informatico, denominato sistema di gestione dei veicoli sequestrati (SIVES)[42] e gestito integralmente dal demanio. È una banca dati, consultabile in tempo reale, da parte di tutti i soggetti coinvolti nel procedimento: organi accertatori, prefettura, agenzia del demanio, custode-acquirente. Ciò ha senz’altro agevolato la circolazione delle informazioni e facilitato la tracciabilità dei beni; nondimeno, a causa della scarsa formazione del personale, della obsolescenza e complessità dell’applicativo, esso ha finito per generare più problemi di quelli che ha risolto, non foss’altro perché ogni anello della catena procedimentale è bloccato finché quello precedente non è completo[43].
Al fine di evitare le situazioni che, come visto, hanno dato scaturigine alle liquidazioni straordinarie, il legislatore ha introdotto un interessante strumento all’art. 215 bis cds, la cui portata applicativa è stata però compressa in via amministrativa. Questo articolo onera il prefetto di operare una ricognizione, su base semestrale, dei veicoli giacenti da più di 6 mesi presso le depositerie ex art. 8 dpr 571 cit. perché, a seguito di violazione del codice, sequestrati, fermati, confiscati non definitivamente o dissequestrati ma non ritirati. L’elenco di questi viene pubblicato sul sito della prefettura, con l’avvertimento che il proprietario può, entro i 30 giorni successivi, assumerne la conservazione, pagando gli oneri custodiali al deposito; altrimenti, i mezzi confiscati in via non definitiva sono ex lege confiscati definitivamente, laddove gli altri si danno per abbandonati[44]. Ebbene, nonostante il chiaro tenore testuale, alcune circolari ministeriali[45] hanno letto in modo assai restrittivo la disposizione, estromettendola in ogni caso in cui esista sul territorio locale un custode-acquirente.
2.4 - Un parallelismo: la gestione dei beni sequestrati giudiziariamente
Si è già fatta presente l’affinità istituzionale e funzionale del sequestro amministrativo previsto dal codice della strada col sequestro conservativo di diritto civile[46]. A questo punto, chiarito il quadro normativo nella materia amministrativa, pare utile approfondire questo parallelismo, andando a vedere più nel dettaglio come è regolata la gestione dei beni sequestrati dal giudice comune in sede cautelare.
I sequestri sono accomunati dall’essere provvedimenti giurisdizionali costitutivi in rem; cambiano i diritti protetti, la natura del rapporto con le cose, il pregiudizio da prevenire e la tipologia di cose sequestrabili, ma non possono mai concernere comportamenti umani.
Il sequestro conservativo (artt. 2905 c.c. e 671 c.p.c.)[47] è uno strumento provvisorio e cautelativo che l’ordinamento dispone a favore del creditore di somme (o cose fungibili), allorquando vi sia il rischio di non veder soddisfatto il suo diritto. Il periculum in mora consiste in questo, che, pendente il giudizio di cognizione, il debitore, realmente o fittiziamente, disperda il suo patrimonio, anche a detrimento della realizzazione dei diritti della parte creditrice[48]. Pertanto, onde evitare complesse iniziative processuali (quali l’azione revocatoria e l’accertamento di simulazione), l’ordinamento concede il diritto di bloccare il patrimonio debitorio (purché sia pignorabile), nella misura necessaria a garantire la effettività del pronunciamento giudiziari e soddisfare le pretese del creditore istante, salvaguardando la cosiddetta garanzia patrimoniale generica (art. 2740 c.c.)[49].
In concreto, tale tipo di misura si atteggia a vincolo disposto per provvedimento giudiziario sulla res che porta all’inopponibilità al creditore sequestrante degli atti effettuati nel frattempo dal debitore comunque finalizzati a vulnerare la sua idoneità a comporre la garanzia patrimoniale (art. 2906 c. 1 c.c.)[50] e, altresì, allo spossessamento materiale; quest’ultimo aspetto, nell’eventualità che si realizzi, si traduce nell’affidamento del bene ad un custode.
Ai fini della presente trattazione, preme analizzare più nello specifico come si concretizzi la gestione del bene sequestrato. Il suo scopo principale è quello di conservare l’integrità fisica delle cose e facilitarne l’amministrazione.
Il codice di rito, opportunamente, opera un distinguo in base alla tipologia di res sequestrata. Tralasciando i beni immobili che hanno una loro disciplina puntuale e legata all’istituto della trascrizione (cfr. art. 679 c.p.c.), per i beni mobili (e i crediti) le norme di riferimento sono quelle del pignoramento, giusto il rinvio che opera l’art. 678 c. 1 c.p.c.. La regola generale è dunque quella fissata all’art. 520 c.p.c. - che nella sostanza non è poi così diverso da quanto sancisce l’art. 7 del dpr 571/82 - il quale, al primo comma, prevede che alcuni beni mobili (denaro, titoli di credito e cose preziose) siano affidati al cancelliere del tribunale (cioè, in fin dei conti, allo stesso “ufficio cui appartiene il pubblico ufficiale - in questo caso, il magistrato - che ha eseguito il sequestro” di cui parla l’art. 7 c. 1 cit.); per gli altri beni mobili, invece, il comma 2 prevede tre alternative: su istanza del creditore, affidamento ad un pubblico deposito o ad un terzo o, in caso di urgenza, ad un istituto di vendita giudiziaria (ivg) di cui all’art. 159 disp. att. (proseguendo nell’analogia, cfr. l’art. 7 c. 3 cit.). L’istanza del creditore - salve urgenze - è dunque condizione necessaria perché la custodia non sia conferita al cancelliere; è inoltre vincolante per l’organo procedente.
Ove si decida di dare in custodia il bene a terzi, il successivo art. 521 c.p.c. precisa che non possa essere scelto il debitore (o il suo coniuge) senza il consenso del creditore; l’inverso vale per la nomina del creditore. La regolamentazione circa la scelta è poi completata dal citato art. 159 disp. att. che prevede che gli istituti di vendite all’incanto di cui parla anche art. 520 c. 2 c.p.c., per svolgere le loro attività in materia (custodia compresa), debbano essere autorizzati con provvedimento amministrativo del Ministero della giustizia; nel medesimo atto, vengono disposte le misure di controllo e i corrispettivi[51]: sono evidenti le analogie col decreto prefettizio di cui all’art. 8 dpr 571/82.
Gli ivg sono, quindi, soggetti economici in forma personale o societaria che, con autorizzazione ministeriale di durata quinquennale e tacitamente rinnovabile, sono abilitati a vendere all’incanto i beni nelle procedure giudiziarie esecutive nonché ad assumerne la custodia. Nell’esercizio di tali funzioni sono equiparati ad ausiliari del giudice.
Dei compensi dovuti al custode non proprietario si occupa in via generale il dpr 115/2002, il cui art. 58 c. 2, in corrispondenza con l’art. 12 c. 3 dpr 571/82, rinvia ad un decreto ministeriale e agli usi.
Ulteriormente, in caso di sequestro conservativo su veicoli, l’art. 521 bis c.p.c. specifica che sia lo stesso debitore ad essere nominato custode (comma 2), come vorrebbe d’altra parte l’art. 213 c. 2 cds, e che l’ivg subentri solo in un secondo momento, per la precisione col deposito dell’istanza di vendita (artt. 501 e 529 c.p.c.; identicamente, d’altra parte, vale per il custode-acquirente nell’ipotesi madre dell’art. 213 c. 6 cds). Nondimeno, l’ultimo comma della disposizione, facendo espressamente salve le disposizioni del capo, non esclude la possibilità che si applichi l’art. 520 c. 2 c.p.c., potendosi dunque procedere alla nomina di un custode terzo o direttamente all’affidamento all’istituto.
In sintesi, traendo le conclusioni, l’assunzione della qualità di custode di cose sequestrate in sede civile può avvenire per legge (art. 520 c. 1 c.p.c. per il denaro), per nomina da parte dell’ufficiale giudiziario (art. 520 c. 2 c.p.c.), per nomina del giudice dell’esecuzione (art. 520 c. 1 c.p.c. per titoli di credito e cose preziose); nel contesto del codice della strada, o per legge (art. 213 c. 2 cds) o per nomina autoritativa.
Tanto in sede civile, quanto in sede amministrativa, chiunque sia dotato di capacità d’agire può essere nominato custode, salvi i limiti indicati sopra; per gli ivg e per le depositerie, la qualità segue l’ottenimento del provvedimento amministrativo ampliativo. L’atto di nomina nel contesto civile è sempre condizionato però all’accettazione del terzo, in quanto non esiste obbligo di assumere l’incarico; non è necessaria invece per gli istituti di vendita in quanto, come i custodi amministrativi, l’accettazione è assorbita dall’istanza di ottenimento dell’autorizzazione (per il custode-acquirente il vincolo deriva ovviamente dal contratto stipulato con la p.a.).
Gli obblighi a cui sono astrette le due tipologie di custodia sono essenzialmente i medesimi (salva l’obbligazione di acquisto che grava solo sul custode-acquirente), pur cambiando le fonti (legge per il diritto civile, atto amministrativo o negoziale per il diritto amministrativo): gestione della cosa con la diligenza del buon padre di famiglia, obbligo di non usarla, obbligo di consegnarla al nuovo custode subentrante o di restituirla al debitore nei casi dovuti. Comune è quindi la natura del rapporto autorità-custode: ora longa manus dell’amministrazione, ora del giudice (testualmente ausiliario del giudice in base agli artt. 65 e ss. c.p.c.), ma comunque relazione di stampo pubblicistico[52] (eccezion fatta per il custode-acquirente, il cui rapporto è ovviamente di matrice negoziale).
Infine, non si registrano differenze in punto di legittimazione processuale e di responsabilità. Sotto il primo profilo, i custodi sono abilitati ad agire a tutela del possesso per fatti accaduti successivamente l’incarico; la tutela possessoria per fatti anteriori e quella petitoria spettano al proprietario debitore. Rispetto all’altro tema, il custode è responsabile penalmente (artt. 328, 334, 335, 388 e 388 bis c.p.) e civilmente (inter partes ex artt. 1218 e 1768 c.c.; verso i terzi: artt. 2043 e 2051 c.c. e 67 c. 2 c.p.c.); sanzione amministrativa ad hoc per gli istituti e le depositerie è la decadenza dall’autorizzazione. Solo in diritto civile vale la sanzione punitiva pecuniaria prescritta dall’art. 67 c. 1 c.p.c., mentre esclusivamente per il custode-acquirente si può parlare di rimedi contrattuali per l’inadempimento (artt. 121 e ss. del codice degli appalti; artt. 1453 e ss. c.c.).
3.1 - Criticità applicative
La gestione dei veicoli sequestrati nelle grandi aree metropolitane, per la vastità dell’agglomerato urbano nonché per l’enorme quantitativo di veicoli che quotidianamente vi stazionano, è caratterizzata da evidenti difficoltà, con la grave conseguenza, tra l’altro, di aumentare l’esposizione passiva dell’amministrazione. Lo spunto è occasione per prospettare alcuni interventi di riforma.
Da quando è entrato a pieno regime il meccanismo del custode-acquirente (2010), le prefetture sono state chiamate ad espletare le procedure ad evidenza pubblica e a stipulare i relativi contratti. L’ingente posizione debitoria che si è formata nel corso degli anni presso alcune province deriva eminentemente dalla combinazione tra i cospicui costi tariffari sanciti nei contratti, soprattutto quelli perfezionati all’indomani della riforma, quando la concorrenza era ancora in uno stadio embrionale, e la protratta permanenza presso il custode-acquirente[53].
Sotto quest’ultimo profilo, le problematiche risalgono in maniera precipua a veicoli che:
a) per vari motivi procedurali, quali la mancata valorizzazione del campo della custodia ovvero la presenza di errori di inserimento nell’applicativo informatico, è impossibile allo stato cedere al custode-acquirente con i meccanismi ordinari dell’art. 214 bis cds;
b) pur provvisti dei requisiti di alienabilità - e che quindi potrebbero in tesi seguire la strada dell’art. 214 bis - si stenta a vendere a fronte delle risorse umane disponibili.
Nell’uno come nell’altro caso, sono mezzi che continuano a generare crediti proprio perché rimangono nella custodia della controparte contrattuale. Non secondario, inoltre, appare il tema del rischio ambientale, connesso alla vetustà e lunga giacenza di questi beni.
Considerato dunque che i veicoli, la cui custodia rientra in queste due cornici, sono approssimabili in svariate migliaia[54] e che producono un debito, da ripartire secondo le competenze di ciascuna amministrazione coinvolta, calcolato in decine di milioni di euro l’anno[55], il quale non si riesce a scalfire con le procedure ordinarie, si è arrivati ad ipotizzare un armamentario innovativo per farvi fronte con l’idea di aggredire efficacemente la rilevante massa passiva pregressa, di ridurre per il futuro il rischio di un aggravio dell’esposizione debitoria nonché di scongiurare i rischi ambientali.
Innanzitutto, è imprescindibile avviare un’azione strategica di carattere onnicomprensivo e sistemico.
Sotto il profilo organizzativo e gestionale, è necessaria una proficua attività di reingegnerizzazione e dematerializzazione dei processi lavorativi finalizzati allo smaltimento dei veicoli, con un aumento della media mensile di alienazioni. Cruciale, inoltre, appare il tema della formazione e dell’assunzione di personale.
Sul versante informatico, sono state individuate specifiche vulnerabilità che contaminano la procedura in discorso, inerenti in special modo il corretto e completo inserimento dei dati nel software da parte degli organi accertatori, e che ostacolano la chiusura delle procedure di alienazione. Di questo deve occuparsi il demanio, dominus dell’applicativo.
Ferme dunque queste apprezzabili direttrici, con l’obbiettivo di realizzare pienamente la strategia di intervento elaborata e conferirle compiuta efficacia, soprattutto rispetto alle giacenze presso il custode-acquirente, risulterebbero di somma utilità ulteriori strumenti, stavolta di carattere normativo, amministrativo e/o negoziale, volti a superare le lacune e le disfunzionalità derivanti dalla disciplina attualmente in essere. Ciò è oggetto di excursus nel seguente paragrafo.
3.2 - Proposte di intervento sul piano normativo e negoziale
Il pacchetto che si propone è volto ad abbattere l’esposizione debitoria derivante dagli oneri custodiali sopra descritti, mediante l’avvio di una procedura eccezionale di alienazione massiva delle vetture giacenti presso il custode-acquirente, ai prezzi già sanciti negozialmente.
La sequenza, in sintesi, si articola nei seguenti passaggi:
1. effettuazione, da parte della prefettura, di una ricognizione dei veicoli - vendibili e non - affidati al custode prima del 2022[56] e a tutt’oggi ivi giacenti, tramite l’applicativo SIVES;
2. pubblicazione dell’elenco, per 30 giorni, sul sito istituzionale della prefettura, con valore legale di notifica ai proprietari dei mezzi;
3. facoltà per l’avente diritto di assumere la custodia del veicolo entro i predetti 30 giorni, con pagamento degli oneri maturati per la custodia, il recupero ed il trasporto;
4. spirato il termine, acquisizione ex lege del carattere di vendibilità dei veicoli carenti dei requisiti di alienabilità e cessione ex contractu al custode-acquirente, senza alcun ulteriore atto amministrativo, dei veicoli indicati ma non ritirati, in uno con gli altri già ex ante vendibili, verso il pagamento del corrispettivo previsto da ciascun contratto.
In questo modo si evita il continuo crescere della massa passiva, con immediato e definitivo blocco dei costi di custodia sin dal momento dell’avvenuta pubblicazione. Trattasi inoltre di una procedura completamente informatizzata che non coinvolge l’agenzia del demanio, né per le stime di vendita né per la gestione delle rottamazioni, ciò comportando un enorme risparmio di tempi ed uno snellimento dell’iter amministrativo[57].
Giova sottolineare, poi, che la sequenza si armonizza perfettamente con la figura del custode-acquirente di cui all’art. 214 bis del codice della strada, il quale non vede vulnerata la propria posizione contrattuale; altrimenti opinando, rimanendo inalterata la situazione, il rapporto negoziale si squilibrerebbe - più di quanto non lo sia già - a vantaggio di questi, in totale spregio dei fondamentali canoni regolatori degli accordi contrattuali (su tutti, la buona fede oggettiva nell’esecuzione dell’accordo: art. 2 Cost. e art. 1375 c.c.).
In aggiunta, dal punto di vista finanziario, la presente proposta non comporta nuovi o maggiori oneri. Le poste debitorie così aggredite discendono difatti da rapporti contrattuali già in essere a legislazione vigente. Vista poi la materiale difficoltà del sistema di assorbire una tale mole di rottamazioni, le fatturazioni, così come le liquidazioni, verranno necessariamente diluite nel tempo.
Rispetto all’ambito applicativo oggettivo, restano invero escluse dal discorso le vetture sottoposte a sequestro penale.
Nondimeno, nel rispetto del principio di legalità dell’azione amministrativa (art. 97 c. 2 Cost. e art. 1 c. 1 l. 241/90), la sequenza delineata - allo stato extra ordinem - deve ancorarsi ad una base giuridica.
Visto che il modello di riferimento è la combinazione tra gli artt. 214 bis e 215 bis del codice, sarebbe sufficiente intervenire con una modifica normativa che integri i due sistemi - la ricognizione ex art. 215 bis e l’alienazione al custode-acquirente di cui all’art. 214 bis - generalizzando e mettendo a regime la procedura eccezionale di alienazione qui proposta.
La novella legislativa, che per ragioni sistematiche è opportuno sia inserita nel codice, potrebbe essere così delineata:
“Al d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285, dopo l’art. 214-ter è aggiunto il seguente:
Art. 214-quater (Alienazione straordinaria dei veicoli giacenti presso il custode-acquirente)
1. Il prefetto dispone la ricognizione dei veicoli giacenti presso il custode-acquirente a seguito dell’applicazione di misure di sequestro di cui al presente codice, comunque custoditi antecedentemente al 2022, anche se non confiscati. Dei veicoli giacenti, individuati secondo tipo, modello e numero di targa o di telaio, viene formato un elenco da pubblicare sul sito istituzionale della prefettura competente per territorio, in cui, per ciascun veicolo, sono riportati altresì i dati identificativi del proprietario risultanti dal pubblico registro automobilistico. Tale pubblicazione ha effetto legale di notificazione agli effetti dell’art. 213, comma 5.
2. L’elenco contiene l’avviso che il proprietario o un altro dei soggetti di cui all’articolo 196 del presente codice, entro i successivi trenta giorni, può assumere la custodia del veicolo, pagando le somme spettanti al custode-acquirente, estinguendo contestualmente il debito maturato nei confronti dello Stato allo stesso titolo.
3. Spirato inutilmente il termine di cui al comma precedente, i veicoli non confiscati divengono di diritto confiscati e sono alienati, assieme agli altri presenti nell’elenco ma non ritirati, al custode-acquirente.
4. Il prezzo dell’alienazione è pari alla quotazione sancita nel contratto col custode-acquirente per i veicoli da cedere ai fini della rottamazione.”.
Inoltre, sarebbe auspicabile ipotizzare, in alternativa o in aggiunta alla via legislativa, una modifica amministrativa tramite una circolare ministeriale che abiliti le prefetture, che si trovino in situazioni analoghe, ad impiegare lo schema tratteggiato, con i correttivi proposti.
Più nello specifico, visto che sull’interpretazione dell’art. 215 bis cit. esistono plurime circolari già citate sopra[58] che espressamente o implicitamente ne vietano l’applicazione ove esista un custode-acquirente[59], sarebbe opportuno intervenire, prioritariamente, in sede amministrativa su questi atti, derogando al divieto e, allo stesso tempo, regolamentando la procedura qui delineata.
A rigor del vero, mentre il decreto n. 152 del 2021, emanato dal Ministero dell’interno, di concerto col demanio, non eccettua testualmente dall’art. 215 bis cds i veicoli inseriti nel circuito SIVES (cfr. a contrario l’elenco di cui all’art. 2 c. 2), la circolare n. 813/19, peraltro, fa espressamente salvo “[…] il ricorso ad altre soluzioni individuate dall’ordinamento vigente che assicurino tempi più rapidi rispetto a quelli stabiliti dalla novella [cioè, l’art. 215 bis]”.
Altro possibile strumento di intervento è la transazione contrattuale (artt. 1965 e ss. c.c.). Da un punto di vista soggettivo, le parti della convenzione devono essere le medesime che hanno stipulato il contratto SIVES, a dire la prefettura, l’agenzia del demanio e il custode-acquirente.
Per quanto concerne l’oggetto e l’efficacia negoziale, occorre riprendere il distinguo tra veicoli confiscati e non:
a) per i primi, che hanno visto concludersi il procedimento amministrativo divenendo proprietà pubblica ex art. 213 c. 6 cds, è possibile procedere con una transazione avente effetti reali, che cioè, in uno con il diffalco del debito, trasferisca la titolarità dei beni al custode-acquirente;
b) per i secondi, invece, in quanto ancora non rientranti nel patrimonio pubblica, non è percorribile una strada del genere, salvo voler forzare il dato testuale dell’art. 213 c. 5 cds[60]. Si ritiene di poter addivenire ad una transazione che riguardi le sole poste creditorie derivanti dai contratti SIVES, ma non il trasferimento delle vetture. Per arrivare a questo risultato, sarebbe utile condizionare l’efficacia della transazione all’adozione in via legislativa della procedura di alienazione sopra indicata.
D’altronde, per una maggiore incisività, i due strumenti, quello normativo e quello negoziale, ben possono combinarsi tra loro, specialmente per quanto riguarda i veicoli non oggetto di ablazione[61].
In conclusione, in esito alla disamina effettuata, sorge un legittimo dubbio sulla ragionevolezza e sostenibilità del meccanismo sequestro-confisca nel suo complesso. Il ripresentarsi ciclicamente dell’esigenza di interventi straordinari per colmare deficit dei vari strumenti che si sono affacciati nei decenni, è sintomatico del fatto che il sistema ordinario non è immune da problematiche e che nel giro di pochi anni entra in fibrillazione; sarebbe forse logico pensare dunque ad azioni trasversali ancor più incisive che vadano a toccare il cuore del tema.
Da un semplice confronto costi-benefici è evidente che un intervento radicale di abrogazione del sequestro non appare, in ultima analisi, un fuor d’opera. Si tratterebbe, più precisamente, di eliminare la sanzione reale per le violazioni meno gravi (per esempio, gli artt. 132 c. 5 e 134 cds), prevedendo un contestuale innalzamento della pena pecuniaria; di sostituire la confisca col fermo per le situazioni in cui non si possa prescindere dall’agire sul veicolo (ad esempio, taxi abusivo - art. 86 c. 2 cds); infine, di introdurre la confisca immediata, senza intercessione del sequestro, per le trasgressioni più gravi e socialmente odiose (come guida in stato di ebbrezza o sotto droghe di cui agli artt. 186 e 187 cds). Degne di note anche le proposte di introdurre una sorta di astreinte, che compulsi il proprietario del veicolo ad assumerne la custodia (o a rinunciarne al dominium in favore della p.a.) sotto la minaccia di una sanzione giornaliera; di impiegare aree di proprietà pubblica per internalizzare il servizio di deposito a costi chiaramente inferiori; o, ancora, di riesumare la disciplina contenuta nell’art. 264 c. 2 c.p.p., oggi abrogato, surrogando la discrezionalità del giudice con quella dell’amministrazione circa l’opportunità dell’alienazione del bene dopo il sequestro ove la custodia si prospetti come troppo dispendiosa[62].
[1] Gli elementi costitutivi sono, coerentemente con la concezione tripartita: la componente materiale (contegno tipico attivo od omissivo, evento dannoso, nesso di causa), l’antigiuridicità (assenza di cause di giustificazione), la colpevolezza (imputabilità, suitas, colpa o dolo). Funditus, Napolitano G., Manuale dell’illecito amministrativo, Santarcangelo di Romagna, 2021, passim; Colla G., Manzo G., Le sanzioni amministrative, Milano, 2001, passim; Cerbo P., Le sanzioni amministrative, Milano, 1999, passim; Casetta E., voce Sanzioni amministrative, in Digesto delle discipline pubblicistiche, XII, Torino, 1997, 598 e ss. e voce Illecito amministrativo, in Digesto delle discipline pubblicistiche, VIII, Torino, 1993, 89 e ss.; Paliero C. E., Travi A., voce Sanzioni amministrative, in Enciclopedia del diritto, Milano, 1989, 354 e ss.; Pagliari G., Profili teorici della sanzione amministrativa, Padova, 1988, 45 e ss.; Sandulli M. A., Le sanzioni amministrative pecuniarie, Napoli, 1983, passim; Zanobini G., Le sanzioni amministrative, Torino, 1924, passim.
[2] Nel corso degli anni si sono registrate plurime iniziative in questo senso; si ricordino la l. 317/67, le leggi nn. 469, 561 e 5625 del 1993, il d.lgs. 507/99 e, da ultimo, i decreti delegati nn. 7 e 8 del 2016.
[3] L’intentio legislatoris è disvelata dall’art. 12 della stessa legge.
[4] Buona parte di essi è sovrapponibile ai canoni del diritto penale, basti guardare ai principi di legalità, tassatività, determinatezza (art. 1). Altri assumono viceversa delle sfumature, come quelli di riserva di legge (cfr. C. cost. 5/21) e di irretroattività sfavorevole. Altri non trovano proprio applicazione, come la retroattività in melius (C. cost. 193/16; Cons. St. sez. VI n. 3497/10; Cass. sez. II n. 24111/14). L’avvicinamento è comunque reso più evidente se si pone mente a quanto statuito dalla Corte EDU nel noto caso Engel c. Paesi Bassi dell’8.6.1976. Il tema è troppo vasto per essere affrontato; sia consentito rinviare alla cospicua giurisprudenza costituzionale (ex multis, C. cost. nn. 63/19, 109/17, 68/17, 43/17 e 193/16) e alla dottrina (Manes V., Profili e confini dell’illecito para-penale, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2017, 988 e ss.; Goisis F., La tutela del cittadino nei confronti delle sanzioni amministrative tra diritto nazionale ed europeo, Torino, 2015, passim; Paliero C. E., Materia penale e illecito amministrativo secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo: una questione classica a una svolta radicale, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1985, 912 e ss.).
[5] Come, per esempio, il concorso di persone (art. 5), la responsabilità solidale di terzi (art. 6), il concorso formale di illeciti (art. 8), la reiterazione (art. 8 bis), il concorso apparente di norme (art. 9), la prescrizione (art. 28).
[6] Gli snodi sono scanditi agli artt. 13 e ss. e si possono così sintetizzare: accertamento della violazione, contestazione (immediata o differita), rapporto dell’organo (ove manchi il pagamento in misura ridotta), segmento innanzi all’autorità amministrativa decidente (con eventuale contraddittorio), decisione finale (archiviazione o ordinanza ingiunzione). La riscossione coattiva della sanzione pecuniaria è infine analoga a quella dell’esazione delle entrate tributarie dirette (l’art. 27 rinvia al dpr 602/1973).
[7] Si fa riferimento agli artt. 22 e ss.; oggi la materia è assorbita dagli artt. 5 e 6 del d.lgs. 150/2011. L’ordinanza ingiunzione risulta così opponibile innanzi al giudice ordinario, secondo le forme del rito del lavoro (artt. 410 e ss. c.p.c.), salve deroghe.
[8] La definizione di sequestro che qui si asseconda deriva da quella presente in Sandulli A. M., Manuale di diritto amministrativo, II, Napoli, 1989, 886, differente da quella ad esempio di Giannini M. S., Diritto amministrativo, Milano, 1988, 1173, che lo etichetta come atto esecutivo endoprocedimentale, non sempre provvedimentale. Sul sequestro amministrativo in generale, Pini R., voce Sequestro. Diritto amministrativo in Enciclopedia giuridica, XXVIII, Roma, 1992, passim; si veda altresì la norma, di dubbia validità, contenuta nell’. Giova comunque ricordare che l’ordinamento conosce innumerevoli ipotesi di sequestro amministrativo, per dir così, stravagante, in quanto esterne all’ordito della legge del 1981 (per esempio, l’art. 38 c. 2 r.d. 1604/31 in tema di pesca; art. 38 c. 3 r.d. 773/1931 in tema di armi gli artt. 101, 126, 141 r.d. 1265/34 in tema di sanità; l’art. 28 c. 3 dpr 309/90 in tema di stupefacenti); tutto ciò rende ovviamente assai complessa una ricostruzione unitaria del fenomeno, tanto da indurre la dottrina a denunciare la mancanza di approfondimento scientifico della materia, spesso negletta o resa succube delle costruzioni civilistiche o penalistiche (Pini R., op. cit., 2-3).
[9] Cfr. Sandulli M. A., voce Confisca. Diritto amministrativo, in Enciclopedia giuridica, VIII, Roma, 1988, passim, che distingue tra una confisca cautelare-preventiva ed una propriamente sanzionatoria, per derivarne alcune importanti conseguenze circa le caratteristiche del bene confiscabile ed i limiti delle misure rispetto ai diritti dei terzi aventi causa. Altri spunti si possono trarre in Sandulli A. M., La potestà sanzionatoria della pubblica amministrazione, Napoli, 1981, 91 e ss. e in Iaccarino C. M., La confisca, Bari, 1935, passim.
[10] Queste, in sintesi, le finalità sottese il sequestro: cfr. Pini R., op. cit., 1.
[11] Tale disposizione venne introdotta quando non esisteva la sanzione reale nel contesto della circolazione stradale; oggi, con la nuova codificazione, il comma in parola è da ritenere verosimilmente abrogato. In ogni caso, le forme procedimentali del sequestro sono fissate nel regolamento di attuazione dpr 571/1982, oggetto di approfondimento nel par. 2.1; per i rimedi, valga il rinvio all’art. 19 c. 1 della l. 689 cit..
[12] Per Sandulli M. A., op. cit., 3, lo stesso vale per il prezzo ed il profitto dell’illecito.
[13] Valga qui quanto riferito nella precedente nota n. 8 per il sequestro.
[14] Come l’obbligo di contestazione immediata (art. 200) - salva la notificazione ex post (art. 201), l’enfasi per il pagamento in misura ridotta (art. 202), la rateizzazione (art. 202 bis). Dei rimedi giustiziali si occupano gli artt. 120 c. 4, 203 e 204 (rispettivamente, ricorso al ministro e ricorso al prefetto), di quelli giurisdizionali l’art. 204 bis (il quale rimanda all’art. 7 del d.lgs. 150/11 che richiama il rito lavoristico).
Ricordiamo poi che la vis espansiva della l. 689/81 (art. 12) si arresta rispetto alle sanzioni non pecuniarie.
[15] Cioè, il materiale spostamento o blocco del mezzo.
[16] Il veicolo in questo caso non può essere usato per un certo periodo di tempo, decorso il quale torna nella disponibilità dell’avente diritto. Trattasi dunque di sanzione reale a termine che impinge sostanzialmente la fruibilità concreta della res.
[17] Elenchiamo qui di seguito tutte le disposizioni codicistiche, la cui violazione è punita con la confisca: artt. 9 ter cc. 1 e 3 (gare in velocità con veicoli a motore); 70 c. 4 (uso di veicolo a trazione animale o di slitte per servizio piazza senza licenza); 80 c. 14 (reiterazione uso di veicolo senza revisione); 86 c. 2 (taxi abusivo); 93 c. 7 (veicolo privo di immatricolazione, veicolo radiato per mancato bollo o per intestazione fittizia); 93 bis c. 7 ( veicoli immatricolati all’estero e condotti in Italia da residenti senza le prescritte formalità); 97 c. 5 (fabbricazione con cilindrata maggiorata o maggiorazione della cilindrata di ciclomotore); 97 c. 7 (ciclomotore senza immatricolazione); 97 c. 14 (reiterazione di ciclomotore privo di targa o con targa non propria); 98 c. 4 (reiterazione veicolo in circolazione di prova senza titolare); 99 c. 5 (reiterazione mancanza di foglio di via); 100 c. 15 (reiterazione veicolo con targa non propria o falsa); 116 c. 17 (reiterazione veicolo guidato senza patente); 124 c. 4 (reiterazione uso veicolo agricolo senza patente); 132 c. 5 (veicolo estero da più di 1 anno in Italia); 134 c. 2 (targa EE scaduta); 168 c. 8 bis (reiterazione trasporto merci pericolose); 176 c. 22 (reiterazione guida contromano); 186 c. 2 lett. c) (guida in stato di ebbrezza); 187 c. 1 (guida sotto effetto droga); 193 c. 4 (mancanza di assicurazione); 213 c. 2 sexies (reato commesso a bordo di veicolo); 213 c. 8 (uso veicolo sotto sequestro amministrativo); 214 c. 8 (uso veicolo sotto fermo); 216 c. 6 (reiterazione guida con documenti ritirai); 217 c. 6 (reiterazione guida con carta di circolazione sospesa); 218 c. 6 (reiterazione guida con patente sospesa).
[18] Conformemente al disposto di cui all’art. 28 l. 689 cit.; ex plurimis, Cass. sez. II n. 21881/09. D’altra parte, per la l. 689/81, art. 19 c. 3, il sequestro decade di diritto se non occorre la confisca entro 6 mesi (cosiddetta perenzione).
[19] Quest’aspetto sarà più chiaro con la lettura dei paragrafi seguenti; si rinvia fin d’ora al par. 2.3. Si vedano tra l’altro le similari dizioni degli artt. 394 e 395 dpr 495/92 (contenente il regolamento esecutivo del codice) che parrebbero aver abrogato il decreto in analisi e che di fatto hanno fissato la disciplina della materia sino alle riforme del d.l. 269/2003.
[20] Per esempio, presso la prefettura di Roma, si guardino la nota 305231/2019 e il decreto tariffario 23977/2018; presso la prefettura di Campobasso, la nota 62546/2021 e il decreto tariffario 62544/2021; presso quella di Perugia, la nota 4453/2023 e il decreto 364/2021.
[21] Per le ulteriori ritualità si vedano i commi 3 e ss. dell’art. 12.
[22] Qualora l’avente diritto non ritiri la cosa entro sei mesi da quando l’atto che ne dispone la restituzione è divenuto inoppugnabile, l’amministrazione ne dispone la vendita e accantona le somme così ricavate (art. 16). Questa norma, tuttavia, dovrebbe oggi ritenersi abrogata, dal momento che per i veicoli abbandonati esiste una disciplina speciale di cui al dpr 189/2001, che vede coinvolto in prima battuta il demanio.
[23] Ovviamente il denaro ottenuto dalla vendita va devoluto all’erario. Se il bene sequestrato è di interesse storico o artistico può essere acquisito al patrimonio indisponibile dello Stato (art. 15 c. 3); ai commi successivi viene dettagliata la sorte di altre tipologie di beni che qui possiamo pretermettere.
In base all’art. 17, le procedure di alienazione seguono la disciplina della contabilità di Stato (cfr. r.d. 2440/1923).
[24] Anzi, non è un fuor d’opera ipotizzare che, attualmente, in forza dei principi eurounitari di concorrenza, tali rapporti dovrebbero essere sottoposti alla disciplina del codice degli appalti (d.lgs. 36/2023). A rigore, in forza del d.lgs. 59/2010, attuativo della direttiva CE 123/2006 (cosiddetta Bolkenstein, dal nome suo promotore), le attività economiche dovrebbero essere liberalizzate (artt. 10 e ss.), salvo che, come nella fattispecie de qua, le risorse disponibili non siano scarse. È evidente che la quantità di macchine sequestrabili nel territorio provinciale è naturalmente finito; pertanto, onde evitare forme larvate di monopolizzazione del mercato, l’amministrazione dovrebbe svolgere delle gare ad evidenza pubblica che stimolino la concorrenza (art. 16 e ss.). Va però aggiunto che, in base all’art. 12 del decreto delegato, il regime autorizzatorio torna ad essere tollerato ove sussistano motivi imperativi di interesse generale e l’art. 8 lett. h) ricorda che tali sono, tra gli altri, l’ordine pubblico, la sicurezza stradale e la tutela dell’ambiente, ossia tutti elementi di sicuro rilievo nella materia de qua.
[25] Circa la sentenza della Consulta, si veda infra il par. 2.2. Per approfondimenti sul fronte privatistico, sia concesso rimandare a Natoli U., I contratti reali, Milano, 1975 e a Majello U., Custodia e deposito, Napoli, 1958, passim.
È pur vero che i contratti della p.a. vanno formati per iscritto a pena di nullità (art. 1350 c.c. e artt. 16 e 17 r.d. 2440/23) e, nella fattispecie, manca un testo negoziale. Pertanto, si potrebbe pensare di inquadrare la situazione in un rapporto contrattuale di fatto, che deriva la disciplina codicistica per il solo profilo della relazione bilaterale (cfr. per approfondimenti: Bianca C. M., Diritto civile. I contratti, Milano, 2019, 29 e ss.; Irti N., Scambi senza accordo, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, II, 1998, 347 e ss; Angelici C., voce Rapporti contrattuali di fatto, in Enciclopedia giuridica Treccani, XXV, Roma, 1991, 8 e ss.).
[26] Per cui si rimanda al par. 2.3.
[27] Convertito con modifiche nella l. 326/2003.
[28] La sequenza ivi delineata prevale pure sulle procedure speciali di alienazione eccezionalmente attivate dalle singole prefetture e si applica al loro posto (comma 10).
[29] Rispetto al 30 settembre 2003.
[30] Cfr. Amoroso G., Parodi G., Il giudizio costituzionale, Milano, 2020, 455 e ss. e Celotto A., Modugno F., La giustizia costituzionale, in Modugno F. (a cura di), Diritto pubblico, Torino, 2016, 754 e ss..
[31] Attualmente, le procedure di rottamazione del d.l. 269/03 sono all’evidenza tutte esaurite. La maggiore problematica che residua riguarda proprio il calcolo dei debiti nei confronti dei custodi, secondo la previgente disciplina del 1982. Ciò ha generato un contenzioso sia innanzi al giudice ordinario, che, chiamato ad accertare la posizione creditoria dei custodi, è per lo più sfociato in un esito favorevole per la parte pubblica sulla base dell’avvenuta prescrizione dei diritti privati, ormai considerati esauriti e quindi insensibili alla sentenza della Consulta (cfr. ad esempio, Trib. Roma, sez. II, 21603/2018); sia davanti al giudice amministrativo, ai fini dell’invalidazione tout court del provvedimento emanato in forza dell’art. 38 (qui il percorso processuale è stato più tortuoso; non si può che rinviare a TAR Lazio, Roma, sez. I ter, n. 17501/2022 e a Cons. St., sez. III, n. 8182/2023).
[32] Tale termine è stato, condivisibilmente, letto come non perentorio.
[33] Si veda a tal proposito pure il decreto dirigenziale 10 settembre 2014 del capo dipartimento per gli affari interni e territoriali del Ministero dell’interno, di concerto col demanio, sulle modalità di alienazione.
[34] In teoria, anche l’art. 214 ter rileverebbe; essendo tuttavia riferito allo specifico tema della destinazione delle auto confiscate, può essere in questa sede trascurato. Per ragioni analoghe non ci diffonderemo sull’art. 214, che tratta della sanzione del fermo; tuttavia, precisiamo che buona parte di quanto scritto nel corpo è estensibile pure a questo istituto sanzionatorio. Degni di menzione sono gli articoli del regolamento di attuazione (dpr 495/92), in specie gli artt. 394 e ss..
Le riformulazioni più significative nella materia de qua si devono al già menzionato d.l. 269/2003 (che ha introdotto la nuova figura), alla l. 120/2010, al d.l. 113/2018 e al d.l. 121/2021.
[35] Il documento di circolazione è inoltre ritirato e sul veicolo vengono apposti dei segni dell’avvenuto sequestro; le attività sono verbalizzate.
[36] La norma fa salvo anche un potere di autotutela esecutoria in capo all’amministrazione. Del profilo della giustiziabilità delle posizioni del privato si occupa il successivo comma 7, rinviando all’art. 203.
[37] Nel caso di minore, la custodia è affidata al genitore, a chi ne fa le veci o a un terzo delegato.
[38] È invero singolare che la p.a. proceda ad alienare un bene di cui ancora non è formalmente titolare (dacché manca la confisca). Potrebbe immaginarsi che, in coerenza con l’art. 42 c. 2 Cost., sia la medesima legge a disporre, a mo’ di sanzione, la traslazione della proprietà a titolo derivativo a favore del custode-acquirente, pur in mancanza del consenso del precedente avente causa. A quanto consta, non risulta che il tema sia stato approfondito né in dottrina né in giurisprudenza.
A tacer d’altro, la disposizione prevede che la somma ricavata dall’alienazione sia depositata in un conto fruttifero e che venga confiscata quando viene disposta la confisca, oppure restituita negli altri casi.
[39] Pur nel silenzio di questa parte della disposizione, pare ragionevole che il meccanismo di alienazione al custode-acquirente sia il medesimo già analizzato (pubblicazione sul sito, decorso di 5 giorni).
[40] Visto l’impatto pratico, questa opportuna valvola di sfogo è stata reintrodotta col d.l. 121/21, dopo essere stata improvvidamente cancellata col d.l. 113/18, secondo il previgente tenore testuale di cui all’art. 213 c. 2 quater (d.l. 269/03). Il problema, allo stato, rimane per i sequestri effettuati tra il 2018 ed il 2021, visto che, vigendo la regola tempus regit actum, la riforma più recente non può applicarsi retroattivamente.
[41] Il quantum debeatur è ovviamente indicato nel contratto.
[42] Nonostante la formale istituzione col d.l. 269/03, l’applicativo è entrato a pieno regime solo anni dopo. Si veda per completezza il decreto dirigenziale del 28.6.2007.
[43] Le difficoltà più ricorrenti consistono nella presenza di tante schede quanti i sequestri pur se afferenti al medesimo veicolo, nell’assenza di un sistema di contabilizzazione immediata dei costi di deposito, nella scarsa intuitività del software. In linea astratta, la sequenza immaginata dal legislatore sarebbe la seguente: sequestro, verbalizzazione e notifica da parte dell’organo accertatore; presa in custodia; compilazione sul SIVES delle schede da parte del custode e dell’organo accertatore; vaglio della prefettura ed alienazione.
[44] Subentrerà a questo punto la disciplina di cui al dpr 189/2001.
[45] Ci riferiamo alle affermazioni, piuttosto lapidarie ed apodittiche, presenti negli atti ministeriali nn. 300/19 (punto 7.4),813/19 e in quello datata 21.10.2021. Ma si veda anche il decreto interministeriale n. 152 del 2021.
[46] Retro par. 1. Questa vicinanza, sebbene osteggiata in parte della letteratura, è suggerita dalla giurisprudenza costituzionale; con una motivazione riferita al solo sequestro penale ma ragionevolmente estensibile a quello civile, nella sentenza n. 230 del 1989 la Consulta equipara senza mezzi termini la prestazione di custodia di un bene sequestrato penalmente con quella di un bene sequestrato in via ammnistrativa, in quanto l’attività è “ontologicamente identica in entrambe le ipotesi”.
[47] Ben diverso dal sequestro giudiziario disciplinato dall’art. 670 c.p.c., avente finalità più propriamente processualistiche e probatorie. Per approfondimenti sul sequestro conservativo, ex multis, Consolo C., Spiegazioni di diritto processuale civile, I, Torino, 2017, 240 e ss.; Mandrioli C., Carratta A., Diritto processuale civile, IV, Torino, 2017, 313 e ss.; Ferri C., voce Sequestro, in Digesto civile, XVIII, Torino, 1998, 460 e ss. e Santulli R., voce Sequestro (sequestro giudiziario e conservativo), in Enciclopedia giuridica, XXVIII, Roma, 1998, 2 e ss..
[48] Utili elementi saranno tratti dal giudice dal contegno del debitore e dalle sue effettive disponibilità.
[49] Il legame col processo esecutivo si evince dalla conversione del sequestro in pignoramento, una volta che il creditore ottiene la sentenza di merito favorevole (art. 686 c.p.c. e art. 156 disp. att.). A differenza del sequestro giudiziario, qui non rilevano i beni in quanto tali, ma nella loro consistenza economica; questo spiega come mai possa ricadere su crediti, sia convertibile su altri oggetti (art. 684 c.p.c.) e possa attuarsi solo su beni suscettibili di pignoramento (art. 545 c.p.c.).
[50] Com’è noto, dunque, nel conflitto tra aventi causa e creditore sequestratario, prevale sempre quest’ultimo, a meno che la trascrizione dell’atto concernente l’immobile o il conseguimento del possesso del bene mobile non avvengano prima della concessione del sequestro.
[51] In materia vige il decreto del Ministero della giustizia n. 109 del 1997.
[52] Sono oramai superate le tesi del contratto di deposito (Ascarelli T., In tema di esercizio del voto e di esercizio delle “opzioni” in caso di sequestro di azioni, in Foro italiano, I, 1938, 1332), della gestione di affari altrui (Giansana S., Del sequestro giudiziario e conservativo, Torino, 1884, 97), del mandatario per conto di chi spetta (Carnelutti F., Rappresentanza del sequestratario, in Rivista di diritto processuale civile, II, 1930, 283).
[53] Precisiamo che la stragrande porzione dei sequestri è figlia della violazione dell’art. 186 (guida in stato di ebbrezza) e dell’art. 193 c. 2 (circolazione senza assicurazione) del codice.
[54] Generalizzando le cifre pubblicate dalle prefetture su base annuale.
[55] Per aversi conti più accurati, le operazioni aritmetiche sono semplici: numero veicoli * costo medio annuo custodia * durata media annuale custodia.
[56] La data è meramente indicativa, ma ci sembra ragionevole in quanto non troppo remota né troppo vicina.
[57] Si rimanda nella specie all’art. 7 del decreto n. 152 del 2021, emanato dal Ministero dell’interno, di concerto con l’agenzia del demanio, che esemplifica le difficoltà gestorie.
[58] Si rimanda alla nota n. 43.
[59] Fatti salvi i fermi e i veicoli dissequestrati ma non ritirati.
[60] Cfr. quanto già detto alla nota n. 36.
[61] Appare in ogni caso opportuno un coinvolgimento tecnico dell’Avvocatura di Stato per la redazione del testo contrattuale.
[62] L’abrogazione è occorsa col dpr 115/2002. È chiaro che la riforma dovrebbe tenere in conto il ruolo del custode-acquirente, se presente, magari concedendogli un diritto di prelazione, e pertanto dovrebbe essere così concepita: “Al d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285, dopo il comma 5 dell’art. 213 è aggiunto il seguente: 5-bis. La prefettura può disporre la vendita del veicolo, anche immediatamente dopo il sequestro, se la custodia sia eccessivamente onerosa. Se nella provincia è presente la figura del custode-acquirente, quest’ultimo ha diritto di prelazione per l’acquisto secondo le quotazioni sancite dal contratto.”. Inutile aggiungere che avverso la valutazione dell’autorità, l’interessato potrà ricorrere innanzi al giudice amministrativo.
Giudici che dispiacciono. Come liberarsene.
di Vladimiro Zagrebelsky
La tentazione di liberarsi dei giudici che dispiacciono è irresistibile, anche se in linea di principio i governi non osano rifiutare la regola democratica della separazione dei poteri e magari sono pronti a rendere omaggio al principio fondamentale che, dalla fine del ‘700 in poi, in Europa dice che “Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri stabilita, non ha una costituzione”. Naturalmente il valore della separazione del potere giudiziario dall’Esecutivo e dal Legislativo è annullato se si pretende che i giudici si mettano in riga, deferenti verso il governo e le sue preferenze. Con la pretesa di fondarle sulla legittimazione elettorale della maggioranza parlamentare che regge il governo, si adottano però vie varie per forzare la separazione, quando questa confligge con l’orientamento e gli interessi politici governativi. Non sempre però gli strumenti adottati si rivelano efficaci rispetto allo scopo. In ogni caso è utile metterne in luce le finalità e lasciarne la memoria. Anni orsono una Pretura siciliana aveva un grande impianto petrolchimico nel territorio di sua competenza. Il pretore si era intestardito ad applicare le leggi di tutela ambientale. Non potendo trasferire quel magistrato, dal ministero della giustizia venne un decreto che spostò da quella Pretura a quella confinante il Comune ove si trovava l’impianto. Durò poco, ma il caso è esemplare.
Oggi, soprattutto nella materia che riguarda i migranti, la tensione tra governo e magistratura è molto forte. Spesso essa si manifesta anche quando le sentenze vengono dalla Corte di cassazione. Ma ora un vero e proprio scontro contro la magistratura è stato scatenato dall’incontinenza verbale di esponenti governativi e riguarda le Sezioni specializzate nella materia nei Tribunali. Anche se non ha concluso il suo iter e non è divenuto legge, merita d’essere menzionato e commentato un tentativo di espellere da quelle procedure giudiziarie i giudici identificati come non in linea. Si tratta di uno schema di decreto-legge portato in Consiglio dei ministri il 29 novembre 2024. Tra molto altro, una norma che riguardava la responsabilità disciplinare dei magistrati è entrata in Consiglio, ma non ne è uscita. Saggia resipiscenza? Vizi tecnici riconosciuti insuperabili? Conflitti tra ministri? Non si sa. Persino la conferenza stampa che solitamente segue le riunioni del Consiglio dei ministri è stata cancellata. Così il ministro della Giustizia, proponente, ha potuto sottrarsi al dovere di spiegare e informare. Forse, come vedremo, la ragione risiede nel fatto che è stata imboccata un’altra strada per ottenere lo scopo. Il decreto-legge conteneva una modifica alla legge sulla responsabilità disciplinare dei magistrati e considerava l’ipotesi in cui essi non si astengano quando la legge ne stabilisce l’obbligo o – questo era il nuovo – “quando sussistono gravi ragioni di convenienza”.
La novità veniva presentata con una bugia nel preambolo del decreto. Si leggeva infatti che essa sarebbe stata resa necessaria dalla abrogazione dell’abuso di ufficio. Affermazione palesemente infondata, inventata per nascondere la vera ragione dell’intervento governativo. La pretestuosità del motivo richiamato è tra l’altro dimostrata dal fatto che il decreto-legge riguardava solo i magistrati ordinari e non anche il Consiglio di Stato, i TAR, la Corte dei Conti e tutti gli altri soggetti a cui la norma penale abolita si applicava. Il vero movente invece è stato per settimane sotto gli occhi di tutti. Proclamato, promesso, minacciato da continue, virulente dichiarazioni da parte di esponenti governativi e della maggioranza, oltre che ripetuto dai media di area. Si trattava dello sdegno che quella parte politica manifestava per il fatto che alcuni giudici (delle Sezioni specializzate dei Tribunali) avevano deciso casi di convalida del trattenimento di migranti, adottando l’interpretazione delle norme che essi stessi avevano già sostenuto pubblicamente, prima delle singole procedure giudiziarie. Questo comportamento sarebbe illecito, frutto di parzialità politica da parte di magistrati, etichettati come “comunisti”, antagonisti del governo e della sua politica. Il decreto-legge nasceva con lo scopo di impedire simili fatti scandalosi, finora impuniti.
Tuttavia il provvedimento governativo non sarebbe caduto nel vuoto legislativo. La materia degli obblighi di astensione è molto delicata, trattandosi di eccezioni rispetto al dovere che i magistrati hanno di decidere le cause che sono loro assegnate. Stranamente l’intervento del governo ignorava le norme che sono e restano in vigore nella materia. Mentre il codice di procedura penale, nel caso di “gravi ragioni di convenienza”, già stabilisce l’obbligo di astensione da parte del magistrato (cui segue la responsabilità disciplinare), il codice di procedura civile ne indica solo la facoltà (il giudice può richiedere al capo dell'ufficio l'autorizzazione ad astenersi). Quindi la facoltà e non l’obbligo resta proprio nelle cause che hanno scatenato la rabbia governativa. Nella materia del diritto dei migranti la procedura che i giudici devono seguire è infatti quella del codice di procedura civile. Una procedura che si presenta speciale e quindi prevalente, rispetto alla portata generale della norma disciplinare che con il decreto-legge veniva modificata. Non l’obbligo di astensione, ma la facoltà continuava ad essere stabilita. Per dar spazio alla responsabilità disciplinare nel caso di omissione della astensione sarebbe bastato modificare l’art. 51 del Codice di procedura civile stabilendo anche in quella sede l’obbligo di astensione nel caso di “gravi ragioni di convenienza”. Sarebbe stata una modifica anche condivisibile perché avrebbe eliminato una differenza non giustificata rispetto al codice di procedura penale. Tanto più che il codice etico della magistratura in tutti i casi prevede che il magistrato valuti “con il massimo rigore la ricorrenza di situazioni di possibile astensione per gravi ragioni di opportunità”. Sorprende quindi il tentato intervento normativo, fonte di incoerenze di sistema e di problemi interpretativi, capaci di impedirne comunque l’operatività rispetto all’intenzione governativa.
Il tema più delicato però era ed è quello centrale. Da cui lo schema di decreto-legge si teneva prudentemente a distanza. Esso riguarda il contenuto stesso da assegnare alla formula “gravi ragioni di convenienza”, di estrema ampiezza e genericità, legato ai casi concreti. E tali da escludere proprio il caso in cui il magistrato si sia in precedenza pronunciato sulla interpretazione delle leggi da applicare. L’intenzione che muoveva la proposta di decreto-legge proprio a ciò si riferiva, nel contesto dell’attuale attacco ai giudici delle Sezioni di Tribunale specialmente competenti in materia di immigrazione. Contro l’avviso del governo questi giudici hanno rinviato le cause alla Corte di giustizia dell’Unione europea, perché dica se le norme italiane sono compatibili con l’obbligo di conformità alle norme europee applicabili. Ciò che per la verità appare del tutto legittimo o addirittura necessario, ma che dispiace al governo perché – in attesa della sentenza che renderà la Corte di giustizia – impedisce tra l’altro l’operatività dell’accordo Italia-Albania. Stando al tenore delle accuse che sono state rivolte a quei giudici – di avere già dichiarato il loro orientamento interpretativo delle norme recentemente introdotte, prima di pronunciarsi nelle singole cause –, questo fatto costituirebbe una “grave ragione di convenienza”, tale da dar corpo ad illecito disciplinare. Ma così non può essere. Pur con la prudenza da più fonti loro raccomandata, la libertà di espressione, garantita dalla Costituzione, è assicurata anche ai magistrati. Essi possono esprimersi liberamente, ed anzi dalla Corte europea dei diritti umani è venuta l’affermazione che, in materia di organizzazione e funzionamento della amministrazione della giustizia, vi è un obbligo per i magistrati di esprimersi, per contribuire al chiarimento dei termini dei problemi che il legislatore affronta e per difendere autonomia e indipendenza della magistratura. E il fenomeno degli interventi dei magistrati nella discussione delle leggi è vastissimo, ben radicato da lungo tempo e specialmente importante proprio nei settori del diritto specialistico che essi praticano nei tribunali. Particolarmente quando si tratta di nuove leggi, la discussione organizzata dalle riviste giuridiche, generaliste o di settore, è animata anche dai magistrati. Essi si esprimono, propongono soluzioni, contribuiscono al progressivo emergere di indirizzi interpretativi condivisi: prima ancora che i procedimenti giudiziari approdino alle Corti di appello e poi alla Cassazione. Si dovrebbero astenere poi dall’applicare le leggi che hanno commentato, spesso, utilmente? Che fine faranno le riviste giuridiche e gli incontri di studio che vengono organizzati specialmente subito dopo una nuova legge? E le relazioni e i dibattiti nei corsi della Scuola Superiore della Magistratura, in sede centrale o decentrata? Cosa delle iniziative più o meno formalizzate per la ricerca di orientamenti interpretativi condivisi e quindi prevedibili? Sono domande che spiegano perché la specificazione della nozione di grave ragione di convenienza – funzionale allo scopo perseguito dal governo – non si leggeva nel testo del decreto-legge. Esso però, così come presentato, avrebbe comunque lasciato spazio al ministro per qualche azione disciplinare, fuoco d’artificio e dimostrazione muscolare opportunamente presentata alla stampa, anche se prima o poi destinata ad insuccesso.
Ma il ritiro del decreto-legge trova probabilmente spiegazione nel fatto che, lavorando su un altro provvedimento ora in Parlamento (il c.d. decreto flussi), il governo con più sicurezza e in un colpo solo si sbarazza di tutti i giudici attualmente competenti alla trattazione delle cause relative alla convalida dei provvedimenti di trattenimento dei migranti, alla proroga del trattenimento disposto dal questore nei confronti dei richiedenti protezione internazionale e alla convalida delle misure alternative al trattenimento. Il mezzo usato è il trasferimento di tali cause dalla competenza dei Tribunali a quella delle Corti di appello. Che non si cerchi un rito più garantito come potrebbe essere il procedimento davanti alla Corte d’appello che è giudice collegiale è dimostrato dalla previsione che in questo caso il giudice sarà in formazione monocratica. La Corte d’appello diviene giudice monocratico di primo grado. Un Tribunale, cioè. E allora perché? Il governo cerca giudici diversi. Li crede più fidati? Imbarazzante per i giudici così prescelti come “giudici di fiducia”. Ma è prevedibile il fallimento dell’operazione: il diritto è quello che è e non cambia cambiando il giudice.
I presidenti di tutte le Corti di appello hanno protestato perché i loro uffici non sono in grado di reggere il nuovo grande carico di lavoro, negli stretti termini procedurali stabiliti dalla legge. Dovrebbe preoccuparsene il ministro della Giustizia, a cui la Costituzione assegna “l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”. Ma sembra che si voglia comunque sottrarre, in un modo o nell’altro, la materia della immigrazione ai giudici ora competenti. Si dice che, contro giudici riottosi, si tratta di assicurare la prevalenza della Politica, legittimata dal voto. A spese delle regole e garanzie dello Stato di diritto.
Esercizi sul sentimento del diritto: una giurista del lavoro al cospetto del lavoro povero e sfruttato. Per Satnam Singh
di Stella Laforgia
Lavoro, Valore, Identità
Premessa. Il 18 ottobre 2024 si è svolta a Bari, presso il Kursaal Santalucia, teatro pubblico della città di Bari, un’iniziativa dal titolo “Lavoro, Valore, Identità. Riflessioni, rappresentazioni, testimonianze” promossa dal Movimento per la Giustizia-Art. 3 ETS in collaborazione con l’Università di Bari.
La giornata ha voluto rappresentare un momento di riflessione ma anche di denuncia su temi legati al lavoro.
Ci si è chiesti quale sia stato il ruolo del lavoro nella storia attraverso l’intervento di Lorenzo Gaeta (Università degli Studi di Siena) che ha attraversato la storia (invero, dell’umanità) per parlare di lavoro a partire, alla lettera, da Adamo ed Eva la quale, quando contravvenendo al divieto di Dio, rubò la mela, provocò la punizione divina; a lei fu inflitto di partorire con dolore (travaglio) e all’altro, ad Adamo, di lavorare con fatica.
Il lemma “lavoro”, d’altra parte, ha la stessa radice di travaglio; si pensi al francese travaille o allo spagnolo trabajo.
Insomma, il lavoro quale pena… come è evidente dalle immagini sull’attualità con cui l’intervento, corredato di splendide slides parlanti, si è chiuso.
E a quel punto, all’attualità che ci rimanda all’idea ancestrale di lavoro/pena, alla prospettiva storico-antropologica si è inanellata la riflessione di filosofia politica sul nesso tra lavoro e democrazia, cristallizzato dall’art. 1 della Carta costituzionale attraverso le parole di Geminello Preterossi (Università degli Studi di Salerno). Se il lavoro è così squalificato e squalificante, quali ricadute ci sono sull’assetto istituzionale democratico, ci si è chiesto. E ancora, si pone l’interrogativo, l’astensionismo, il mancato esercizio delle pratiche e della partecipazione democratica non sono forse conseguenza della sottrazione al lavoro della sua centralità nel reticolato costituzionale?
Queste evidenti ricadute sociali della scarnificazione del lavoro pongono, altresì, il problema del ruolo del lavoro nella costruzione del sé, dell’identità quindi di ogni persona, in una prospettiva individuale ma anche collettiva.
Se, infatti, il lavoro è stato da sempre l’elemento attorno al quale costruire la propria identità, nel momento in cui esso è precarizzato, sotto-retribuito, flessibile può il lavoratore identificarsi ancora con esso o tenderà, invece, a rifiutare questa identificazione?
Il lavoro dunque è elemento di identità o non piuttosto di dis-identità, come ci ha prospettato Sarantis Thanopulos, Presidente della Società Psicoanalitica Italiana?
Infine, la cronaca con l’intervento dell’editorialista Massimo Giannini che ha fornito un affresco denso, a tinte fosche, del lavoro così com’è oggi.
Una pena, appunto.
Alla mattinata di riflessioni scientifiche e giornalistiche si sono affiancati, nel pomeriggio, altri linguaggi.
Il linguaggio teatrale e musicale per riuscire a dare corpo a temi rispetto ai quali, nella drammatica situazione che stiamo vivendo, il diritto arranca così come i giuristi.
Sul palco è salito Sasà Striano a raccontare la sua storia di detenuto rinato con il lavoro del teatro. Con lui Rita Bernardini, Presidente di “Nessuno tocchi Caino” e Gianfranco De Gesu, già Direttore Generale Detenuti e Trattamento Dap.
Ancora, linguaggi contaminati attraverso i quali alle parole di Alessandro Leogrande, sociologo tarantino morto prematuramente che tanto si è dedicato ai temi, tra gli altri, del lavoro, del caporalato, dell’immigrazione, si sono alternate quelle dei giuristi (Bruno Giordano, magistrato in Cassazione, Madia D’Onghia, Università degli Studi di Foggia) e la sottoscritta.
Questo il mio intervento.
Esercizi sul sentimento del diritto: una giurista del lavoro al cospetto del lavoro povero e sfruttato. Per Satnam Singh
Le parole di Alessandro Leogrande – il sociologo tarantino morto prematuramente tanto evocato stasera e di cui tanto sentiamo la mancanza – parole che risuonano nella voce di Fabrizio Saccomanno, benché scritte sulla carta sembrano scolpite nel marmo per quanto sono dure.
Sono parole che ci interpellano.
Che ci interpellano come studiosi, magistrati, avvocati, insegnanti. O, più in generale, come cittadini ma ancor prima, e sempre, come persone, esseri umani.
Perché ci riguardano. Hanno a che fare con la nostra umanità o dis-umanità, con la nostra identità o dis-identità, e così finiscono, fatalmente, per inchiodarci alle nostre responsabilità. Responsabilità, la nostra di giuristi, la mia, in particolare, di giurista del lavoro.
Quella testa staccata dal corpo del migrante di cui ci parla Alessandro, rimanda inevitabilmente al braccio staccato di Satnam Singh, a quel braccio staccato e messo in un cassone della frutta, lo stesso cassone che Satnam Singh riempiva di frutta nell’agropontino e per il quale, dissanguato, è morto.
Queste parole, queste immagini ci inchiodano perché ci costringono, direi quasi in maniera irritante, ad un uscire dalla comfort zone che ognuno di noi si costruisce e nella quale si chiude.
Queste parole così vivide, icastiche, infatti ci sbattono fuori dalla zona d’interesse” per riecheggiare e prendere a prestito il titolo di un film potente che è uscito quest’anno nelle sale cinematografiche.
Sì “Zona di interesse” non è un film sull’Olocausto, come si legge nelle sinossi; è un film che parla di noi, di quella confort zone che siamo capaci di disegnarci attorno, tagliando chirurgicamente il resto, lasciandolo fuori, confort zone che coincide con la nostra casa, ma anche il nostro studio, un’aula giudiziaria o, addirittura, un teatro.
Quella dalla quale è possibile, come fa la protagonista del film, moglie di un generale nazista, concimare i fiori del giardino della sua casa a ridosso di un campo di concentramento con la cenere dei forni crematori, quella casa dalla quale guardare il cielo dove le nuvole si alternano agli sbuffi nerastri che vengono dalle ciminiere di quei forni, quella nella quale organizzare feste per bambini mentre grida belluine arrivano dall’aldilà della siepe…
Quindi a cento metri dall’inferno, il generale esegue semplicemente gli ordini, esegue semplicemente gli ordini, e la moglie semplicemente vive… l’uno e l’atra deresponsabilizzati rispetto a quell’inferno così vicino.
Come nel film in cui non c’è una sola immagine del campo di concentramento, così nelle nostre zone di interesse l’orrore quasi non si vede; nelle nostre case arriva il sonoro, quando arriva.
Arriva dalla televisione accesa all’ora di cena quando ormai scorgono quotidianamente le immagini dei corpi morti di bambini, in guerre, ma la giornata è stata lunga, siamo stanchi e diciamo ai nostri di bambini: “Dai mangia e passami l’acqua”, magari abbassandolo quel volume insopportabile della TV… che lo sguardo lo abbiamo già scostato.
Siamo nella nostra zona di interesse quando scegliamo il miglior bikini da sfoderare mentre ci immergeremo nelle acque di Lampedusa o Cutro… in mezzo, ancora, a corpi morti.
E allora, mi chiedo, quando è successo che siamo diventati così? Quando è successo che sia diventato possibile svegliarsi in un giorno di giugno del 2024 davanti all’orrore di un braccio staccato messo in cassone per la frutta e buttato insieme al corpo di Satnam Singh che infatti è morto dissanguato?
“Volevamo braccia e sono arrivati uomini”… questo si dice di fronte agli immigrati che hanno posto il “problema” della loro identità, delle loro persone ad un Occidente satollo che voleva solo le loro braccia: ma ora il cerchio si chiude, e ci siamo ripresi solo il braccio e buttato anche quello quando, squartato, non serve più.
Ma ancora, mi chiedo se l’orrore che sento, che sentiamo, sarà lo stesso quando ci arriverà la notizia di un altro braccio buttato nel cassone della frutta.
O forse, con il tempo, nella nostra zona di interesse l’asticella dell’orrore si abbassa naturalmente?
Non succede così? Che la nostra capacità stessa di vivere nonostante l’orrore, di vivere dentro l’orrore aumenta via via?
E quale resistenza stiamo mettendo in atto noi giuristi che abbiamo sempre a che fare con parole, terribilmente, di carta e, a volte, altrettanto terribilmente, vuote?
Le parole vuote del Diritto potremmo chiamarle…
Quali fattispecie dovrebbero soccorrerci?
Parlo per i giuslavoristi, dovrebbe forse soccorrerci la fattispecie dello sfruttamento che non è nemmeno regolata, nemmeno tipizzata forse perché impigriti dall’autoevidenza di una fattispecie che io saprei riconoscere, come tutti, ma che non saprei spiegare come dice Sant’Agostino del tempo?
So cos’è ma se qualcuno, magari qualche studente qui dentro, mi chiede di spiegarla non lo so più.
Afasìa del diritto.
Un tema quello dello sfruttamento stretto com’è tra le critiche che vengono da ogni dove, da sinistra e da destra.
Da sinistra, quella sinistra fieramente novecentesca, ci dice che lo sfruttamento è il rapporto stesso di lavoro.
E quindi quale sforzo immaginifico dobbiamo compiere nel tentare una regolazione o una qualche definizione normativa? Sfruttamento è il lavoro stesso.
E, stretto pure, da una critica che viene da destra, per così dire, che dice che il dibattito sullo sfruttamento è da “old school”, di retroguardia.
Insomma, è il capitalismo, bellezza! Adeguati anche come giurista e “Stai nel tuo tempo!” che suona un po' come “stai al posto tuo!”.
E quindi cosa rimane al diritto? Forse lo sforzo di capire se c'è uno sfruttamento fisiologico e uno sfruttamento che fisiologico non è, uno sfruttamento buono e uno quindi che non è buono. Uno sfruttamento tollerabile e uno, no.
E quando si supererebbe la soglia del “tollerabile”?
Quando, per esempio, la retribuzione del lavoratore e della lavoratrice non consente di accedere nemmeno al paniere minimo di beni, o forse la retribuzione, quella dell’art. 36 della Costituzione non deve limitarsi solo a consentire di superare la soglia minima della povertà, come ci dice la recente e tanto discussa giurisprudenza di legittimità sul tema, non deve solo garantire la sopravvivenza ma… la vita.
Questo il dilemma dei giuristi del lavoro.
Poi c’è il dilemma dei gius-penalisti. Questi ultimi, per loro conformazione, talvolta deformazione, devono aderire all'approccio opposto, a quello cioè repressivo e quindi necessariamente più formalistico, l’unico, infatti, che ha tipizzato la fattispecie.
Penso, ovviamente all’art. 603 bis del codice penale che configura una fattispecie che per essere integrata necessita della compresenza di una serie di elementi che non è detto si rintraccino.
E, quindi, quei processi penali spesso finiscono in un nulla di fatto benché sugli stessi incomba il principio di realtà.
Sappiamo che lì c'è sfruttamento, ma evidentemente mancano gli elementi integrativi di una fattispecie difettosa.
Ancora una volta, lo sfruttamento è là: lo vedo, lo tocco, lo sento sulla carne ma le parole del diritto non lo colgono, non lo sentono.
Lo sfruttamento esiste ma il diritto non lo sa dire.
Ma, peraltro, ancor prima di pensare alle condizioni che delimitano la fattispecie penale non dovremmo forse pensare che c'è un problema di precondizione e cioè di accesso alla giustizia?
Gli ultimi, quelli con la testa staccata, il braccio staccato, quei corpi nemmeno rivendicati dalle loro famiglie, dalla loro madre e dal loro padre potranno mai arrivare in un'Aula di Tribunale?
In altre parole, quegli ultimi, ultimi tra gli ultimi, non sanno nemmeno cosa sia la Giustizia, tantomeno sanno come accedervi o hanno la possibilità di accedervi.
Non sappiamo nemmeno se Paola Clemente morta di lavoro in un giorno d'estate nelle campagne pugliesi, abbia avuto una qualche forma di indennizzo. O se quella morte che è morte di fatica, morte di lavoro, non sia considerata alla fine del clamore mediatico, una morte ordinaria, una morte qualunque.
Allora cosa rimane? La rassegnazione? Rinchiudersi nella zona di interesse, concimare i nostri fiori nonostante i fumi nerastri delle ciminiere dei forni crematori là fuori?
Cosa rimane? Chiuderci nei nostri studi, scrivere la nostra sentenza, la nostra meravigliosa monografia, senza che quei corpi ci tocchino, senza che quel braccio mozzato ci schiaffeggi?
Credo sia proprio un fatto di postura, allora. Se siamo comodi sulle nostre sedie, sulle nostre poltrone o divani della zona di interesse, ci abitueremo a tutto.
Le rivoluzioni le si fanno per i vinti … per i morti, dice Alessandro Leogrande, in “Uomini e Caporali”.
È vero. Per dare loro la dignità negata ad un passo da noi. Per dare addirittura un nome a chi non l’ha avuto nel fazzoletto di terra che anche noi occupiamo,
Ma la sia fa anche per i vivi. Per dare un senso alle parole che ogni giorno maneggiamo; al lavoro che facciamo e, più in generale, alle nostre vite e a quelle dei nostri figli, dei ragazzi come tanti questa sera.
Ai tanti lavoratori poveri, sfruttati, nelle campagne della capitanata pugliese o nelle ricche zone del Barolo o delle mele trentine.
Nelle campagne così come nelle strade dove sfrecciano senza sosta uomini e donne con gli zainoni colorati pieni di cibo che consegnano a domicilio specie quando fa freddo o fuori piove.
Occorre stare scomodi sulle sedie, come diceva don Tonino Bello.
E forse solo quella scomodità che può salvarci.
Occorre cioè stare all’erta e metterci la faccia e la voce come Caravaggio nel bellissimo quadro tanto amato da Alessandro che di coraggio ne aveva tantissimo e che vedremo tra qualche minuto.
San Matteo, il cui Martirio è dipinto nel quadro, si converte … sceglie la scomodità… e Caravaggio lo dipinge e fa testimonianza di quella scomodità incarnata nel suo tempo e si auto-ritrae.
San Matteo in uno degli altri due quadri che formano il trittico meraviglioso che sta nella chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma è seduto all’estremità della sedia, scomodo appunto, inquieto.
Come Caravaggio che sbuca, ad un certo punto, dal quadro.
Certo era frequente che il pittore facesse capolino nel suo quadro. Ma vogliamo, oggi, attribuirne anche un senso ulteriore e cioè l’esserci dell’intellettuale, del giurista nelle miserie del suo tempo.
Sia, lo stare qui stasera, il non girarsi dall’altra parte.
Sia lo stare qui esercizio di umanità, pratica del sentimento del diritto, pur nella consapevolezza onesta che deve accompagnarci di essere privilegiati anche per il solo fatto di poterne parlare.
Che sia la scomodità, allora, la postura di noi giuristi in questi tempi in subbuglio e la testimonianza, “il metterci la faccia”, la nostra pratica di coraggio, di esistenza e di resistenza.
Perdonaci Satnam.
Grazie Alessandro.
Immagini: Tomato farm at Bowen, ca. 1930 Farm workers chipping weeds in vegetable rows on a tomato farm at Bowen, via Wikimedia Commons.
Indipendenza ed imparzialità del giudice. Piccole cose che so di loro.
di Giancarlo Montedoro
Ringraziamenti a guisa di premessa: giudice partigiano e giudice asceta
Vorrei ringraziare il Centro internazionale magistrati Luigi Severini per avermi invitato a all’International Forum “High Culture of jurisdiction. Impartiality and quality of the judge”.
Si tratta di un’importante occasione di incontro fra magistrati di diverse nazionalità non solo europee.
Son grato a Paolo Micheli Presidente del centro e Giuseppe Severini e per aver organizzato questo libero confronto e sono lieto di aver potuto aiutare la professoressa Piana nella preparazione del meeting.
Mi piace ricordare che il Centro è dedicato a Luigi Severini che fu giudice e partigiano, figura poliedrica, poi aderente al Partito d’azione e amico di Aldo Capitini un intellettuale quest’ultimo che solo l’odierno deficit di memoria storica non celebra come dovrebbe fra le massime personalità politiche del secolo scorso, credente, non violento, resistente alla maniera crociana, pacifista, libertario, animalista, vegetariano: un Ghandi italiano.
Giudice e partigiano non sono qualità in contrasto se non apparente.
Del giudice si predica l’imparzialità da più parti.
Certo così deve essere il suo lavoro ordinario.
Ma vi sono circostanze storiche nelle quali è il diritto ad essere sotto attacco.
Sono le circostanze storiche tragiche vissute nell’epoca dei totalitarismi, un’epoca nella quale le libertà sono state violate e nella quale la legge è divenuta instrumentum regni.
Allora anche il giudice che ama la libertà può essere chiamato a deporre la toga e fare la sua parte nel conflitto.
Normalmente e fortunamente non è così: la lotta jeringhiana per il diritto si svolge nelle sedi istituzionali.
Perché il diritto è sempre una lotta: ad esempio contro le leggi incostituzionali o i provvedimenti amministrativi illegittimi o – nel mercato – avverso le violazioni della fair competition.
Una perenne lotta – quella alla quale il giudice assiste – dei cittadini e delle imprese per trovare il loro spazio vitale.
Dello Stato per garantirci l’ordine e curare i pubblici interessi domando privati egoismi nella legalità sostanziale.
La giurisdizione è un luogo di calma ritualizzata – uno spazio protetto – che ha – normalmente – il conflitto per oggetto per mediarlo o risolverlo, assegnando ragioni e/o torti.
Quindi il giudice può divenire partigiano proprio e solo per difendere il suo essere giudice e deve sapere che ha il dovere di non esserlo (partigiano) quando la storia – per felici circostanze legate al contesto politico sociale ed istituzionale – gli consente di continuare ad essere giudice indipendente.
L’incontro poi si svolge all’Università per stranieri di Perugia luogo di confronto da sempre fra diverse culture.
Mi piace ricordare che il pluralismo è l’essenza della Costituzione e siamo qui in un luogo che lo celebra, favorendo dalla sua istituzione lo studio, l’educazione e l’apprendimento fra giovani di tutto il mondo.
La premessa del dialogo intessuto dal Centro è la significatività di ogni esperienza giudiziaria e l’intento è, nel mettere a confronto tali esperienze, suscitare una sorta di polifonia, di musica a più voci, che non teme il contrappunto ma se ne avvantaggia per superare l’ignoranza e limitare la fallibilità umana.
Piccole cose come introduzione
Alcune piccole cose che ho appreso – come lezione – negli anni – non pochi ormai – in cui mi è accaduto di fare il giudice.
Prima piccola cosa: la giustizia è fatta di differenti punti di vista.
Il film Rashomon di Akira Kurosawa la simbolizza a sufficienza.
Un boscaiolo, un monaco e un vagabondo si interrogano su una vicenda, l'assassinio di un samurai e lo stupro di sua moglie per mano del bandito Tajômaru, che li ha coinvolti come testimoni. Mentre si susseguono le dichiarazioni dei protagonisti davanti a un tribunale sulla loro versione dei fatti, la verità anziché emergere sembra vieppiù allontanarsi.
In un Giappone ancora dilaniato dai lasciti del dopoguerra, Kurosawa ritorna a un'altra epoca di morte e sofferenza, quel periodo Heian in cui di fronte alla porta del tempio di Rashô non scorrevano che sangue, violenza e frode.
Prendendo spunto dai racconti di Ryûnosuke Akutagawa, Kurosawa riflette sulla natura dell'uomo e sulla sua inclinazione alla menzogna, guidata da un esasperato spirito di autoconservazione. A contare non è mai il senso di verità o di giustizia, ma la salvaguardia del proprio tornaconto e di un miserrimo particulare, tale da portare – è il caso del personaggio del samurai – a mentire anche post mortem pur di difendere il proprio onore.
Ma se questo è già l'apologo originario di Akutagawa, risultato della messa in scena di tre versioni – tutte discordanti e tutte false – della stessa storia, Kurosawa vi aggiunge una nuova valenza, in cui la riflessione si estende a un'ulteriore menzogna, quella dell'immagine e del cinema come suo strumento principe. E le conclusioni di Kurosawa sull’illusorietà del cinema risultano anticipatrici della condizione della verità nell’epoca della civiltà dell’immagine e dei mass media. E anche della verità fornita dal processo dovremmo non scordarci mai che si tratta di verità umana (verità processuale convenzionalmente accettata).
Le versioni dell'assassinio non si limitano ad essere raccontate dai personaggi, infatti, ma sono offerte alla visione del pubblico come se si trattasse di realtà oggettiva e indiscutibile; ciò che si vede dovrebbe tradursi in ciò che è, anziché rivelarsi mutevole nei contenuti e nello stile, ma tutto alla fine risulta illusorio come nel sogno taoista della farfalla.
Il giudice dovrebbe avere consapevolezza della fallibilità della ragione umana e dovrebbe avere confidenza con la logica scientifica popperiana della falsificazione (evitando ogni forma di sacralizzazione della scienza).
Seconda piccola cosa: ogni discorso è situato.
Ciò significa che esistono delle premesse implicite, un complesso di pregiudizi e preferenze, un processo di precomprensioni, una pressione dell’inconscio e delle dinamiche culturali in ogni giudizio.
Enrico Scoditti ha – per questo motivo – kantianamente detto che il giudice dovrebbe essere indipendente innanzi tutto da se stesso.
Questa uscita da sé è un buon metodo, ma alla fine difficilmente attuabile se non impossibile, proponendo un modello di giudice asceta.
Non è facile uscire dalla propria passionalità e nemmeno dal linguaggio che ci forgia, rispetto al quale siamo come mosche in un bicchiere.
Un rimedio – modesto ma efficace – può essere l’onesta consapevolezza di questa realtà pre-razionale pre-logica al fine di domarla per quanto possibile.
Terza piccola cosa: la giustizia è lo sguardo del Terzo.
L’oggetto della giustizia è la lite, il conflitto: esso per essere risolto reclama lo sguardo del Terzo.
La terzietà è l’essenza della giustizia.
Astensione, ricusazione, incompatibilità, conflitti di interessi sono solo meri strumenti per assicurare lo sguardo del Terzo.
Esso – dal punto di vista teologico politico – tiene luogo dello sguardo di un dio o così potrebbe essere figurato da chi ha sempre – perennemente – nostalgia dell’Assoluto.
Judex Deus: un paradosso non desiderabile, per nulla accettabile, connotato da una dismisura (evitata dall’ingiunzione biblica “nolite iuridicare”) da scongiurare lasciando la terzietà giocare con gli eventi, intendendola come forma di attraversamento del dolore e della vita da parte di un uomo (fallibile) fra gli uomini (altrettanto fallibili).
La terzietà produce paradossi, vediamone quindi alcuni.
Il primo paradosso: è miglior giudice chi non vuole giudicare; il giudice riluttante.
Camus ha detto: “non può negarsi, per il momento, che i giudici siano necessari, ma cionondimeno non riesco a comprendere come un uomo possa proporre se stesso per un compito così strabiliante”.
Vi sono alcuni precisi corollari di questa profonda affermazione di Camus:
1) Il giudice che lo diviene per caso potrebbe essere meglio da quello che vuole fortemente diventarlo, maturando ambizioni di successo e carriera.
2) Occorre mantenere e promuovere sempre l’umiltà del giudice come opposto della sua ubris.
3) L’umanesimo è importante.
4) Il modello del giudice asceta è forse impossibile, ma il modello del giudice riluttante nel giudicare (infine prudente) è alla portata di tutti, purché sia temperato da un forte senso del dovere.
Il secondo paradosso: v’è connessione inestricabile fra diritto e violenza; il diritto è anche ritualizzazione della violenza.
Il giudice penitente. Il giudice strumento della violenza.
Lo Stato weberianamente ha il monopolio della violenza.
Esercita violenza legittima, ma in un perenne “ritorno del rimosso” può veder di nuovo l violenza dominare la scena (è accaduto nelle esperienze totalitarie).
Basta pensare a Kafka ed al suo “Il processo”[1] o ancora a Camus ed al suo “La caduta”[2] Antoine Garapon ha studiato – nel saggio Del giudicare – l’Archeologia della scena giudiziaria (pp. 173-200): il rituale, il rapporto fra scena, teatro e processo che raffredda e legittima la violenza (specie nel processo penale).
Su tale analisi si è rilevato da parte di Daniela Bifulco, nell’introduzione del libro, che nel soffermarsi sulle origini religiose del giudizio nella civiltà occidentale, Garapon si mostra ben consapevole di tale raddoppiamento-spostamento rituale della violenza (analizzato soprattutto dagli studi di Girard sul capro espiatorio), che, continuando a funzionare nella sfera secolarizzata del politico, rischia di mettere tra parentesi il concetto razionale di responsabilità giuridica individuale – l’unico ad aver cacciato dai tribunali moderni la brutalità dell’ordalia e del giudizio di Dio, con il ritorno di una perenne sproporzione fra accusatore ed accusato.
In questo teatro il giudice – col suo corpo togato e seppure in maniera inconscia e/o velata dall’ascetica professionale – incarna, più che l’imparzialità del Terzo (cfr. pp. 83-86), l’assurda – kafkiana – superiorità della Legge rispetto all’accusato (cfr. p. 67), il suo spettacolare potere di condanna non sembra molto distante dalle “antiche trame ordaliche e dall’ambivalenza del sacro” (dalla Prefazione di D. Bifulco, p. XVII).
Siamo cioè di fronte al paradosso per cui la violenza processuale, che in quanto forza e autorità (cfr. in tedesco l’asse semantico Gewalt > Macht) pretende di fondare la democrazia e lo stato di diritto ovvero la trasparenza della responsabilità giuridica, può essere solo teatralmente – dunque tragicamente e mai del tutto sostanzialmente a meno che non si affronti il problema dei fini e dei valori (che pure a sua volta è contraddistinto dalla lotta) – distinta dall’altra violenza pre- o infra-giuridica, che, etichettata come ‘crimine’ minaccia la comunità: in fondo, si tratta della stessa violenza, che solo il rituale giudiziario, con le sue maschere e la sua differenziazione dei ruoli, permette di trasformare in qualcosa di lecito e giusto, dunque di democratico (ove la democrazia venga intesa come dominio della maggioranza e non come democrazia costituzionale sostanziale).
In questo quadro può ricordarsi anche che l’origine hobbesiana dello Stato si radica sulla violenza delle guerre religiose e che il diritto fiorisce nello spazio della loro sospensione come è ben noto a tutti gli studiosi dello ius publicum europaeum.
Il nesso hobbesiano conflitto – violenza – forza – diritto è costitutivo dell’esperienza giuridica e la dialettica fra queste componenti viene costantemente a riproporsi nella storia sia pure senza una direzione predeterminata da alcuna filosofia.
Agli albori dell’esperienza totalitaria del nazismo W. Benjamin scrive sulla critica della violenza.
Il testo propone il problema se in generale e in linea di principio sia morale la violenza in sé come mezzo per realizzare fini giusti.
Ivi si legge: “il potere conservatore del diritto è anche potere che minaccia.
E la sua minaccia non ha il senso dell’intimidazione, come l’interpretano teorici liberali mal istruiti. All’intimidazione in senso proprio appartiene una determinatezza che contraddice l’essenza della minaccia e che nessuna legge raggiunge, dato che si spera sempre di farla franca. La legge appare tanto più minacciosa quanto più assomiglia al destino, da cui ultimamente dipende se il delinquente incorre nei suoi rigori. Il senso più profondo della minaccia giuridica si dischiude solo nella successiva analisi della sfera del destino, da cui emerge. Un valido riferimento ad essa si trova nel campo delle pene. Tra le quali, da quando è stato messo in questione il valore del diritto positivo, la pena di morte è quella che ha più di ogni altra suscitato critiche... se il diritto origina dalla violenza – dalla violenza coronata dal destino – è lecito supporre che al livello massimo di potere, quella cioè sulla vita e sulla morte, là dove esso entra a far parte dell’ordinamento giuridico, le sue origini affiorino ben rappresentate e si manifestino paurosamente proprio nella realtà attuale”.
Il diritto si può fare strumento della violenza nella storia, come nell’epoca del totalitarismo ed il giudice può essere cieco strumento della violenza.
Profetico– tenuto conto dell’atmosfera che si respirava all’epoca dell’avvento del nazismo – è quanto Benjamin scrive del puro potere della polizia anche in situazioni dove c’è la polizia senza il bilanciamento del giudice[3].
Le conclusioni del saggio sono pessimistiche:
“il diritto appare in una luce morale tanto equivoca che sorge spontanea la domanda se, per regolare i conflitti di interesse tra uomini, non vi siano altri mezzi che violenti.”
Il terzo paradosso: Costituzionalismo e dimensione del sacro. Le basi morali della Rule of Law.
Si tratta del dilemma di Bökenförde:
«Lo stato liberale secolarizzato si fonda su presupposti che esso stesso non è in grado di garantire. Questo è il grande rischio che si è assunto per amore della libertà. Da una parte, esso può esistere come stato liberale solo se la libertà che garantisce ai suoi cittadini è disciplinata dall'interno, vale a dire a partire dalla sostanza morale del singolo individuo e dall'omogeneità della società. D'altro canto, se lo Stato cerca di garantire da sé queste forze regolatrici interne attraverso i mezzi della coercizione giuridica e del comando autoritativo, esso rinuncia alla propria liberalità e ricade – su un piano secolarizzato – in quella stessa istanza di totalità da cui si era tolto con le guerre civili confessionali»
(Staat, Gesellschaft, Freiheit, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1976, p. 60).
La secolarizzazione ha due volti: uno virtuoso ossia la fine della legittimazione a divinis del potere (fenomeno visto da Lowith in chiave storicistica, da Blumenberg senza una consolazione ma confidando nella forza dell’illuminismo) ed uno insidioso ossia l’approdo nichilistico della società che perde ogni cifra di trascendenza (plurale non necessariamente monista) e di capacità di speranza (Schmitt, Bloch da prospettive diverse se non opposte come quella della reazione conservatrice e del messianismo marxista).
È quel che accade con la versione minima, debole, procedurale della Rule of Law.
Con il contesto della cooperazione europea e globale sul piano economico che consente all’economico di dominare il politico, nella produzione della lex mercatoria.
Tanto che attualmente potrebbe predicarsi del liberalismo quello che una volta di diceva del socialismo: occorre distinguere il liberalismo ideale (ad esempio quello di Croce che relegava l’economia ad uno stadio non elevato dello sviluppo dello spirito) e quello reale che invece ha sposato o spesso rischia di sposare una logica inversa nel rapporto economia – politica – cultura.
Questo spiega il declino del costituzionalismo, anche in UE [4].
Sullo sfondo del ritorno di conflitti bellici (che speriamo cedano al più presto il posto a percorsi di pace) e di una generale svalutazione della vita umana (indotta da problemi demografici ed ambientali).
Un mondo senza alcuna dimensione sacrale del diritto (un mondo nichilistico in cui tutto è negoziabile) è esposto a crisi continue e resta spaesato e senza speranza.
Le divisioni tradizionali fra sfera pubblica sfera privata non funzionano più perché il loro presupposto era comunque un residuo sacrale del “politico”.[5]
E ci chiede se il fondamento della costituzione debba continuare ad essere visto nel contratto (come nella tradizione hobbesiano – lockeano – rousseauiana) sempre rivedibile con operazioni estenuate di ingegneria costituzionale o nel senso morale dell’individuo ossia nella sua capacità di essere libero (messa a rischio dalla rivoluzione digitale) anche scegliendo tragicamente fra valori differenti[6].
Ma sempre nel levinassiano senso dell’Altro come scaturigine dell’Ethos.
In che senso può operare il sacro?
Tema complesso ovviamente. Tocca il rapporto religione politica.
Al giurista è consentito volare più basso.
Il sacro opera come limite, come coscienza del limite.[7]
Tolstoj sovviene: “Se riesci a provare dolore sei vivo. Se riesci a sentire il dolore degli altri sei umano...”.
Può aggiungersi se senti la sofferenza della creazione come nelle encicliche che Papa Francesco ha dedicato al tema del rispetto della Natura, oggi oggetto della complessa attuazione costituzionale degli articoli 9 e 41 nuovo testo allora sei un uomo che si sente parte della creazione e sei un uomo felice.
Con le parole di Rilke, sentiamo di poter dire:
“Si cominciò a capire la natura quando non la si capì più”.
Il senso del limite, la immedesimazione nel dolore, restando terzi e ascoltando le voci degli altri: la professione del giudizio è tutta qui.
[1] Il protagonista del romanzo, Josef K., è impiegato come procuratore presso un istituto bancario. Una mattina, due uomini a lui sconosciuti si presentano presso la sua abitazione, dichiarandolo in arresto, senza tuttavia porlo in stato di detenzione. K. scopre così di essere imputato in un processo. Pensando ad un errore, decide di intervenire con tempestività per risolvere quello che ritiene essere uno spiacevole (ma temporaneo) malinteso.
Ben presto, K. si rende conto che il processo intentato nei suoi confronti è effettivamente in corso. K. tenta inizialmente di affrontare la macchina processuale con la logica e il pragmatismo che gli derivano dal suo lavoro presso la banca. Tuttavia, tempi e modalità di svolgimento del processo, né altri aspetti del suo funzionamento, non vengono mai pienamente rivelati all'imputato, neppure nel corso della sua deposizione presso il tribunale. A K. non verrà mai comunicato il capo di imputazione che pende su di lui.
Dietro consiglio dello zio, K. affida a un avvocato il mandato di difenderlo. Pur rassicurando K. in merito all'impegno profuso per il suo caso, l'avvocato pare tuttavia procedere con la medesima opacità che è propria del tribunale, mettendo in atto iniziative la cui efficacia K. non è in grado di valutare appieno. K. decide infine di rimuovere il mandato all'avvocato, a dispetto del tentativo di dissuasione da parte dello stesso legale difensore. K. entrerà anche in contatto con un pittore, Titorelli, che sembrerà prodigarsi a suo vantaggio, anche in questo caso però senza effetti tangibili.
Questa rinuncia alla difesa prelude all'epilogo della vicenda. Josef K. viene infatti prelevato da due agenti del tribunale e condotto in una cava, dove viene giustiziato con una coltellata. K. muore in conseguenza di una condanna inflittagli da un tribunale che non lo ha mai informato in merito alla natura delle accuse a suo carico, e che non gli ha mai fornito alcun riferimento per attuare una vera difesa.
[2] Il protagonista della Caduta è Jean-Baptiste Clamence è un brillante avvocato parigino, una persona dedita al benessere degli altri che si prodiga in innumerevoli buone azioni che lo rendono un uomo stimato dalla maggior parte dei suoi conoscenti. Durante un lungo monologo (o dialogo, che egli intrattiene con un ascoltatore cui non cede mai la parola e che può essere identificato con il lettore stesso), Clamence si rende conto che la sua vita è in realtà incentrata su se stesso, sul proprio egocentrismo e sul senso di superiorità nei confronti di chiunque che lo pervade.
Inoltre, mentre in pubblico mostra una maschera di virtù, in privato è un uomo dedito alla ripetizione continua e frustrata dei più disparati piaceri, dall'alcol alle donne. Resosi così conto della fondamentale duplicità della sua esistenza e della sua persona, decide di abbandonare la professione e di trasferirsi ad Amsterdam, facendo del bar Mexico City il suo nuovo "studio".
In quel luogo, egli cerca di far confessare e redimere i suoi uditori, assumendo il ruolo di profeta, pur essendo ben consapevole di essere un falso profeta, portando così le persone a provare ogni sorta di colpevolezza. La sua nuova condotta, però, non è un caso esemplare di redenzione, ma appunto una caduta, poiché Clamence ha invero abbandonato la maschera di duplicità che si era reso conto di indossare: ciò non avviene rendendosi migliore, bensì abbandonando quella compassione di facciata che lo aveva contraddistinto in precedenza, annullando in questo modo quei valori che riescono a tenere insieme la società basata sulle apparenze additata dallo scrittore.
Il nocciolo della nuova filosofia di vita del protagonista al Mexico City è quello del giudice-penitente. Essa consiste nel confessare a chiunque le proprie colpe (vere o fittizie), in modo da costringere l'ascoltatore a pensare di aver commesso egli stesso le medesime colpe: in questo modo, accusando se stesso, riesce a rendere colpevole l'umanità intera; ecco quindi che, partendo dalla posizione di penitente, egli diventa giudice.
[3] La polizia interviene “per ragioni di sicurezza” in numerosi casi in cui non sussiste una situazione giuridica chiara, quando non accompagna il cittadino come brutale vessazione senza alcun rapporto con fini giuridici attraverso una vita regolata da ordinanze o addirittura non lo sorveglia.
Al contrario del diritto, che riconosce nella “decisione” spaziotemporale precisamente determinata hic et nunc una categoria metafisica, attraverso cui si espone alla critica, il trattamento dell’istituto poliziesco non incontra nulla di sostanziale. Il suo potere è informe come la sua presenza spettrale, inafferrabile e diffusa per ogni dove nella vita degli stati civilizzati.
Anche se nei dettagli la polizia sembra dappertutto uguale, non si può alla fine misconoscere che il suo spirito è meno devastante là dove rappresenta, come nella monarchia assoluta, il potere del sovrano, dove confluiscono pienamente il potere legislativo ed esecutivo, rispetto alle democrazie, dove la sua presenza, non sostenuta da un simile rapporto, testimonia la massima degenerazione pensabile del potere.
[4] An increasing number of scholars have begun to express heightened concerns about the decline of constitutionalism in the context of the euro crisis management. For example, Agustín Menéndez has documented the breadth of the European Union’s ‘constitutional mutation’, warning that ‘the breakdown of constitutional law will result in the mid- or long-run in the breakdown of the Social and Democratic Rechtsstaat’. Gunnar Beck cautions that the recent euro crisis adjudication in the European and national courts has allowed a bending of the rules to suit the executive to the extent that ‘the Rechtsstaat is effectively suspended’.
The prevailing theories in Italy, as summarised by Andrea Simoncini, are that the euro crisis measures have accelerated a ‘decline of European constitutionalism’, with constitutions ‘destined to be obsolete’ in ‘the present age [that is] no longer the age of constitutions’.
A small but growing number of scholars have even expressed concern about the EU having taken an authoritarian turn in the euro crisis governance. Christian Joerges and Maria Weimer have cautioned against the entrenchment of ‘authoritarian executive managerialism’11 that ‘threatens to discredit the idea of the rule of law and its intrinsic linkages to democratic rule’.
Alexander Somek finds that in the EU’s euro crisis management, ‘formal legal constraints are bent in order to accommodate necessities’; he is concerned that this has led to ‘authoritarian liberalism’ and ‘loss of political agency’, with the executive branch gaining power, as the constraints on governance are economic.
Michael Wilkinson, also describing the EU crisis governance as ‘authoritarian liberalism’, has observed a process of ‘de-democratisation’, ‘de-legalisation’ and the overriding of Europe’s constitutional law with market teleology.
Altri riferimenti in Albi, Anneli; Bardutzky, Samo. National Constitutions in European and Global Governance: Democracy, Rights, the Rule of Law: National Reports (English Edition) (pp.33-34). T.M.C. Asser Press. Edizione del Kindle.
[5] Cfr. G. Preterossi, Teologia politica e diritto, Bari Roma 2022.
[6] In tal senso vi sono illuminanti spunti nella lezione di Capograssi ripresa giustamente da V, Caputi Iambrenghi in Libertà e Autorità volumi I e II Napoli, 2021.
[7] È quanto mostra Garimberti ne L’etica del viandante, Milano, 2023 che sposa un politeisimo neopagano che per il giurista rispettoso della Carta fondamentale diviene pluralismo non nichilistico dei valori.
Immagine: Paul Cézanne, Natura morta con caraffa, bicchiere e mele, olio su tela, circa 1877, H. O. Havemeyer Collection, Bequest of Mrs. H. O. Havemeyer, 1929, Metropolitan Museum of Art, New York.
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