ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il recente volume, curato da Maria Martello, con contributi di Roberto Bartoli, Pietro Bovati, Luciana Breggia, Tommaso Greco, Letizia Tomassone, pubblicato da Giappichelli, è suddiviso in due parti ed è il frutto di un lungo percorso di lavoro, fatto di studi, di riflessioni, di intrecci tra saperi diversi e di proposte sulla mediazione dei conflitti. Un libro denso, che non dà niente per scontato e assodato, che è pieno di tante domande sul ruolo, sulla funzione, sul presente e sul futuro della mediazione, ma anche di tante risposte sulle modalità in cui sanare i conflitti e sul valore umano della mediazione perché “mediare un conflitto non significa… semplicemente pervenire ad un accordo fra le parti ma permettere alle stesse parti in lite di scoprire le ragioni profonde dei propri comportamenti”.
La prima parte, di cui è interamente autrice la stessa Martello, affronta, pur mantenendo la mediazione come unico baricentro, diverse tematiche che vanno dalla spiegazione di cosa si intenda per mediazione ai nuovi orizzonti della crescita umana, dalla precarietà delle relazioni, tra libertà e autonomia, all’impossibilità di vivere con e senza l’altro, dal percorso di formazione alle chiavi del mediatore, per citarne solo alcuni.
Per Maria Martello, la mediazione per la risoluzione dei conflitti rappresenta una “evoluzione delle risposte al bisogno di giustizia dell’uomo per una nuova solidarietà umana, a partire dal dialogo costruttivo tra scienze diverse”. E se, “con la riforma della giustizia, la mediazione è la novità del nostro tempo… essa a pieno titolo rientra nel cambiamento epocale che in tanti ambiti si sta imponendo”. Per questo, merita “di divenire oggetto di studi, di riflessioni e di dibattito che coinvolga sia tutta la società civile sia la comunità scientifica. Ciò nell’urgenza di evitare che la sua introduzione mini le basi della risposta giudiziaria senza di fatto predisporre una alternativa di valore, compresa e vissuta come evolutiva”.
Certa che “la mediazione il senso ce l’abbia”, ed è quello riparativo e rigenerativo, la nostra autrice ribadisce che essa “va riconosciuta e rilanciata all’interno della riforma della giustizia e non va assolutamente tradita”.
La mediazione può avere l’effetto rigenerativo, di cui parla Marta Cartabia, solo quando la sua applicazione consente a chi è stato “ingiusto” di tornare “giusto”. Altrimenti, rappresenta “una promessa mancata. Una ipotesi di facciata. Vuota e svuotata. Che forse vale meno della risposta giudiziaria al conflitto”. Occorre – afferma Maria Martello – “andare a fondo” della questione “per non farla andare a fondo”. Occorre delineare “il senso dell’istituto della mediazione che ne definisca la visione unitaria e che sia presupposto per le applicazioni plurali in cui ne esprime le potenzialità”. Occorre riconoscere la giustizia quale “un’esigenza primaria della persona, come lo è il diritto alla salute, alla vita e all’istruzione, alla serenità nei rapporti”. Il mediatore professionale è una figura nuova per il nostro ordinamento giudiziario: non è un giudice, o un avvocato, è, invece, un professionista competente, un umanista che mira ad aiutare “le persone” a raggiungere un accordo. Più precisamente, è una figura che mantiene l’imparzialità del giudice, ma non è tenuto a decidere al posto delle parti, in base ai principi del diritto. La sua funzione è quella di aiutare le parti a raggiungere un accordo, da loro condiviso e accettato.
“Ragionevolmente – scrive Maria Martello - si può essere certi che la mediazione, prendendosi cura dell’uomo, sia la risposta più radicale, e forse risolutiva del problema Giustizia, che migliori la società costruendo le basi di un nuovo umanesimo, su un piano vicino ai valori più alti dell’uomo”. In questa accezione, non è una alternativa, tra le tante, ma una necessità che risponde a una richiesta profonda di umanizzazione della giustizia che nulla ha a che fare con la vendetta e che mira a “instaurare equilibri nuovi e superiori”. Non a caso, Maria Martello utilizza la metafora del porto e della “via di pace” per definire la potenza della mediazione: “è un porto dove le persone arrivano, trovano ristoro e poi partono. È una proposta che è esito di fecondi intrecci e sperimentazioni. … È una via di pace non solo perché volta alla soluzione del conflitto con un accordo ma perché fa toccare le emozioni alla base del problema che contrappone le parti, le fa riconoscere e governare attraverso l’empatia e la compassione, ovvero l’accoglienza del dolore… Il diritto riduce a fattispecie normative la varietà dei casi che si possono presentare nel concreto e le congela in ipotesi astratte. Questo non avviene in mediazione. Qui diventa centrale la diversa rilevanza dei vissuti personali in relazione ai comportamenti delle parti in lite, non tanto l’oggetto del contendere”.
Nel volume, a questa prima parte, corposa, profonda, ricca di indicazioni e di rigorose e illuminanti metafore, segue una seconda parte in cui vengono analizzate le radici filosofiche, spirituali, teologiche che stanno alla base e ispirano il senso profondo della mediazione e che ne giustificano “il valore e lo sforzo della sua realizzazione”. Una teologia della riconciliazione - per usare il titolo di un paragrafo del saggio di Letizia Tomassone - e una spiritualità materiale fatta di contatti fisici, di pianti, di abbracci che ti avvicinano all’altro e si rivelano essenziali sul piano identitario.
Partendo dalla riscoperta di alcune figure femminili sapienziali che aiutano il contendente con maggior potere a capire le ragioni dell’altro e a tornare a vederlo come una persona, a vederne il volto e il nome, Letizia Tomassone scrive che “sia nei testi biblici che nelle storie più recenti tra chiese, vi è la presenza dei corpi e il coinvolgimento profondo delle vite. Le persone che intraprendono un percorso di pace e di dialogo si trovano a dover faticare e piangere, a mettersi in ginocchio davanti all’altro e a chiedere perdono, a cercare e offrire l’abbraccio o il tocco empatico necessario a riconoscere l’umanità dell’altro, dell’altra”. La mediazione è, pertanto, una questione di corpi che si toccano fisicamente, che allargano le braccia per abbracciare e essere abbracciati in maniera totalizzante ed emozionante. “E in mezzo a questa fatica della consapevolezza e del perdono scambiato c’è la gioia di edificare un nuovo spazio per la coesistenza delle comunità umane. L’altro non può essere ignorato, anzi diventa essenziale per la mia stessa identità”.
Perdono e riconciliazione, “giustizia dei fratelli”, “non giudizio di Dio” sono le parole e i concetti ricorrenti nel saggio di Pietro Bovati. “Perdono e riconciliazione - scrive - non vanno riconosciuti solamente nel Signore Gesù, ma dev(ono) invece ispirare e disciplinare la condotta di coloro che vogliono essere seguaci di Gesù, desiderosi di attuare piena giustizia nei confronti dei fratelli che hanno commesso qualche colpa, cercando di riportare all’ovile chi si è perduto, perdonando settanta volte sette (Mt 18,21-22)”. E questo deve avvenire non solo nella prassi liturgica e sacramentale, ma deve “trovare concretezza nella prassi giuridica e nei provvedimenti sociali, indirizzati a favore di chi è stato riconosciuto colpevole” perché costui rimane sempre un fratello, e “per il cristiano l’amore che cerca la riconciliazione non può compiacersi della sua condanna, ma deve esplorare e trovare le vie per aiutarlo nel suo personale ritorno al bene, così che venga restituito nella sua dignità di cittadino, anzi di figlio di Dio, di fratello tra fratelli. Questa strada è stata da qualche tempo intrapresa lodevolmente dalle iniziative di giustizia riparativa e in generale dalla mediazione”. Certo, si tratta, come sottolinea Bovati, di un percorso ancora lungo, irto di intoppi, che richiede “saggezza e tenacia” ma rappresenta una meta da ambire e da raggiungere.
Secondo Tommaso Greco, la mediazione rappresenta una “grande occasione che i nostri ordinamenti giuridici possono cogliere se prendono sul serio il fenomeno… della mediazione e della riparazione”.
“Perché - scrive - siamo abituati a pensare alle regole, e al diritto in generale, come ad un qualcosa che ci serve sostanzialmente per tenerci separati dagli altri e molto spesso per attaccarli o per difenderci da loro, e invece ci troviamo davanti alla possibilità di ripensare in maniera straordinaria, non solo la funzione, ma persino la natura del diritto e questa possibilità”. Il fatto è che “non riusciamo a capire che la giustizia, pur essendo rappresentata da una dea bendata, non può rinunciare a vedere l’altro, perché è esattamente dalla qualità dell’incontro che si verifica tra i protagonisti della relazione che passa la possibilità della sua realizzazione”.
Sulla necessità di un rapporto con gli altri saperi e sull’urgenza di superare la lunga “stagione dello smarrimento” e dei confini insiste Luciana Breggia.
Quale, se non “smarrimento”, il concetto per definire “la situazione in cui si trovano tutti coloro che in modo professionale – avvocati, giudici, funzionari di cancelleria, professionisti – o casuale – le parti, i testimoni e così via – si trovano ad abitare le stanze della giustizia”? Annaspano, tutti, tra frammenti, tra faldoni che alzano muri, che costruiscono barriere e che delineano confini. Occorre aprirsi ad altri saperi e trasformare lo smarrimento in un dono. “La stagione dello smarrimento potrebbe essere il tempo dell’inizio di nuove strade da percorrere, magari inaspettate e belle”.
Già l’esperienza della conciliazione giudiziale aveva aperto un buon varco e passando da lì si era arrivati a “un mondo altro”, quello della mediazione. “Certo, - scrive Breggia - questo ha comportato uno spaesamento per chi si era formato sul modello autoritativo”, ma, è dallo spaesamento, dall’uscita dalla propria cultura “che si deve passare” per uscirne arricchiti e tornare dopo aver acquisito una comprensione più larga e profonda. “L’introduzione della mediazione – continua Breggia - come sistema generale di gestione dei conflitti aventi ad oggetto diritti disponibili, ad opera del d.lgs. n. 28/2010, ha comportato in realtà un duplice movimento. Da un lato si è assistito a una sorta di scatto di orgoglio (o di potere?) da parte della magistratura e alla riscoperta della conciliazione giudiziale, ben poco utilizzata fino a quel punto. Dall’altro, lo stesso percorso giudiziario ne è rimasto contaminato, arricchendosi di una prospettiva psicologica, comunicativa ed emotiva”.
Una prospettiva psicologica ed emozionale che può comportare un nuovo paradigma, quello della giustizia riparativa, priva di violenza e che rappresenta, per Roberto Bartoli, un’antitesi alla giustizia punitiva.
“Si deve avere il coraggio - spiega - di mettere a confronto in termini sostanziali la giustizia punitiva e quella riparativa con i capisaldi rappresentati dall’eguaglianza, dal personalismo e dalla rieducazione: il quadro che ne esce non può non far riflettere… ci dobbiamo chiedere se davvero (la giustizia punitiva) faccia in modo che tutti i cittadini abbiano parità sociale; se davvero attraverso la giustizia punitiva la Repubblica rimuove gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti alla vita del Paese. La risposta, che è sotto gli occhi di tutti, non può che essere negativa. Certo, l’autore non può essere messo sullo stesso piano della vittima, ci mancherebbe: si violerebbe il principio di eguaglianza, visto che l’autore deve essere trattato in modo diverso dalla vittima”. Ma è davvero giusto sbattere l’autore in prima pagina, distruggerlo a tutti i livelli, segnarlo con un marchio d’infamia, scandagliare la sua vita con una lente di ingrandimento al fine di deprezzarlo, di farlo a pezzi, di sfinirlo e di stenderlo a terra? “Dalla complessiva vicenda punitiva, soprattutto se a carattere carcerario, l’autore - sottolinea Bartoli - esce mortificato, umiliato, marchiato, svilito e quindi necessariamente discriminato”. Per non parlare di “quanto contrastino con l’eguaglianza i sistemi preventivi basati sui concetti di pericolosità: … i destinatari delle misure di prevenzione vanno incontro a limitazioni di diritti fondamentali come la libertà di circolazione, pur non avendo commesso alcun fatto di reato.”
E allora perché non stabilire un rapporto di complementarietà tra la giustizia punitiva e la giustizia riparativa? Una complementarietà “da intendersi nel senso etimologico del termine, non solo come aggiunta dell’una all’altra, ma anche come completamento: la giustizia punitiva, che costituisce la base, può essere completata dalla giustizia riparativa”.
Anche Natoli, nella sua premessa, insiste su questo aspetto e sulla necessità “che muti la logica della giustizia; vale a dire si passi da una concezione retributiva a quella riparativa: passiva la prima, attiva la seconda perché rende i soggetti titolari del loro cambiamento”. La mediazione non mira solo alla conciliazione: “non si limita a sanare la lite – in base e reciproche convenienze – ma tende a individuare le ragioni scatenanti il conflitto – individuali sociali -; mira alla pacificazione che vuol dire accettazione dell’altro ed insieme dei propri limiti il cui disconoscimento o ignoranza è matrice di ogni prevaricazione”. Certo, viviamo in una società conflittuale che si nutre di conflitti familiari, sociali, economici; una società dove sembra essersi smarrita la capacità di governare gli istinti, le liti, i conflitti. Forse l’educazione alla mediazione, come sostiene Maria Martello, potrebbe rappresentare un varco per cambiare mentalità, per costruire un nuovo umanesimo e potrebbe contribuire a meglio leggere e affrontare i conflitti che attraversano la società contemporanea nel suo complesso.
L’esperienza, però, ha dimostrato che le parti, in alcuni casi di mediazione, preoccupate di dire qualcosa di sbagliato e di controproducente delegano a raccontare il proprio legale, vanificando in questo modo la possibilità di raggiungere un accordo. L’educazione alla mediazione, allora, potrebbe fornire alle parti la familiarità con l'istituto che potrebbe essere scelto consapevolmente, rispetto al giudizio davanti al Giudice, perché le parti potrebbero dialogare liberamente con il mediatore ed esporre tutte le proprie esigenze e i propri bisogni nella relazione con la controparte. Non solo, l’educazione alla mediazione potrebbe far comprendere bene il ruolo del mediatore, che nulla impone e nulla giudica, ma che, essendo competente, riuscirà a stabilire un accordo tra le parti, senza alcuna forzatura.
Com’è noto, parecchie sono le critiche mosse, soprattutto da parte degli avvocati, al nuovo istituto che vanno dai dubbi di incostituzionalità, alle difficoltà pratiche di attivare gli organismi, dalla scarsa tutela dei confini professionali al pericolo di intaccare interessi e diritti di categoria. Tuttavia, dal momento che la mediazione è stata riconosciuta e legittimata, gli avvocati, pur avanzando dubbi e pur sottolineando alcune criticità, hanno dichiarato che rispetteranno la legge e metteranno a disposizione le loro competenze nella mediazione.
Certo si tratta – come dichiara Maria Martello - di “un paradigma nuovo, delicato, complesso, degno di ogni impegno” e che può suscitare remore e resistenze. Ma la mediazione, andando oltre le regole processuali, “prendendosi cura dell’uomo, è la risposta più radicale, e forse risolutiva del problema Giustizia, migliora la società costruendo le basi di un nuovo umanesimo, su un piano vicino ai valori più alti dell’uomo”. Peraltro, mediazione e processo potrebbero stabilire una civile e proficua convivenza perché la prima potrebbe far diminuire il contenzioso e realizzare una giustizia più veloce, più funzionale, più economica e a cui un più largo numero di persone, anche socialmente disagiate, potrebbe accostarsi e il secondo, cioè il processo, una volta fondato su più solide basi, potrebbe favorire, quando le parti ricorrono alla mediazione, il raggiungimento di accordi più giusti ed equi.
Il senso della mediazione dei conflitti. Tra diritto, filosofia e teologia, Giappichelli, Torino 2024, pag. 224.
Questo contributo è parte dell'approfondimento in tema di infortuni inaugurato su questa Rivista il 1° marzo 2024 (v. L'emergenza nazionale degli infortuni sul lavoro e la risposta delle istituzioni: uno sguardo di insieme di Maria Laura Paesano, Le indagini in materia antinfortunistica e la sensibilità del pubblico ministero di Giuseppe De Falco, Controlli amministrativi e sanitari. Il contrasto agli infortuni in via preventiva di Francesco Agnino, Alla ricerca del reale garante del rischio lavorativo nelle imprese individuali di Lorenzo Gestri).
Sommario: 1. Infortuni sul lavoro e pubblica amministrazione: principi generali - 2. La nozione di datore di lavoro nell’ambito della P.A. – 3. I caratteri del datore di lavoro pubblico – 4. La posizione della giurisprudenza di legittimità - 5. Infortuni sul lavoro e responsabilità del Sindaco.
1. Infortuni sul lavoro e pubblica amministrazione: principi generali.
Indispensabile premessa metodologica è quella afferente alla esigenza di distinguere rectius l'attività produttiva d'impresa (privata e pubblica), garantita dall'art. 41 Cost., dall'attività amministrativa della pubblica amministrazione, prevista dall'art. 97 Cost.
Nel primo caso, il datore di lavoro deve disporre ex se per legge - se vuol esercitare lecitamente l'attività d'impresa (art. 41, co. 2°, Cost.) - di mezzi adeguati allo scopo. (13) E devono essere contemplati tra i mezzi adeguati anche gli oneri della sicurezza sul lavoro, i quali vanno considerati nell'ambito della dinamica dei costi di produzione alla pari degli altri costi dei fattori produttivi, non potendo essi rappresentare elementi esogeni, bensì costituendo elementi endogeni alla produzione, come lo sono invero tutti i costi di produzione. Costi, che, in una struttura produttiva correttamente impostata, vanno ad essere iscritti nel bilancio di esercizio tra le passività (artt. 2424 e 2425 c.c.), non gravando dunque sull'utile d'azienda.
Più specificamente, l'art. 41 Cost., dopo aver sancito, al comma primo, che "L'iniziativa economica privata è libera", al secondo, ha subito precisato che "Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana". Per altro verso, già l'art. 35, in apertura della nostra c.d. Costituzione economica, statuisce che "La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni", ergo non potrà mai darsi che l'attività lucrativa d'impresa possa andare a detrimento della salute e della sicurezza del lavoratore, in quanto il profitto non può essere costruito a scapito della sicurezza sul lavoro.
Del tutto diverso è invece il ragionamento da farsi per l'attività amministrativa della P.A. esplicata dagli uffici pubblici ai sensi dell'art. 97 Cost.
In tale ipotesi, non c'è alcuna ricerca del profitto o, comunque sia, di un'attività lucrativa, bensì il semplice esercizio di funzioni o servizi pubblici, nel cotesto di una organizzazione burocratica di diritto pubblico, ispirata dai principi di legalità, imparzialità e buon andamento, sottoposta a precisi vincoli gestionali e di spesa pubblica.
Lo Stato e gli enti pubblici autarchici (o istituzionali) non sono tenuti per legge a disporre di mezzi illimitati per esercitare i poteri attribuiti, sussistendo i pregnanti condizionamenti della finanza pubblica, derivanti dai principi della legalità dell'imposizione (art. 23 Cost.) e della parametrazione del prelievo fiscale alla capacità contributiva dei consociati (art. 53 Cost.), nonché dal vincolo della necessaria copertura della spesa a mezzo del bilancio pubblico (art. 81, co. 3° e 4°, Cost.).
Più specificamente, l'art. 53, comma 1, Cost. prevede che "Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva". La capacità contributiva è da intendersi come parametro di riferimento fondamentale per l'impostazione dell'intero sistema tributario che, come precisato dal comma 2, "è informato a criteri di progressività". È dunque evidente che la finanza pubblica sia in gran parte condizionata dalla concreta "capacità contributiva" dei consociati ancorata ai guadagni ed alla capacità economica esprimibile in un determinato tempo e, quindi, collegata, quale variabile dipendente, al sistema produttivo del Paese.
A sua volta, è il legislatore a stabilire, con la legge di bilancio e con le altre forme previste dalla legislazione sulla contabilità e la finanza pubblica (l. 31 dicembre 2009 n. 196), le risorse di dotazione per la pubblica amministrazione, che è tenuta ad agire nei limiti dei finanziamenti assegnati, anche con riferimento alla sicurezza sul lavoro.
Inoltre, va considerato che tutte le direttive comunitarie in materia di sicurezza sul lavoro (in particolare, la Dir. 89/391/CEE) non definiscono la figura del "datore di lavoro", che viene semplicemente enunciata, ma mai descritta nel dettaglio, bensì disciplinano, con disposizioni minuziose, le caratteristiche del sistema di sicurezza sul lavoro voluto, concludendo poi nel senso che eguali garanzie degli ambienti di lavoro privato valgono anche per quelli pubblici, omettendo però ogni ulteriore specificazione e, di conseguenza, consegnando al legislatore dello Stato membro di pensare al modo migliore attraverso cui garantire la sicurezza negli ambienti di lavoro pubblico, senza che per questo esista la necessità di imitare quello privato lucrativo.
Pertanto, a ratione l'articolato normativo inerente alla tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro disegnato dal d.lgs. n. 81/2008 succ. mod. va calato nell'apparato burocratico pubblico, con taluni adattamenti e correzioni indispensabili per ricostruire il "tessuto" delle disposizioni normative, che, come visto, sono carenti di sufficiente tipizzazione.
Tutte le direttive comunitarie in materia di sicurezza degli ambienti di lavoro (es. Dir. 89/391/CEE) individuano quale soggetto massimo responsabile della sicurezza sul lavoro, nel complesso aziendale, il "datore di lavoro", intendendosi per tale il soggetto giuridico persona fisica o persona giuridica "titolare" del rapporto di lavoro e che abbia, altresì, la responsabilità dell'impresa e/o dello stabilimento produttivo. Nessuna altra specificazione viene effettuata, se non quella per la quale vanno garantite agli ambienti di lavoro pubblico, tendenzialmente, eguali garanzie di sicurezza rispetto a quelli privati, attraverso apposite strutture di vigilanza interna; ciò necessariamente in quanto le persone giuridiche pubbliche, in base all'art. 11 c.c., sono in una posizione giuridica separata rispetto alle persone giuridiche private, in quanto: "[…] gli enti pubblici riconosciuti come persone giuridiche godono dei diritti secondo le leggi e gli usi osservati come diritto pubblico".
Non esiste poi nel diritto comunitario alcuna assimilazione tra imprese private e pubbliche amministrazioni, anzi prevedendosi esplicitamente una possibilità di diverso e più articolato regime. Inoltre, va osservato che il soggetto giuridico titolare del rapporto di lavoro e della responsabilità d'impresa è, di norma, quello singolo che possiede la proprietà dell'impresa, oppure quello collettivo del consiglio di amministrazione della società.
Venendo all'ordinamento italiano, che ha trasposto la Dir. 89/391/CEE, notiamo che la nozione generale di "datore di lavoro", ai sensi dell'art. 2, co. 1, lett. b), prima alinea, del T.U.S.L. d.lgs. n. 81/2008 succ. mod. (che ha sostituito il D.Lgs n. 626 del 1994 succ. mod.) è quella del soggetto "titolare del rapporto di lavoro" o che, ad ogni modo, detenga "la responsabilità dell'organizzazione […] in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa".
Datore di lavoro, quindi, per la normativa in materia di igiene e sicurezza dei luoghi di lavoro, come invero anche per quella in materia di assicurazione sociale contro gli infortuni, è colui che ha instaurato il rapporto di lavoro e che abbia necessitate un potere di decisione e di spesa ivi comprese evidentemente le problematiche inerenti alla sicurezza sul lavoro.
Una simile impostazione fa emergere il carattere fondamentale del massimo soggetto responsabile in materia di sicurezza, ossia il potere di determinare, anche in materia di spesa, quanto si debba fare in materia di sicurezza, onde poter onorare con efficacia la posizione di garanzia assegnata dall'ordinamento.
Dunque, possiamo dire, già in prima approssimazione, che non sussiste un "datore di lavoro", laddove non vi sia un adeguato "potere decisionale e di spesa" e (implicitamente) un'adeguata organizzazione aziendale di sostegno.
2. La nozione di datore di lavoro nell’ambito della P.A.
La figura giuridica del "datore di lavoro" nell'ambito della disciplina in materia di igiene e sicurezza del lavoro assume connotati affatto peculiari con riguardo alla sfera del mondo della pubblica amministrazione.
Ciò per evidenti motivazioni collegate alla natura stessa dell'attività amministrativa, che è né più né meno che attività di cura concreta dell'interesse pubblico, nell'esplicazione di potestà pubbliche predeterminate dalla legge ed intestate, di norma, a soggetti pubblici all'uopo muniti della necessaria competenza.
In generale, va ricordato che, il dirigente, nella misura in cui rivesta il ruolo di organo preposto alla gestione dei rapporti di lavoro, assume le relative misure inerenti alla gestione con la capacità (giuridica) e i poteri (funzionalizzati) del privato datore di lavoro, ma pur sempre nel rispetto della legge e degli atti di organizzazione posti dal vertice amministrativo (art. 5, co. 1 e 2, d.lgs. n. 165/2001 succ. mod.).
In sostanza, gli organi della P.A. (e le persone fisiche ivi preposte), deputati a gestire lato sensu i rapporti di lavoro, sono abilitati ad esplicare tutte le prerogative e le funzioni del datore di lavoro solo per fictio juris, senza dunque mai identificarsene in toto, in quanto in realtà l'autentico datore di lavoro, in questi casi, è difatti, impersonalmente, la persona giuridica pubblica (es.: Stato, ente pubblico autarchico, Regione, Comune, etc.), che, per l'appunto, agisce mediante appositi e predefiniti organi (di governo) di vertice ed organi (dirigenziali) amministrativi, in virtù del c.d. rapporto di immedesimazione organica, talché può dirsi che l'ente agisce tramite i suoi organi e l'azione dei suoi organi (politici e dirigenziali) è volontà espressa dell'ente.
Più specificamente, è l'organo di governo ad esercitare il c.d. potere gestorio della persona giuridica, in qualche modo, rapportabile a quello che, nelle grandi società di capitali, compete al consiglio di amministrazione. Sott'ordinati, oggi secondo una distinzione di tipo funzionale, sono i dirigenti di vario livello.
La complessità organizzativa dell'ente poi implica la sussunzione nel suo alveo di figure interne intermedie pure abilitate, nel rispetto però di prefissate aree di competenza, ad esprimere in parte qua determinazioni dal vario contenuto aventi efficacia giuridica esterna (oltreché interna). Titolari degli uffici amministrativi (interni) sono taluni funzionari pubblici apicali e qualificati, che possono variamente essere considerati "dirigenti" (art. 2, co. 1, lett. d), d.lgs. n. 81/2008) o "preposti" (art. 2, co. 1, lett. e), d.lgs. n. 81/2008 ai sensi della normativa di prevenzione.
Nella P.A., dunque, la responsabilità datoriale intestata impersonalmente alla persona giuridica pubblica si "rifrange", in primis, nelle figure giuridiche del governo di vertice, che esprimono l'indirizzo politico-amministrativo del c.d. ente morale e, in secundis, nelle figure sott'ordinate dirigenziali, che esercitano, con autonomia, la gestione tecnico-amministrativa, comunque a talune predeterminate, in via normativa, puntuali condizioni.
Pertanto, datore privato di lavoro e datore pubblico di lavoro sono concetti affatto distinti per natura intrinseca e definizione legislativa. Di conseguenza, soprattutto per quanto attiene alla specifica tematica della igiene e sicurezza sui luoghi di lavoro, vanno operati taluni distinguo, come lo stesso legislatore del T.U. peraltro fa con riguardo alle fattispecie astratte contemplate in più parti del testo e come, d'altro canto, la giurisprudenza ugualmente ha sovente fatto con riferimento alle fattispecie concrete di responsabilità che ha esaminato.
Difatti, per il settore pubblico burocratico, sono stati previsti due tipi fondamentali di regimi derogatori diversi. Uno ordinario valido per le pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, co. 2, d.lgs. n. 165/2001 succ. mod., ossia per le P. A. con rapporto di lavoro a regime privatizzato (o contrattualizzato) ed un altro speciale per le pubbliche amministrazioni a regime pubblicistico e per taluni ambiti lavorativi particolari (anche se a rapporto di lavoro privatizzato).
Il primo regime derogatorio, quello ordinario, è delineato nell'art. 2 (Definizioni), co. 1, lett. b), parte seconda, d.lgs. n. 81/2008, secondo il quale: "Nelle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall'organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l'attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa. In caso di omessa individuazione, o di individuazione non conforme ai criteri sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l'organo di vertice medesimo".
Il secondo regime derogatorio, quello speciale, è, invece, delineato nell'art. 3 (Campo di applicazione), co. 2 e 3, d.lgs. n. 81/2008, con riferimento ai seguenti settori: a) forze armate, di polizia, protezione civile, ordine pubblico, strutture giudiziarie e penitenziarie; b) università ed istruzione pubblica; c) uffici all'estero: d) mezzi di trasporto aerei e marittimi; e) archivi, biblioteche e musei sottoposti a vincoli di tutela per i beni artistici storici e culturali; f) bordo delle navi, ambito portuale, navi da pesca, trasporto ferroviario (L. Ieva, La responsabilità del datore di lavoro pubblico nel nuovo T.U. n. 81/2008, in DPP, 2011, 475).
3. I caratteri del datore di lavoro pubblico.
Il datore di lavoro pubblico settoriale è normalmente un dipendente munito della qualifica di dirigente, poiché soltanto con riferimento a siffatto soggetto, appositamente selezionato e dotato della relativa caratura professionale (ex artt. 15 ss del d.lgs. n. 165/2001 succ. mod.) necessaria ed indispensabile per l'assolvimento degli onerosi obblighi di sicurezza, è ipotizzabile il radicamento delle responsabilità, spesso di ordine penale, in materia di sicurezza del lavoro.
Va doverosamente evidenziato che l'ossimoro secondo cui "datore di lavoro" pubblico è un "dipendente" della P.A., seppure munito di qualifica dirigenziale, mostra chiaramente tutta la specialità della materia del lavoro pubblico, dove non esiste un reale datore - tale essendo in realtà solo la persona giuridica pubblica - ma soltanto figure che, in virtù di fictio juris, lo possono sostituire (L. Ieva, La responsabilità del datore di lavoro pubblico nel nuovo T.U. n. 81/2008, op. cit., 483).
Continuando, la disposizione di cui all'art. 2, co. 1, lett. b), cit. fa anche riferimento alla qualifica di funzionario "nei soli casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale". Pertanto, per il legislatore del T.U.S.L., assume maggior rilievo la circostanza oggettiva della preposizione ad uffici dotati di autonomia gestionale e di spesa, più che la qualifica soggettiva rivestita da chi ne è preposto, con ciò sottolineando la preminenza della capacità di spesa come elemento che qualifica la responsabilità.
Resta comunque il primo dato normativo utile: datore di lavoro pubblico, per il T.U.S.L. (come già per il Decreto n. 626), è un dipendente, munito, di norma, di una particolare qualifica: quella di dirigente.
Elemento preponderante per radicare la responsabilità datoriale, ai fini della normativa in materia di sicurezza sul lavoro, è l'autonomia gestionale dell'ufficio cui è preposto il dirigente (od il funzionario). La disposizione però non chiarisce in cosa essa consista e, per di più, sembra distinguere siffatto carattere da quelli successivi della autonomia decisionale e della spesa.
Sicuramente "gestire" in autonomia vuol significare, dal punto di vista gius-pubblicistico, possedere la facoltà giuridica di amministrare l'ufficio pubblico diretto, nell'ambito della competenza riconosciuta, con piena responsabilità dei provvedimenti ed atti adottati, ma non solo; dalla visuale gius-lavoristica significa anche "dirigere" i rapporti di lavoro dei dipendenti assegnati e badarne ai rispettivi bisogni di tutela di salute e sicurezza sul luogo di lavoro, con i correlativi oneri. Ma, a tal proposito, occorre effettuare un passo indietro.
Sul punto, infatti, vanno necessariamente premesse alcune riflessioni di carattere più generale riconnesse alla peculiare natura delle soggettività pubbliche, che, oltre a possedere caratteri assai eterogenei e variabili, vedono sempre filtrata la formazione di ogni determinazione, avente giuridica significatività, ivi compresa quella c.d. gestoria, da una pluralità di organi.
In via di principio, deve rilevarsi come il potere gestorio nel campo pubblico sia scomponibile in due macro-categorie essenziali: a) la funzione di indirizzo politico-amministrativo; b) la funzione di gestione amministrativa concreta (artt. 4-5 D.Lgs n. 165 del 2001 succ. mod.).
La prima, ai sensi dell'art. 4, comma 1, d.lgs. n. 165/2001, è di competenza degli organi di governo che esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni, e verificano la rispondenza dei risultati dell'attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti. Segnatamente, ad essi competono la definizione di obiettivi, priorità, piani, programmi e direttive generali per l'azione amministrativa e per la gestione e la individuazione delle risorse umane, materiali ed economico-finanziarie da destinare alle diverse finalità e la loro ripartizione tra gli uffici di livello dirigenziale generale e, in via indiretta, tra quelli di livello non dirigenziale generale.
La seconda, invece, ai sensi dell'art. 4, comma 2, d.lgs. n. 165/2001, compete ai dirigenti, i quali adottano tutti i provvedimenti (compresi quelli che impegnano l'amministrazione all'esterno) e curano la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa, mediante autonomi poteri di spesa (nei limiti degli stanziamenti) e di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo (nei limiti prefissati normativamente), ivi compresi gli adempimenti in materia di sicurezza sul lavoro, in base al modello generale definito dagli organi di vertice.
Pertanto, fermo restando i comuni canoni di imputazione delle responsabilità (penale, civile, amministrativa), sono di norma i dirigenti ad essere chiamati a rispondere della complessiva attività gestionale amministrativa e dei relativi risultati. Ma, talvolta, va detto che emerge la responsabilità della componente politica (soprattutto a livello locale), ogni qual volta prevalga la considerazione della omissione di piani programmatici e finanziari di esclusiva competenza politica, che, a monte, si rivelino quale elementi essenziali e condizionanti le scelte, a valle, a valenza più spiccatamente amministrativa e di gestione.
Una possibile (ma non unica, stante il ruolo del massimo decisore politico) chiave di lettura è quella di ritenere che datore di lavoro, nell'ambito del lavoro pubblico, sia colui che abbia una facoltà di gestione lato sensu intesa di direzione, di organizzazione e di controllo dell'attività amministrativa dell'ufficio pubblico, come peraltro si evince dagli artt. 17-18 del d.lgs. n. 165/2001, a patto che questa sia autenticamente di vasta portata e, soprattutto, contemplante tutto quanto occorra per la efficace adozione delle misure di sicurezza sul lavoro.
In genere, come visto, siffatta figura giuridica corrisponde a quella del dirigente titolare di un organo amministrativo di una data amministrazione od ente pubblico, che ha, congiuntamente, i poteri di rappresentare l'amministrazione all'esterno, di amministrare la funzione pubblica o il pubblico servizio e di gestire i rapporti di lavoro dei dipendenti assegnati all'ufficio.
Terzo elemento fondamentale è quello che potrebbe definirsi come effettività della autonomia gestionale dell'ufficio, cui è da ricondursi la potestà decisionale e di spesa.
Si tratta di un potere gestorio, che - in linea di principio - per portata e soprattutto per funzione, dovrebbe essere molto simile a quello che, in dottrina, (57) è riconosciuto agli amministratori di società di capitali (art. 2380 bis c.c.); tuttavia, la normativa in materia di contabilità pubblica riserva un simile potere - come deve essere, in ambito pubblico, ove si amministrano denari della collettività - soltanto in testa agli organi di vertice (es.: ministri, consiglieri di amministrazione, etc.), attribuendo ai dirigenti potestà decisionali e di disponibilità finanziaria soltanto di carattere derivato, rispetto alle primarie potestà di pianificazione, di indirizzo amministrativo e di assegnazione delle risorse ai dirigenti preposti ai centri di responsabilità, veicolate attraverso il bilancio e l'assegnazione di appositi budget (l. n. 94/1997; d.lgs. n. 127/1997; d.P.R. n. 97/2003).
Difatti, i commi 1 e 2 dell'art. 4 del d.lgs. n. 165/2001, prevedono che la definizione degli obiettivi, nonché la individuazione delle risorse economico-finanziarie da destinare alle diverse finalità, competa agli organi di governo. Mentre, ai dirigenti spetta la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa, mediante autonomi poteri di spesa nei limiti dei budget assegnati.
Dal sistema sembra, quindi, evincersi un potere di gestione e decisionale di spesa ripartito tra una pluralità di figure e, soprattutto, collegato alle risorse finanziarie (disponibili de facto anche in base all'andamento generale dell'economia pubblica), oltreché subordinato alle contingenti regole giuridiche, tecniche ed economiche di programmazione.
Dunque, per le finalità del T.U.S.L., strettamente connesso al potere gestionale è quello decisionale e di spesa, da intendersi cumulativamente.
Tuttavia, la disposizione - invero, non a caso - prende in esame in modo nettamente distinto i concetti di "autonomia gestionale" e di "autonomia decisionale e di spesa", trattandosi, con tutta evidenza, di potestà che, nell'alveo delle organizzazioni pubbliche, possono essere (e sovente effettivamente lo sono) distinte e separate, in quanto, per il diritto amministrativo (come anche per l'economia e l'organizzazione aziendale), l'una non include affatto necessariamente l'altra.
Ad ogni modo, volendo tentare una interpretazione sistematica proficua, v'è da dire che il legislatore forse ha voluto contraddistinguere con maggiore risalto rispetto al passato la potestà decisionale e di spesa rispetto a quella gestionale. Sono queste, espressioni normative, le quali, evidentemente, intendono rimarcare come la "gestione" rilevante ai fini dell'applicazione dei precetti e delle sanzioni sulla sicurezza, sia quella che risulta a forza congiunta con la possibilità di esercitare effettivi poteri decisionali e di spesa.
A questo punto, è d'uopo osservare come la disciplina in materia di procedimenti di spesa nelle amministrazioni pubbliche, che va sotto il nome di contabilità di Stato e degli enti pubblici o, più semplicemente, di contabilità pubblica (o diritto delle gestioni pubbliche), ponga una serie di vincoli stringenti all'autonomia di spesa del dirigente.
Segnatamente, non sussiste una libera potestà di autodeterminarsi nella procedura di spesa pubblica, bensì la necessità di osservare una serie di vincoli giuridici, che limitano e talvolta comprimono, ma soprattutto determinano una scansione temporale (lunga) della decisione di spesa.
Inoltre, molto spesso, nell'alveo della pubblica amministrazione, oltreché distinta dalla autonomia gestionale, la c.d. potestà decisionale e di spesa è condivisa tra una pluralità di soggetti, più o meno gerarchicamente strutturati, e ripete la propria legittimità e praticabilità dalla sussistenza di una pianificazione (strategica) e di una programmazione (operativa) delineata dagli organi di governo di vertice.
Pertanto, un primo problema è appunto quello di identificare, nell'alveo della complessiva organizzazione della pubblica amministrazione, di volta in volta, presa in esame, quale figura soggettiva apicale possa essere ritenuta "datore di lavoro", ai sensi della normativa sulla sicurezza del lavoro.
Molto probabilmente, l'esito di una simile analisi non può far altro che prendere atto che - peraltro, non costituendo affatto la responsabilità per debito di sicurezza (art. 2087 c.c.) una fattispecie oggettiva - per norma di legge, o regolamentare, o per norma interna, esistono potestà decisionali e di spesa, per così dire, a struttura multilivello, per cui ogni attore, che ricopra un ruolo direzionale, non può che fare e rispondere di ciò che rientra nella propria precipua competenza amministrativa (Cass. n. 257/2000: in tema di norme per la prevenzione dagli infortuni, non si può ascrivere al dirigente ogni violazione di specifiche norme antinfortunistiche atteso che, sebbene l'art. 2 lett. b), seconda parte, d.lgs. n. 626 del 1994 individui la nozione di datore di lavoro pubblico nel dirigente al quale spettano i poteri di gestione, l'art. 4 comma 12 d.lgs. cit. ribadisce il principio fondamentale in materia di delega di funzioni secondo cui, attesa la posizione di garanzia assunta dal sindaco e dagli assessori in materia di prevenzione, la delega in favore del dirigente assume valore solo ove gli organi elettivi e politici siano incolpevolmente estranei alle inadempienze del delegato e non siano stati informati, assumendo un atteggiamento di inerzia e di colpevole tolleranza. Nella specie la Corte ha ritenuto corretta la decisione dei giudici di merito i quali avevano affermato, oltre quella del dirigente che non si era avvalso dei dipendenti comunali per effettuare le opere minimali necessarie, anche la responsabilità penale del sindaco il quale, messo a conoscenza delle violazioni esistenti e delle misure da adottare, non aveva provveduto a richiedere le necessarie variazioni in bilancio per una partita relativa a poche opere provvisionali e neppure azionato i poteri di impegnativa di spese del c. d. fondo di riserva).
In definitiva, la responsabilità sanzionatoria (penale ed amministrativa) conseguente alle violazioni in materia antinfortunistica potranno appuntarsi nei limiti di ciò che, alla stregua dei normativi doveri di servizio, entro i vincoli di contabilità pubblica, è in concreto esigibile dai vari soggetti (pubblici) della sicurezza. Diversamente opinando, si sconfinerebbe nella responsabilità di stampo oggettivo, rimproverandosi la commissione (od omissione) di comportamenti antigiuridici, senza che ne sussista il relativo potere gestionale, decisionale e di spesa (L. Ieva, La responsabilità del datore di lavoro pubblico nel nuovo T.U. n. 81/2008, op. cit., 489).
Come garanzia finale per una legittima e corretta individuazione della figura del "datore di lavoro" nell'ambito pubblico, il legislatore del T.U.S.L. ha ulteriormente imposto la nomina espressa, che dunque va consacrata in apposito atto amministrativo.
L'autonomia gestionale e la potestà decisionale e di spesa non sono, infatti, da sole sufficienti ad enucleare la soggettività giuridica del dipendente pubblico, da considerarsi datore di lavoro, ai fini della normativa sulla sicurezza, dovendosi pure riscontrare la individuazione expressis verbis da parte dell'organo di vertice della P. A., di norma, attraverso apposito atto di macro-organizzazione (art. 2, comma 1, d.lgs. n. 165/2001), che delinei, in modo chiaro ed univoco, quali siano le categorie di dipendenti dell'amministrazione o dell'ente pubblico considerato chiamate a ricoprire il ruolo di "datore di lavoro" settoriale.
L'omessa previsione espressa ed anche l'individuazione non conforme ai criteri delineati comporta, a mente dello stesso art. 2, comma 1, lett. b), ult. periodo, del d.lgs. n. 81/2008, il radicarsi della responsabilità datoriale direttamente in capo all'organo di vertice, da ricavarsi a seguito di attenta analisi della normativa interna della singola amministrazione od ente pubblico ed alquanto variabile, a seconda della configurazione amministrativa di ciascun soggetto pubblico.
Dunque, potrà darsi il caso che una data P.A. (magari di piccole dimensioni) rinunci ad avvalersi di datori di lavoro settoriali, oppure anche incorra in individuazioni non conformi (magari per carenze organizzative o di potere di spesa).
In tale quadro sistematico, la nomina espressa funge da norma di chiusura del sistema ed è finalizzata - perlomeno tendenzialmente - ad impedire fraintendimenti sulle responsabilità.
Resta però il dato di fondo che la nomina effettuata debba comunque rispondere ai criteri fin qui esaminati, ossia deve essere fatta nei confronti di persona in possesso di: a) qualifica dirigenziale (o di funzionario apicale); b) autonomia gestionale; c) autonomia decisionale e di spesa; d) possibilità organizzativa.
In ipotesi di omessa o di non conforme individuazione, il sistema risulta non perfezionato e quindi, stante l'art. 2, co. 1, lett. b), ult. parte, d.lgs. n. 81/2008, responsabile della sicurezza rimane il solo organo di vertice, ovverosia quel peculiare organo di governo, che è, al tempo stesso, legale rappresentante della persona giuridica pubblica (art. 11 c.c.) e titolare del rapporto di lavoro pubblico.
4. La posizione della giurisprudenza di legittimità.
La Corte di Cassazione in più occasioni ha individuato i punti consolidati del sistema prevenzionistico del lavoro all'interno delle amministrazioni pubbliche.
Punto di partenza è il dettato legislativo (art. 2, comma 1, lett. b), secondo periodo, d.lgs. n. 81/2008) secondo cui nelle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (T.U. pubblico impiego), per "datore di lavoro" si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall'organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l'attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa.
Ad avviso della Corte, tale individuazione è "perfettamente coerente con il principio di separazione fra funzioni di indirizzo politico e di gestione negli enti locali, ormai invalso da tempo nel nostro sistema e recepito, oltre che dal già citato d.lgs. n. 165/2001, anche dall'art. 107 del Testo Unico delle leggi sull'ordinamento degli Enti locali, approvato con d.lgs. n. 267/2000" (Cass. n. 8119/2017).
L’individuazione del funzionario, con uno specifico provvedimento, quale soggetto cui erano state conferite funzioni specifiche comprensive dell'esercizio di poteri decisionali e di spesa (nei termini esplicitamente previsti dal citato art. 2, comma 1, lett. b, d.lgs. n. 81/2008) comporta l’assunzione ex lege della qualifica di datore di lavoro.
Per il massimo consesso di legittimità tale atto di individuazione (tra l'altro, normativamente imposto ha, di fatti, come conseguenza il trasferimento al dirigente pubblico di tutte le funzioni datoriali, ivi comprese quelle non delegabili, con ciò essendo palese la distinzione dall'atto di delega di funzioni disciplinata dall'art. 16 del medesimo decreto legislativo. Proprio in tale veste datoriale comporta l’obbligo di compilazione del documento di valutazione dei rischi interferenziali, compito che la legge (art. 26, comma 3, d.lgs. n. 81/2008) assegna al datore di lavoro nel caso di contratti d'appalto, d'opera o di somministrazione.
Altro problema affrontato dalla Corte di Cassazione è quello relativo all'ammissibilità della delega di funzioni nella Pubblica amministrazione.
Secondo una tesi favorevole, il fondamento normativo della possibilità di delega da parte del dirigente pubblico è stato rinvenuto nel Testo Unico del pubblico impiego, d.lgs. n. 165/2001, e in particolare all'art. 17, comma 1 bis, che consente ai dirigenti, per specifiche e comprovate ragioni di servizio, di delegare per un periodo di tempo determinato, con atto scritto e motivato, alcune delle competenze comprese nelle funzioni di cui alle lett. b), d) ed e) del comma 1 del medesimo articolo, a dipendenti che ricoprano le posizioni funzionali più elevate nell'ambito degli uffici ad essi affidati (P. Fimiani, I criteri di individuazione dei soggetti responsabili nelle organizzazioni complesse e negli organi collegiali, anche all'interno della pubblica amministrazione, in Giur. mer., 2003, 11, 2320).
È pur vero che, come si è detto, il dirigente pubblico è ex lege datore di lavoro e, in quanto tale, deve necessariamente essere titolare degli stessi diritti e doveri del suo corrispondente privatistico, ma, alla luce del principio di legalità che regge l'azione della P.A. (art. 97 Cost.), pare doveroso ricercare nella legge (in questo caso il T.U. pubblico impiego) un'ulteriore conferma della possibilità di spogliarsi di poteri che sono ab origine del dirigente (in giurisprudenza ammette la delega nella P.A. Cass. n. 28410/2012).
Si sostiene, inoltre, che, in aggiunta ai comuni requisiti già previsti per il privato, nel settore pubblico la delega debba assumere la forma di vero e proprio provvedimento amministrativo (A. Tampieri, L'applicabilità del d.lgs. n. 626/1994 alle pubbliche amministrazioni, in L. Galantino (a cura di), La sicurezza del lavoro. Commento ai decreti legislativi 19 settembre 1994, n. 626 e 19 marzo 1996, n. 242, Milano, 1996) e, in quanto tale, dovrà essere motivata, in ossequio all'art. 3, l. 7 agosto 1990, n. 241, con l'indicazione delle particolari ragioni che conducono alla alterazione dell'ordinario riparto dei compiti d'ufficio riguardanti la gestione del sistema di sicurezza sul lavoro.
Secondo opinioni contrarie, invece, la delega nel settore pubblico dovrebbe sì essere prevista espressamente dalla legge, ma essa non potrebbe essere ricondotta all'art. 17, comma 1 bis, citato, perché questa forma di delega sarebbe estremamente circoscritta e temporalmente limitata (D. Venturi, in M. Tiraboschi - L. Fantini (a cura di), Il Testo unico della salute e sicurezza sul lavoro dopo il correttivo (d. lgs 106/2009), Milano, 2009, 268). La norma richiede, infatti, come si è detto, "specifiche e comprovate ragioni di servizio", impone una durata determinata e limita l'operatività della delega a particolari funzioni: requisiti aggiuntivi e non richiesti dalla delega di disciplina comune di cui all'art. 16, d.lgs. n. 81/2008.
Altri escludono del tutto l'applicabilità dell'istituto, secondo la ragione per cui nella P.A. le ripartizioni di competenze sarebbero rigide e non alterabili, in quanto stabilite dalla legge, dallo statuto o dal regolamento (G. Di Pietro, Il problema della individuazione del soggetto responsabile alla adozione delle misure antinfortunistiche negli enti locali, in Nuova rassegna di legislazione, dottrina e giurisprudenza, 2006, 10, 1315).
Per concludere, la tesi favorevole pare condivisibile. Al di là dei citati richiami al Testo unico sul pubblico impiego (che, invero, appaiono un po' forzati), il fondamento normativo pare più correttamente doversi individuare nel principio di parità di tutela in ogni settore (a mente dell'art. 3, comma 1, d.lgs. n. 81/2008 "Il presente decreto legislativo si applica a tutti i settori di attività, privati e pubblici, e a tutte le tipologie di rischio").
Inoltre, la non ammissibilità della delega nel settore pubblico creerebbe pericolose disparità: il dirigente nominato "datore di lavoro" dagli organi di governo non potrebbe trasferire a terzi gli obblighi a lui spettanti, con la conseguenza - si pensi alle realtà complesse - di dover gestire in prima persona la sicurezza relativa a enormi settori dell'Amministrazione (M. Pericolo, La figura di datore di lavoro pubblico ai fini della sicurezza sul lavoro, in DPP, 2018, 82).
5. Infortuni sul lavoro e responsabilità del Sindaco.
Per come prima riferito, a norma del d.lgs. n. 81/2008 per datore di lavoro si intende il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l'assetto dell'organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell'organizzazione stessa o dell'unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa. Nelle pubbliche amministrazioni, per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall'organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l'attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa. In caso di omessa individuazione, o di individuazione non conforme ai criteri sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l'organo di vertice medesimo.
L'individuazione del dirigente (o del funzionario) cui attribuire la qualifica di datore di lavoro è demandata alla pubblica amministrazione, la quale vi provvede con l'attribuzione della qualità e il conferimento dei relativi poteri di autonomia gestionale, non potendo tale qualifica essere attribuita implicitamente ad un dirigente o funzionario solo perché preposti ad articolazioni della pubblica amministrazione che hanno competenze nel settore specifico. Nelle pubbliche amministrazioni, in altre parole, l'attribuzione della qualità di datore di lavoro a persona diversa dall'organo di vertice non può che essere espressa, anche perché comporta i poteri di gestione in tema di sicurezza. Sono gli organi di direzione politica che devono procedere all'individuazione, tenendo conto dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici, non essendo per tale ragione possibile una scelta non espressa e non accompagnata dal conferimento di poteri di gestione alla persona fisica. La conseguenza della mancata indicazione è la conservazione in capo all'organo di direzione politica della qualità di datore di lavoro.
Con l'atto di individuazione, emanato ai sensi dell'art. 2, comma primo, lett. b) d.lgs. 9 aprile 2008 n. 81, vengono trasferite al dirigente pubblico tutte le funzioni datoriali, ivi comprese quelle non delegabili, il che rende non assimilabile detto atto alla delega di funzioni disciplinata dall'art. 16 del medesimo decreto legislativo (Cass. n. 22415/2015). Ciò in quanto, con il suddetto atto d'individuazione, il soggetto depositario di poteri gestionali e di spesa assume ex lege la qualifica datoriale.
Agli organi di direzione politica del Comune (Sindaco e Giunta Comunale) sono attribuiti in via originaria anche i poteri di sovrintendere alle scelte di gestione e direzione amministrativa, con il conferimento di tutti i poteri conseguenti.
In tema di norme per la prevenzione degli infortuni, la normativa vigente esclude, in altre parole, che si possa ascrivere al sindaco, anche se di un Comune di modeste dimensioni, quale organo politico, ogni violazione di specifiche norme antinfortunistiche, quando risulti individuato il dirigente con qualifica di datore di lavoro.
Tra le regole inerenti ai compiti datoriali non delegabili, invece, rientra l'obbligo di stilare il documento di valutazione dei rischi a norma del d.lgs. n. 81/2008, la cui inadeguata elaborazione costituisce, appunto, il presupposto sul quale si è fondata l'affermazione di responsabilità del Sindaco.
È pacifico in giurisprudenza che i dirigenti comunali possono essere titolari di posizioni di garanzia nello svolgimento dei compiti di gestione amministrativa a loro devoluti, residuando in capo al Sindaco unicamente poteri di sorveglianza e controllo collegati ai compiti di programmazione che gli appartengono quale capo dell'amministrazione comunale ed ufficiale di governo (Cass. n. 22341/2011, relativa a fattispecie nella quale un dirigente comunale era stato ritenuto datore di lavoro del reparto cantonieri di un Comune, essendo stato designato quale responsabile del settore lavori pubblici da un decreto sindacale che non aveva contestato, e rispetto al quale non aveva mai opposto difficoltà o carenze di natura economico-finanziaria, la cui risoluzione sarebbe spettata agli organi politici).
Ciò appare, del resto, perfettamente coerente con il principio di separazione fra funzioni di indirizzo politico e di gestione negli enti locali, ormai invalso da tempo nel nostro sistema e recepito, oltre che dal già citato d.lgs. n. 165/2001, anche dall'art. 107 del Testo Unico delle leggi sull'ordinamento degli Enti locali, approvato con d.lgs. n. 267/2000. In tale sistema di separazione fra le due distinte forme di responsabilità - politica e gestionale - non può farsi questione circa la sussistenza o meno, in capo al dirigente o al funzionario comunale titolare di poteri di gestione e d'impegno di spesa, di una delega di funzioni sul modello e per le finalità di cui all'art. 16, d.lgs. n. 81/2008.
Siffatta delega ha rilievo laddove il soggetto destinatario di compiti e funzioni propri del datore di lavoro sia, per ciò stesso, soggetto distinto dal datore di lavoro medesimo: ciò che accade nelle ordinarie realtà aziendali e nell'ambito dei modelli organizzativi di natura privatistica. Diversa, tuttavia, è la situazione che si configura nel caso in cui il Sindaco abbia totalmente omesso di individuare il soggetto responsabile cui attribuire la qualifica datoriale. Ed infatti, la Cassazione ha ritenuto configurabile nel caso in esame la violazione del combinato disposto degli artt. 17, 18 e 43, lett. b), d.lgs. n. 81/2008, osservando come la definizione di datore di lavoro contenuta nell'art. 2, lett. b), del T.U.S., quanto alla P.A. recepisce lo stabile indirizzo giurisprudenziale secondo cui è l'organo di vertice della singole amministrazioni, ossia quello che ne ha la direzione politica, a dover individuare il dirigente o il funzionario non dirigente cui attribuire la qualità di datore di lavoro.
Le conseguenze derivanti dall'omessa individuazione da parte dell'organo politico del dirigente designato ad assumere il debito di sicurezza, sono evidenti: afferma la Corte di Cassazione che in tali casi la qualifica di datore di lavoro continuerà a coincidere con l'organo di vertice, quindi con il Sindaco (Cass. n. 35137/2007).
Sotto altro aspetto, se è indubbio che la Corte di Cassazione ha precisato che gli organi di vertice dell'amministrazione comunale (Sindaco e Giunta Comunale) possono individuare i dirigenti ai quali attribuire la qualifica di datore di lavoro, tuttavia l'omessa redazione di un adeguato e completo documento di valutazione dei rischi, non è delegabile conservandosi in capo all'organo di direzione politica la posizione di garanzia (Cass. n. 22415/2015).
La giurisprudenza di legittimità, invero, ha chiarito che in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, in base al principio di effettività, assume la posizione di garante colui il quale di fatto si accolla e svolge i poteri del datore di lavoro, del dirigente o del preposto (Cass. n. 22079/2019). L'art. 299 del d.lgs. n. 81/2008 vale invero ad elevare a garante colui che di fatto assume e svolge i poteri del datore di lavoro, del dirigente o del preposto, mentre non può essere invocato in funzione restrittiva degli obblighi che la normativa prevenzionistica assegna ai soggetti regolarmente investiti di tali poteri. Il principio di effettività di cui al citato art. 299 (che così recita: «Le posizioni di garanzia relative ai soggetti di cui all'art. 2, comma 1, lett. b), d) ed e), gravano altresì su colui il quale, pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti a ciascuno dei soggetti ivi definiti») è stato dettato dal legislatore in chiave ampliativa del novero dei soggetti gravati dalla posizione di garanzia, come reso evidente dalla presenza dell'avverbio "altresì" in funzione qualificativa del verbo "gravare"; si tratta, insomma, di una ipotesi alternativa di tipicità della fattispecie incriminatrice, che certamente non vale ad escludere da responsabilità il soggetto titolare dei relativi obblighi prevenzionistici (Cass. n. 20127/2022).
La giurisprudenza di legittimità è costante nell'interpretare l'art. 299, d.lgs. n. 81/2008 nel senso che l'individuazione dei destinatari degli obblighi posti dalle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro deve fondarsi non già sulla qualifica rivestita, bensì sulle funzioni in concreto esercitate, che prevalgono, quindi, rispetto alla carica attribuita al soggetto, ossia alla sua funzione formale (Cass. n. 18090/2017).
Secondo il diritto vivente, pertanto, la disposizione in esame concretizzerebbe, dal punto di vista normativo, il principio di effettività (Cass. n. 22606/2017; Cass. n. 18200/2016).
Diritto d’amore e responsabilità civile esprime un’endiadi che già solo al primo sguardo sembra contenere una serie di relazioni e contraddizioni.
Scomponendo l’endiadi, la locuzione Diritto d’amore perviene, come è noto, da un celebre saggio di Rodotà su Politica del diritto[1], esito di un intervento tenuto al Festival della filosofia di Modena e dopo confluito nel lavoro monografico che ne rielabora i concetti in maniera più approfondita. In quella sede, l’A. esordisce con un interrogativo che costituisce il filo che conduce a tutte le digressioni successive, ovvero quello della compatibilità fra diritto e amore, due profili dell’esistenza umana così distanti per fondamenti epistemologici, funzioni ed esiti d’esperienza: esprimendo, si potrebbe dire in una scontata contraddizione, l’apollineo (il primo) e il dionisiaco (il secondo), l’ordine e il caos, la categorizzazione e la sorpresa, Creonte (e l’obbedienza alle leggi dell’ordine normativo) e Antigone (e la supremazia delle leggi dell’amore).
Sulla base di questa prima relazione conflittuale, l’A. passa a indagare un secondo aspetto, si può dire fondativo delle riflessioni contemporanee sul diritto, ovvero, per dirla con parole di chi scrive, se sia possibile una contro-narrazione rispetto all’idea (di foucaultiana memoria[2]) che il diritto sia un dispositivo che ha la precipua funzione di controllo sociale e di dominio sui corpi, e, di qui, che sia uno strumento che concorre a neutralizzare l’amore - e anche quelle che l’A. chiama le eccedenze dell’amore, che pure sfuggono al diritto.
In quelle pagine, fra le altre, l’A. ci ha proposto una straordinaria rilettura della scienza giuridica, come esperienza che porta con sé, coesistendo con l’opposta tensione razionalizzante e sistematizzante dell’esistenza umana, anche un seme generativo e trasformativo - quando esso dà rilevanza a interessi fondativi, riconducibili a soggettività socialmente riconosciute e su di esse costruendo diritti e formalizzando tutele.
Ma Diritto d’amore e responsabilità civile non può esimersi dal confronto con l’altra misura dell’endiadi, rimandando all’altrettanto celebre lavoro del prof. Patti sulla responsabilità civile nelle relazioni familiari[3], risalente ancor di più nel tempo, dove lo stesso A., con un accostamento apparentemente provocatorio, elabora il pensiero, altrettanto rivoluzionario, che la configurabilità dello strumento risarcitorio nel mondo dell’amore non sono non sia incompatibile con quello (in presenza dei requisiti che l’istituto richiede), ma sia anche, in certo modo, doverosa, stante la natura degli interessi coinvolti: ciò pur a fronte delle interminabili digressioni argomentative di dottrina e giurisprudenza, in particolare, sul danno non patrimoniale, sulle allegazioni necessarie e sulle poliedriche funzioni della responsabilità civile, che in questo ambito si rendono evidenti e talvolta sono anche consapevolmente assunte (es. art. 709 ter c.p.c.).
Incontestati gli approdi di quel pensiero (e lasciando da parte gli strascichi relativi alla riconducibilità a questo o a quel regime), resta la consapevolezza che, discorrendo di rimedio risarcitorio, siamo in un ambito argomentativo ben diverso dal tema rodotiano: l’art. 2043 c.c. non è lo strumento per affermare il rilievo degli interessi, tutt’altro. Esso si colloca nella dimensione della tutela, e in quanto tale successivo e secondario.
E questa affermazione non potrebbe apparire palesemente inutile nella sua banalità, se non fosse che siamo tutte e tutti consapevoli della deriva presa, suo malgrado, dalla scienza giuridica, la quale assume risonanza e riconoscibilità sociale quasi esclusivamente nella dimensione patologica.
Data quest’ultima constatazione e facendo una sorta di ipotetica sintesi fra diritto d’amore e responsabilità civile, come lettura che superi l’esperienza foucaultiana del diritto come mero strumento di controllo sulla libertà, sull’amore, sul corpo e sulla felicità degli uomini e delle donne, appare profondamente fallace appiattire il diritto nella dimensione patologica: non solo perché ciò significa allocare la responsabilità della costruzione della dimensione simbolica del diritto al solo ambito giurisdizionale, abdicando l’imprescindibile funzione politica della costruzione dell’ordine normativo e la funzione etica della dottrina; ma anche, e forse soprattutto, perché il diritto, nella costruzione dell’argomentazione, ha una profonda capacità generativa dell’ordine sociale di riferimento; da quello è permeato e quello stesso ordine sociale il diritto influenza in una mutualità di senso che è vivifica.
Tutto ciò pur senza tralasciare l’implicita capacità contenitiva (c.d. holding)[4], di matrice psicologica e psicoanalitica, che è propria del diritto - razionalizzante e categorizzante delle pulsioni più emotive, negative o di ostilità o stereotipia -, va nondimeno rivendicata la sua dimensione precedente alla fase patologica, riscoprendo il valore culturale, trasformativo, parte dell’esperienza umana. Proiettando l’argomento sul piano della responsabilità collettiva, al giurista è dato il compito di un utilizzo intelligente del diritto, a favore del vivente e non solo delle disposizioni vigenti, secondo le logiche assiologiche e personalistiche che la Costituzione ci chiama a onorare.
Fatte queste brevi premesse, che chiariscono l’adesione genuina e convinta della compatibilità fra diritto e amore e fra diritto d’amore e rimedio risarcitorio, è utile interrogarsi ora su dove si collochino gli orizzonti più inusitati della convergenza fra amore e responsabilità civile e, forse - anzi sicuramente prima - dove si spingerà la rilevanza degli interessi che Rodotà asseriva giustamente essere il prius logico per dare consistenza giuridica soggettività socialmente riconosciute.
E sembra potersi affermare con una certa dose di sicurezza che lo spazio di senso che appare di maggiore interesse è quello della genitorialità e delle genitorialità. Perché mentre l’ambito delle relazioni familiari adulte è ormai schiacciato su una certa retorica dell’autonomia privata (v. accordi prematrimoniali o a latere, contratti di convivenza, clausole di inefficacia dei doveri, cumulo di domande separazione e divorzio), quello dei minori si rappresenta multiforme: per un verso, ancora ancorato a uno spazio di inderogabilità, a principi di interesse superiore, di matrice pubblicistica; per altro verso, obbligato a confrontarsi con una dimensione tutta autodeterminativa dell’esperienza genitoriale.
Mi spiego, utilizzando proprio Rodotà.
Ragionare in punto di genitorialità, di genitorialità sociale e di omogenitorialità, seguendo la strada segnata, significa partire dall’idea che il diritto, se vuole avvicinarsi all’amore, deve, in primo luogo, abbandonare i suoi pregiudizi e farsi “discorso aperto”, senza che ciò significhi una perdita in termini di tecnicità. Come a dire che, se “l’amore ha le sue regole”, tanto irrazionali, quanto eterogene e variabili, allora il diritto non può pensare di impadronirsene e di soggiogarle in fattispecie impermeabili, ma deve offrire soluzioni a istanze affettive, trasformando tecnicamente sé stesso all’interno di una cornice di senso che, pur mantenendo l’assetto valoriale di riferimento, sappia “cogliere e accettare contingenza, variabilità e persino irrazionalità”.
Quanto premesso pare essere fondamentale quando si ragiona di genitorialità e di omogenitorialità: il diritto, e vieppiù l’interprete, nella riflessione sulla categoria di riferimento, nella costruzione della norma come nel percorso argomentativo del caso concreto, non possono esimersi dalla considerazione e dalla valutazione dell’esperienza soggettiva. Se ciò è vero all’interno della tradizionale e confortevole categoria della genitorialità biologica, non può non valere pure nel contesto della genitorialità sociale che comprende una composita fenomenologia: famiglie adottive e affidatarie, create con tecniche procreative, allargate-ricomposte, monoparentali, persino quelle straniere dove, banalmente, i concetti di parentela e affinità possono esondare/divergere dai confini che la norma occidentale prevede.
Questa premessa consente di fare alcune ulteriori riflessioni: è evidente, ormai, che, a fronte di un modello codicistico di filiazione sostanzialmente unitario, archetipico, fondato sul paradigma dominante e tradizionalmente ordinatore della genitorialità biologica (composta di eterosessualità nella procreazione, duplicità delle figure genitoriali, derivazione genetica, gestazione e parto) si contrappongono e si affiancano modelli genitoriali che si costituiscono e vivono nelle forme più diverse, si fondano su differenti presupposti e che prescindono da riconoscimenti e divieti esistenti.
Questo non solo perché “l’amore ha le sue regole”, sempre parafrasando Pascal, contingenti, eterogenee e variabili; ma anche perché queste esperienze affettive si basano su un presupposto tanto semplice, quanto irrazionale: la genitorialità, prima ancora del discorso giuridico, ha radici profonde, saldamente fissate in un terreno antico; essa è legata agli aspetti più primordiali della corporeità, rappresentandosi come un desiderio atavico, una pulsione irrazionale di perpetuazione della vita e, in un senso di onnipotenza, della creazione di un altro da sé, di una ri-nascita, e non necessariamente sempre in un senso biologista[5].
Se questo è vero, anzi costituisce un pre-dato del discorso giuridico, elemento implicito, indiscusso, anche socialmente accondisceso nella dimensione della genitorialità “naturale”, non può stupire che altrettanto sia nelle dinamiche ricorrenti nella genitorialità sociale.
È certamente vero che l’avvento dei progressi scientifici e culturali ha mutato radicalmente il paesaggio, per un verso, rendendo la genitorialità uno degli ambiti dell’autodeterminazione personale e delle disposizioni del corpo, luogo e oggetto di una delle scelte realizzabili nel mondo della possibilità procreativa; per altro verso, la stessa maternità appare sciolta dal legame intenso con la femminilità e con una certa dimensione naturalistica dell’esperienza, per assumere una forte dimensione progettuale. Questa dimensione nuova della corporeità e della genitorialità, in luogo di una maternità per alcuni aspetti dismessa, diviene un fatto autodeterminativo, sociale e psichico. Il corpo (e con esso gli aspetti più tradizionali della corporeità - quali la gestazione, l’allattamento, il parto naturale) da “luogo” anche metafisico in cui si realizza la procreazione, diviene strumento per realizzare la scelta, in una inusitata relazione fra il soggetto e la sua stessa corporeità.
Acquisito questo fatto, non può sconcertare che la pulsione narcisistica del paradigma procreativo sia assunta, se non con forza maggiore, quanto meno in misura analoga nella genitorialità sociale, soprattutto se connessa alle tecniche assistite, dove il dominio sul proprio appare implicito, sconfinando, talvolta con esiti incerti, nel terreno di una procreazione davvero artificiale, nell’utilizzo del proprio corpo e degli strumenti della tecnica e della scienza per realizzare, anche “forzando la natura”, la scelta, l’ultimo e quasi estremo desiderio di procreazione.
Non si tratta di un discorso fattualista, che meramente accondiscende la dimensione esperienziale a discapito della costruzione normativa e dei valori, e men che meno con una propensione valutativa; ma piuttosto di un elemento che non può non tenersi in considerazione, a più livelli, e anche nel senso delle conclusioni a cui si vuole approdare: perché se tutto ciò è vero, e la struttura fondativa dell’esperienza genitoriale è divenuta un percorso estremamente ricercato, voluto, consapevole e non privo di ostacoli (naturali e giuridici), di sofferenze (fisiche ed emotive) e di costi (precedenti e successivi alle nascita) e di rischi, come è possibile non immaginare di oltrepassare i tradizionali confini risarcitori della responsabilità endofamiliare per violazione dei doveri parentali, che tendenzialmente si attestano alle fattispecie di abbandono del genitore, delle costituzioni tardive del legame genitoriale e delle contestazioni tardive del legame ma con la consapevolezza della difformità fra dato biologico e status, fino alle più tradizionali condotte ostacolanti dei doveri genitoriali e denigranti dell’altro genitore.
Ebbene, sul piano interno, si possono sicuramente intravedere almeno tre profili rilevanti in tema di genitorialità sociali, che ancora non trovano una compiuta definizione e che, in stretta correlazione con questo, lasciano purtroppo ancora spazio, in termini abusivi, all’esercizio di diritti, determinando nondimeno la violazione dei principi della responsabilità nella procreazione, dell’autoresponsabilità (nel senso pugliattiano del termine), della solidarietà e…del diritto d’amore dei nati e delle nate dalle tecniche procreative:
Ponendo lo sguardo oltre la dimensione della sola genitorialità, osservando quella delle relazioni in un senso più ampio, su più piani è feconda la prospettiva dell’art. 8 Cedu: nella necessità che la tutela nazionale sia celere e effettiva, anche nella dimensione risarcitoria (Kuppinger c. Germania); che gli accertamenti sulla genitorialità siano rapidi e efficaci (Mikulić c. Croazia); che le regole consentano concretamente di accertare la paternità presunta (Bocu c. Romania), e la genitorialità di intenzione (Mennesson c. Francia; Labassee c. Francia). Perché, richiamando sempre la corte Edu, la vita familiare è intesa sì come reciproco godimento della relazione genitori/figli (Monory c. Romania e Ungheria; K.-T. c. Finlandia), ma anche come vita potenziale e non solo già vissuta (Nylund c. Finlandia); come nella dimensione dei legami fattuali con gli affidatari (Moretti e Benedetti c. Italia; Jolie et a. c. Belgio), con gli ascendenti (Marckx c. Belgio; Bronda c. Italia) e con gli zii e (Butt c. Norvegia).
L’orizzonte delle prospettive risarcitorie - anche oltre la dimensione prettamente genitoriale - è decisamente ampio, ma, prima ancora, ciò che appare limpido è il delinearsi della fase performativa dell’argomentazione, quella della rilevanza degli interessi minorili e delle soggettività socialmente riconosciute e che il diritto d’amore è chiamato comprendere, nei più sensi del verbo.
Resta indiscussa l’idea che diritto e amore siano compatibili e che questa compatibilità sia imprescindibile. Ma, sempre parafrasando Pascal, se è vero che l’amore ha le sue leggi, anche il diritto ha le sue leggi. E la via della saggezza feconda ci chiede di essere al contempo Antigone (che osserva le leggi dell’amore) e Creonte (che obbedisce a quelle del diritto): bisogna essere al contempo Antigone e Creonte, per non essere integralmente né Antigone né Creonte.
(Lo scritto rielabora la relazione tenuta dall'autrice al XX Congresso nazionale dell'Associazione Cammino, “Diritto d’amore per i vent’anni di Cammino, costruendo percorsi per la tutela dei diritti fondamentali dei soggetti vulnerabili”, che si è tenuto a Roma nei giorni 25-25-27 gennaio 2024. Si tratta della prima di una serie di pubblicazioni sulla nostra Rivista in tema di "diritto d'amore" per condividere le riflessioni emerse in occasione del Convegno.)
[1] S. Rodotà, Diritto d’amore, in Pol. Dir., 2014, p. 335; poi Id., Diritto d’amore, ed. Laterza, 2014.
[2] V. proprio S. Rodotà, Foucault e le nuove forme del potere, ed. L’Espresso, 2011.
[3] S. Patti, Famiglia e responsabilità civile, Giuffrè, 1984, passim.
[4] J. Abram, Il linguaggio di Winnicott, Franco Angeli, 2013, che rielabora il concetto di Winnicott.
[5] Si consenta il rinvio ad A. Cordiano, Dalle tecniche procreative all’utero artificiale: una storia di limiti e di desiderio, in Nuovi paradigmi della filiazione, a cura di V. Barba, E.W. Di Mauro, B. Concas, V. Ravagnani, Sapienza-University Press, 2023, p. 445.
Immagine: Giuseppe Diotti, Antigone condannata a morte da Creonte, olio su tela, 1845, Accademia Carrara, Bergamo.
Sommario: 1. Perché questa domanda? - 2. La normativa in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro. - 3. Il tavolo di lavoro del 2019 sull’edilizia giudiziaria. - 4. L’individuazione del datore di lavoro. - 5. Gli uffici giudiziari sono articolazioni decentrate o uffici periferici del Ministero della Giustizia?
1. Perché questa domanda?
L’interrogativo su chi debba essere individuato come datore di lavoro negli uffici giudiziari può apparire inutile o superfluo: abbiamo avuto ben due decreti ministeriali, in tempi diversi che danno una risposta univoca: “sono datori di lavoro:…..g) per gli uffici giudiziari, i rispettivi capi, e , in particolare, per gli uffici del giudice di pace, il giudice di pace coordinatore, per i commissariati agli usi civici, i commissari, e per la direzione nazionale antimafia, il procuratore nazionale antimafia”. Dizione contenuta nel D.M 18 novembre 1996 e parimenti ripetuta nel D.M. 12 febbraio 2002.
I dubbi nascono sia sotto il profilo normativo, sia sotto il profilo sostanziale relativo ai poteri decisionali e di spesa di cui deve disporre il soggetto individuato come datore di lavoro.
A livello normativo va tenuto conto che entrambi i decreti ministeriali sono antecedenti alla normativa che ha cambiato, ed in alcuni casi rivoluzionato, sia la tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro (D. lgs. 9 aprile 2008 n.81), sia i ruoli di direzione dell’ufficio giudiziario (D.lgs. 25 luglio 2006 n.240), sia ancora le competenze di Ministero e uffici giudiziari (Commi 526 e seguenti della L. 23 dicembre 2014 n.190).
In particolare questa individuazione nasceva in applicazione di una normativa (il D. lgs.19 settembre 1994 n.626 relativo a salute e sicurezza dei luoghi di lavoro) superata ed assorbita dal D. lgs. n.81/2008 che imponeva all’art.30 l’individuazione da parte del vertice dell’Amministrazione pubblica dei soggetti identificati come datori di lavoro. Ciò risulta evidente anche dal titolo del Decreto Ministeriale del 12 febbraio 2002 “Individuazione del datore di lavoro e vigilanza in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro.” Norma chiaramente abrogata grazie all’entrata in vigore del D. lgs. n.81/2008.
La stessa poca giurisprudenza esistente aumenta le perplessità ed i dubbi. È recente il decreto di archiviazione 7 luglio 2023 nei confronti del Presidente del Tribunale di Milano da parte del G.I.P. presso il Tribunale di Brescia che, per l’incendio sviluppatosi tra il 27 ed il 28 marzo 2020 al settimo piano del palazzo di giustizia di Milano, ha ritenuto che l’attività svolta dai vertici degli uffici milanesi nei confronti del Ministero della Giustizia di segnalazione e richiesta di interventi fosse stata puntualmente effettuata e fosse sufficiente per escludere una sua responsabilità.
Significative sono alcune frasi. “Per quanto riguarda i doveri, in materia di sicurezza, gravanti sui vertici degli Uffici Giudiziari, a prescindere dalla questione relativa all’attribuibilità della qualifica del “datore di lavoro” – apparentemente risolta in senso positivo dall’art. 1 co. 1 lett.G del decreto del Ministero della Giustizia del 12 febbraio 2002 – può certamente ritenersi che costoro siano soggetti alle disposizioni di cui all’art. 18 co III d.lgs. 81/2008, secondo cui obblighi relativi agli interventi strutturali e di manutenzione, necessari per assicurare la sicurezza dei locali e degli edifici (che restano a carico dell’amministrazione tenuta, per effetto di norme o convenzioni, alla loro fornitura e manutenzione), si intendono assolti, da parte dei dirigenti o funzionari preposti agli uffici interessati, con la richiesta del loro adempimento all’amministrazione competente o al soggetto che ne ha l’obbligo giuridico.”
2. La normativa in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro.
Conviene allora verificare a livello normativo chi viene individuato come datore di lavoro. All’art.2 lettera b) del D. Leg. n. 81/2008, che si occupa delle definizioni, viene testualmente scritto:
b) «datore di lavoro»: il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa. Nelle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest’ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall’organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell’ubicazione e dell’ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l’attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa. In caso di omessa individuazione, o di individuazione non conforme ai criteri sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l’organo di vertice medesimo;
Una prima considerazione formale riguarda l’assenza di un’espressa indicazione successiva al Decreto legislativo n.81/2008 dei soggetti individuabili come datori di lavoro negli uffici giudiziari, anche se al riguardo si potrebbe forse far riferimento ai precedenti Decreti Ministeriali già emessi in materia o ancora al Decreto 18 novembre 2014 n.201 (Regolamento recante norme per l’applicazione, nell’ambito dell’amministrazione della giustizia, delle disposizioni in materia di sicurezza e salute dei lavoratori nei luoghi di lavoro) che pur senza alcuna espressa individuazione, fa riferimento al Decreto ministeriale 12 febbraio 2002.
Ma l’elemento sostanziale è determinante, ovvero che nessuno dei dirigenti degli uffici giudiziari ha alcuna autonomia decisionale e di spesa sui terreni relativi all’edilizia giudiziaria e ai luoghi di lavoro.
A ben vedere l’unico cenno al riguardo si ha all’art.3 del D. Leg.25 luglio 2006 n.240 che prevede che l’amministrazione centrale assegni al dirigente amministrativo preposto all’ufficio giudiziario le risorse finanziarie e strumentali per l’espletamento del suo mandato. Risorse che paiono riguardare la gestione ordinaria e non i ben più incisivi interventi necessari in tema di edilizia giudiziaria, per i quali vi è un canale del tutto diverso che deve passare attraverso la Conferenza Permanente. E va anche aggiunto, risorse che oggi vengono stanziate, in misura contenuta, in favore dell’ufficio giudiziario e non al dirigente.
In realtà il punto di discrimine che ha fatto esplodere il problema relativo all’individuazione del datore di lavoro è stato il trasferimento dai Comuni al Ministero della Giustizia di tutte le funzioni in materia di gestione delle risorse materiali, dei beni e servizi per l’amministrazione degli uffici giudiziari, dei loro acquisti, anche in relazione ai beni immobili adibiti ad uffici giudiziari e alle dotazioni serventi (commi 527 e seguenti della L. 23 dicembre 2014 n.190). Difatti tutte queste attività venivano svolte in precedenza sulla base di accordi e direttive da parte degli uffici giudiziari con il Comune di riferimento, ma con grande autonomia da parte dell’ente locale e con strutture tecniche dedicate. Il passaggio, per giunta in modo improvviso e senza preparazione alcuna, di queste complesse attività e delle conseguenti responsabilità al Ministero nella sua struttura centrale, ha semplicemente voluto dire, in assenza di strutture decentrate del Ministero - Dipartimento Organizzazione Giudiziaria, di riversarle sugli uffici giudiziari e sui relativi dirigenti.
Dirigenti, magistrati e (nei limitati uffici in cui sono presenti) amministrativi, che non solo non avevano alcuna struttura tecnica su cui appoggiarsi, ma che per ogni intervento di minima rilevanza erano comunque costretti a rivolgersi al Ministero non avendo alcuna autonomia di spesa (salvo che per la piccola manutenzione).
La precarietà della situazione risulta implicita nel DPCM 15 giugno 2015 n.84 che all’art. 16 prevede che entro 180 giorni venga stabilita l’entrata in funzione degli uffici dirigenziali generali di cui al D. Lgs. n.240/2006 (ovvero l’originario decentramento amministrativo, ora ristretto a tre direzioni) e che nel frattempo “le funzioni attribuite alle direzioni generali possono essere delegate anche in parte agli uffici giudiziari distrettuali”. Uffici dirigenziali generali che comunque non vedevano mai la luce.
Situazione, quella della delega implicita agli uffici giudiziari distrettuali, che quindi da provvisoria e momentanea diventava cronica, perdurando per anni, anche dopo che questa disposizione veniva abrogata nel 2020.
Si pensava altresì di tamponare il nuovo quadro che si era determinato con la creazione della Conferenza permanente in ogni circondario composta dai capi degli uffici giudiziari, dai dirigenti amministrativi e dal Presidente del locale consiglio dell'ordine degli avvocati, - organo comunque chiamato non a decidere, ma ad individuare i fabbisogni necessari per il funzionamento, a segnalare le esigenze e a richiedere gli interventi necessari.
Le Conferenze permanenti potevano quindi essere solo uno strumento consultivo, di propulsione e di raccolta e trasmissione delle esigenze, non certo decisionale[1].
La cronicità della situazione che comportava un forte aumento di responsabilità verso operatori e utenti, senza avere né capacità di spesa, né autonomia decisionale in questo settore, faceva sempre più esplodere il problema con richieste di intervento da parte dei dirigenti degli uffici sia al Ministero che al C.S.M.
3. Il tavolo di lavoro del 2019 sull’edilizia giudiziaria.
D’altro canto anche il Ministero della Giustizia non si trovava ad affrontare una situazione facile. Con l’art.5 comma 3 lett. b) del DPCM 15 giugno 2015 n.84 venivano attribuite alla Direzione generale delle risorse materiali e delle tecnologia, incardinata nel Dipartimento Organizzazione Giudiziaria, le competenze connesse alle spese di funzionamento degli uffici giudiziari secondo le previsioni normative vigenti tempo per tempo, nonché quelle relative alla predisposizione e attuazione dei programmi per l’acquisto, la costruzione, la permuta, la vendita, la ristrutturazione dei beni immobili, in tal modo concentrando presso una sola struttura la gestione delle risorse materiali, dei beni e dei servizi dell’amministrazione giudiziaria, in precedenza esercitata da diversi uffici dell’amministrazione centrale unificando quanto prima era suddiviso. Tale Regolamento prevedeva anche la competenza delle Direzioni Generali decentrate, poi mai costituite. In tal modo tutte le competenze in materia di spese obbligatorie relative agli uffici giudiziari, in precedenza attribuite ai Comuni, venivano riversate direttamente sulla Direzione generale delle risorse materiali e delle tecnologie del Ministero della Giustizia che pacificamente non aveva né uomini, né strutture per reggerle.
Alcuni dati fanno capire le dimensioni epocali dell’impatto che il passaggio di competenze comportava e l’impossibilità da parte del Ministero di farvi fronte: 971 immobili da gestire, 6000 contratti nei quali subentrava il Ministero, una media di 244 milioni di euro nel triennio per quanto concerne le spese di funzionamento.[2]
La situazione era ulteriormente complicata dal fatto che il trasferimento delle spese di funzionamento degli uffici giudiziari al Ministero della Giustizia determinava il passaggio della gestione di tali immobili nell’ambito della complessa disciplina generale del Sistema Accentrato delle Manutenzioni previsto dall’art. 12 del D.L. n. 98/2001 che assegna all’Agenzia del Demanio la competenza in ordine alle decisioni di spesa riguardanti gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria sugli immobili demaniali e comunali, nonchè in quelli in locazione passiva, destinati ad uffici giudiziari. L’Agenzia del demanio veniva così ad assumere, sulla base dell’attività di validazione ed assegnazione delle priorità tecniche da parte dei competenti Provveditorati per le Opere pubbliche e dei limiti di fondi disponibili, le decisioni di spesa per la manutenzione ordinaria e straordinaria, sia pure con la possibilità di specifiche deroghe codificate.[3]
Situazione complicata sia per la ripartizione di competenze, sia per la difficoltà di rapportarsi con l’Agenzia del Demanio ed i Provveditorati per le Opere pubbliche, istituzioni anch’esse oberate e carenti di personale e spesso problematiche anche solo per arrivare ad un contatto, con tempi tutt’altro che certi per la stessa gestione della programmazione e affidamento dei lavori.
Tale situazione indubbiamente critica portava il Ministero della Giustizia – Dipartimento Organizzazione giudiziaria a costituire con provvedimento del 24 aprile 2019 il Tavolo tecnico in materia di spese di funzionamento e di edilizia giudiziaria al quale partecipavano gli organi apicali di diverse Corti di Appello e Procure generali unitamente ad alcuni dirigenti amministrativi e rappresentanti dell’Avvocatura. Il Tavolo, a differenza di quanto spesso accade, si dimostrava di rara rapidità ed efficienza e pur con poche riunioni (cinque) giungeva a produrre proposte e decisioni, poi riassunte nella Relazione conclusiva del Tavolo tecnico in materia di spese di funzionamento e di edilizia giudiziaria dell’8 ottobre 2019 a firma del Capo Dipartimento. Da un lato venivano indicati gli interventi di breve periodo con il reclutamento di nuovo personale tecnico, di cui veniva stabilita una dotazione organica di 200 unità (63 funzionari tecnici e 137 assistenti tecnici), ripartiti a livello territoriale ed inquadrati presso gli uffici distrettuali, di cui partivano le procedure per l’assunzione, realizzata in tempi estremamente celeri. Dall’altro venivano proposti interventi a regime con la creazione di strutture periferiche di livello dirigenziale non generale funzionalmente dipendenti dalla Direzione generale delle risorse materiali e delle tecnologie e dotata di sufficienti unità dei profili tecnici, amministrativi e contabili cui veniva affidata la gestione di tutte le attività di edilizia giudiziaria e connesse, comprendendo tutte le materie trasmesse dai Comuni al Ministero. In tal modo rimane in capo agli uffici giudiziari unicamente la gestione della spesa relativa alle spese ordinarie e di mero funzionamento dell’Ufficio.[4]
Il Tavolo tecnico si concludeva, nel tempo record di sei mesi, individuando altresì una serie di nodi ulteriori da sciogliere da affrontare successivamente. Tavolo che anche a causa del Covid e del passaggio di legislatura veniva ripreso con tempi ed efficacia molto più blanda solo nel 2022.
Una delle questioni pacificamente irrisolte era proprio quella relativa a chi dovesse essere individuato come datore di lavoro.
In ogni caso le direzioni territoriali non generali venivano istituite con il Decreto Ministeriale 14 aprile 2022 che individuava la loro localizzazione in sette uffici periferici, siti in Torino, Venezia, Roma, Napoli, Palermo, Firenze, Milano, con competenza interregionale. Gli organici delle stesse (complessivamente 333 unità) venivano determinati con Decreti Ministeriali del 31 maggio 2023. Allo stato risulta in atto la procedura di reclutamento, ma le direzioni non risultano ancora costituite.
La creazione di queste direzioni avrà comunque un impatto sull’individuazione del datore di lavoro proprio per le competenze in materia di edilizia e lato sensu sicurezza che ricadranno su di loro.
4. L’individuazione del datore di lavoro.
Al di là della determinazione formale operata dal Ministero occorre quindi rifarsi ai requisiti che il D.Lgs. n.81/2008, ma anche i precedenti decreti in materia, individuavano per verificare chi fosse il datore di lavoro: colui che è responsabile dell’organizzazione dell’ufficio in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa.
Ed è indubbio che i poteri decisionali e di spesa in materia di edilizia giudiziaria e di gestione degli uffici giudiziari spettino e ricadano sul Ministero della Giustizia e sulle sue articolazioni, ovvero oggi solo la Direzione generale delle risorse materiali e delle tecnologie e domani anche le direzioni decentrate, ovviamente nei limiti delle competenze e risorse che loro verranno attribuite. Direzioni decentrate che superano anche le inevitabili perplessità derivanti dalla evidente lontananza del Ministero dei vari luoghi ed ambienti di lavoro in cui si articolano gli uffici giudiziari. [5]
I magistrati dirigenti degli uffici ed i dirigenti amministrativi hanno ovviamente un ruolo assimilabile a quello di dirigente[6] o preposto[7], con i relativi obblighi che comunque sono ben delineati dall’art. 18 comma 3.
“Gli obblighi relativi agli interventi strutturali e di manutenzione necessari per assicurare, ai sensi del presente decreto legislativo, la sicurezza dei locali e degli edifici assegnati in uso a pubbliche amministrazioni o a pubblici uffici, ivi comprese le istituzioni scolastiche ed educative, restano a carico dell'amministrazione tenuta, per effetto di norme o convenzioni, alla loro fornitura e manutenzione. In tale caso gli obblighi previsti dal presente decreto legislativo, relativamente ai predetti interventi, si intendono assolti, da parte dei dirigenti o funzionari preposti agli uffici interessati, con la richiesta del loro adempimento all'amministrazione competente o al soggetto che ne ha l'obbligo giuridico.”
Il principio generale è che al potere di gestione e di spesa corrispondono simmetriche responsabilità: è l’effettiva ripartizione dei poteri all’interno della struttura a conformare la posizione del garante – datore di lavoro. Per cui il magistrato dirigente ed il dirigente amministrativo di un ufficio giudiziario avranno obblighi e responsabilità solo per quel limitato campo, anche relativo a sicurezza e igiene del lavoro, su cui hanno potere di intervento diretto (ad esempio l’ergonomia delle postazioni, gli estintori e le vie di uscita), mentre per il resto hanno un obbligo di segnalazione e di richiesta di intervento. L’ipotesi da qualcuno avanzata di far ricadere tutti gli obblighi sul dirigente amministrativo, dando una valenza molto ampia al citato art. 3 D. Lgs. n.240/2006, pare francamente insostenibile a fronte di plurimi argomenti. Da un lato le competenze che gli vengono date dalla legge sono limitate e ben definite e non significano una reale autonomia di spesa, dall’altro in concreto le risorse oggi vengono attribuite all’ufficio e non al dirigente amministrativo. Occorre sempre ricordare che l’art. 1 comma 1 del D. Lgs.n.240/2006 attribuisce “al magistrato capo dell’ufficio la titolarità e la rappresentanza dell’ufficio, nei rapporti con enti istituzionali e con i rappresentanti degli altri uffici giudiziari, nonché la competenza ad adottare i provvedimenti necessari per l’organizzazione dell’attività giudiziaria e, comunque, concernenti la gestione del personale di magistratura ed il suo stato giuridico”. E ciò ha portato sinora ad investire il magistrato capo dell’ufficio di quanto concerne le spese di funzionamento, quanto meno nella determina e nella firma.
Così pure non convince l’idea di scindere le responsabilità tra magistrato dirigente e dirigente amministrativo, l’uno per quanto riguarda i magistrati e l’altro per ciò che concerne il personale amministrativo. Chi pensa ad un’ipotesi di tal fatta non si rende conto come la normalità è che i magistrati ed il personale amministrativo operino negli stessi ambienti di lavoro e che la finalità del D. Lgs. n.240/2006, ben espressa nell’art. 4, è proprio quella di creare una direzione integrata che punti sull’unicità dei programmi e delle finalità e che pertanto non consente scissioni.
Ne consegue che il datore di lavoro è il Ministero, ma che vi sono obblighi concorrenti che riguardano anche chi opera sul territorio e che, come tale, è in grado di rendersi conto di manchevolezze e fonti di rischio e di conseguentemente di segnalarle e chiedere i necessari interventi.
5. Gli uffici giudiziari sono articolazioni decentrate o uffici periferici del Ministero della Giustizia?
Va infine sfatata o, almeno, posta in dubbio l’idea diffusa che gli uffici giudiziari siano articolazioni decentrate o uffici periferici del Ministero della Giustizia. La stessa scelta del decentramento operata (pur senza essere poi seriamente coltivata) nel D. Lgs. n.240/2008 evidenzia come lo stesso Ministero non ritenesse di avere fino a quel momento articolazioni decentrate. Emblematici sono i titoli del Capo II “Articolazioni decentrate del Ministero della Giustizia” e dell’art 6 “Uffici periferici dell’organizzazione giudiziaria”. La stessa dizione di uffici periferici dell’organizzazione giudiziaria viene usata nel Decreto ministeriale 14 aprile 2022 quando si parla delle nuove direzioni territoriali. E laddove il Ministero ha voluto coinvolgere gli uffici giudiziari lo ha detto espressamente. Nell’art. 6 comma 1 del DPR 18 agosto 2015 n.133 si chiarisce che le Conferenze permanenti operano “nell’ambito degli indirizzi e secondo le linee di pianificazione strategica stabiliti dal Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi del Ministero”. E nello stesso articolo 6 al comma 3 si prevede che “possono essere delegate ai capi degli uffici giudiziari le competenze relative alla formazione dei contratti necessari all’attuazione dei compiti di cui all’art. 4 comma 1.[8]Nella materia della sicurezza le medesime competenze possono essere delegate al procuratore generale.” Come del resto si faceva nel già citato art.16 comma 4 del DPCM 15 giugno 2015 n.84 laddove si prevedeva che nell’attesa della costituzione delle Direzioni generali decentrate “le funzioni attribuite alle direzioni generali possono essere delegate anche in parte agli uffici giudiziari distrettuali”. Norma poi abrogata.
Del resto se uno legge con attenzione da un lato il complesso disposto normativo che oggi si può definire come Ordinamento Giudiziario o, dall’altra parte, il Regolamento del Ministero della Giustizia non troverà alcuna interazione, trattandosi da una parte degli uffici destinati ad amministrare la giustizia e dall’altra l’istituzione centrale cui sono demandati, senza alcun rapporto gerarchico, ma semmai servente, “l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia” come recita l’art.110 della Costituzione. Una delega potrà essere sempre possibile trattandosi di organi con competenze (anche) amministrative, e dovendosi mantenere un costante rapporto di leale collaborazione, ma dovrà essere di volta in volta accettata, creando un quadro di obblighi a carico del delegato.
La questione in realtà è estremamente delicata perché deve coniugare profili di efficienza dell’intero sistema con le garanzie di indipendenza da assicurare agli uffici giudiziari. Uffici dipendenti dal Ministero, anche solo funzionalmente, rischiano comunque di essere condizionati. D’altro canto le esigenze di organizzazione e di efficienza impongono un’ottica nazionale. Al riguardo l’idea di direzione decentrate, come sorta di centro servizi degli uffici sulla base di un livello minimo di prestazioni assicurate, può essere un passo in avanti.
Una prospettiva forse nuova ed inusuale, ma che merita quanto meno una riflessione.
[1] “La Conferenza permanente, tenuto conto del decreto di cui all'articolo 1, commi 528 e 529, della legge, individua e propone i fabbisogni necessari ad assicurare il funzionamento degli uffici giudiziari e indica le specifiche esigenze concernenti la gestione, anche logistica e con riferimento alla ripartizione ed assegnazione degli spazi interni tra uffici, la manutenzione dei beni immobili e delle pertinenti strutture, nonché quelle concernenti i servizi, compresi il riscaldamento, la climatizzazione, le utenze, la pulizia e la disinfestazione, la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti, il giardinaggio, il facchinaggio, i traslochi, la vigilanza e la custodia, compresi gli aspetti tecnici e amministrativi della sicurezza degli edifici. Restano ferme le competenze dei titolari dei poteri di spesa.”
[2] I dati sono ripresi dalla Relazione conclusiva del Tavolo tecnico in materia di spese di funzionamento e di edilizia giudiziaria dell’8 ottobre 2019.
[3] Le deroghe che si sostanziano nel fatto che gli interventi sono effettuati con fondi del Ministero della Giustizia riguardano i seguenti casi: 1. Nuove costruzioni e ampliamenti, 2. Piccola manutenzione, 3. Somma urgenza, 4. Interventi per l’adeguamento alla sicurezza sul lavoro. 5.Valutazioni di vulnerabilità sismica. 6.Ipotesi minori.
[4] Un’altra delle determinazioni uscite dal Tavolo tecnico è stato l’inserimento stabile da prevedersi a livello normativo della presenza dell’Avvocatura nelle Conferenze permanenti, poi recepito nella legge di bilancio 2020.
[5] Comunque sia pure in materia aziendale la Cassazione ha ritenuto di qualificare come datore di lavoro il soggetto che esercita i poteri decisionali e di spesa “con riferimento a tutta l’operatività aziendale” “l’unicità del concetto di datore di lavoro” porterebbe ad “escludere che la relativa figura possa essere sotto-articolata a seconda delle funzioni svolte o dei settori produttivi”.(Cassazione sezione III 15 febbraio 2022 n.9028)
[6] La definizione che dà del dirigente l’art 2 lettera d) del D. Lgs n.81/2008 è la seguente: "dirigente": persona che, in ragione delle competenze professionali e di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell'incarico conferitogli, attua le direttive del datore di lavoro organizzando l'attività lavorativa e vigilando su di essa.
[7] La definizione che dà del preposto l’art 2. Lettera e) del D. Lgs n.81/2008 è la seguente: "preposto": persona che, in ragione delle competenze professionali e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell'incarico conferitogli, sovrintende alla attività lavorativa e garantisce l'attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere di iniziativa esercitando un funzionale potere di iniziativa.
[8] “La Conferenza permanente, tenuto conto del decreto di cui all'articolo 1, commi 528 e 529, della legge, individua e propone i fabbisogni necessari ad assicurare il funzionamento degli uffici giudiziari e indica le specifiche esigenze concernenti la gestione, anche logistica e con riferimento alla ripartizione ed assegnazione degli spazi interni tra uffici, la manutenzione dei beni immobili e delle pertinenti strutture, nonché quelle concernenti i servizi, compresi il riscaldamento, la climatizzazione, le utenze, la pulizia e la disinfestazione, la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti, il giardinaggio, il facchinaggio, i traslochi, la vigilanza e la custodia, compresi gli aspetti tecnici e amministrativi della sicurezza degli edifici. Restano ferme le competenze dei titolari dei poteri di spesa.
“Unpacking the courts”: prevenzione e reazione agli attacchi all’indipendenza dei giudici. Brevi riflessioni a partire dal Convegno “Giudice e stato di diritto”
di Simone Pitto
Sommario: 1. Introduzione – 2. Indipendenza dei giudici e stato di diritto – 3. Bersagli e custodi - 4. Rule of law, CEDU e Consiglio d’Europa – 5. L’indipendenza dei giudici come valore fondante dell’Unione europea - 6. La Consulta e l’espansione del principio dell’indipendenza del giudice - 7. Alcune osservazioni di chiusura
1. Introduzione
Il presente scritto muove dalle riflessioni su indipendenza e imparzialità delle corti svolte dai relatori del Convegno “Giudice e stato di diritto”, organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura il 20.10.2023 presso l’Accademia Nazionale dei Lincei, alla presenza del Presidente della Repubblica, i cui atti sono stati recentemente raccolti nel volume “Il giudice e lo stato di diritto. Indipendenza della magistratura e interpretazione della legge nel dialogo tra le Corti”, Milano Giuffré, 2024[1].
I lavori del convegno si sono focalizzati su un tema di particolare attualità: il significato odierno dell'indipendenza delle corti a livello nazionale ed europeo e il suo valore per lo stato di diritto[2].
In una società libera e democratica, l’indipendenza della magistratura rappresenta per i cittadini la prima garanzia di una decisione giudiziaria fondata esclusivamente sulla legge[3] e dell’uguaglianza effettiva di tutti d’innanzi alla stessa[4]. Autonomia e l’indipendenza della magistratura, inoltre, costituiscono un baluardo a protezione del principio della separazione dei poteri. Sono infatti naturalmente orientate ad evitare che le decisioni del giudice risultino condizionate da interessi politici, personali o logiche di carattere maggioritario estranee a quelle del solo diritto[5].
Tali garanzie rappresentano l’eredità del costituzionalismo liberaldemocratico inteso come processo di progressiva limitazione del potere[6] e di affermazione di un nucleo di diritti inviolabili dell’individuo[7], i quali trovano nella giurisdizione la sede privilegiata per la loro protezione di fronte ad eventuali limitazioni e lesioni, anche da parte dei pubblici poteri[8].
In questo quadro, uno degli elementi di più attuale interesse rispetto ai temi del convegno riguarda le minacce all’indipendenza delle corti e le relative misure di reazione. Le recenti vicende di regressione democratica che hanno caratterizzato alcune esperienze di democrazie c.d. illiberali nel cuore dell’Europa ed il conseguente tentativo di “impacchettare le corti” nazionali e costituzionali[9], hanno contribuito a riportare la tematica al centro delle preoccupazioni delle istituzioni unionali e della giurisprudenza delle corti europee[10]. Vicende centrali anche negli interventi del convegno dei Lincei svolti dalla Presidente emerita della Corte costituzionale Marta Cartabia, dalla Presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo Siofra O’Leary, dal Presidente della Corte di giustizia dell’Unione europea Koen Lenaerts, dalla Presidente uscente della Consulta Silvana Sciarra e dal Presidente della Scuola Superiore della Magistratura Giorgio Lattanzi[11].
2. Indipendenza dei giudici e stato di diritto
Il concetto di stato di diritto ha subito un’evoluzione dall’originaria visione ottocentesca di mera soggezione dello Stato al diritto da esso emanato, come osservato da Natalino Irti nell’intervento di apertura del convegno[12]. Dall’indicare un modello, inedito per l’epoca, di Stato contrapposto a quello assolutistico e fondato sulla soggezione dei poteri pubblici alla legge e la separazione di quegli stessi poteri, lo stato di diritto si è così via arricchito di significati ulteriori. Tra questi, il controllo giurisdizionale garantito da giudici indipendenti a garanzia delle libertà individuali[13], attuato anche nei confronti dei poteri pubblici ma anche la prevedibilità del diritto[14].
Si può osservare che l’indipendenza dei giudici risulta centrale in tutte le principali (e non sempre pienamente sovrapponibili) declinazioni esistenti in altri contesti giuridici del lemma concettuale dello stato di diritto, quali i concetti di rechtsstaat[15], état de droit[16], estado de derecho e rule of law[17].
L’indipendenza della magistratura, d’altra parte, assume un valore peculiare all’interno dello stato di diritto. Per usare le parole di Giuliano Amato, tale valore si coglie considerando che «il cuore vero del costituzionalismo» risiede proprio in «quella dialettica iurisdictio/gubernaculum, in cui prese corpo il limite al potere e quindi la stessa rule of law»[18].
Lo stato di diritto, rimasto a lungo oggetto di interesse solo per gli studiosi, come osserva la Presidente emerita Marta Cartabia, è tornato in tempi più vicini a noi fortemente al centro della vita pubblica, sia a livello nazionale, sia europeo e internazionale. Lo dimostrano i numerosi interventi e moniti preoccupati di istituzioni come la Commissione europea ma anche il Consiglio d’Europa e la Commissione di Venezia, promotori di diverse raccomandazioni a vari Stati proprio sul rispetto dello stato di diritto.
Desta particolare interesse, inoltre, il discorso del Segretario Generale delle Nazioni Unite citato dall’ex Presidente della Consulta[19], secondo il quale saremmo di fronte ad un declino dei valori fondanti della rule of law a livello globale. Valori da molti considerati come acquisiti, tanto sono scolpiti nelle fondamenta della tradizione giuridica liberaldemocratica, ma che risultano minacciati, da più fronti, anche in ordinamenti che si ispirano dichiaratamente al principio democratico.
Lo stato di diritto risulta sotto attacco da parte di regimi restii ad accettare la limitazione delle proprie prerogative da parte del giudiziario e intenzionati a sovvertire i meccanismi legali che garantiscono ai giudici di svolgere le proprie funzioni. È accaduto in Polonia, fra l’altro, con la “cattura” della Corte costituzionale da parte della compagine governativa guidata dal partito Diritto e Giustizia (PiS) e le modifiche alle norme dell’ordinamento giudiziario tese a realizzare pensionamenti anticipati di magistrati sgraditi. Ma anche in Ungheria, con le modifiche sull’accesso in magistratura, le promozioni e i trasferimenti tesi a penalizzare e isolare la magistratura indipendente[20]. O ancora in Israele, dove la proposta di una discussa riforma della giustizia – da molti considerata lesiva delle prerogative della magistratura – aveva dato avvio ad un’ondata di proteste prima dei drammatici recenti eventi dell’ottobre 2023 e della successiva escalation militare[21]. Tra gli altri esempi che residuano, si può citare anche il recente e forse meno esplorato caso della Romania[22].
Le minacce non sono del tutto inedite ma l’elemento che le rende particolarmente insidiose si apprezza con particolare riguardo all’utilizzo dei nuovi e potenti mezzi dell’era della comunicazione digitale che, alimentando fake news e disinformazione, contribuiscono all’inasprimento del clima. A ciò si aggiunge che, in molti casi, bersagli di tali “attacchi digitali” sono stati direttamente i magistrati. Ciò è avvenuto ancora in Polonia con il tentativo di raccogliere dati sull’appartenenza ad associazioni, fondazioni e gruppi d’opinione finalizzati alla creazione di un bollettino pubblico (Biuletyn Informacji Publicznej), in seguito dichiarato contrario al GDPR e al diritto al rispetto della vita privata e familiare di cui all’art. 7 della Carta di Nizza in una recente decisione della Corte di Lussemburgo[23].
3. Bersagli e custodi
L’emersione di modelli democratici illiberali si accompagna quindi a crescenti tensioni nei rapporti istituzionali e ad attacchi che hanno come obiettivo privilegiato i giudici e la loro indipendenza. Si tratta di fenomeni non solo circoscritti all’area europea e piuttosto eterogenei quanto alle modalità e alla gravità. Nella bipartizione proposta dalla Presidente emerita Marta Cartabia si distinguono in primo luogo i tentativi di “court-packing” perpetrati attraverso un indebolimento dei giudici e delle garanzie della loro indipendenza[24]. Vari sono gli esempi di questo genere: si possono citare gli interventi sulle nomine per allargare l’influenza delle componenti politiche maggioritarie, l’anticipazione dell’uscita dei magistrati sgraditi attuata tramite misure di pensionamento o retrocessioni di carriera o ancora l’intervento sulle disposizioni che regolano il funzionamento interno delle corti e le maggioranze necessarie alle deliberazioni[25].
Una seconda categoria di attentati all’indipendenza del giudiziario individuata verte più direttamente sui poteri e le funzioni dei giudici e trova il proprio bersaglio privilegiato nel controllo di legittimità costituzionale. Vi rientrano i tentativi di limitare il vaglio delle corti costituzionali a determinati atti ovvero a specifici vizi, ovvero di intervenire sulle norme che regolano il funzionamento dei tribunali costituzionali[26]; ma anche, più in generale, le misure volte a sterilizzare le potenzialità dello strumentario a disposizione dei giudici di legittimità costituzionale. Ne è un esempio il tentativo di limitare il vaglio di ragionevolezza sulle leggi attuato recentemente in Israele[27].
Se è vero che l’indipendenza delle corti rappresenta uno degli elementi fondamentali dello stato di diritto, o rectius dello stato costituzionale europeo di diritto, sotto altra prospettiva, va considerato che i giudici possono assumere anche un ruolo da custodi del sistema[28].
In primo luogo, le componenti fondanti dello stato di diritto, tra cui le garanzie di indipendenza del giudiziario, la separazione dei poteri e la tutela giurisdizionale di diritti ed interessi legittimi risultano di norma tutelate nei testi delle costituzioni nazionali. Tali disposizioni, dunque, possono essere invocate nell’ambito dei meccanismi di controllo di legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge limitativi dell’indipendenza della magistratura[29].
Ma gli strumenti a disposizione delle corti, almeno nel contesto europeo, non si limitano ai meccanismi di controllo giurisdizionale e costituzionale propri del solo contesto nazionale. I giudici europei, infatti, possono contare sul rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea a presidio dei valori fondanti dello stato di diritto tutelato dall’art. 2 del TUE[30]. Proprio con riguardo alle vicende polacche e ungheresi, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha dimostrato il proprio ruolo di interlocutore privilegiato per autorità giurisdizionali nazionali in sofferenza siccome minacciate nelle proprie prerogative di indipendenza. La giurisprudenza evolutiva della CGUE, inoltre, ha progressivamente affinato gli strumenti di enforcement dei valori fondamentali dell’Unione[31].
Alla Corte di Lussemburgo si affianca ancora il Consiglio d’Europea e, soprattutto, la Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale ha ricondotto le lesioni all’indipendenza della magistratura e della rule of law alle garanzie procedurali di cui all’art. 6 CEDU. Accanto a questi meccanismi di tutela, dei quali si dirà di più nelle pagine seguenti, si accostano naturalmente gli strumenti giurisdizionali di cui dispongono i giudici come individui, grazie ai quali possono reagire agli eventuali attacchi diretti e lesivi delle proprie libertà costituzionali.
4. Rule of law, CEDU e Consiglio d’Europa
L'intervento della Presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo Siofra O'Leary ha fornito una panoramica completa della presenza dello stato di diritto nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo e nel sistema della CEDU. Il rispetto della rule of law, innanzitutto, rappresenta uno dei principi costitutivi l’appartenenza degli Stati al Consiglio d’Europa, come testimoniato dall’art. 3 dello Statuto di tale organo[32]. Gli stessi principi animano del resto in larga parte le disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e, in particolare, il suo art. 6[33].
Nella relazione della Presidente O’Leary risulta di particolare interesse la riflessione sui problematici contorni definitori della poliedrica nozione di rule of law, punto di convergenza di visioni del diritto anche piuttosto distanti tra i diversi Stati aderenti al Consiglio d’Europa[34]. Proprio in virtù di queste criticità definitorie assume maggior importanza il lavoro svolto dalla Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto, comunemente nota come Commissione di Venezia. La “checklist” sulla rule of law elaborata dalla Commissione[35], infatti, rappresenta un riferimento giuridico e culturale primario per enucleare le componenti minime del principio valevoli per gli Stati parte del Consiglio d’Europa. Ad avviso della Commissione di Venezia, in sintesi, sono cinque gli elementi fondamentali della rule of law: (i) legalità, (ii) certezza del diritto, (iii) prevenzione dell'abuso o dell'uso improprio dei poteri; (iv) uguaglianza davanti alla legge e non discriminazione e, infine, (iv) l’accesso alla giustizia. Per ogni componente sono altresì indicate alcune sottocomponenti. Tra queste, la prima sottocomponente del principio dell’accesso alla giustizia è proprio l’indipendenza della magistratura, a sua volta vagliata tramite la verifica dell’indipendenza dell’ordine giudiziario nel suo complesso, nonché dei singoli giudici. Tra le altre sottocomponenti relative all’accesso alla giustizia vi sono, ancora, il controllo di costituzionalità delle leggi ed il giusto processo (fair trial). La garanzia di quest’ultimo tramite la sottoposizione di reclami e ricorsi ad un «tribunale indipendente e imparziale» è del resto espressamente sancita anche dall’art. 6 CEDU.
Proprio sulle garanzie del giusto processo si sono incentrate alcune delle principali pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo dedicate allo stato di diritto nel sistema della CEDU e all’indipendenza della magistratura. A partire dal caso Golder v. Regno Unito del 1975[36], richiamato dalla Presidente O’Leary[37], la Corte rigetta una lettura del principio della rule of law come formula meramente retorica, ammettendo invece la sua rilevanza quale ausilio ermeneutico nell’interpretazione della Convenzione.
Ma la Corte europea dei diritti dell’uomo non si esime dall’entrare direttamente nell’arena della garanzia dell’indipendenza e dell’imparzialità del giudice quando questa risulta minacciata, come dimostrano alcuni recenti casi. Su tutti, i numerosi giudizi che coinvolgono il reclutamento dei giudici e altre disposizioni dell’ordinamento giudiziario in Polonia[38].
Nella recentissima decisione Wałęsa c. Polonia del 23 novembre 2023[39], la Corte di Strasburgo ha nuovamente condannato la Polonia per la violazione di diverse disposizioni della CEDU, tra cui proprio l’art. 6. La decisione origina da una denuncia per diffamazione proposta dall’ex Presidente polacco Lech Wałęsa, premio Nobel per la pace e leader di Solidarność, accusato di aver collaborato con i servizi di sicurezza[40]. La Corte europea ha negato la natura di giudice indipendente e imparziale della Camera di Controllo Straordinario e degli Affari Pubblici istituita presso Corte Suprema polacca che aveva esaminato l'appello straordinario proposto nel caso Wałęsa avverso la decisione di condanna di primo grado. La Camera polacca è stata ritenuta priva delle garanzie di imparzialità dell’art. 6 CEDU, tra l’altro, in ragione della sua composizione, del ruolo del procuratore generale (che nel sistema polacco è anche ministro della giustizia) e in relazione al principio di certezza del diritto[41]. Significativamente, anche tenuto conto della presenza di oltre 400 giudizi pendenti nei confronti della Polonia in argomento, il caso Wałęsa è stato considerato dalla Corte alla stregua di una sentenza pilota[42]. Si riconoscono infatti violazioni sistemiche dal punto di vista delle garanzie della rule of law che si traducono in ripetute violazioni dell’art. 6 CEDU, con un chiaro messaggio alle autorità polacche ed un complesso di indicazioni relative alle aree in cui sono necessari interventi per ripristinare lo stato di diritto[43].
In altri casi, quali Baka c. Ungheria, ulteriori disposizioni della CEDU, come gli articoli 8 (diritto alla vita privata e familiare) e 10 (libertà di espressione), sono state utilizzati come presidi a tutela di turbative dell’indipendenza dei giudici[44]. La Corte ha messo in relazione tali disposizioni con interferenze da parte di poteri politici passibili di incidere sull’autonomia dei giudici. Come osservato dalla Presidente O’Leary, la Corte fornisce così una risposta perentoria di fronte al possibile effetto paralizzante offerto dai tentativi di sanzionare i giudici per la partecipazione al dibattito pubblico.
In nuce, se è vero che la Convenzione e la Corte non prescrivono un solo modello uniforme e generale per i sistemi giudiziari nazionali, la centralità dei principi della rule of law nell’impianto della CEDU richiede in ogni caso l’adozione di garanzie concrete per proteggere l'indipendenza giudiziaria e la separazione dei poteri, la cui mancanza può comportare la violazione delle disposizioni della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo.
5. L’indipendenza dei giudici come valore fondante dell’Unione europea
La giurisprudenza delle Corti di Strasburgo e Lussemburgo sullo stato di diritto e l’indipendenza delle Corti pare presentare derive in parte sovrapponibili, come evidenziato dal Presidente della Corte di Giustizia Koen Lenaerts nella propria relazione[45]. L'indipendenza del potere giudiziario, sancita nella maggioranza delle costituzioni degli Stati membri dell’Unione europea, costituisce un elemento di precipua importanza anche per i rapporti e la fiducia tra gli Stati membri. Si deve infatti considerare la forte integrazione raggiunta tra i sistemi giudiziari dei diversi sistemi europei, favorita dai regolamenti che ormai da decenni garantiscono il mutuo riconoscimento delle decisioni ed altre forme di cooperazione giudiziaria alla base, ad esempio, del mandato d’arresto europeo[46]. Tali istituti si reggono sulla fiducia riposta da ciascuno Stato membro sul rispetto delle garanzie minime di imparzialità, indipendenza delle corti e tutela dei principi del giusto processo facenti parte delle tradizioni costituzionali comuni da parte degli altri Stati.
Si colloca proprio in questo contesto la decisione dei giudici portoghesi citata dal Presidente Lenaerts, considerata un “momento costituzionale” di fondamentale importanza nell'applicazione del principio di indipendenza giudiziaria[47]. Il Presidente Lenaerts richiama un dibattito attualissimo nel diritto costituzionale europeo che vede proprio nella partita giocata sulla rule of law e la condizionalità al bilancio dell’UE una nuova possibile fase costituzionale per l’Unione[48].
La Corte ha in particolare ricondotto l'articolo 19 del Trattato sull'Unione Europea – e segnatamente il riferimento all’obbligo degli Stati di stabilire i rimedi necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto unionale – ai valori dell'Unione sanciti dall'articolo 2 del trattato e, in particolare, alla garanzia dello stato di diritto[49]. Nell’ottica della CGUE, in altre parole, l'indipendenza giudiziaria è vista anche come una forma di protezione dei valori fondanti dell’Unione.
Un altro ambito ove è stata evidenziata la centralità dell’indipendenza delle corti nazionali nella giurisprudenza della Corte di Lussemburgo è quello della cooperazione in materia penale. Le fattispecie più ricorrenti riguardano il mandato d’arresto europeo (MAE). Va richiamata, a questo riguardo, la giurisprudenza sulle c.d. circostanze eccezionali: elementi insuperabili che minano quella fiducia presunta tra autorità giurisdizionali degli Stati membri impedendo di dar seguito ad un MAE in ragione di gravi carenze degli organi giudiziari nazionali[50]. I tribunali di alcuni Stati membri hanno così ritenuto opportuno inoltrare rinvii pregiudiziali ex art. 267 TFUE alla Corte di giustizia per evitare di diventare complici involontari nella violazione dei principi di indipendenza del giudiziario alla base della rule of law in caso di cooperazione giudiziaria con autorità giurisdizionali polacche.
Ancora, nel caso LM[51], una corte irlandese aveva proposto un rinvio pregiudiziale dubitando di poter dare esecuzione ad un MAE richiesto da autorità polacche in presenza di timori circa la violazione dello stato di diritto e dell’indipendenza dei giudici nel paese[52]. In quell’occasione, la Corte di Giustizia ha ribadito l’obbligo di tutte le autorità giudiziarie degli Stati membri di garantire il rispetto dei valori comuni europei e ricondotto in capo alle corti nazionali il dovere di valutare in concreto la presenza di violazioni dello stato di diritto[53]. Secondo la Corte, più nel dettaglio, l’autorità giurisdizionale nazionale dovrà valutare “l’esistenza di un rischio reale di violazione del diritto fondamentale a un equo processo, connesso a una mancanza di indipendenza dei giudici di detto Stato membro, a causa di carenze sistemiche o generalizzate in quest’ultimo Stato”[54].
La lezione della giurisprudenza della Corte di giustizia, sotto altro profilo, si coglie non solo rispetto all’affermazione di garanzie a presidio dei valori fondanti dell’Unione in materia di rule of law e indipendenza del giudiziario ma anche laddove la Corte mette in guardia di fronte al rischio di una loro successiva alterazione o diminutio. La dottrina della c.d. “non regressione” ha così fatto frequentemente ingresso nelle decisioni dei giudici di Lussemburgo, i quali hanno ricordato la necessità degli Stati membri di non compiere passi indietro negli impegni assunti in relazione all’amministrazione della giustizia, pena il rischio di apertura di procedure di infrazione[55].
6. La Consulta e l’espansione del principio dell’indipendenza del giudice
Le Corti europee possono dunque giocare un ruolo di rilievo nel vigilare sul rispetto dei principi dello Stato di diritto in materia di indipendenza del giudiziario. Ma tali principi, come si è detto, non possono che trovare nella rigidità costituzionale e nel controllo di costituzionalità delle leggi da parte dei giudici costituzionali le primarie e più immediate difese. L’intervento della Presidente Sciarra[56], in tale prospettiva, ha così evidenziato il ruolo svolto della Corte costituzionale italiana nell'interpretazione dei valori costituzionali rilevanti per lo stato di diritto e nella loro armonizzazione con la normativa europea e le letture ermeneutiche offerte da autorità sovranazionali, nel segno di quel dialogo tra corti ormai consolidato da tempo[57].
Nel suo discorso, la Presidente uscente della Consulta ha sottolineato la centralità della presenza di indicatori trasparenti e non estemporanei per individuare il livello di aderenza allo stato di diritto. Vi rientrano, oltre alla checklist sopra richiamata, la relazione sullo stato di diritto della Commissione Europea ed il rapporto del segretario generale del Consiglio d'Europa. Questi indicatori, uniti agli approdi ermeneutici delle Corti europee, costituiscono preziosi ausili per i giudici nazionali al fine di compiere quella valutazione sul rispetto della rule of law anche ai fini della cooperazione giudiziaria eurounitaria.
L’indipendenza dell’autorità giudiziaria viene così a costituire un prerequisito per qualsiasi giudice che intenda intervenire nel sistema multilivello di protezione dei diritti ovvero beneficiare dei meccanismi di cooperazione giudiziaria e dialogo tra corti a livello europeo[58].
Tali principi possono estendersi anche al sistema di cooperazione tra consigli giudiziari e, in particolare, al CCEJ (Consultative Council of European Judges), organo consultivo del Consiglio d’Europa e all’ENCJ (European Networks of Councils for the Judiciary)[59]. Quest’ultimo, peraltro, ha mostrato l’intenzione di applicare detti principi alla lettera, escludendo il Consiglio Nazionale della magistratura polacco dalla Rete europea dei consigli di giustizia in ragione del venir meno delle fondamentali garanzie di indipendenza del giudiziario[60].
Meccanismi di questo tipo – osserva la Presidente Sciarra – concorrono a creare una sinergia tra corti e consigli giudiziari che consente un controllo “tra pari” per garantire il rispetto dell’indipendenza dei giudici, considerata un prerequisito per ogni corte nazionale che intenda dialogare con le Corti europee[61].
In tale contesto, anche la Corte costituzionale italiana si è fatta partecipe di questi sforzi sinergici a presidio dell’indipendenza dei giudici. La Corte ha riconosciuto la centralità dell’indipendenza nel sistema costituzionale a partire da sé stessa: la Consulta ha infatti affermando che, alla luce delle attribuzioni della Corte come “altissimo organo di garanzia dell'ordinamento repubblicano”[62], devono essere “assicurate sotto ogni aspetto - anche nelle forme esteriori - la più rigorosa imparzialità e l'effettiva parità rispetto agli altri organi immediatamente partecipi della sovranità”[63]. Nella medesima decisione, la Corte ha aggiunto che “[u]na tale esigenza, per l'appunto, è testualmente affermata nell'art. 137 della Costituzione, laddove, nel primo comma riserva alla legge costituzionale di stabilire - tra l'altro – “le garanzie di indipendenza dei giudici”. La Consulta ricorda in questa pronuncia anche la lungimiranza della scelta dei Costituenti di sottoporre le guarentigie dell’indipendenza della Corte costituzionale alla protezione ulteriore offerta dal procedimento aggravato previsto per la legge costituzionale. L’importanza di tale primaria garanzia si apprezza muovendo lo sguardo oltre confine e pensando all’“impacchettamento” della Corte costituzionale polacca da parte della maggioranza guidata dal PiS, avvenuta – diversamente dal caso ungherese – a costituzione invariata[64].
Sotto altro profilo, la Consulta si è fatta promotrice dell’espansione del principio dell’autonomia e dell’indipendenza del giudiziario e dell’armonizzazione tra le disposizioni della CEDU, l’interpretazione della Corte di Strasburgo e le norme costituzionali interne[65]. Ha così supportato una lettura dell’indipendenza funzionale del giudice e della sua soggezione soltanto alla legge in combinato disposto con le previsioni dell’art. 47 della Carta di Nizza e dell’art. 6 CEDU[66].
Altro contesto nel quale l’indipendenza del giudice è frequentemente comparsa nella giurisprudenza del giudice costituzionale italiano è quello delle norme sull’ordinamento giudiziario, rispetto alle quali la Corte ha chiarito la portata del principio della soggezione del giudice soltanto alla legge. Nella sentenza 50/1970 richiamata dalla Presidente Sciarra, la Corte esclude la violazione del principio per il caso in cui la pronuncia del giudice si fondi non direttamente su una disposizione di legge bensì su un'altra decisione[67]. Nella sentenza n. 263/1991, ancora, l’art. 101 Cost. è utilizzato per ribadire l’indipendenza del giudice all’interno dello stesso ordinamento giudiziario, arricchendo e specificando il principio della distinzione tra magistrati solamente in base alle funzioni ricoperte di cui all’art. 107 Cost.
Va anche ricordata la giurisprudenza sull’accesso in magistratura, ove la Consulta riconduce l’accesso tramite concorso di cui all’art. 106 proprio alle garanzie dello stato di diritto e, in particolare, alla separazione tra funzione giurisdizionale e altri poteri dello Stato[68].
La Corte italiana ha in effetti coperto quasi l’intero ventaglio delle fattispecie di possibile rilevanza del principio dell’indipendenza del giudice descritte nei precedenti paragrafi con riguardo alla giurisprudenza delle Corti europee. Lo si apprezza con ulteriore riguardo alla fissazione del punto di equilibrio tra diritti fondamentali, prerogative e doveri dei magistrati. In relazione alla partecipazione a partiti politici, così, la Corte ha affermato la necessità di equilibrio e misura nella garanzia della libertà di manifestare le proprie idee, limitando le forme di partecipazione sistematica e continuativa ma comunque garantendo a tutti i magistrati il diritto alla libera espressione[69].
Parimenti presente nella giurisprudenza del giudice delle leggi è il nesso tra funzione giurisdizionale indipendente e stato di diritto, espresso tra l’altro nella sentenza n. 127/2022. In tale occasione, la Corte ha affermato che “prescrizioni restrittive degradanti per la persona, per quanto previste dalla legge e necessarie a perseguire il «fine costituzionalmente tracciato» che le giustifica (sentenza n. 219 del 2008), non possono sfuggire alla riserva di giurisdizione, perché esse, separando l'individuo o un gruppo circoscritto di individui dal resto della collettività, e riservando loro un trattamento deteriore, portano con sé un elevato tasso di potenziale arbitrarietà, al quale lo Stato di diritto oppone il filtro di controllo del giudice, quale organo chiamato alla obiettiva applicazione della legge in condizioni di indipendenza e imparzialità”.
Il quadro giurisprudenziale così tratteggiato delinea, quindi, una nozione ampia di indipendenza del giudice scolpita dalla Consulta tra le righe degli artt. 101 e ss. della Costituzione e prova della piena aderenza dell’ordinamento costituzionale ai principi dello Stato di diritto[70].
7. Alcune osservazioni di chiusura
Nel contesto giuridico contemporaneo, le corti hanno assunto un ruolo crescente, specialmente in questioni come i nuovi diritti, la bioetica e le sfide della tecnologia[71]. Tale ruolo è reso anche più difficile dall’accresciuta complessità dell’attività ermeneutica giudiziale, favorita dalla pluralità di fonti di riferimento, dall’integrazione sovranazionale e dalla tendenza alla specializzazione delle discipline giuridiche emergenti[72]. Il processo di integrazione delle corti nell’ambito nel sistema unionale ha incrementato inoltre i casi in cui il giudice può discostarsi dalla legge nazionale, consentendo la disapplicazione del diritto interno contrario a quello unionale.
L’attuale ruolo del giudice accresce però la sua esposizione ed il rischio di conflittualità, sia più “fisiologiche”, per l’adeguamento della dialettica tra poteri negli ordinamenti costituzionali, sia più propriamente patologiche. Riguardo a queste ultime, non pare casuale che i primi “mattoni” dell’edificio democratico che i regimi illiberali tentano di smantellare siano proprio i presidi dell’indipendenza dei giudici, al fine di arginare i possibili ostacoli al disegno di ridefinizione della vita pubblica da questi propugnato. Si coglie così l’importanza, in ottica di prevenzione, della presenza nei testi costituzionali di riserve di legge non troppo ampie ovvero di rinforzate, come quella prevista dalla nostra Costituzione per la Corte costituzionale a salvaguardia delle guarentigie di indipendenza dei giudici.
Sotto altro profilo, le corti – e in particolare quelle costituzionali – si pongono come custodi della garanzia dello stato di diritto e rappresentano i primi soggetti in grado di reagire di fronte alle sue violazioni.
Non sono però le sole: gli altri “anticorpi” forniti dal diritto dell’Unione consentono di rispondere a possibili regressioni democratiche e lesioni dei principi dello stato di diritto con strumenti sempre più sofisticati[73]. La giurisprudenza sviluppata dalle corti europee sul punto e richiamata a più voci durante il convegno e nei relativi atti, oltre a rappresentare un prezioso supporto per i casi più gravi, consente di diffondere una visione integrata dei valori comuni in tema di rule of law, attraverso la quale andranno lette ed interpretate le disposizioni nazionali.
L’indipendenza del giudice, onnipresente nelle diverse declinazioni che assume lo stato di diritto, rappresenta la primaria garanzia di un giudizio imparziale e dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge, come sottolineato, fra l’altro, nell’intervento del Presidente Lattanzi[74]. Le limitazioni all’indipendenza del giudiziario, pertanto, costituiscono oggetto di interesse non solo con riguardo al principio della separazione dei poteri ma anche, più direttamente, per la vita di tutti i consociati.
Nell’ottica della prevenzione di possibili lesioni all’indipendenza del giudice, come sottolineato dalla Presidente Cartabia, assume così particolare rilievo la diffusione della cultura della difesa dei valori dello stato di diritto anche presso la società civile ed il suo mantenimento, in uno sforzo che deve costituire un impegno costante[75].
1 G. LATTANZI, M. MAUGERI, G. GRASSO (a cura di), Il giudice e lo stato di diritto. Indipendenza della magistratura e interpretazione della legge nel dialogo tra le Corti, Milano, 2024, reperibile in open access nel sito web della Scuola Superiore della Magistratura.
[2] I lavori integrali del Convegno sono parimenti disponibili sul canale YouTube della Scuola Superiore della Magistratura.
[3] In ottemperanza al principio di legalità e alla soggezione del giudice soltanto alla legge di cui al nostro art. 101 Cost.
[4] Così ponendosi in relazione anche col principio di legalità. In argomento si vedano le sempre attuali considerazioni di A. PIZZORUSSO, Principio democratico e principio di legalità, in Questione giustizia, 2, 2003.
[5] Sul punto si vedano le considerazioni finali di G. CASCINI, Quello che serve davvero per la giustizia, in Giustizia Insieme, 18 novembre 2023.
[6] Già l’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, peraltro, affermava che “ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri stabilita, non ha una costituzione”. In argomento, G. ROLLA, L'organizzazione costituzionale dello Stato, Milano, 2007.
[7] Cfr. J. HABERMAS, Between Facts and Norms: Contributions to a Discourse Theory of Law and Democracy, Londra, 1992. Si veda anche L. PEGORARO, A. RINELLA, Sistemi costituzionali, Torino, 2020.
[8] S. Holmes, Constitutions and constitutionalism, in M. ROSENFELD, A. SAJO, The Oxford Handbook of comparative constitutional law, Oxford, 2012, 189 ss.
[9] L’espressione “packing” riferita alle corti è diffusa nella letteratura scientifica anglosassone. Cfr. ex multis, M.K. LEVY, Packing and unpacking state courts, in Wm. & Mary L. Rev., 61, 2019, pp. 1121 ss.
[10] L. PECH, K.L. SCHEPPELE, Illiberalism Within: Rule of Law Backsliding in the EU, in Cambridge Yearbook of European Legal Studies, 2017
[11] Gli interventi dei presidenti delle Corti sono stati preceduti da relazioni introduttive svolte da Raffaele Sabato, Marisaria Maugeri e Gianluca Grasso, mentre i lavori sono stati aperti dal Presidente dell’Accademia dei Lincei Roberto Antonelli.
[12] Cfr. N. IRTI, Le ragioni del tema, in G. LATTANZI, M. MAUGERI, G. GRASSO (a cura di), cit., 7 ss. Si veda anche in argomento L. FERRAJOLI, Sul futuro dello stato di diritto e dei diritti fondamentali, in Jura Gentium, 2005.
[13] C. FUSARO, A. BARBERA, Corso di diritto pubblico, Bologna, 2018, 37 ss.
[14] Sul quale Natalino Irti si è diffusamente soffermato durante la propria relazione, richiamando il noto aneddoto del Mugnaio di Sans Souci. N. IRTI, cit., 7.
[15] Cfr. E. BERTOLINI, Indipendenza e autonomia della magistratura senza un organo di autogoverno: il modello tedesco, in DPCE Online, 4, 2020, 4995 ss.
[16] Si vedano J. CHEVALLIER, L’etat de droit, Paris, 1994, M.J. REDOR, De l’etat legal a l’etat de droit : l’evolution des conceptions de la doctrine publiciste francaise, 1879-1914, Paris, 1992.
[17] Nell’impossibilità di entrare nel merito delle complesse sfaccettature delle diverse versioni del principio in questa sede, si rinvia, ex multis, a R. TARCHI, L’approdo europeo del Rule of Law. Riflessioni introduttive e di sintesi, in R. TARCHI, A. GATTI (a cura di), Il rule of law in Europa, Genova, 2023, R. BIN, Rule of Law e ideologie, in G. PINO, V. VILLA (a cura di), Rule of Law. L’ideale della legalità, Bologna, 2016, 38 ss. Come osservato da G. AMATO, peraltro, è importante notare nell’espressione anglosassone la centralità della legge come prius rispetto alla costruzione statale. Inverso è invece l’ordine logico della dottrina tedesca e francese, recepito anche dalla dottrina italiana, che vede lo stato autolimitare sé stesso attraverso la legge.
[18] G. AMATO, Passato, presente e futuro del costituzionalismo, in Nomos, 2, 2018.
[19] M. CARTABIA, I giudici e lo stato di diritto, in G. LATTANZI, M. MAUGERI, G. GRASSO (a cura di), cit., 14.
[20] J. SAWICKI, Democrazie illiberali? L’Europa centro-orientale tra continuità apparente della forma di governo e mutazione possibile della forma di Stato, Milano, 2018; M.A. ORLANDI, La “democrazia illiberale”. Ungheria e Polonia a confronto, in Dir. pubbl. comp. eur., 2019, 167.
[21] Cfr. L. PIERDOMINICI, La riforma della giustizia israeliana: cronache dall’ultima frontiera costituzionale, in Giustizia Insieme, 31.3.2023.
[22] Cfr. G. VOSA, Sulla problematica tutela dello Stato di diritto nell’Unione europea: spunti di diritto costituzionale e comparato a partire dal “caso Romania”, in DPCE Online, 4, 2022, 1886 ss.
[23] Cfr. Corte di Giustizia Europea (Grande Sezione), sentenza del 5 giugno 2023, C-204-21 Commissione europea contro Repubblica di Polonia, sulla quale, si consenta il rinvio (per meri richiami) a S. PITTO, Judicial Independence Under Siege in Poland. The Last Landmark Ruling by the ECJ: repetita iuvant?, in DPCE Online, 3, 2023, 3015 ss.
[24] Cfr. M. CARTABIA, I giudici e lo stato di diritto, cit., 17 ss.
[25] Il caso polacco è ancora paradigmatico al riguardo perché sono state attuate tutte queste misure, anche in assenza di una revisione costituzionale stante l’insufficienza delle maggioranze necessarie da parte della compagine governativa guidata dal PiS. Ma anche in Ungheria e Romani si riscontrano interventi tentati o effettuati in termini analoghi.
[26] Si può citare ancora il caso polacco con la querelle che ha condotto ad una prolungata inattività della Corte costituzionale polacca proprio in ragione delle modifiche alle maggioranze per le deliberazioni. Cfr. Č. PIŠTAN, Giustizia costituzionale e potere giudiziario. Il ruolo delle corti costituzionali nei processi di democratizzazione ed europeizzazione, in A. DI GREGORIO (a cura di), I sistemi costituzionali dei paesi dell’Europa centro-orientale e balcanica (Trattato di diritto pubblico comparato, fondato e diretto da G.F. Ferrari), Walters Kluwer, Milano, 2019, 357 ss. e J. SAWICKI, La conquista della Corte costituzionale ad opera della maggioranza che non si riconosce nella Costituzione, in Nomos, 3, 2016.
[27] L. PIERDOMINICI, cit., passim.
[28] Il dato emerge in particolare dal passaggio della relazione della Presidente Marta Cartabia in cui si afferma che i giudici si trovano al crocevia tra un ruolo da bersagli e da presidi dello stato di diritto. Cfr. M. CARTABIA, I giudici e lo stato di diritto, cit., 17 ss.
[29] Nei sistemi di controllo di tipo diffuso, la verifica verrà operato direttamente dal giudice mentre, nei sistemi accentrati, mediante rinvio ai tribunali costituzionali o ricorso diretto. Sul punto si vedano inoltre infra le considerazioni del par. 7.
[30] A questo si aggiunge anche il rimedio politico (rivelatosi più problematico alla prova dei fatti) dell’art. 7 TUE e, a seguito dei recenti sviluppi nella giurisprudenza della Corte di Lussemburgo, anche l’ulteriore garanzia offerta dal regolamento n. 2092/2020 UE sulla condizionalità al bilancio dell’UE.
[31] E. CUKANI, Condizionalità europea e giustizia illiberale: from outside to inside?, Napoli, 2021, 131 ss.
[32] Verbatim dall’art. 3 dello Statuto: «Ogni Membro del Consiglio d’Europa riconosce il principio della preminenza del Diritto e il principio secondo il quale ogni persona soggetta alla sua giurisdizione deve godere dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Esso si obbliga a collaborare sinceramente e operosamente al perseguimento dello scopo definito nel capo I». Cfr. https://rm.coe.int/1680306052. Vale la pena rilevare che, mentre nella versione ufficiale italiana la sezione dello Statuto che contiene l’art. 3 è denominata “Composizione” nella versione inglese questa è indicata come “Membership”, o appartenenza, così manifestando forse anche più efficacemente il collegamento tra il rispetto della rule of law e l’adesione dello Stato al Consiglio d’Europa e ai suoi valori.
[33] La Presidente O’Leary ha ricordato altresì come lo spazio di applicazione della CEDU copra attualmente 46 Stati e circa 700 milioni di persone. S. O’LEARY, L’indipendenza del giudice alla luce della giurisprudenza della corte europea dei diritti dell’uomo, in G. LATTANZI, M. MAUGERI, G. GRASSO, cit., 29.
[34] A un concetto già ampio e sfaccettato in una singola tradizione giuridica, peraltro, si sommano le accennate peculiarità presenti nelle altre declinazioni del principio frutto di patrimoni giuridici differenti e condensati nelle definizioni di rule of law, rechtsstaat, estado de derecho e état de droit.
[35] La checklist è reperibile sul sito web del Consiglio d’Europa.
[36] Corte europea dei diritti dell’uomo, Golder v. United kingdom, application n. 4451/70, 21 febbraio 1975.
[37] S. O’LEARY, cit., 32.
[38] Tra le altre Grzęda v. Poland, application n. 43572/2018 del 15 maggio 2021 e Xero Flor w Polsce sp. Z o.o. v. Poland del maggio 2021. In argomento, A. WOJCIK, Defiance of EU Law by the Polish Constitutional Tribunal, in IACL-AIDC Blog, 28 novembre 2023.
[39] Wałęsa v. Poland, application n. 50849/21, decisione del 23/11/2023.
[40] Più nel dettaglio, Walesa aveva vinto una causa per diffamazione contro Wyszkowski, ex collega e membro dell'opposizione anticomunista, per le accuse, mosse da quest'ultimo, di aver collaborato con i servizi comunisti negli anni Settanta. Wyszkowski si è in seguito scusato pubblicamente per le accuse, rivelatesi interamente infondate. Nel gennaio 2020, però, il Procuratore generale polacco ha presentato, molti anni dopo la data in cui la sentenza era divenuta esecutiva, un "appello straordinario" per conto di Wyszkowski presso la Camera di revisione straordinaria e affari pubblici della Corte Suprema, tramite la procedura introdotta con la legge del 2017 sulla Corte Suprema del PiS. Tale iniziativa aveva condotto nel 2021 al ribaltamento della prima sentenza favorevole a Walesa.
[41] Anch’esso facente parte delle componenti della rule of law come ricordato nella checklist della Commissione di Venezia. Sul punto la Corte ha in particolare censurato il potere illimitato attribuito al Procuratore generale per la contestazione delle pronunce dell’organo ed il difetto di chiarezza della normativa processuale.
[42] Cfr. G. REPETTO, L’effetto di vincolo delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo nel diritto interno: dalla riserva di bilanciamento al ‘doppio binario’, in Dir. pubbl., 2014, 1092 ss.
[43] Alle quali si richiede di adottare misure generali per la garanzia dell’imparzialità e l’indipendenza delle corti. Di recente, a seguito del risultato delle ultime elezioni, il governo polacco guidato da Donald Tusk ha peraltro stabilito un dialogo preliminare con le istituzioni dell’Unione europea per avviare riforme volte a ripristinare, anche nel settore della giustizia, lo stato di diritto. Le indicazioni della Corte EDU, in questa prospettiva, possono fornire un prezioso ausilio per supportare tale processo di riforma.
[44] Baka. V. Ungheria, application n. 20261/12, Grande Chambre, 23/06/2016.
[45] Cfr. K. LENAERTS, La giurisprudenza della Cgue sull’indipendenza della magistratura, in G. LATTANZI, M. MAUGERI, G. GRASSO, cit., 61 ss.
[46] In argomento cfr. S.M. CARBONE, et al., Cooperazione giudiziaria civile e penale nel diritto dell’Unione europea, Torino, 2008.
[47] Corte di giustizia, 5 novembre 2019, Commissione v. Polonia, causa C-192/18, ECLI:EU:C:2019:924. La pronuncia originava infatti da un rinvio pregiudiziale della Corte amministrativa suprema del Portogallo.
[48] In argomento si vedano le riflessioni sul costituzionalismo trasformativo di A. VON BOGDANDY, L.D. SPIEKER, Transformative Constitutionalism in Luxembourg: How the Court Can Support Democratic Transitions, in Columbia Journal of European Law e A. VON BOGDANDY et al., Un possibile «momento costituzionale» per lo Stato di diritto europeo. L’importanza delle linee rosse, in Forum Quaderni Costituzionali, 12 luglio 2018, 865 ss. esposte dall’autore, da ultimo, durante la sessione plenaria del Convegno ICON-S svoltosi all’Università Bocconi nell’ottobre del 2023.
[49] In argomento, E. CIMADOR, La Corte di giustizia conferma il potenziale della procedura d’infrazione ai fini di tutela della rule of law. Brevi riflessioni a margine della sentenza Commissione v. Polonia (organizzazione tribunali ordinari), in Eurojus, 1, 2020.
[50] Cfr. tra le altre Corte di giustizia, 19 settembre 2018, RO, causa C-327/18, PPU, ECLI:EU:C:2018:733. In argomento si veda anche G. MICHELINI, Stato di diritto ed integrazione processuale europea. La Corte di giustizia ed il caso Polonia, in Questione Giustizia, 27/07/2018.
[51] Corte di Giustizia, causa C-216/18 PPU, sentenza (Grande sezione) 25 luglio 2018.
[52] Verso la Polonia, infatti, era stata attivata la procedura di cui all’art. 7 c. 1 TUE e ciò poneva la Corte irlandese di fronte al dubbio di esporre l’imputato a violazioni ai principi del giusto processo in caso di trasferimento in carico alle autorità polacche. Cfr. amplius C. PINELLI, Violazioni sistemiche dei diritti fondamentali e crisi di fiducia tra Stati membri in un rinvio pregiudiziale della High Court d’Irlanda, in Quad. cost., 2, 2018, 510 ss.
[53] Per fare ciò, precisa la Corte, il giudice deve prendere in considerazione l’esistenza di eventuali violazioni sistemiche e accertarsi che dall’esecuzione della condanna dell’imputato nello Stato richiedente non derivi una violazione dei principi dello stato di diritto.
[54] V. par. 89 sent. Corte di Giustizia, caso LM, C- 216/18.
[55] Si veda in particolare il caso Repubblika v Il-Prim Ministru, 20 aprile 2021, C-896/19. In argomento, cfr. J. SAWICKI, La collisione insanabile tra diritto europeo primario e diritto costituzionale interno come prodotto della manomissione ermeneutica di quest’ultimo, in DPCE Online, 4, 2021 e M. LELOUP, D.V. KOCHENOV, A. DIMITROVS, Non-Regression: Opening the Door to Solving the ‘Copenhagen-Dilemma’? All the Eyes on Case C-896/19 Repubblika v Il Prim-Ministru, in Reconnect Working Paper, No. 15, 2021.
[56] Cfr., nel volume inclusivo degli atti del Convegno, S. SCIARRA, L’indipendenza del giudice alla luce della giurisprudenza della corte costituzionale, in G. LATTANZI, M. MAUGERI, G. GRASSO, cit., 85 ss.
[57] Sul punto E. CECCHERINI, L’integrazione fra ordinamenti e il ruolo del giudice, in Dir. pubbl. comp. ed eur., 2, 2013, 467 ss.
[58] In argomento, S. SCIARRA, Identità nazionale e corti costituzionali. il valore comune dell’indipendenza, in AA.VV., Identità nazionale degli stati membri, primato del diritto dell’unione europea, stato di diritto e indipendenza dei giudici nazionali, 6 ss.
[59] Sulla cooperazione tra consigli giudiziari in Europa si rinvia a D. KOSAŘ, Beyond Judicial Councils: Forms, Rationales and Impact of Judicial Self-Governance in Europe, in German Law Journal, 19.7, 2018, 1567-1612 e O.P. CASTILLO ORTIZ, Councils of the judiciary and judges’ perceptions of respect to their independence in Europe, in Hague Journal on the Rule of Law, 9, 2017, 315-336.
[60] Cfr. Deliberazione dell’Assemblea Generale dell’ENCJ del 17 settembre 2018.
[61] Cfr. S. SCIARRA, L’indipendenza del giudice, cit., 86-87.
[62] La citazione è da farsi risalire alle parole di Vezio Crisafulli.
[63] Corte cost. sent. n. 15/1969, estensore Vezio Crisafulli. Si riporta di seguito il passaggio per esteso: “Ed è chiaro che compiti siffatti postulano che l'organo cui sono affidati sia collocato in posizione di piena ed assoluta indipendenza rispetto ad ogni altro, in modo che ne risultino assicurate sotto ogni aspetto - anche nelle forme esteriori - la più rigorosa imparzialità e l'effettiva parità rispetto agli altri organi immediatamente partecipi della sovranità. Postulano, in altri termini, un adeguato sistema di guarentigie, attinenti sia al collegio nel suo insieme, sia ai singoli suoi componenti, tra queste ultime rientrando le particolari incompatibilità sancite nei loro confronti durante la carica, che sono indubbiamente ordinate al medesimo principio”.
[64] Il PiS non disponeva di maggioranze sufficienti per modificare la Costituzione ma ha potuto nondimeno svuotare di significato il principio della separazione dei poteri (affermato dalla Carta polacca) semplicemente intervenendo sulle norme primarie che regolano il funzionamento della Corte e le garanzie dell’imparzialità dei suoi giudici, anche grazie a riserve di legge rivelatesi forse troppo ampie.
[65] Cfr. sentenza Corte cost. n. 215/2016, secondo cui “È costante, nella giurisprudenza di questa Corte, l'affermazione in forza della quale indipendenza e imparzialità devono ritenersi connotazioni imprescindibili dell'azione giurisdizionale, sia essa esercitata dalla magistratura ordinaria, dagli organi di giurisdizione speciale costituzionalizzati (ex art. 103 Cost.: Consiglio di Stato, Corte dei conti, Tribunali militari), dai giudici speciali pre-costituzionali ritenuti compatibili con la carta costituzionale (artt. 108 Cost. e VI delle disposizioni transitorie e finali della Costituzione), dalle sezioni specializzate della giurisdizione ordinaria, composte anche da giudici non togati ex art. 102, secondo comma, Cost. (ex plurimis la sentenza n. 193 del 2014, già citata, che aveva ad oggetto lo stesso organo di giurisdizione speciale oggetto della attuale disamina; ancora, le sentenze n. 353 del 2002, sulla composizione del Tribunale regionale delle acque pubbliche e n. 262 del 2003, sulla composizione della sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura)”.
[66] Cfr. ex multis, Corte cost. n. 223/2012.
[67] Il tema si è recentemente riproposto in termini simili con la sentenza n. 137/2023.
[68] Nella sentenza 41/2021, in particolare, la Corte afferma che “La regola generale del pubblico concorso è stata individuata come quella più idonea a concorrere ad assicurare la separazione del potere giurisdizionale dagli altri poteri dello Stato e la sua stessa indipendenza, a presidio dell'ordinamento giurisdizionale, posto dalla Costituzione, nel Titolo IV della sua Parte II, quale elemento fondante dell'ordinamento della Repubblica”. Cfr. S. SCIARRA, Il giudice, cit., 96.
[69] Cfr., tra le altre, Corte cost. sent. n. 224/2009.
[70] Malgrado la Costituzione italiana non utilizzi espressamente la formula “stato di diritto”, essa è del resto presente diffusamente nella giurisprudenza della Consulta ma anche nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente come osserva R. BIN, cit., passim.
[71] Rispetto alle quali in molti casi i tempi della legislazione, si rivelano spesso molto più lenti rispetto alle esigenze impellenti della società e degli operatori giuridici.
[72] Le nuove complessità dell’interpretazione giudiziale sono state menzionate in diversi interventi, tra cui quello di Natalino Irti.
[73] La tensione tra Polonia, Ungheria e Unione Europea ha stimolato un miglioramento nelle garanzie della rule of law europea, come dimostrato dall’entrata in vigore del meccanismo della condizionalità di cui al regolamento 2020/2092. In argomento, cfr. E. CUKANI, cit., passim e A. VON BOGDANDY, cit., passim.
[74] Cfr. G. LATTANZI, Saluti introduttivi, in G. LATTANZI, M. MAUGERI, G. GRASSO (a cura di), cit., 1 ss.
[75] Cfr. M. CARTABIA, The rule of law and the role of courts, in Italian Journal of Public Law, 1, 2018, 2.
Immagine fonte: Rijks Museum, Amsterdam.
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