ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La riforma della giustizia pone la giustizia consensuale, la mediazione, come la novità del nostro tempo. Le nuove linee e le prospettive indicate dal legislatore riguardano sia gli ambiti di applicazione sia la nuova ratio.
Nel suo complesso, apre alla soluzione delle controversie non più solo a partire dal diritto, dall’applicazione della legge, ma anche degli aspetti soggettivi e relazionali che le hanno determinate. In questo senso le riconosce, finalmente, il ruolo che le appartiene in una logica divergente rispetto al decreto n. 28/2010. Eppure cristallizza la mediazione secondo una differenziazione di cui non si riesce a giustificare Il senso. Ci sono norme e regolamentazioni diverse se si tratta di mediazione familiare o di giustizia riparativa in ambito penale o di mediazione civile/commerciale.
In particolare quest’ultima non è stata liberata da asfittiche logiche negoziali ed è stata proceduralizzata a tal punto da limitare la modalità di attuazione. A renderla più rigida e formale e meno flessibile e personalizzata. A farla assomigliare più ad una corazza piuttosto che ad un vestito su misura e seconda della taglia della persona che lo indossa. Fuori da metafora, adattata cioè all’unicità ed originalità di ogni situazione.
Intanto ha ampliato le materie soggette a condizione di procedibilità (mediazione obbligatoria), aggiungendo le controversie in tema di contratti di associazione in partecipazione, contratti di consorzio, contratti di franchising, contratti d'opera, contratti di rete, contratti di somministrazione, contratti di subfornitura, società di persone (art. 5); ha recepito gli approdi delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 19596/2020 in riferimento al funzionamento della condizione di procedibilità nel processo di opposizione a decreto ingiuntivo (art. 5 bis); ha autorizzato l'amministratore di condominio ad attivare una procedura di mediazione, aderirvi e parteciparvi, senza dover ottenere una delega/autorizzazione dall'assemblea dei condomini con sottoposizione dell’eventuale bozza di accordo o proposta di conciliazione eventualmente formulata dal mediatore all'approvazione dell'assemblea (art. 5-ter); ha innovato in tema di mediazione demandata dal giudice (art. 5-quater) e in tema di mediazione su clausola contrattuale o statutaria (art. 5-sexies).
Certamente si può ritenere che sia una legislazione ancora in progress e che presenti criticità che attendono di essere sanate.
Di fatto però, a me così piace pensare, fonda il valore riparativo della mediazione in qualsiasi ambito essa venga applicata.
Qui ci soffermeremo sulla rivoluzione culturale che avvia. Infatti, accanto alle questioni procedurali che questo Istituto comporta per i giuristi, perché abbia un senso pieno, deve essere esplorato con attenzione per il cambio di paradigma che pone. Che è nuovo e chiede di mutare la mentalità. Che, definito il disvalore del fatto oggetto della contesa secondo la legge, lo incarna nella realtà dei protagonisti.
Sento per questo necessario e urgente riflettere sul senso profondo su cui si basa. Sono convinta che lo si trovi nell’incontro tra scienze diverse che convergono nel dare punti di vista utili alla costruzione dello statuto epistemologico della mediazione. Indico come privilegiato il pensiero filosofico, quello giuridico, l’antropologia e la sapienza spirituale. Ed è interessante vedere come da presupposti diversi si trovino radici comuni e trasversali che collocano la mediazione in un orizzonte che è interessante ricercare e perseguire. Il pensiero che ne risulta concorda nel presentarla come un volano di cambiamento migliorativo della risposta al bisogno di giustizia della persona. Mi piace citare tra i tanti che sarebbe doveroso ricordare, Salvatore Natoli, filosofo non credente, che riferendosi al Vangelo di Matteo, mette in luce la crucialità della riconciliazione quando scrive che neppure Dio può perdonare se prima non vi sia stato un atto di riconciliazione tra chi ha subito un torto e chi lo ha perpetrato: “se ti ricordi … che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5,23).; e Pietro Bovati, gesuita biblista, che insegna come la giustizia divina non coincida con la condanna del colpevole, presentando il “non giudizio di Dio nei testi biblici”.
Senza la dovuta attenzione a questi presupposti, la mediazione potrebbe divenire per la società un servizio povero, orientato solo al “fare" e cioè alla ricerca di una chiusura del contenzioso, frettolosa e senza le garanzie processuali. Un istituto solo apparentemente innovativo ma piegato a logiche meramente deflattive, o a motivi di risparmio economico per le spese di giustizia.
In tal caso un procedimento, nato per consentire un confronto libero tra i protagonisti delle vicende conflittuali, condizione che permette quel sostanziale riavvicinamento che un procedimento formalizzato impedisce può ridursi ad una prassi di seconda categoria. Diverrebbe così una opportunità persa.
Parlare di mediazione, qualunque sia il contesto in cui si applica, a mio parere invece significa per ogni cittadino entrare nella storia del contenzioso, vedere le sue radici nel vissuto personale, lambire le responsabilità individuali rispetto alle azioni compiute e agli effetti che hanno generato, sostare nell’umanesimo e, soprattutto, elaborare una cultura del vivere colto e coltivato. Significa ancora far emergere un nuovo modo di intendere la giustizia per superare i contenziosi che la vita di tutti presenta; infatti, un diverso rapporto con il prossimo è l’incipit di ogni possibile relazione, evidenziando ciò che unisce piuttosto che ciò che divide a partire dai pensieri differenti, dalle personali credenze e valutazioni, dal proprio sistema di valori. In questo senso, quindi significa abitare ed incarnare una nuova modalità dell’essere.
L’istituto della mediazione ha origine antichissima dove la parola, che diventa dialogo, prende il posto della violenza, per la costruzione di un percorso comune, non più dettato dall’individualismo. Questo il senso del suo essere giustizia riparativa in senso lato, non solo in ambito penale. È riparativa delle violenze fisiche e morali connesse sempre ad ogni conflitto interpersonale, ad ogni sopruso, ad ogni reato. Indipendentemente dagli ambiti in cui si applica, civile, commerciale, amministrativo, penale, familiare, sociale, scolastico, ecc.
Non ci sono infatti contenziosi dove non interviene, più o meno in modo prevalente, la dimensione dei vissuti personali che ha determinato il groviglio, l’irrigidimento, la fissazione nelle proprie posizioni contrapposte all’altro: considerata non semplice controparte ma un nemico da distruggere. Per questo, sempre, la mediazione deve assumere come suo scopo precipuo la trasformazione delle relazioni che hanno generato il contrasto, mutando in ciascuno dei confliggenti la percezione del punto di vista dell’altro e chiarendo, al contempo, il proprio, precisando gli obiettivi reali e le motivazioni che spingono a trovare vie d’uscita soddisfacenti per tutti. Questo è il vincolo di ogni mediazione se si vuole mantenerne il valore. Se il mediatore sceglie, per non assumersene il peso e l’onere, di piegarla e snaturarla al livello di mero accordo, questo sarà “di carta”, durerà lo spazio di un momento e lascerà tutti insoddisfatti.
Da qui la sfida di un diritto che da “retributivo” diventa anche “riparativo” attraverso la mediazione che fa evolvere e trasforma il contenzioso in un’occasione di riappacificazione e di crescita personale.
La mediazione, intesa secondo il modello umanistico-filosofico, pone davanti ad una grande svolta che, perché davvero diventi efficace, ha bisogno di essere sostenuta e difesa; in particolare prevedendo anche la riformulazione della formazione dei mediatori. E’ necessario infatti che abbiano, oltre che la padronanza della metodologia operativa, soprattutto una formazione di base sul significato umano del conflitto, sul mistero degli eventi della vita, sull’empatia. Queste competenze consentono di riuscire a trasformare i limiti oggettivi della lite in occasioni di crescita e di maturazione. Questo percorso di formazione rende i mediatori capaci di guidare le parti verso la soluzione non solo degli aspetti esteriori, oggettivi, cioè dei motivi per cui si litiga, ma dei motivi soggettivi che sono le vere radici del conflitto.
In questo senso è una rivoluzione culturale coraggiosa. Rischiosa. Giovane e vantaggiosa.
Porta verso una giustizia differente da quella che conosciamo e dispensiamo ma è in linea con il bisogno profondo di giustizia del cittadino: bisogno unanime seppure non uniforme.
Cosa vorrebbe la persona quando in un contenzioso personale si ritiene di vittima di una ingiustizia?
E quando è autore di ingiustizia? Sarebbe opportuno che si rispondesse schiettamente a queste domande.
Ci fermiamo per ora alla prima ipotesi, la più facile. Quando si ritiene di subire un torto quale giustizia si invoca? Quella dei Tribunali? Sembra di no, infatti la società civile spesso così risponde: “in queste evenienze ho bisogno di parlare del conflitto che mi oppone e mi opprime; di capire meglio ciò che mi risulta un inaccettabile sopruso; di un ascolto empatico che mi faccia sentire accolto e sostenuto; ho un legittimo desiderio di trovare qualcuno che mi dia ragione”.
Il tribunale non è il luogo dell’ascolto. Non è in tribunale che la persona che ha subito un trauma può essere aiutata a elaborarlo; non è neppure il luogo dove il colpevole di un reato può vedere quali sono gli effetti sulla vittima di ciò che ha fatto.
Il dono che invece può dare la giustizia consensuale è di guarire le ferite e instaurare il dialogo, di dare alle parti in lite la possibilità di esternare il loro dolore e, dall’altra parte, far sentire responsabili quelli che la giustizia ordinaria si limita a giudicare soccombenti o vincitori. In una parola, una giustizia dove al centro dell’interesse ci siano le persone, con la loro storia e le loro emozioni. Dove le procedure non sono rigide e standardizzate.
In questa accezione la riforma attuale è coraggiosa.
Infatti ciò che non si esprime si imprime e primo o poi esplode senza regole né limiti. Palare del conflitto, che sta dietro e dentro il contenzioso, quindi è già, in qualche modo, curativo e catartico: la via per risolverlo, per trovare la forza di immaginare soluzioni creative, riparative, generative.
Radicali le differenze con le vie giudiziarie. Diverso è il valore attribuito al dissidio. Il danno conseguente non viene visto solo come oggettivo ma prevalentemente come soggettivo.
Non dipende dal tipo di conflitto, così come da fattispecie giuridica, ma dal significato che ha per chi lo vive. Una rapina può essere un evento di poco conto o può cambiare la vita di una persona.
Inoltre il giudizio è rigido, gli accordi di mediazione invece sono plurali flessibili e creativi.
Questo è possibile se l’accompagnamento è di alto profilo professionale, se quindi il mediatore sa curare il percorso che porta all’incontro e al dialogo, cioè oltre il monologo “tra sordi” che caratterizza normalmente il parlare di chi litiga. Se il mediatore sa condurre, senza maschere, ipocrisie e infingimenti alla ricerca delle radici profonde che hanno determinato l’evento.
Per questo deve essere lui stesso persona capace di non giudicare, di non consigliare, di mettersi in gioco senza ruoli né toghe, ma in autenticità e verità, con creatività e stupore verso l’originalità e la diversità del singolo essere umano, degna sempre del massimo rispetto.
Sono queste solo alcune caratteristiche di struttura personale dell’essere mediatore, che devono essere allenate nel percorso di formazione, a cui si aggiungono le successive specializzazioni nell’ambito in cui si opera e le procedure metodologiche.
Certamente non si può pensare di lanciare una forma della giustizia, così radicale come questa, senza considerare che le vicende umane sono sempre complesse. Né si può sostituire, o meglio affiancare, il paradigma giudiziario che conta su figure lungamente preparate, con nuovi professionisti senza che questi abbiano, in altro modo, la stessa sostanza formativa.
Occorre contare su professionisti che devono saper considerare il fatto oggettivo che contrappone i confliggenti come l’espressione finale di un groviglio che sta tutto nella sfera intima, personale, affettiva e relazionale e dargli centralità: infatti tutto ciò che nel processo non si manifesta, potremmo dire non ha diritto di esserci, nella mediazione diventa il centro dell’attenzione.
Questa nuova logica è ancora, e forse lo sarà sempre, un orizzonte di senso mai pienamente compiuto ma a cui avvicinarci nel modo corretto e completo.
Tante le raccomandazioni che sento la responsabilità di segnalare oggi che una nuova partenza richiede la migliore attenzione da parte di tutti: cittadini, accademia, operatori della giustizia.
Vale la pena ribadire che se si è consapevoli che la nuova mediazione è altro da quella che si è avviata in questi anni passati, urge attivare uno studio, non solo statistico ma anche e soprattutto qualitativo e sistemico, per cogliere le criticità che la precedente ha comportato e ad approntare i giusti interventi. Così evitiamo che le attuali prassi si fissino e permangano anche in presenza di un fare di altra natura richiesto dalla Riforma della Giustizia.
L’aver fatto esperienza concreta, come mediatore e come formatore, con modalità riflessiva, da tempo mi ha consentito di superare il diffuso stile enfatico buonista, perdonista, o tantomeno ieratico e consolatorio che troppo spesso viene espresso da chi considera solo la portata ideale di questa nuova linea culturale.
Per questo ritengo che la visione di mediazione ora introdotta richieda un intervento su vari piani, difficile e complesso, in questo senso è rischiosa perché ancora non se ne intravvedono le giuste condizioni, in particolare mi riferisco al debole dibattito sulla formazione della nuova figura professionale.
Ho visto le parti in seduta di mediazione avere comportamenti manipolatori ed in malafede che mi hanno confermato che l’animo umano è fatto anche di egoismi, arrivismi, sopraffazioni, menzogne. Mai ho registrato forme di ravvedimento iniziali, nessuna delle parti ha mostrato di aver avuto l’illuminazione sulla via di Damasco iniziando il percorso di mediazione, di aver dismesso l’atteggiamento, in coscienza o pretestuosamente, conflittuale.
Questo ravvedimento può essere solo frutto di un percorso. Quale avviare? Quello, secondo me, della mediazione profonda. Io lo intravvedo nel modello umanistico-filosofico che ho sperimentato.
In questa modalità, il mediatore non è una figura ingenua con una visione angelicata del mondo e delle relazioni conflittuali, anzi deve ben contemplare che l’essere umano ha zone d’ombra e di luce. Deve sopportare, nel senso di saper tollerare, questo dato di realtà e sostenere le parti a fare lo stesso: a lui spetta il compito di saper valorizzare le zone di luce, cioè le tensioni al benessere, e valorizzarle; così lasciando ai margini quelle di ombra.
Qui sta la nobiltà e la capacità del mediatore che, come un buon chirurgo, non opera un paziente sano ma la sua bravura si vede sapendo intervenire sul paziente malato. Nel nostro caso sui confliggenti, entrambi, pur se in modo diverso, vittime di relazioni compromesse.
Ora noi ci troviamo nel mezzo di un paradosso. Da un lato abbiamo un popolo di mediatori benemeriti che sulla base di buoni propositi e del fascino dell’idealità, pur con scarsi riscontri economici, si sono lanciati in questa sfida. Sono anche temerari perché come dei vigili del fuoco si buttano nel fuoco del conflitto senza spesso avere le tute ignifughe, cioè la giusta preparazione.
Dall’altro abbiamo una legge che dà ampia diffusione a questo istituto, ma non si dedica abbastanza, a mio parere, a creare le condizioni per dare effettività a questa nuova risposta al bisogno di giustizia e almeno le stesse garanzie del processo, pur differenti nella loro natura.
Questa riforma indica una svolta affascinante e improrogabile. Infatti che la persona sia un mistero è vero: non è né facile né possibile conoscerla, relazionarvisi, farla evolvere, aiutarla a rinascere a se stessa. Ma questo non ci autorizza a ridurla solo alle sue azioni, e utilizzare soltanto un diritto che mette al centro i fatti.
Pur col rispetto dovuto al limite umano di non poter infrangere il mistero dell’uomo, deve restare ferma la convinzione che al centro del nuovo modo di rendere giustizia deve essere la persona, che nel vivere reale possa accadere di fare sbagli ma questi non autorizzano nessuno a considerarli definitivi.
Chi ha compiuto un fallo non può essere condannato al fallimento, così come chi è responsabile di un illecito mantiene la sua dignità di persona pur se la sua azione deve con chiarezza e certezza essere definita nel suo disvalore. La persona attende sempre, dopo essere stata vittima delle sue zone d’ombra, di essere aiutata a riscoprire e vitalizzare quelle di luce. Un percorso serio e profondo come la giustizia consensuale e fiduciaria lo può assicurare.
Lo pensiamo tutti davvero? Sarebbe bene scandagliare i pensieri reconditi che abbiamo a riguardo: se pensiamo che nessun cambiamento potrà esserci, allora abbandoniamo perfino l’idea del valore rieducativo della pena, valore spesso disatteso nelle prassi e pura dichiarazione di intenti.
Se siamo fermamente convinti dell’antropologia che si fonda sulla fiducia nell’essere umano e nella possibilità sempre e comunque di un cambiamento, allora possiamo intraprendere la via della mediazione, perfino con una visione unitaria delle prassi nei vari tipi di contenzioso, senza perfino graduatorie di peso e valore.
Tutti i professionisti titolati potrebbero quindi, potenzialmente ed in linea di principio, condurre sia mediazioni penali che civili, familiari, sociali, scolastiche.
In questa logica la giustizia consensuale non è altra giustizia dalla riparativa: sono differenti solo apparentemente, nominalmente.
(Immagine: Il Giudizio di Salomone, olio su tela, secolo XVII, Galleria Borghese, Roma)
Riportiamo il breve ma intenso intervento di Antonello Cosentino durante l’adunanza plenaria del CSM che il 7 febbraio scorso ha deliberato di intitolare la propria sede all’ex-vicepresidente, ucciso il 12 febbraio 1980 da un commando brigatista. Oggi, alla presenza di Mattarella, la cerimonia.
Ho assistito all’omicidio di Vittorio Bachelet.
Nel 1980 ero iscritto a Giurisprudenza nell’Università di Roma, la Sapienza. Quella mattina mi stavo recando in facoltà.
Chi conosce la Sapienza sa che l’edificio della facoltà di Giurisprudenza è contiguo a quello della facoltà di Scienze politiche e Bachelet fu ucciso sulle scale di Scienze politiche.
Io stavo entrando a Giurisprudenza e vidi confusione davanti a Scienze politiche, vidi Rosy Bindi uscire piangente… tanta polizia… venne bloccato tutto in un attimo; a quel punto mi allontano.
Qui in Plenum siamo una comunità di persone che hanno storia, estrazioni, esperienze professionali diverse; ma siamo una comunità, prima di tutto, di uomini. Per questo sento il desiderio di condividere con voi questa emozione, che è un’emozione forte.
Intanto, soggettivamente, per il pensare che oggi sono in quest’aula, che a Bachelet è intitolata. Ma soprattutto perché credo che questa emozione serva a richiamare tutti noi al valore della storia.
Vedete, io per ragioni culturali non sono molto propenso a cambiare i nomi alle strade, alle piazze, ai monumenti. Penso che quello che resta scolpito nel marmo tendenzialmente sia bene che permanga anche, se vogliamo, come monito o elemento di riflessione; non mi piace quando si cambia ogni trent’anni il nome di una strada o di una città.
Però il cambiamento del nome della sede del C.S.M. è un cambiamento che mi pare che la Repubblica aspettasse da troppi anni; e credo che, veramente, questo palazzo non possa avere nome migliore che quello di Vittorio Bachelet.
Sommario: 1. Introduzione. 2. L’indipendenza esterna dell’Istituto: la nomina del Presidente della Corte dei conti e i consiglieri di nomina governativa. 3. L’indipendenza interna dei magistrati. 4. Il Consiglio di Presidenza della Corte dei conti tra organo di autogoverno e organo di amministrazione della magistratura contabile. 4.1. Status dei componenti togati. 4.2. Organizzazione interna. 4.3. Autogoverno tra cambiamento e restaurazione. 5. L’assegnazione ai posti di funzione. 6. L’assegnazione degli affari giudiziari. 7. Gli incarichi extraistituzionali. 8. Il regime disciplinare.
1. Introduzione
Già agli albori del secolo scorso, F. Cammeo così scriveva: “Evidentemente l’indipendenza del giudice amministrativo è completa quando ad esso sia concessa una posizione che per metodo di nomina e stabilità nell’ufficio sia eguale a quella dei giudici ordinari “e alle sue considerazioni si associavano illustri studiosi del tempo (Calamandrei, Salandra, Scialoja e D’Amelio).
“Là dove non è garantita l’indipendenza del giusdicente, non c’è giudice di sorta, né ordinario, né speciale, né sezione specializzata di organo giudiziario ordinario “, scriveva, inoltre, Andrioli pochi anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione e proprio in relazione alla problematica dell’indipendenza dei giudici speciali.
In merito all’assetto della magistratura, quale risulta dalla Carta costituzionale, è stato detto da autorevole dottrina che la distinzione tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa (nella quale si ricomprende quella contabile) non deve in alcun modo riflettersi sulle garanzie di indipendenza, che devono essere eguali e che la Costituzione italiana riconosce e prevede una serie di giurisdizioni distinte tra loro per struttura, poteri e competenze, ma ammette un solo tipo di magistrato.
Siamo, cioè, di fronte ad un concetto univoco di “magistrato”, affermato con coerenza e sicurezza sul piano costituzionale. Sicchè - si è aggiunto - l’esistenza di una pluralità di giudici diversamente regolati quanto a status, garanzie esterne ed interne di indipendenza e posizione nell’ordinamento si pone in netto contrasto con la Costituzione.
L’indipendenza dei giudici, di tutti i giudici, non è un fine ma un mezzo posto a garanzia di un bene: la retta applicazione della legge, bene insostituibile per l’intera comunità statale. Anche il solo sospetto della mancanza di indipendenza è in grado di far venire meno la fiducia del cittadino negli organi giudiziari inducendogli il sospetto che la legge potrebbe non venire rettamente applicata da quel giudice.
Indipendenza della magistratura vuol dire, invero, tutela del libero convincimento, libertà di indagine, serenità di giudizio. In una parola, libertà di coscienza, nella quale risiede, come affermava Calamandrei, la più alta ed indiscutibile garanzia dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge; e, sotto il profilo che ci interessa, non sono indifferenti i meccanismi predisposti in via legislativa per attuarlo.
Come rilevato da attenta dottrina,[1]scarsa eco, tuttavia, ha avuto il tema della indipendenza del magistrato contabile, che si interseca con quello della indipendenza della magistratura contabile unitariamente considerata nell’esercizio delle funzioni di controllo e della giurisdizione.
Ed invero, l’indipendenza affermata dall’art. 100/3 Cost., a differenza di quella espressamente prevista dall’art. 108 Cost. che opera nei confronti dei giudici speciali, nella cui categoria rientra in posizione di primo piano il giudice contabile, fa riferimento non solo all’Istituto, ma anche ai suoi “componenti”, nell’ambito della funzione di controllo. Nella sua versione finale, il compito di “assicurare” l’indipendenza dell’Istituto e dei suoi componenti di fronte al Governo è rimesso al legislatore.
Completa il quadro rappresentato, per la Corte dei conti, dagli artt. 100/3 e 108 Cost., l’art. 101 Cost., che riguarda la funzione giurisdizionale in sé considerata con la espressa previsione della garanzia della soggezione “soltanto” alla legge di tutti i giudici.
Eppure, nonostante l’autorevole monito del giudice delle leggi,[2]l’indipendenza, in primo luogo, di tipo “istituzionale”, che riguarda il profilo “esterno” della relazione della Corte dei conti con il Governo, e “interna”, che attiene propriamente all’esercizio delle funzioni di controllo e giurisdizionali, non ha trovato completa attuazione sul piano legislativo, caratterizzato dai soliti interventi disorganici e frammentarii.
Della indipendenza “esterna” e della indipendenza “interna” si tratterà separatamente senza dimenticare, però, che l’indipendenza di tipo “istituzionale” non è sufficiente, da sola, ad assicurare l’indipendenza “funzionale”,[3]che richiede, in particolare, per essere attuata, un autentico sistema di autogoverno e la definizione, per via legislativa, dello status del magistrato contabile.
2. L’indipendenza esterna dell’Istituto: la nomina del Presidente della Corte dei conti e i consiglieri di nomina governativa
Come è noto, l’articolo 1 della legge 202/2000 – che sostituisce l’art. 7 comma 2 R.d. 12 luglio 1934, n. 1214 - stabilisce che il Presidente della Corte dei conti è nominato, con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, sentito il parere del Consiglio di Presidenza.
Orbene, per come è formulata, la norma contrasta, in primo luogo, con il principio di indipendenza della funzione giurisdizionale (art. 101 cost.).
Il potere di proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, inoltre, mina alla radice l’indipendenza della Corte dei conti nei confronti del Governo ai sensi dell’art. 100/3 Cost.
L’ordinamento interno della giurisdizione contabile soffre, infatti, ancora vistose eccezioni al principio di indipendenza, affermato per le magistrature amministrative e in modo specifico nei confronti del Governo (art. 100/3), nel suo significato di completa sottrazione al potere esecutivo della nomina degli organi di vertice dell’Istituto.
La resistenza al cambiamento può trovare spiegazione soltanto con l’idea che la “contiguità” funzionale della magistratura contabile all’azione del potere esecutivo implichi necessariamente una qualche forma di legame organico con il medesimo, ma si tratta di atteggiamento che non ha più possibilità di avere diritto di cittadinanza alla luce del nuovo quadro istituzionale.
Garantire l’indipendenza dell’Istituto costituisce, dunque, una operazione “costituzionalmente necessitata “in forza dell’art. 100/3 cost.
Né a confutare quanto sin qui osservato può valere l’argomento che fa leva sul parere del Consiglio di Presidenza, che deve essere sentito, per la semplice ragione che tale parere, pur obbligatorio, non è non vincolante per il Governo, il quale potrebbe, dunque, non dar corso ad una nomina ritenuta sgradita[4].
Il semplice pericolo che ciò possa avvenire in forza della norma di cui all’art. 1 della legge 202/2000 rende lecito dubitare della legittimità costituzionale della stessa.
Il fatto, poi, che il Presidente della Corte dei conti sia anche il “vertice” dell’organo di autogoverno potrebbe riflettersi come ulteriore elemento di influenza, sia pure indiretta, del potere esecutivo sulla piena autonomia dell’ordine[5].
La nomina governativa si pone, quindi, come una anomalia da correggere e da eliminare, valorizzando il ruolo decisionale esclusivo del Consiglio di Presidenza.
Il Governo dispone di una aliquota di consiglieri da nominare ai sensi dell ‘art.7 del R.D. 12 luglio 1934, n. 1214, tuttora vigente, e del d.p.r. n. 385/1977.
Sono ampiamente noti gli orientamenti e le conclusioni della Corte costituzionale[6] sulla questione delle nomine governative dei consiglieri di Stato e della Corte dei conti, che mirano a spostare il problema dell’indipendenza dal momento della formazione dell’organo giudicante a quello delle garanzie successive (essenzialmente l’inamovibilità), quasi che l’indipendenza esista a prescindere dai meccanismi concreti di realizzazione.
In sintesi, secondo la Corte costituzionale non è compromessa l’indipendenza se essa viene garantita nel momento successivo alla investitura dell’ufficio.
Bisogna qui mettere in rilievo, peraltro, che le norme costituzionali sulla giurisdizione non costituiscono un mero “programma” da attuarsi a cura del legislatore, con ampia discrezionalità, ma si presentano alla stregua di un corpo coerente di principi e criteri immediatamente validi ed applicabili e, tra questi, il principio di indipendenza non consente che i giudici possano essere “scelti“ dal potere esecutivo, giacché in tal guisa si spezzerebbe quel rapporto esclusivo che il legislatore costituente ha voluto istituire tra il giudice e la legge, il quale non ammette in alcun modo la interferenza di altri poteri dello Stato, tra cui quello esecutivo.
Ed invero, di recente, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 136 del 15 aprile 2011, ha salvato dalla dichiarazione di incostituzionalità l’art. 2, commi 1 e 2, della legge 14 marzo 2005, n. 41, i quali attribuiscono espressamente al Ministro della giustizia il potere di nomina del membro nazionale presso l’Eurojust, che deve essere un magistrato, soltanto perchè le funzioni del membro nazionale presso l’Eurojust non sono riconducibili a quelle giudiziarie (v. punto 5 dei Considerato in diritto) e non perché deve essere comunque scelto nell’ambito di una rosa di candidati formata dal Csm.
3. L’indipendenza interna dei magistrati
Si è detto efficacemente in dottrina[7][8] che l’indipendenza interna si realizza attraverso lo status del magistrato. È, quindi, la disciplina dei diritti e dei doveri il test di verifica della indipendenza.
E allora, se si confronta lo status del magistrato contabile con quello del magistrato ordinario si può constatare il peso preponderante della produzione consiliare, rappresentata dalla attività deliberativa avente natura amministrativa per quanto riguarda il primo ed il ruolo residuale riservato alla legge, a differenza del secondo pure in presenza della attività paranormativa del CSM.
Senza ombra di smentita si può dire, infatti, che l’unico testo normativo di riferimento per i magistrati contabili è rappresentato dal testo unico degli impiegati civili dello Stato (D.p.r. 10 gennaio 1957, n. 3) e, per quanto riguarda il settore disciplinare, dalla legge sulle guarentigie (R.D.L. 31 maggio 1946, n. 511).
Lo status del magistrato contabile è, quindi, disciplinato in massima parte dalle deliberazioni del Consiglio di Presidenza, in violazione della riserva di legge di cui all’art. 108 Cost.
4. Il Consiglio di Presidenza tra organo di autogoverno e organo di amministrazione della magistratura contabile.
Il Consiglio di Presidenza della Corte dei conti è stato riformato dalla legge 13 aprile 1988, n.117, recante disposizioni in materia di “risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati “.
Il Consiglio di Presidenza della Corte dei conti, previsto dall’art. 38 del regolamento dell’Istituto, deliberato dalle Sezioni Riunite il 2 luglio 1913, risultava composto: dal Presidente della Corte, cui era attribuita la presidenza dell’organo; dal Procuratore generale; da tutti i presidenti di sezione, esclusi quelli fuori ruolo; dal segretario generale, con funzioni di segretario.
La legge 20 dicembre 1961, n. 1345 aveva lasciato sostanzialmente immutata la configurazione di tale organo quale organo di vertice della Corte dei conti, limitandosi ad introdurre un’articolazione interna in sezioni.
Di queste, la prima - composta dal Presidente della Corte, chiamato a presiederla, dal Procuratore generale, dai primi nove presidenti di sezione per ordine di ruolo e dal segretario-, esprimeva il giudizio di promovibilità per le promozioni oltre la qualifica di primo referendario. La seconda - composta, oltre che dai predetti magistrati, anche dai primi due consiglieri rispettivamente della sezione di controllo e delle sezioni giurisdizionali, per ordine di ruolo, dal primo vice procuratore generale, anche qui per ordine di ruolo, dal segretario generale e dal primo referendario del segretario generale, secondo l’ordine di ruolo, con funzioni di segretario - era chiamata ad esprimere i pareri di promovibilità alla qualifica di primo referendario.
Ciò rendeva i magistrati della Corte sostanzialmente privi di garanzie d’indipendenza sia interna che esterna.
La stessa Corte costituzionale, d’altronde, con la sentenza 17 giugno 1987, n. 230, aveva riconosciuto che attraverso l’organo in esame non fosse “sotto alcun aspetto garantita l’indipendenza dei magistrati della Corte dei conti “, attribuendo peraltro a tale affermazione il valore di mera denuncia, poiché si limitava a dichiarare l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale sollevata innanzi ad essa.
Contestualmente, invece, il giudice amministrativo si spingeva più in là, ove non aveva osato spingersi il giudice delle leggi. Il TAR Lazio, infatti, con la sentenza n. 1148 del 10 giugno 1987 dichiarava l’illegittimità dell’art. 38 del regolamento del 1913 della Corte, nel rilievo della manifesta inadeguatezza del Consiglio di Presidenza, nella composizione dell’epoca (limitata alle sole qualifiche di vertice), alla tutela dell’indipendenza interna dei magistrati della Corte dei conti.
Senonché, tale sentenza anziché sortire l’effetto sperato di una rafforzata tutela dell’indipendenza della magistratura contabile, considerata come corpo professionale di magistrati, produsse il risultato opposto: e cioè, una deminutio sul piano delle garanzie di indipendenza, in quanto proprio in esecuzione della sentenza del TAR Lazio, il Presidente della Corte dei conti aveva iniziato ad assumere i provvedimenti relativi ai magistrati prescindendo dal parere del Consiglio. E soltanto la sospensione della esecuzione della menzionata sentenza da parte del Consiglio di Stato evitò che il governo del personale di magistratura piombasse in una situazione di incostituzionalità ancora più grave della precedente.
Evidentemente, però, la situazione di emergenza determinatasi obiettivamente a sèguito della sentenza del TAR Lazio richiedeva un intervento urgente sul piano legislativo.
Della urgenza di legiferare in materia erano del resto ben consapevoli i parlamentari che si resero promotori, all’inizio della X legislatura, di diversi progetti e disegni di legge (A.C. nn. 678, 679, 680 e 735; A.S. nn. 563 e 564).
La riforma del Consiglio di Presidenza della Corte dei conti venne, dunque, approvata sotto la pressione degli avvenimenti. Ciò è messo bene in evidenza dal primo periodo del primo comma dell’art. 10 della legge n. 117/88 (“1.Fino all’entrata in vigore della legge di riforma della Corte dei conti“).
Questo organo, nella sua composizione originaria, prevedeva 17 componenti, di cui : 3 componenti di diritto (Presidente della Corte dei conti, Procuratore Generale e Presidente di sezione più anziano secondo l’ordine di ruolo); 4 componenti laici, scelti, all’epoca, d’intesa dai Presidenti delle due Camere e 10 componenti togati eletti dai magistrati della Corte dei conti, ripartiti tra le qualifiche di Presidente di sezione, consigliere o vice procuratore generale, primo referendario e referendario in proporzione alla rispettiva effettiva consistenza numerica del ruolo.
L’attuale composizione del Consiglio di Presidenza è frutto della riforma “Brunetta” (Art. 11, L. 4 marzo 2009, n. 15).
In disparte quanto si dirà a proposito degli incarichi extraistituzionali (infra n. 7), una assoluta novità, ma si potrebbe dire che sia “frutto di scarsa meditazione”[9] , è quella che legittima a partecipare al Consiglio di Presidenza – senza, però, diritto di voto - il “capo di gabinetto” del Presidente della Corte dei conti.
È stata, invece, confermata la c.d. componente di diritto[10] e la c.d. componente laica[11], mentre quella togata ha subìto un netto ridimensionamento, passando da 10 a soli 4 membri, e senza più le riserve di qualifica previste dalla precedente normativa.
A proposito della nuova composizione numerica, si è rilevato in dottrina[12] il peso maggiore della gerarchia”, in quanto di 7 membri togati ben 3 – più del 40%- sono membri di diritto e, inoltre, il rapporto fra le due componenti elettive (togata e laica) è di assoluta parità (4 contro 4), mentre nel Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa è, invece, di due e mezzo a uno.
Il regime giuridico di tale organo va ricostruito, quindi, sulla base del rinvio, contenuto nell’art. 10, ultimo comma, della legge n.117/88, alle norme della legge 27 aprile 1982, n. 186 concernenti il Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa (artt. 7, primo, quarto, quinto e settimo comma; 8; 9, quarto e quinto comma; 10; 11; 12; 13, primo comma, numeri 1), 2), 3), e secondo comma, numeri 1), 2), 3), 4), 8), 9)) e, per ultimo, dell’art. 11, commi 7-8.
Il rinvio, sia pure parziale, alla normativa riguardante le attribuzioni del Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa tradisce l’intenzione del legislatore della riforma di fare del Consiglio di Presidenza della Corte dei conti un organo di autogoverno sostanzialmente omologo al primo. Hanno pesato sul convincimento del legislatore, molto probabilmente, le ragioni della tradizionale appartenenza della magistratura contabile al comune genus della magistratura amministrativa. Ma ciò non basta e non è sufficiente a spiegare perchè nel momento in cui si poneva mano, in sede legislativa, ad una profonda riforma della composizione del Consiglio di Presidenza della Corte dei conti, caratterizzato dalla introduzione della c.d. componente laica, il modello a cui riferirsi non fosse il Consiglio superiore della magistratura, anche in considerazione delle ragioni che stavano alla base della riforma.
Una battuta d’arresto sulla strada della attuazione di un autogoverno che sia presidio delle garanzie di indipendenza della magistratura è stata segnata dalla riforma “ Brunetta”, in quanto il comma 7 dell’art. 11 della L. n.15/2009 definisce il Presidente della Corte dei conti quale “organo di governo” dell’Istituto, che “esercita ogni altra funzione non espressamente attribuita da norme di legge ad altri organi collegiali o monocratici della Corte” mentre il comma 8 definisce il Consiglio di Presidenza quale “organo di amministrazione del personale di magistratura”[13], attribuendogli competenze limitate a quelle espressamente attribuite da norme di legge, una sorta di interpositio legislatoris!
Ne esce quindi stravolta la governance della magistratura contabile, che sino al 2009 si imperniava sul Consiglio di Presidenza, per effetto del rafforzamento della figura del Presidente della Corte dei conti e a discapito dell’organo di autogoverno, con i conseguenti dubbi in ordine alla costituzionalità del sistema introdotto sotto il profilo della violazione dell’art. 104 Cost. e degli altri parametri rappresentati dagli artt. 100/3 e 108 Cost.
La esperienza oramai trentacinquennale del Consiglio di Presidenza, insediatosi il 27 luglio 1988, peraltro, induce a ritenere che siano ormai maturi i tempi per un ritorno non al passato, ma per una riforma legislativa che, in primo luogo, riconduca entro il recinto della Costituzione il rapporto tra Presidente e Consiglio di Presidenza della Corte dei conti, operando un rinvio alle attribuzioni del Consiglio superiore della magistratura. per definire le competenze di un organo autenticamente di autogoverno.
Questa è, del resto, la strada che è stata seguita dal legislatore ordinario con riferimento al Consiglio della magistratura militare: l’art. 1, comma 3, della legge 30 dicembre 1988, n. 561, istitutiva del predetto organo, stabilisce, infatti, che “ il Consiglio ha per i magistrati militari le stesse attribuzioni previste per il Consiglio superiore della magistratura “ e l’art. 7 del regolamento di attuazione della legge n. 561/88, emanato con d.p.r. 24 marzo 1989, n. 158, dispone che “ per tutto ciò che non è diversamente regolato dal presente decreto, si osservano, in quanto applicabili, le norme previste per il Consiglio superiore della magistratura “.
Nell’ambito delle magistrature speciali - e la giurisdizione militare, si badi bene, è contemplata nella stessa disposizione costituzionale (art. 103) che si occupa della giurisdizione contabile - si è dunque infranto un tabù, in quanto il legislatore ha già valutato favorevolmente la compatibilità del modello di autogoverno realizzato dal Consiglio superiore della magistratura con le esigenze di autogoverno del personale di magistratura appartenente ad una delle magistrature speciali previste dalla Costituzione.
Con ciò non si vuole dire che il CSM rappresenti il punto di riferimento per eccellenza nel campo degli organi di autogoverno, ma che esso è allo stato attuale dell’esperienza degli organi di autogoverno delle varie magistrature il modello che meglio di ogni altro - vuoi per l’esperienza ultracinquantennale vuoi per meriti conquistati sul campo - ha dato ampia dimostrazione di tutelare efficacemente il prestigio e l’indipendenza della magistratura, sapendola difendere dalle insidie delle facili lusinghe del potere politico.
Il rinvio alla normativa applicabile al Consiglio superiore della magistratura, nei limiti della compatibilità con l’ordinamento della magistratura contabile, avrebbe, inoltre, nell’immediato, il vantaggio di colmare il vuoto legislativo in materia di disciplina dello status del magistrato contabile, rimessa oggi quasi esclusivamente all’autoregolamentazione del Consiglio di Presidenza, al quale è lasciata una libertà di azione caratterizzata da eccessiva discrezionalità, con risultati non sempre soddisfacenti.
4.1. Status dei componenti togati.
A differenza dei componenti togati del Consiglio superiore della magistratura, ed analogamente ai membri del Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa, i componenti togati del Consiglio di Presidenza della Corte dei conti non sono collocati fuori ruolo, continuando ad esercitare contemporaneamente le rispettive funzioni d’istituto, nell’area del controllo o della giurisdizione.
Non si rinviene, infatti, nella legge 13 aprile 1988, n. 117 alcuna disposizione normativa che consenta il fuori ruolo, siccome previsto per i membri togati del CSM (v. art. 30 d.p.r. 16 settembre 1958 n. 916, nel testo modificato dall’art. 8 legge 3 gennaio 1981 n. 1 e dall’art. 14 legge 12 aprile 1990 n. 74).
La soluzione adottata della permanenza in attività di servizio dei componenti togati, nelle funzioni magistratuali rivestite al momento delle elezioni, si presta a più di una critica.
In primo luogo, è inevitabile che le sollecitazioni e le pressioni sui componenti togati provenienti dall’ambiente di lavoro in cui essi sono inseriti influenzino le loro posizioni in seno al Consiglio di Presidenza. Il pericolo di un condizionamento, anche ab interno, della attività dell’organo di autogoverno è, inoltre, possibile nel caso eventuale dell’appartenenza al medesimo ufficio di due o più componenti togati.
In secondo luogo, la possibilità per i componenti togati di concorrere alle procedure concorsuali a domanda indette per il conferimento di incarichi o per la copertura di posti di funzione, specialmente se direttivi (presidente dii sezione giurisdizionale e procuratore regionale) o semi-direttivi (consigliere delegato o capo dii delegazione), e di conseguire, in ipotesi, la designazione o la nomina agli stessi può suscitare il sospetto di favoritismi praticati dal Consiglio nei confronti dei propri membri, gettando un’ombra di discredito sulle delibere adottate dall’organo di autogoverno.
In terzo luogo, l’esercizio contemporaneo dei compiti d’istituto danneggia i componenti residenti fuori Roma in misura maggiore dei componenti che prestano servizio in uno degli innumerevoli uffici centrali della Corte dei conti, con sede a Roma, in quanto non consente loro di seguire con profitto i lavori del Consiglio di Presidenza, i quali non si riducono alla semplice presenza fisica alle adunanze e alle sedute delle Commissioni, ricomprendendo in misura altrettanto rilevante tutta l’attività preliminare alle riunioni dell’organismo collegiale (studio, approfondimento ed esame della documentazione e delle questioni poste all’ordine del giorno).
I problemi si sono aggravati con la riduzione del numero (da 10 a 4) dei componenti togali giacchè per far fronte ai lavori delle commissioni consiliari la regola è far parte di più di una commissione.
4.2. Organizzazione interna del Consiglio di Presidenza.
Il Consiglio di Presidenza, insediatosi il 27 luglio 1988, ha provveduto ad approvare, sin da subito, il proprio regolamento interno per il funzionamento, che, nella versione attuale, risulta dalla deliberazione n. 52/CP/2019 del 14 febbraio 2019 (e s.m.i.)
Le principali norme riguardano l’ordinamento (artt. 1-10) ed il funzionamento (artt. 11-32) dell’organo.
Le commissioni permanenti sono previste nel numero di cinque e si distinguono in base alla competenza per materia (v. artt. 25-30).[14][15]
Una norma, in particolare, che desta perplessità è quella che fissa il termine di appena quattro giorni prima di ogni seduta del Consiglio di Presidenza, per la distribuzione a tutti i componenti dei “documenti necessari per la trattazione degli argomenti“ (art. 14, comma 5).
Un’ultima considerazione merita il regime di pubblicità delle sedute.
L’art. 20 afferma, in apertura, che le sedute del Consiglio sono pubbliche, introducendo al comma 3 una serie di eccezioni che vanificano la portata della affermazione di principio.
Esse sono le seguenti:
Inoltre, ai sensi del comma 4, si procede in seduta non pubblica su richiesta del Presidente della Corte dei conti (o di chi ne fa le veci), del Procuratore generale o di almeno tre componenti, ma solo “per specificati motivi di riservatezza”.
Ciò fa si che frequentemente numerosi argomenti inseriti all’ordine del giorno delle adunanze del Consiglio di Presidenza siano riservati alla “seduta non pubblica” anche quando non se ne vede la ragione.
La pubblicità delle sedute è esclusa, quindi, in un gran numero di casi che non trovano corrispondenza in quanto previsto per le sedute del CSM dall’art. 27 del Regolamento interno in vigore. La pubblicità, infatti, è esclusa “Quando ricorrono motivi di sicurezza, ovvero quando sulle esigenze di pubblicità prevalgono ragioni di salvaguardia del segreto della indagine penale o di tutela della riservatezza della vita privata del magistrato o di terzi, in particolare nel caso di trattamento di dati sensibili, l’esclusione della pubblicità è adottata in assenza di pubblico […]”.
La maggioranza richiesta per l’approvazione della delibera che esclude la pubblicità, poi, è di due terzi dei voti validamente espressi.
Se anche in questa consiliatura il trend dovesse trovare conferma c’è da aspettarsi che la maggior parte degli argomenti saranno trattati in “seduta non pubblica” e ai più non resterà che affidarsi alle voci di corridoio per conoscere le posizioni emerse nella discussione svoltasi in plenum.
A questo deficit di pubblicità, come è ovvio, non si può rimediare con la consultazione dei verbali, che recheranno degli omissis nella parte “secretata”, in quanto il comma 3 dell’art. 21 riporta: “ Delle sedute non pubbliche il verbale riporta esclusivamente l’indicazione dettagliata delle procedure seguite, la descrizione sintetica e oggettiva degli argomenti discussi, l’elenco nominativo degli interventi e la motivazione collegiale delle deliberazioni adottate. In caso di votazioni mediante appello nominale, il verbale riporta altresì le singole espressioni di volto”.
4.3. Autogoverno tra cambiamento e restaurazione.
Questo breve excursus sui principali caratteri dell’organizzazione interna dell’organo di autogoverno della magistratura contabile era necessario, in quanto credo metta bene in evidenza l’alternativa di fronte al quale si trova oggi il Consiglio di Presidenza nel corso della sua attività: cambiamento vs restaurazione, con quest’ultima espressione intendendosi un ritorno ai metodi del passato, quando la gestione del personale di magistratura era affidata sostanzialmente nelle mani del Presidente della Corte dei conti, di un ristretto Comitato di saggi (il vecchio Consiglio di Presidenza) e del Segretario generale, longa manus del Presidente della Corte.
Quest’ultimo era il modello che si presentava al legislatore nel 1988, all’epoca della riforma del Consiglio di Presidenza, il cui volto fu profondamente innovato, con la introduzione della rappresentanza laica, da un lato, e della rappresentanza elettiva, dall’altro.
Il giudizio del legislatore della riforma non potè, dunque, che essere negativo, se anzichè apportare lievi ritocchi all’organo di autogoverno scelse la strada più impegnativa, ed innovativa, di riformare radicalmente la composizione e le funzioni dello stesso.
E tuttavia, nonostante la chiara opzione legislativa per un autentico modello di organo di autogoverno, riemergono ogni tanto, nella concreta attività del Consiglio di Presidenza, sotto mentite spoglie, i segni di un passato che stenta a morire.
Volgendo lo sguardo al presente è nell’attuale consiliatura che si paventa il pericolo di una restaurazione - più che di un cambiamento - dei vecchi metodi di governo degli affari riguardanti lo status dei magistrati.
Segnali preoccupanti di tale modus procedendi instauratosi nella prassi consiliare, a partire dagli anni 2000, provengono dal massiccio uso nelle nomine ai posti direttivi del potere discrezionale mal motivato, trovando tale prassi l’avallo del giudice amministrativo.
E sebbene il caso limite sia rappresentato dalla ipotesi nella quale il punteggio discrezionale venga espresso in favore di un solo candidato, sì da alterare il funzionamento degli altri concorrenti criteri (anzianità e professionalità), l’esperienza concreta di tutti i Consigli di Presidenza succedutisi nel tempo (non escluso l’attuale) dimostra che accordi tra le correnti, che rappresentano la maggioranza all’interno del Consiglio, possono determinare inammissibili scavalcamenti nel ruolo di anzianità. Non è la prima volta che ciò accade nell’attuale consiliatura, ripresentandosi negli stessi termini la situazione da anni, con l’inevitabile seguito sul piano del contenzioso che ne scaturisce innanzi al giudice amministrativo (TAR e CdS).
È l’anzianità, invece, a ben vedere, la migliore garanzia della professionalità e dell’impegno nell’attività d’istituto dei singoli magistrati, non esistendo allo stato dei sistemi di rilevamento del rendimento in servizio dei magistrati contabili che siano fondati su indici oggettivi.
Al tempo stesso il principio della equa ripartizione degli incarichi, proclamato dall’art. 2, comma 4, del D.p.r. n. 388/95 (ma già dall’art. 13 della legge n. 186/82, reso applicabile alla magistratura contabile in virtù del rinvio contenuto nell’art. 10 della legge n. 117/88) ha fatto un passo indietro : con buona pace del legislatore delegato del 1995, nelle cui intenzioni non rientrava certamente l’attribuzione degli incarichi secondo criteri incontrollabili e latamente discrezionali, in violazione del chiaro disposto dell’art. 2, comma 3, secondo cui i criteri devono essere oggettivi e predeterminati
5. L’assegnazione ai posti di funzione.
La materia è regolamentata dalla deliberazione del Consiglio di Presidenza n. 231/CP/2019 del 5 novembre 2019 (e s.m.i.).
L’assegnazione dei magistrati contabili ai posti di funzione si fonda su un sistema che abbina anzianità a valutazione discrezionale, con una accentuazione della seconda rispetto alla prima, in considerazione del peso riconosciuto, ai fini della graduatoria definitiva, al voto messo a disposizione di ciascun consigliere.
L’art. 6 dispone, infatti, che le domande di assegnazione ai posti di funzione di magistrati con qualifica inferiore a quella di consigliere sono scrutinate sulla base dei seguenti elementi:
“[…] anzianità di servizio: in misura di 1 punto per ogni anno di servizio o frazione di anno superiore a sei mesi, a prescindere dalla qualifica, sino ad un massimo di venti anni e in misura di 0,50 di punto per ogni anno di servizio successivo […]
[…] Valutazione discrezionale: mediante personale attribuzione, con giudizio motivato, per il posto o per ciascuno dei posti da assegnare, da parte di ciascun componente del Consiglio, di un punteggio pari a 0,50. La somma dei punti in tal modo attribuiti viene aggiunta al punteggio conseguito sulla base degli elementi di cui ai precedenti punti.
Il punteggio discrezionale viene attribuito sulla base della professionalità acquisita nelle funzioni da assegnare, nelle assegnazioni aggiuntive svolte e nella partecipazione ai collegi delle Sezioni Riunite in qualità di estensore e di una valutazione di prevalenza della particolare attitudine alle funzioni da assegnare, desumibile dall’insieme delle doti culturali e dalla natura e varietà delle attività svolte e delle funzioni esercitate e degli incarichi ricoperti, le une e gli altri come risultanti dal fascicolo personale d’ufficio, dall’audizione dei candidati, ove prevista nel bando, dal documentato curriculum prodotto dall’interessato, che dovrà contenere tutti gli elementi necessari per le valutazioni del Consiglio ed al quale vengono allegati tre provvedimenti ritenuti significativi dal candidato in ordine alla qualità del lavoro svolto, dalle autorelazioni e dai dati di monitoraggio acquisiti dalla competente Commissione consiliare. La valutazione tiene anche conto dei criteri di
capacità, laboriosità e diligenza fissati nella delibera n. 74/CP/2014 con particolare riferimento all’ultimo quinquennio. […]
Non si discosta molto l’art. 32 relativo alla assegnazione ai posti di funzione di presidente di sezione, secondo cui:
“a) l’anzianità nella qualifica di Presidente di sezione viene computata attribuendo 1 punto per ogni anno e tanti dodicesimi di punto per quanti sono i mesi eccedenti un anno intero;
b) il punteggio discrezionale, da attribuire con giudizio motivato, è stabilito in punti 1,00 per ciascun componente del Consiglio di presidenza. Il punteggio discrezionale viene attribuito sulla base di una valutazione di prevalenza della particolare attitudine alle funzioni da assegnare, desumibile dall’insieme delle doti culturali e dalla natura e varietà delle attività svolte, delle funzioni analoghe esercitate e degli incarichi ricoperti, nonché delle assegnazioni aggiuntive svolte e della partecipazione ai collegi delle Sezioni Riunite in qualità di estensore, le une e gli altri come risultanti dal fascicolo personale d’ufficio, dall’audizione dei candidati, ove prevista nel bando, dal documentato curriculum prodotto dall’interessato, che dovrà contenere tutti gli elementi necessari per le valutazioni del Consiglio ed al quale vengono allegati tre provvedimenti ritenuti significativi dal candidato sulla qualità del lavoro svolto, dalle autorelazioni e dai dati di monitoraggio acquisiti dalla competente Commissione consiliare. La valutazione tiene anche conto dei criteri di capacità, laboriosità e diligenza fissati nella delibera n. 74/CP/2014, con particolare riferimento all’ultimo quinquennio. In particolare, si tiene conto, nell’attribuzione del punteggio discrezionale dei seguenti criteri di giudizio:
b1) capacità organizzative dimostrate nell’esercizio delle funzioni direttive, con particolare rilievo alla validità dei metodi operativi e di gestione degli affari e dei servizi di cui il candidato abbia dato prova nelle precedenti assegnazioni da Presidente di sezione o nell’esercizio di altre funzioni monocratiche e/o direttive;
b2) capacità professionale nelle materie di competenza della Sezione di cui si tratta, acquisita in tutta l’attività di magistrato della Corte dei conti, da accertare mediante valutazione dell’attività svolta nel settore e della completezza dell’esperienza professionale acquisita attraverso la partecipazione in senso ampio alle attività del settore stesso.
Anzi, se si vuole, l’anzianità, che è uno dei criteri previsti per le assegnazioni dei presidenti di sezione, è vieppiù svalutata, in quanto non viene presa in considerazione l’anzianità maturata nelle qualifiche inferiori (referendario, primo referendario, consigliere). Con la promozione alla qualifica di presidente di sezione, infatti, l’anzianità pregressa viene azzerata e, quindi, si ricomincia da capo; di talché il punteggio discrezionale assume importanza determinante ai fini della graduatoria definitiva, in considerazione dei tempi medi di permanenza in tale qualifica, che rappresenta il traguardo finale della carriera di un magistrato contabile.
Come faccia uso il Consiglio di Presidenza della valutazione discrezionale è attestato dal notevole contenzioso innanzi al giudice amministrativo, che inevitabilmente si innesca in occasione degli scavalcamenti nel ruolo di anzianità.
Vi è da dire, peraltro, che il giudice amministrativo non è di manica propriamente larga nell’accoglimento dei ricorsi proposti dai magistrati contabili.
In primo luogo, deve richiamarsi il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui i provvedimenti di nomina dei magistrati in sede di procedura comparativa non necessitano di una motivazione particolarmente estesa, in cui vengono analiticamente raffrontati i curricula professionali dei candidati, dovendo il giudizio di comparazione essere complessivo ed evidenziare i profili di prevalenza presi in considerazione in relazione all’obiettivo funzionale perseguito.[16]
La giurisprudenza amministrativa ha ulteriormente chiarito, a tale riguardo, che risulta sufficiente una motivazione che si limiti essenzialmente a “ rendere ostensibili in positivo i titoli attitudinali del candidato ritenuto prevalente”, mentre la comparazione tra i candidati in competizione ben “ può risolversi in un giudizio complessivo unitario, frutto della valutazione integrata dei requisiti sopra indicati, con la conseguenza che, ove risulti documentalmente la presa in esame, per ciascun candidato, dei tratti essenziali e qualificanti dei rispettivi curricula professionali, nonché la valutazione ponderata degli stessi in rapporto allo specifico oggetto di conferimento, ben può ritenersi adeguatamente soddisfatto l’onere di comparazione”,[17] trincerandosi dietro alla insindacabilità nel merito della valutazione compiuta dal Consiglio di Presidenza.
Peccato che in un recente caso giurisprudenziale, ad essere preferito al ricorrente, che era il più anziano in ruolo, sia stato un magistrato che aveva trascorso un periodo considerevole di oltre nove anni fuori ruolo!
6. L’assegnazione degli affari giudiziari.
Si è sostenuto in dottrina[18] che, con l’entrata in vigore del codice di giustizia contabile,[19]il legislatore ha perso una ulteriore occasione per declinare in ambito processuale il principio di indipendenza.
Soltanto, infatti, la assegnazione dei procedimenti istruttori ai pubblici ministeri contabili deve seguire “criteri oggettivi e predeterminati”, secondo quanto previsto dall’art. 54, primo comma, ma non anche i giudizi di responsabilità, per la cui assegnazione si procede da parte del presidente della sezione giurisdizionale senza dover rispettare alcun criterio oggettivo e predeterminato.
È palese la violazione, in primo luogo, del principio di indipendenza interna del giudice, che risulta strettamente connesso alla garanzia costituzionale del giudice naturale precostituito per legge, la quale viene richiamata ad escludere l’attività discrezionale all’interno della magistratura da parte dei capi degli uffici giudiziari.
Non pare più discutibile dopo la sentenza della Corte costituzionale 17 luglio 1998, n. 272 che la garanzia del giudice naturale precostituito per legge si riferisca anche alla persona fisica del giudice, nel senso che la legge deve prevedere i meccanismi attraverso i quali, all’interno di un medesimo ufficio giudiziario, spetta ad un giudice, anziché ad un altro, pronunciare su una certa controversia.
In questa prospettiva non si può peraltro non sottolineare la centralità e la rilevanza del c.d. sistema tabellare, che riveste un ruolo essenziale per la indipendenza interna del giudice, in quanto costituisce il cardine della struttura organizzativa degli uffici, con la precisazione che le tabelle delineano l’organigramma dell’ufficio, la sua ripartizione in sezioni, l’assegnazione alle stesse dei singoli magistrati ed i criteri di assegnazione degli affari giudiziari.
Sicché non sono più ammissibili criteri equitativi o che dipendano nella loro attuazione dalla discrezionalità del dirigente dell’ufficio giudiziario.
In definitiva, è decisamente tramontata la prassi che consentiva al capo dell’ufficio di assegnare i fascicoli ad personam in base al criterio, peraltro ragionevole secondo l’uomo della strada e presumibilmente onesto, che “quel tal giudice è più bravo”, ovvero “più esperto della materia “, “più solerte, “più equilibrato, “meno carico di lavoro “.
Come è noto, la sentenza n. 272 del 1998 ha dichiarato non fondata “nei sensi in motivazione” la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, lettera a), del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453, convertito, con modificazioni, nella legge 14 gennaio 1994, n. 19.
La sentenza in esame ha espressamente escluso che “ i poteri organizzativi dei capi degli uffici possano essere svolti in modo assolutamente libero o addirittura arbitrario”, affermando, comunque, che “ l'esplicitazione di criteri per l'assegnazione degli affari, in quanto espressivi di un'esigenza costituzionale, che opera in tutti i settori della giurisdizione, possa aver luogo proprio nell'ambito di detti poteri discrezionali, quale manifestazione ed esercizio dei medesimi, senza necessità né di una specifica previsione legislativa né, tantomeno, di un intervento additivo di questa Corte “ e concludendo nel senso che possa “ pervenirsi già ora, nell'ordinamento vigente per la Corte dei conti, alla formulazione di criteri per l’assegnazione degli affari attraverso l'esercizio dei poteri spettanti ai capi degli uffici, secondo modalità che non spetta a questa Corte indicare, se non nel senso che esse siano tali da garantire, comunque, la verifica ex post della loro osservanza”.
Con queste parole termina la motivazione della sentenza, che condivide con quelle di indirizzo o interpretative di rigetto, l’invito a risolvere una situazione di disagio dal punto di vista dell’attuazione dei valori costituzionali, ma l’analogia si ferma qui, in quanto il destinatario dell’invito non è, come avviene sempre, il legislatore, ma la stessa Corte dei conti.
Nel commentare la sentenza n. 272/1998 autorevole dottrina si era chiesta quanto sarebbe durata l’attesa per l’attuazione del principio del giudice naturale precostituito per legge all’interno del processo contabile.
Ebbene, a distanza di oltre un quarto di secolo, il principio del giudice naturale precostituito per legge aspetta ancora di trovare attuazione nel processo contabile.
Ciò che preme rimarcare in questa sede, però, è che l’assenza di criteri oggettivi e predeterminati per l’assegnazione degli affari, a causa di una carenza strutturale del sistema, rende in concreto impossibile la verifica ex post della loro osservanza.
Vi è, infatti, un problema di “effettività” della garanzia del giudice naturale precostituito per legge, intesa come reale possibilità di far valere le eventuali violazioni dei criteri per l’assegnazione degli affari. È del tutto evidente, difatti, che il rispetto della garanzia costituzionale del giudice naturale precostituito per legge si può ottenere soltanto se un controllo sulla osservanza dei criteri sia possibile, purché a monte vi sia stata la posizione degli stessi criteri in via generale.
D’altronde, nella sentenza n. 419/1998, che viene richiamata dalla Corte costituzionale, non si esclude che “la violazione dei criteri di assegnazione degli affari sia priva di rilievo e che non vi siano, o che non debbano essere prefigurati, appropriati rimedi dei quali le parti possano avvalersi“.
Di nuovo intervenuta, nel 2017, la Corte costituzionale,[20] pur dichiarando inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate a distanza di oltre 20 anni dalla prima, avendo rilevato che il giudice a quo sarebbe incorso in un errore nella individuazione della disposizione censurata, come ha evidenziato attenta dottrina, “ ha fatto emergere il problema, esclusivo dell’assetto ordinamentale della giurisdizione contabile, dell’assenza di una base legale, che consenta al Consiglio di Presidenza di fissare criteri oggettivi e predeterminati”,[21] alla luce del nuovo assetto frutto della legge n. 15 del 2009 e, in particolare, della limitazione delle competenze del Consiglio di Presidenza alle sole espressamente previste dalla legge, non potendosi più ritenere che “ il Consiglio di presidenza della Corte dei conti disponga attualmente – come avviene invece per gli organi di autogoverno delle altre magistrature – del potere di dettare i criteri di massima per la ripartizione degli affari e la composizione dei collegi”.[22]
Nulla impedisce, dunque, e anzi pare di leggere tra le righe che questo sia l’auspicio del giudice delle leggi, che la questione di legittimità costituzionale venga rimessa di nuovo alla Corte costituzionale, in presenza di una chiara situazione di inattuazione del dettato costituzionale, piuttosto che aspettare a tempo indefinito l’intervento del legislatore, al fine di realizzare appieno nel processo contabile la garanzia costituzionale del giudice naturale.
Ciò, del resto, consentirebbe di colmare un vulnus divenuto intollerabile se si pone a confronto la disciplina della assegnazione dei giudizi pensionistici, in quanto l’art. 154, comma 4, c.g.c. prevede che i ricorsi sono assegnati dai presidenti delle sezioni giurisdizionali regionali ai giudici unici delle pensioni, secondo criteri oggettivi e predeterminati.
7. Gli incarichi extraistituzionali.
Gli incarichi extraistituzionali, ossia lo svolgimento di attività estranee a quelle proprie del magistrato, possono andare ad incidere sulla sua indipendenza, che può confliggere con la ricerca ed acquisizione da parte dei magistrati di gratificazioni ad personam che provengono da organismi o persone estranee all’amministrazione della giustizia o conseguenti al conferimento di incarichi da esercitare nell’ambito dei poteri esecutivo e legislativo.
La disciplina vigente in materia è in parte legislativa ed in parte di emanazione del Consiglio di Presidenza.
Le regole fissate per gli incarichi extraistituzionali si rinvengono, innanzitutto, nel D.p.r. 27 luglio 1995, n. 388, emanato in attuazione dell’art. 58, comma 3, D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29.
La regola fondamentale sancita dall’art. 2 del D.p.r. n. 388/1995 cit. è che i magistrati della Corte dei conti non possono svolgere incarichi “non compresi nei compiti e nei doveri d’ufficio” se non nei casi espressamente previsti da leggi dello Stato o dal presente regolamento.
Segue, quindi, all’art. 3, l’elenco degli incarichi consentiti e degli incarichi vietati.
Il legislatore, nel formulare tali limitazioni della sfera di esercizio delle libertà personali dei magistrati contabili, ha inteso garantire il buon funzionamento della giustizia, in primo luogo, e a preservare l’indipendenza del magistrato, attraverso un esame di compatibilità che è chiamato a svolgere il Consiglio di Presidenza.
Sulla falsariga del D.p.r. n. 388/1995 cit., si muove la deliberazione del Consiglio di Presidenza n. 115/CP/2021 (e s.m.i.) in materia di attribuzione di incarichi ai magistrati della Corte dei conti, che specifica e sviluppa le previsioni regolamentari. Ad esempio, l’art. 8 della deliberazione è dedicato agli incarichi di insegnamento che, in sede regolamentare, non sono espressamente disciplinati.[23]In materia, peraltro, è sufficiente la presa d’atto dell’organo di autogoverno allorquando l’impegno richiesto sia inferiore a 40 giornate annue non frazionabili o all’importo di 35.000 euro.[24]
Assumono, inoltre, particolare rilevanza le “circostanze ostative” (v. art. 5) alla autorizzazione e al conferimento degli incarichi soprattutto per quanto concerne le incompatibilità funzionali (lett. b) e territoriali (lett. c).
Ma è senza dubbio il settore delle autorizzazioni quello in cui più è a rischio l’indipendenza del magistrato e ciò spiega perché il legislatore delegato richieda che in caso di “ indicazione nominativa dell’amministrazione richiedente “ l’incarico sia attribuito “ in base a motivate ragioni”, escludendo la chiamata nominativa comunque per gli incarichi di presidenza di collegi arbitrali e per gli incarichi in commissioni di concorso, commissioni di disciplina, e similari (v. art. 3, comma 4).
Vi è da dire, peraltro, che l’art. 11, comma 7, L. n. 15/2019 ha attribuito al Presidente della Corte dei conti il potere di autorizzare e revocare gli incarichi extraistituzionali, in luogo del Consiglio di Presidenza, che rilascia soltanto un parere.
8. Il regime disciplinare.
I magistrati contabili sono sanzionabili disciplinarmente sulla base di regole formulate in termini molto vaghi, a differenza dei loro colleghi ordinari, per i quali vale il sistema di tipizzazione delle fattispecie disciplinari, cristallizzate nel D.Lgs 23 febbraio 2006, n. 109.
Ai magistrati contabili si applica, invero, la vecchia disciplina rappresentata dall’art. 18 della legge sulle guarentigie (R.D.Lgs. 31 maggio 1946, n. 511) in virtù della clausola di salvezza di cui all’art. 30 del D.Lgs. n. 109/2006 cit., secondo cui “Il presente decreto non si applica ai magistrati amministrativi e contabili”.
L’illecito disciplinare dei magistrati contabili, quindi, si presenta come illecito atipico, suscettibile di ricomprendere la miriade di comportamenti idonei a ledere l’immagine ed il prestigio della giustizia, cioè della stessa legittimazione della funzione giudiziaria.
La discrezionalità dell’organo disciplinare nell’applicare una norma a contenuto vago quella rappresentata dall’art. 18 della legge sulle guarentigie può essere una minaccia per l’indipendenza, poiché può essere utilizzata in modo scorretto, al fine, cioè, di sanzionare i magistrati per i loro orientamenti giurisprudenziali non del tutto ortodossi.[25]
Si evidenzia, in particolare, che “la genericità della formula utilizzata finiva, di fatto, per riconoscere un potere interpretativo enorme alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura. Quali fossero in concreto le fattispecie di illecito disciplinare venivano individuate, di volta in volta, dalla giurisprudenza della sezione, che pure veniva così a determinare una qualche forma di diritto vivente in materia disciplinare”[26]
In un sistema disciplinare così congegnato assumerebbe importanza, dunque, il monitoraggio sui procedimenti e sulle sanzioni disciplinari, utile anche per acquisire informazioni sull’insorgere di aspetti critici del comportamento soprattutto giudiziario che richiederebbero una regolamentazione.[27]
Quanto più i giudici sono consapevoli di quelle regole e ad esse conformano i propri comportamenti, tanto più le regole di etica giudiziaria saranno efficaci e conseguiranno il loro scopo primario che è “essenzialmente promozionale e non punitivo”, in quanto “l’obiettivo principale è quello di prevenire eventi che possano interferire con il corretto funzionamento dell’amministrazione della giustizia”. [28]
Ricerche sviluppate all’estero in ambito giudiziario dimostrano, infatti, che laddove l’applicazione delle regole disciplinari è stata monitorata con continuità, le violazioni sono generalmente involontarie e che tra le cause più frequenti vi sono la “mancanza di conoscenza, la mancanza di attenzione e, non da ultimo, la l’eccesso di fiducia in se stessi”[29]
Di qui l’importanza della formazione di un “archivio disciplinare”, sull’esempio di quello riguardante la Sezione disciplinare del CSM, che contenga le decisioni emesse in sede disciplinare dal Consiglio di Presidenza e le sentenze pronunciate in materia dai TAR e dal Consiglio di Stato.
Soltanto di recente, ma senza che venisse data pubblicità all’interno della categoria, è stata pubblicata una raccolta delle massime relative alle decisioni dell’organo di disciplina, a cura dell’Ufficio studi e documentazione, in attuazione di quanto previsto dall’art. 14, comma 5, della deliberazione del Consiglio di Presidenza n. 3/CP/2021 del 7 gennaio 2021.
Si tratta di una iniziativa che colma un vuoto durato oltre 35 anni anche se le massime pubblicate sono prive di riferimenti temporali, impedendo così la ricerca del testo della motivazione della decisione cui la massima si riferisce.
Per quanto riguarda la natura del procedimento disciplinare, si tratta di un procedimento amministrativo[30], come da ultimo autorevolmente affermato dalla Corte costituzionale, con la sentenza 27 marzo 2009, n. 87, sicché i provvedimenti resi dal Consiglio di Presidenza in sede disciplinare sono atti amministrativi e non giurisdizionali.
La natura amministrativa del procedimento disciplinare non ha, però, impedito al giudice delle leggi di dichiarare incostituzionali le norme[31] che impedivano ai magistrati contabili – estendendo ovviamente gli effetti della incostituzionalità anche ai magistrati amministrativi – di potersi far difendere da un avvocato del libero foro. Importante è, in tal senso, l’affermazione di cui al p. 3 del “Considerato in diritto”: “La garanzia dell’indipendenza del magistrato rileva anche in materia di responsabilità disciplinare, perché la prospettiva dell’irrogazione di una sanzione può condizionare il magistrato nello svolgimento delle funzioni che l’ordinamento gli affida.”
Titolare dell’azione disciplinare è il Procuratore generale, ai sensi dell’art.10, comma 9, L. n. 117/1988 e dell’art. 11, comma 8, L. n. 15/2009, che fa salva la titolarità dell’azione disciplinare.
Il regolamento di disciplina in vigore è stato approvato dal Consiglio di Presidenza con deliberazione n. 3/CP/2021 del 7 gennaio 2021.
L’apertura del procedimento è normalmente preceduta dallo svolgimento di indagini preliminari (art. 1, comma 2). Si tratta della c.d. fase predisciplinare, che non risulta disciplinata in dettaglio dalle norme regolamentari.
È in relazione a tale fase che si pone l’interrogativo se il magistrato attinto dalle richieste istruttorie del Procuratore generale ha il diritto di accedere agli atti aventi rilevanza disciplinare.
In senso positivo si è pronunciato, con riguardo alla analoga problematica riguardante i magistrati ordinari, il Tar Lazio, Sez. I, con sentenza n. 3315 del 10 marzo 2021, che è stata ribaltata in appello dal Consiglio di Stato, con sentenza n. 2593 del 2021, sulla base della considerazione che la procedura predisciplinare rappresenta il presupposto logico e giuridico della eventuale incolpazione, a cui segue un iter di carattere giurisdizionale.
È evidente che tale argomento non può valere per la c.d. fase predisciplinare riguardante i magistrati contabili, tenuto conto della natura amministrativa del relativo procedimento disciplinare.
All’esito delle risultanze dell’istruttoria svolta su fatti o atti venuti a conoscenza, il Procuratore generale, se ritiene che non sussistano elementi rilevanti ai fini disciplinari, procede alla archiviazione c.d. predisciplinare, dandone comunicazione al Presidente che informa il Consiglio, il quale, con deliberazione assunta a maggioranza degli aventi diritto, può chiedere al Procuratore generale il riesame del provvedimento di archiviazione e, per non più di una volta, del nuovo provvedimento di archiviazione (art. 2, commi 1 e 2).
In alternativa, il Procuratore generale, qualora ritenga sussistenti i presupposti dell’illecito disciplinare, procede alla contestazione degli addebiti all’incolpato[32]. È l’atto di incolpazione che determina l’apertura del procedimento disciplinare, che non può essere promosso dopo un anno dal giorno in cui il Procuratore generale ha avuto notizia dei fatti di rilievo disciplinare (art. 2, commi 3 e 4).
La fase istruttoria si svolge innanzi al Consiglio di Presidenza ed è caratterizzata dall’affidamento dei necessari accertamenti istruttori ad una apposita Commissione consiliare, composta da tre membri dei quali uno, con funzioni di presidente, scelto tra quelli designati dal Parlamento. È garantito il diritto di difesa dell’incolpato, che può chiedere l’accesso agli atti del fascicolo disciplinare ed estrarre copia degli stessi, presentare le proprie deduzioni, entro il termine perentorio di 30 giorni, e, sebbene non espressamente previsto, chiedere di essere convocato in audizione (art. 3, commi 1-6).
La Commissione, chiusa l’istruttoria, riferisce al Consiglio nella prima adunanza successiva, proponendo il proscioglimento o il passaggio alla trattazione orale (art. 3, comma 7).
Il proscioglimento è deliberato dal Consiglio di Presidenza, se ritiene che non sussistano i presupposti per l’irrogazione di una sanzione disciplinare (art. 4).
Nella ipotesi inversa, è fissata con decreto del Presidente la data della trattazione orale in seduta pubblica (art. 5).[33]
Suscita perplessità il fatto che la normativa regolamentare non preveda expressis verbis gli esiti della udienza disciplinare, lasciando il compito all’interprete di ricostruire l’iter successivo alla trattazione del caso innanzi al plenum, nel senso del proscioglimento o della condanna, e ancora più disappunto la previsione secondo cui la redazione delle deliberazioni in materia disciplinare sia di competenza dell’Ufficio Studi e documentazione del Consiglio di presidenza e non di quest’ultimo organo (art. 14, comma 3)
Le sanzioni disciplinari (ammonimento, censura, perdita dell’anzianità e rimozione) sono previste nel Regolamento, in linea con il richiamo fatto dall’art. 32 della legge n. 186/1982 (a cui rinvia l’art. 10 della legge n. 117/1988) alle “norme previste per i magistrati ordinari in materia di sanzioni disciplinari e del relativo procedimento”.
[1] G. Urbano, Riflessioni sulla indipendenza del magistrato contabile, in federalismi.it, n. 21/2019, 2.
[2] Si veda, da ultimo, C. cost., 7 ottobre 2016, n.215, secondo cui “ Sia l’art. 100, terzo comma, riferibile ai giudici speciali assentiti dalla Costituzione, Consiglio di Stato e Corte dei conti, che l’art. 108, secondo comma, relativo alle ulteriori forme di giurisdizione diverse da quella ordinaria, sono, infatti, norme “ a fattispecie aperta” giacchè dettano solo il principio generale lasciando al legislatore ordinario il compito di specificare il contenuto effettivo della relativa disciplina”
[3] A. Sandulli, La Corte dei conti nella prospettiva costituzionale, in Dir. e Soc., 1979, 33 e ss.
[4] Neppure coglie nel segno l’osservazione di C. Cassarà, La nomina del vertice della giustizia contabile. Commento all’ordinanza di rimessione n. 194 del 2011, (in federalismi.it, n. 24/2011, 8) secondo cui “ In concreto[…]è l’organo di autogoverno della magistratura contabile che provvede alla designazione del presidente della Corte dei conti avendo riguardo sia all’anzianità che alla valutazione sul merito, quindi al possesso da parte del soggetto prescelto di quei parametri preventivamente stabiliti proprio dall’organo di autogoverno medesimo”, per la semplice ragione che tale prassi può essere cambiata a seconda delle contingenze della politica governativa.
[5] Conserva ancora attualità la domanda che si pone A. Orsi Battaglini (“cosa dovrebbe ritenersi di una ipotetica legge che affidasse al Governo la nomina del primo presidente della Corte di cassazione e di un quarto dei suoi componenti?”) in “Alla Ricerca dello Stato di diritto”, Milano, 2005, 83.
[6] Si fa riferimento a Corte cost., 17 gennaio 1967 n. 1. In senso analogo, Corte cost., 19 dicembre 1973, n. 177 con riguardo alla nomina governativa dei consiglieri di Stato
[7] R. Garofoli, Unicità della giurisdizione e indipendenza del giudice: principi costituzionali ed effettivo sviluppo del sistema giurisdizionale, in Dir.proc.Amm., 1998, 138
[8] Idem.
[9] Così, G. D’Auria, La “nuova” Corte dei conti, in astrid.it, 8
[10] Il presidente aggiunto della Corte dei conti (posto di funzione istituito dal D.L. 24 dicembre 2003, n. 354, convertito nella L. 26 febbraio 2004, n. 45) ha sostituito il presidente di sezione più anziano, ai sensi dell’art. 1, comma 1, D.Lgs. 7 febbraio 2006, n. 62
[11] È cambiato solo il meccanismo di designazione, essendo subentrate le due camere ai Presidenti delle stesse.
[12] C. Guarnieri, La differenziazione degli organi di governo delle magistrature: un fenomeno da non trascurare, in federalismi.it, n. 3/2010, 3
[13] V.Mormando, nel suo intervento intitolato “Il Consiglio di Presidenza della Corte dei conti: organo di autogoverno o organo di amministrazione del personale di magistratura?” al convegno di studi “Giustizia al servizio del paese” (Palermo, 12-13 ottobre 2023) si chiede “come può un organo che possiede il sigillo della rilevanza costituzionale essere de-mansionato al ruolo di organo che amministra”
[14] Corte cost., 13 gennaio 2011, n. 16
[15] Suscita perplessità la denominazione di “referenti” solo della prima e seconda commissione, che hanno le maggiori competenze, rispetto alle altre: Commissione Bilancio, Commissione in materia disciplinare e di incompatibilità ambientale, Commissione per il Regolamento e gli atti normativi, Commissione per il monitoraggio. Le perplessità nascono dal fatto che tutte le Commissioni hanno funzioni “referenti” nei confronti del plenum, nel senso di “riferire” a questo sulle tematiche afferenti alle loro competenze.
[16] Cfr. Tar Lazio, Roma, sez. I, n. 5068/2017; CdS, sez. IV, 3 marzo 2016, n. 875; Id., 6 agosto 2014; Id., 28 maggio 2012, n. 3157; Id., Tar Lazio, Roma, sez. I quater, 3 ottobre 2016, n. 10017)
[17] Cfr. Tar Lazio, sez. I, n. 6599/2088, che richiama Cons. Stato, sez. IV, 16 ottobre 2006, n. 6181 e Id., sez. IV, 26 aprile 2006, n. 2289.
[18] G. Urbano, op. cit., 4
[19] Approvato con D.Lgs. 26 agosto 20166, n. 174.
[20] Si tratta della sentenza n. 257 del 16 dicembre 2017
[21] P. Villaschi, Il principio del giudice naturale precostituito nella giurisdizione contabile, in gruppodipisa.it
[22] Così Corte cost., sent. n. 257 del 2017 (punto 4.3. del “Considerato in diritto”)
[23] La libertà di insegnamento può essere fatta rifluire, tuttavia, tra “le attività che costituiscono espressione delle libertà e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione” che sono sempre consentite (v. art. 1, comma 1, D.p.r. n. 388/1993.
[24] Osserva L. Busico, Dipendenti pubblici. Incompatibilità e attività extraistituzionali, Milano, 2021, 73, che “sussiste più di un dubbio sulla legittimità di fissare obblighi di comunicazione per attività liberalizzate e sembra coerente con le previsioni della normativa primaria ritenere che la mancata comunicazione, a differenza di quanto espressamente previsto dall’art. 53, comma 7, d.lgs. n. 165/01 per l’ipotesi di mancata autorizzazione, non possa, comunque, comportare conseguenze sul piano disciplinare”
[25] Secondo Tenore, Sulla necessità di una riforma del regime disciplinare nelle magistrature speciali, in Riv. C. conti, n. 4/2022, 25, “ Occorre difatti una maggiore tipizzazione delle fattispecie disciplinari per prevenire occasionali arbitri degli organi di autogoverno delle magistrature speciali e garantire diritti difensivi basici dell’incolpato (pur lasciando, assai opportunamente, delle clausole aperte o delle formulazioni di più ampio respiro, che consentono un costante adattamento sia all’evoluzione etico-sociale delle multiformi condotte ed alla loro percezione in termini di disvalore, sia alla straordinaria fantasia italica nel commettere illeciti anche attraverso nuove forme comunicative[…]”. In mancanza di dati più precisi sui casi decisi, non è possibile accedere all’opinione dell’A.
[26] Così, R.Romboli, La responsabilità disciplinare del magistrato nel quadro dei principi e dei valori costituzionali”, in “ Il procedimento disciplinare dei magistrati”, Quaderno n. 8, SSM, Roma, 2022, 18
[27] Nella premessa alla prima edizione della Guide to Judicial Conduct of England and Wales del 2004, l’allora Lord Chief Justice, Harry Kenneth Woolf, riconosce il bisogno di una continua attività di monitoraggio
[28] Citazioni tratte dal commento alla regola 1, che individua l’obiettivo del Judicial Conduct and Disability Act for US Federal Judges del 1980
[29] J.S. Cooke, Judicial Ethics Education in the Federal Courts, in The Justice System Journal, n. 3, 200
[30] Ex multis, Cass. civ., SS.UU., 10 aprile 2002, n. 5126
[31] Art. 34, secondo comma, della legge 27 aprile 1982, n. 186 (Ordinamento della giurisdizione amministrativa e del personale di segreteria ed ausiliario del Consiglio di Stato e dei Tribunali amministrativi regionali) e art. 10, comma 9, della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), dichiarati incostituzionali nella parte in cui escludono che il magistrato amministrativo o contabile, sottoposto a procedimento disciplinare, possa farsi assistere da un avvocato.
[32] Prima del Regolamento di disciplina n. 14/2013, la contestazione degli addebiti era compito del Consiglio di Presidenza, su richiesta del Procuratore generale.
[33] Deve osservarsi che mentre l’art. 5 del Regolamento di discipline stabilisce la seduta pubblica per la trattazione orale, l’art. 20 del Regolamento interno prevede al comma 3 la esclusione della pubblicità delle sedute che riguardano procedimenti disciplinari e sospensioni cautelari dal servizio (lett. c).
Integrazione postuma della motivazione ed esaurimento della discrezionalità (nota alla sentenza n. 361 del 26.1.2024 del TAR Sicilia - Catania, IV sezione)
di Ludovico Di Benedetto
Sommario: 1 - Sintesi del fatto; 2 - Inquadramento e fondamento giuridico; 3 - Ammissibilità dell’integrazione conservativa ed esaurimento della discrezionalità; 4 - L’integrazione postuma alla prova dei fatti; 5 - Conclusioni: il delicato equilibrio tra poteri costituzionali.
1 - Sintesi del fatto
La sentenza in commento concerne un procedimento amministrativo connotato da discrezionalità tecnica (concorso pubblico), a fronte del quale si staglia un interesse legittimo pretensivo del ricorrente (ottenimento dell’incarico). La ricostruzione della parte in fatto è piuttosto agevole. Il contenzioso origina dall’impugnazione, ad opera del privato, della determinazione con la quale l’autorità pubblica, all’esito della procedura concorsuale, negando di procedere alla stipula del contratto di lavoro col primo della graduatoria, ha dichiarato vincitore il secondo classificato. La pretermissione del ricorrente è stata giustificata dall’accertamento del rinvio a giudizio per alcuni reati che, in forza delle previsioni del bando, avrebbero portato all’estromissione dalla gara qualora consolidati in cosa giudicata.
Avviato il contenzioso amministrativo, l’autorità pubblica ha emanato un nuovo provvedimento a mezzo del quale ha convalidato la precedente delibazione, specificandone le ragioni. Questo secondo atto è stato ritualmente avversato dalla parte ricorrente con motivi aggiunti ex art. 43 c.p.a., adducendo, tra l’altro, un’inammissibile integrazione postuma della motivazione provvedimentale.
Il giudice amministrativo si è pronunciato con la sentenza in commento[1]. Dichiarato improcedibile il ricorso principale per sopravvenuta carenza di interesse alla luce del più recente provvedimento, quello per motivi aggiunti è stato rigettato nel merito. In sintesi e per quanto qui rileva, il collegio, richiamando un nutrito filone giurisprudenziale, ha ritenuto legittima l’integrazione successiva, in quanto operata non tramite atti processuali, bensì per mezzo di un autonomo intervento in sede amministrativa - nella specie, un provvedimento conservativo di secondo grado.
La pronuncia in commento si segnala dunque per aver assecondato la direttrice che conferisce piena cittadinanza nel nostro ordinamento, sebbene entro puntuali limiti, alla cosiddetta integrazione postuma della motivazione lite pendente. Questa tematica, in particolare, merita un excursus, al fine di comprenderne caratteri e disciplina sostanziale. Lo studio propone inoltre un collegamento con l’idea della riduzione della discrezionalità amministrativa anche per mezzo di un contegno procedimentale o processuale da parte della p.a., secondo la dottrina del one shot. La sentenza del TAR pare perciò un’ottima occasione per chiarire i recenti sviluppi in materia.
2 - Inquadramento e fondamento giuridico
La pronuncia in analisi dà per presupposta la nozione di integrazione postuma della motivazione, senza spendere parole sul punto. È bene precisare che con tale formula e altre consimili[2] si fa riferimento al fenomeno per cui l’amministrazione, parte resistente in un giudizio di impugnativa provvedimentale ormai pendente, completa la parte motiva dell’atto avversato con elementi di fatto e di diritto a suo tempo non esplicitati ma già presenti nella fattispecie[3], al dichiarato fine di evitare l’annullamento giurisdizionale per vizio motivazionale.
L’istituto non possiede, nel nostro ordinamento[4], un’esplicita base normativa; questa è una delle principali ragioni del ricco dibattito, pretorio e dottrinale, circa la sua ammissibilità. Prima però di approfondire quest’ultimo aspetto[5], è pregiudiziale risolvere alcuni nodi per comprendere i confini della figura, cioè quello della base normativa e quello della distinzione da istituti affini.
Dietro l’etichetta integrazione postuma si celano almeno tre significati[6], tutti accomunati da un elemento processuale (la pendenza di un’azione di annullamento) e da uno sostanziale (il provvedimento è viziato dal lato motivazionale e pertanto, in astratto, il contenzioso dovrebbe risolversi a favore del ricorrente; l’esito sfavorevole per la parte pubblica viene però evitato, appunto, a mezzo dell’integrazione). Le tre decodificazioni che si propongono sono le seguenti: la p.a. integra il profilo motivazionale per mezzo degli scritti difensivi presentati nel processo; il giudice amministrativo ricostruisce la complessiva motivazione provvedimentale sulla base di atti che sono ricavabili dal procedimento amministrativo e sono stati acquisiti al processo (cosiddetta motivazione implicita); il soggetto pubblico colma il vizio motivazionale tramite un sopravvenuto e autonomo atto di manutenzione.
La prima variante è generalmente ritenuta immeritevole di riconoscimento[7]; lo afferma testualmente proprio la decisione in oggetto. Piuttosto agevole capire le ragioni di questa esclusione: sul piano delle attribuzioni, non può il difensore della parte pubblica resistente assumere le vesti dell’amministrazione, in totale spregio dell’ordine legale delle competenze, fornendo valutazioni e operando decisioni che l’ordinamento riserva alla p.a.. Sul piano delle garanzie individuali, inoltre, l’integrazione avverrebbe al di fuori della cornice procedimentale fissata dal legislatore.
Quello che semmai si potrebbe arrivare a concepire, come propone autorevole dottrina[8], è che questa casistica, ridondando nella seconda sopra individuata, risulti in definitiva ammissibile. Non si tratterebbe più allora di un completamento motivazionale offerto con gli atti di parte, ma di allegare al processo tutto il materiale necessario per guidare il giudice nella comprensione della fattispecie, magari su impulso giudiziario ex art. 64 c. 3 c.p.a.. Ciò non significa che la giustificazione errata venga ampliata indicando nuove ragioni di fatto o di diritto, non potendo essere presentati elementi che non siano stati precedentemente menzionati nella motivazione. Invece, è da intendersi come la spiegazione più dettagliata di componenti già esistenti, ma non chiaramente formulate. In questi termini, il centro dell’analisi si sposta dal difensore (comunque sempre abilitato, al pari della controparte, a presentare elementi utili a fini difensivi) all’organo giudicante, chiamato, grazie al principio dispositivo e al contraddittorio endoprocessuale, a enucleare il sostrato della contesa (art. 32 c. 2 c.p.a.).
Si potrebbe dunque ritenere che la condotta processuale dell’amministrazione, se non propriamente in grado di integrare la motivazione dell’atto avversato, quantomeno sia idonea a fare luce sul rapporto sotteso (un po’ come se fossero dei chiarimenti ex art. 63 c. 1 c.p.a. non richiesti d’ufficio dal magistrato, ma offerti unilateralmente dalla parte resistente).
La giurisprudenza, invero, ha in alcune pronunce[9] assecondato questa ricostruzione, pur confinandola al rispetto di precisi presupposti, estrapolati dal tessuto costituzionale (su tutti, il diritto di difesa, art. 24 Cost., e l’equo processo, artt. 111 e 113 Cost.) ed erti per evitare che il giudice abusi delle sue prerogative[10]. Dunque, l’integrazione-chiarimento può trovare spazio nel nostro ordinamento, a patto che concerna provvedimenti vincolati, che il completamento non metta in discussione il diritto di difesa del ricorrente (recte: che quest’ultimo possa comunque contestarlo, nel medesimo processo), che gli elementi addotti siano in realtà già evincibili dalla complessiva dinamica procedimentale[11].
Due sembrano essere i capisaldi su cui poggia questa ricostruzione: l’uno, condivisibile, risiede nella distinzione tra giustificazione e motivazione in senso stretto; l’altro, più opinabile, nel richiamo, a volte implicito, altre esplicito, all’art. 21 octies c. 2 della l. 241/1990.
La dicotomia giustificazione-motivazione, con la prima intendendosi l’indicazione dei presupposti legali e fattuali del potere e con la seconda la enunciazione dell’iter logico seguito per emanare il provvedimento, ha radici lontane[12] e può essere qui ripresa nel senso che per gli atti vincolati, non venendo in gioco alcuna valutazione discrezionale, sarebbe sufficiente indicare la mera giustificazione. In tali evenienze, quindi, il successivo contegno della parte pubblica in sede processuale, anche desumibile dagli scritti difensivi, sarebbe idoneo non già ad integrare una motivazione che tale strettamente non è, quanto piuttosto a puntualizzare il provvedimento stesso nei suoi aspetti formali. Si avrà così un’integrazione postuma della giustificazione, tollerabile al ricorrere degli indicati presupposti[13].
L’altra colonna portante di questa interpretazione è, come detto, l’art. 21 octies c. 2, primo alinea. Se il provvedimento è vincolato ed il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso, i vizi motivazionali che lo affliggono, intesi come patologie meramente formali, non possono condurre alla sua invalidazione. L’idea è dunque quella di dequotare[14] il vizio di motivazione a vizio di forma non invalidante secondo la disciplina sinteticamente richiamata. Queste conclusioni non sono in verità generalmente accolte. Tralasciando ardite tesi[15] che addirittura pervengono ad elevare la motivazione ad elemento essenziale del provvedimento, la cui mancanza ne comporterebbe la nullità strutturale ex art. 21 septies, è prevalente l’impostazione[16] che ritiene la patologia motivazionale come vizio sostanziale (per lo più, eccesso di potere), non sussumibile nella regolamentazione di cui all’art. 21 octies c. 2.
Non rimane, a questo punto, che approfondire il tema concernente l’ultima e più discussa casistica, quella che più propriamente si indica come integrazione postuma della motivazione, cioè il completamento adoperato per mezzo di un sopravvenuto atto conservativo. Tale sembra essere peraltro la lettura che i giudici del TAR Sicilia offrono riguardo il secondo atto emanato dall’amministrazione resistente. Su questo ci soffermeremo nel paragrafo seguente.
3 - Ammissibilità dell’integrazione conservativa ed esaurimento della discrezionalità
L’amministrazione è riconosciuta generalmente come titolare non solo di poteri di autotutela caducatori, cioè volti ad eliminare una previa statuizione (secondo i limiti previsti dagli artt. 21 quinquies e nonies, primo comma, della l. 241/90, dedicati l’uno alla revoca, l’altro all’annullamento ufficioso), ma anche di potestà di autotutela conservativa o manutentiva, finalizzate cioè a salvaguardare la precedente attività da una possibile invalidazione[17]. Quest’ultima forma di potere di secondo grado trova, dopo la novella avvenuta con la l. 15/2005, una base normativa espressa nel testo dell’art. 21 nonies c. 2 l. 241/90, dedicato alla convalida[18], ma vi si riflettono, in senso più ampio, altre varianti[19], tutte accomunate da una medesima ratio di fondo, il principio di conservazione e di economicità dell’azione amministrativa, per lo più ricondotto a sua volta al canone costituzionale di buon andamento-efficienza (art. 97 Cost. e art. 1 c. 1 l. 241 cit.)[20].
In questo contesto, è cruciale diffondersi sulla figura della convalida[21]. Per mezzo di questo strumento, la legge abilita l’amministrazione competente ad emendare i propri atti afflitti da un vizio di legittimità, evitandone così l’annullamento, attraverso una postuma manifestazione di volontà, avente efficacia ex tunc[22] e volta proprio a conservare la delibazione prodotta, sempreché ciò avvenga entro un termine ragionevole e corrisponda ad un pubblico interesse (il comma secondo dell’art. 21 nonies è in questo senso costruito simmetricamente al comma primo). Ne scaturisce una fattispecie complessa, per cui al provvedimento viziato - che rimane tale, essendo stato già emanato - si salda una successiva manifestazione di volontà della p.a. da cui far scaturire una “sintesi effettuale autonoma”[23], stavolta immune dai vizi convalidati.
I requisiti, dunque, della convalida sono, oltre ovviamente alla presenza di un atto annullabile[24], una sopravvenuta manifestazione di volontà del soggetto pubblico, secondo i più ritenuta, sulla falsariga dello schema civilistico, necessariamente esplicita[25]: la p.a., cioè, dovrà indicare il vizio e la chiara intenzione di porvi rimedio (animus convalidandi). In aggiunta, devono ricorrere ragioni di pubblico interesse, ossia il consolidamento dell’atto al fine di dare certezza e stabilità ai rapporti giuridici[26], e il rispetto di un termine ragionevole dall’emanazione, onde equilibrare l’esigenza conservativa con il legittimo affidamento dell’istante[27]. Infine, presupposto negativo della convalida è che questo strumento non porti ad uno snaturamento funzionale e contenutistico della decisione amministrativa, sotto pena di eccesso di potere.
Tutto ciò premesso in via generale, si deve affrontare una questione fondamentale ai fini del presente studio, e cioè se sia convalidabile il vizio di motivazione (sub specie di eccesso di potere)[28] e, in caso di risposta affermativa, se sia possibile farlo in corso di giudizio, esemplificando così la fattispecie surrichiamata della integrazione postuma della motivazione[29].
Mentre si ritiene comunemente che le patologie formali siano passibili di convalida[30], maggiori dubbi emergono ove si abbia a che fare con vizi sostanziali[31], da intendere come la mancanza di presupposti legali ovvero l’irragionevolezza della delibazione. La giurisprudenza, dal canto suo, ha di recente[32] confermato la distinzione, proprio in tema di motivazione: qualora l’inadeguatezza motivazionale rispecchi un vizio sostanziale della funzione (in termini di contraddittorietà, travisamento, difetto dei requisiti), la convalida è squalificata, in quanto essa non potrebbe mai assicurare il permanere, senza mutamenti, del dispositivo originale; qualora invece la patologia corrisponda solamente ad una insufficiente rappresentazione della parte motiva oppure al non corretto riepilogo della medesima, la convalida risulta ammissibile, affiorando un mero vizio formale dell’atto. Come vedremo nelle battute finali di questo paragrafo, in verità, la teorica del one shot può condurci ad una conclusione ancor più netta, e cioè ad ammettere la cosiddetta convalida persino per vizi sostanziali.
Per quanto concerne il parallelo profilo dell’integrazione lite pendente, l’impostazione tradizionale è stata in prevalenza di avviso contrario[33]. Una volta attivato un processo, come quello amministrativo ante codicem, incentrato prettamente sul momento formale del provvedimento, ammettere la convalida in corso di giudizio avrebbe significato dar la possibilità alla parte pubblica resistente di disporre unilateralmente del thema decidendum, deturpando le prerogative dell’organo giudicante - già adito - in uno con le garanzie difensive del ricorrente[34], di fatto costretto a ricorsi al buio, cioè promossi solo per poter arrivare a conoscere l’effettiva motivazione che anima la deliberazione amministrativa. Una prassi del genere, inoltre, avrebbe comportato la degradazione della motivazione a mero elemento accidentale[35], da addurre solo se e in quanto venga promossa un’iniziativa processuale[36].
A conferma dell’impostazione, si aggiunge che il legislatore, con ciò comprovando il principio generale di segno negativo, ha ammesso expressis verbis eccezionalmente la ratifica del provvedimento, cioè la convalida dell’atto viziato sotto il solo profilo dell’incompetenza relativa[37], escludendo a contrario tutte le altre.
I postulati che sosterrebbero l’inammissibilità dell’integrazione paiono, però, oggi sgretolarsi, con le riforme del processo amministrativo che hanno visto la luce negli ultimi anni[38]. Innanzitutto, l’oggetto del processo non può più dirsi confinato all’esclusivo fronte attizio, ma si è esteso ben oltre (fino a ricomprendere il rapporto pubblicistico tra p.a. e privato, secondo taluni)[39]. Esemplificazioni di questo passaggio sono rinvenibili oltre che nell’art. 21 octies c. 2 cit., negli artt. 7, 31 c. 3, 34 c. 1 lett. c) e 55 del codice. La metamorfosi, si badi, non investe solamente l’attività amministrativa vincolata, ma anche quella discrezionale.
I paventati rischi di elusione dei principi di parità delle armi e di fairness processuale sono peraltro fugati dai nuovi meccanismi processualistici, su tutti i motivi aggiunti (art. 43 c.p.a.), che permettono di mantenere l’equilibrio tra le posizioni dei litiganti: fatta la convalida-integrazione, il ricorrente ben potrà, alternativamente, rimanere inerte ed attendere l’accertamento dell’improcedibilità del processo per sopravvenuta carenza di interesse (potrebbe in tesi pensarsi anche all’estinzione per rinuncia al ricorso) oppure coltivare il contenzioso ed impiegare i motivi aggiunti per avversare, insieme con l’atto originario, quello di convalida (per vizi propri e/o per assunta inammissibilità tout court dell’integrazione)[40].
Che la p.a. poi rimanga titolare del potere di intervenire anche in autotutela, nonostante l’iniziativa processuale, lo dimostrano sia l’assenza dell’automatico effetto sospensivo del ricorso, sia la disciplina della cessazione della materia del contendere, che logicamente presuppone l’ammissibilità di una iniziativa postuma.
A rigore, inoltre, una volta ammessa la risarcibilità dell’interesse legittimo per provvedimento invalido, negare l’integrazione della motivazione, equivarrebbe ad impedire alla p.a. di adoperarsi, in armonia con i doveri solidaristici di cui all’art. 2 Cost., per cancellare o quantomeno attenuare le conseguenze dannose della propria condotta.
In ogni caso, dandosi per buona questa impostazione, non si può lasciare carta bianca alla parte pubblica. Innanzitutto, al ricorrente deve essere riconosciuto il diritto di agire per il risarcimento danni contro il funzionario responsabile (art. 28 Cost.)[41].
Ci si aspetta inoltre un ragionevole riparto delle spese processuali, dal momento che, seguendo altrimenti le ordinarie regole in materia (artt. 26 c.p.a. e 91 c.p.c.), sarebbe il privato a doversi sobbarcare i costi del processo, in quanto soccombente a seguito dell’integrazione tardiva[42].
In conclusione, dunque, l’estensione dei confini oggettivi del contenzioso tramite l’integrazione postuma di un provvedimento (vincolato, ma anche) discrezionale, magari sotto sollecitazione del giudice[43], non solo non sarebbe ostacolata da altri principi, ma anzi sarebbe da salutare con favore nell’ottica dell’effettività e concentrazione della tutela[44]. Con un unico ricorso, sommato a motivi aggiunti, l’istante riesce ad opporsi una volta per tutte all’azione amministrativa, trattata finalmente nel suo complesso, senza che la parte pubblica possa rivederla infinite volte; d’altronde, sul versante pubblico, grazie all’intervento manutentivo, si eviterebbero annullamenti giurisdizionali sproporzionati rispetto alla reale portata dell’interesse del privato, dimostrando che la decisione amministrativa in ultima analisi sia corretta.
Ragioni di simmetria processuale, impongono che, così come il ricorrente, in pendenza del giudizio, è in grado di beneficiare (e questo, invero, da sempre) di un rinnovato esercizio del potere amministrativo in senso a lui favorevole, allo stesso modo può anche, all’inverso, essere esposto ad un nuovo provvedimento diretto ad emendare un vizio del precedente atto[45].
Uno schema, quello appena descritto, che pare conciliarsi perfettamente con la teoria dell’esauribilità della discrezionalità per la condotta serbata dall’amministrazione (cosiddetto one shot temperato)[46]: se la p.a., in forza di questa ermeneusi, è già chiamata a completare l’esercizio del potere discrezionale entro al massimo due giudicati amministrativi, tanto vale riconoscere l’esaurimento del potere con la convalida. L’alternativa, d’altra parte, sarebbe che, estromessa l’integrazione e pronunciato l’annullamento del provvedimento, l’amministrazione possa in seconda battuta (e per un’ultima volta) emanare un atto dal medesimo contenuto dispositivo di quello precedente, ma adeguatamente motivato, passibile in ogni caso di un ulteriore ricorso, pervenendo così al medesimo risultato che si sarebbe avuto se fosse stata ammessa l’aggiunta di ragioni in pendenza del primo giudizio.
In sintesi, l’integrazione postuma si atteggerebbe così a second shot ancor prima che ci sia una res iudicatacaducatoria. Nell’insieme, il meccanismo descritto disinnescherebbe la tentazione, da parte del soggetto pubblico, di pretermettere alcune delle ragioni a sostegno della propria decisione, nell’idea di poter colmare eventuali lacune sine die[47].
4 - L’integrazione postuma alla prova dei fatti
Calando la pregressa disamina al caso in oggetto, emerge un dubbio circa la qualificazione dell’intervento postumo operato dall’amministrazione col secondo provvedimento[48]. Certamente, si può escludere che si tratti di un’inammissibile integrazione a mezzo di scritti difensivi; il collegio giudicante è d’altra parte netto nel discorrere in termini di convalida. A nostro parere, l’inquadramento giuridico più corretto parrebbe essere invero quello della seconda categoria sopra analizzata, che si è definita integrazione postuma della giustificazione, avente la sola finalità di chiarire la fattispecie all’organo giudicante.
L’interpretazione in termini di convalida - la terza tipologia studiata - non è convincente nella misura in cui, al di là della mancanza o meno di un esplicito animus convalidandi e ritenuti presenti il termine ragionevole e l’interesse pubblico, il provvedimento postumo de qua, più che finalizzato a colmare un deficit di legittimità della prima delibazione, sembra, nella sostanza, diretto a dare una rilettura dei requisiti ostativi del bando di gara, ampliandone il raggio di applicazione con lo scopo di far salvo l’atto contestato.
Che non si tratti di convalida in senso stretto, lo si evince inoltre dalla statuizione di rigetto dell’impugnazione: se di convalida si doveva discorrere, la statuizione collegiale avrebbe dovuto essere di accoglimento; ma così non è stato. Infatti, il dilemma in parola, lungi dall’essere una vuota disquisizione retorica, tocca nella sostanza la fattispecie, condizionandone i requisiti di validità nei termini delineati nei precedenti paragrafi.
Se la riteniamo ammissibile, la convalida postuma della motivazione, secondo l’orientamento restrittivo[49], per essere conforme all’ordinamento, deve sanare un mero vizio di forma, coprendo un non corretto riepilogo della parte motiva o al più una sua insufficiente rappresentazione, non già - come parrebbe nel caso concreto - l’inadeguatezza sostanziale della ratio decidendi. In definitiva, così opinando, l’esito del giudizio doveva essere diverso e la cosiddetta convalida doveva essere dichiarata illegittima. I termini del discorso sarebbero mutati se il collegio avesse fatto riferimento al tema del one shot, perché in tal caso l’intervento postumo dell’amministrazione si sarebbe atteggiato a seconda spendita di potere, volta a rimodulare nella sostanza la pregressa motivazione; entro questi confini sarebbe allora accettabile la decisione nel merito.
Tutt’altro è a dirsi se si legge la seconda determinazione amministrativa come una semplice integrazione della giustificazione. Come riferito[50], quest’ultima assolve una funzione ancillare, di chiarificazione lite pendente della situazione specifica da cui germina la contesa. Per mezzo di essa, la motivazione implicita si fa esplicita. Per essere valida, però, deve rispettare ut supra alcuni presupposti, che, all’evidenza, sono tutti presenti nel nostro caso: c’è un provvedimento vincolato, in quanto la p.a. deve limitarsi a verificare se esistano o meno pendenze penali concernenti certi crimini, non dovendo ostendere alcuna potestà discrezionale; il diritto di difesa del ricorrente è stato pienamente garantito e ciò è banalmente dimostrato dall’attivazione dei motivi aggiunti; infine, gli elementi allegati successivamente erano già estrapolabili dalla complessiva dinamica procedimentale (in particolare dal combinato disposto di alcune previsioni della lex specialis)[51], come testimoniano gli ultimi paragrafi della pronuncia. Assecondando questa lettura, si conferisce coerenza al ragionamento del collegio che ha, a questo punto condivisibilmente, escluso l’invalidità provvedimentale[52].
5 - Conclusioni: il delicato equilibrio tra poteri costituzionali
Col presente studio si è cercato di affrontare un tema che, radicato su basi teoriche che coinvolgono in profondità i caratteri propri del diritto amministrativo e del rapporto tra funzioni costituzionali, possiede, all’evidenza, un forte taglio pratico. Insomma, alle spalle della cornice giuridica, stanno tangibili rapporti economici e sociali.
La tematica qui trattata e gli approdi raggiunti, sebbene non sempre provvisti di un esplicito riconoscimento legislativo, esemplificano - in uno con altri esempi[53] - una (temibile) patologia, in grado potenzialmente di incidere sulle fondamenta della moderna concezione di amministrazione, che potremmo definire in modo un po’ provocatorio, come “accidia amministrativa”. Procedimenti lenti, istruttorie superficiali e inconcludenti, scarso coinvolgimento degli interessati, decisioni finali di dubbio gusto, sono i frutti avvelenati di questa involuzione.
Sia concesso a tale ultimo riguardo un parallelismo, non troppo peregrino come si vedrà, con lo sviluppo registrato negli ultimi tempi nel diritto penale, circa i rapporti tra Corte costituzionale e legislatore parlamentare, allorquando la prima, caducando una normativa contra Constitutionem (caso tipico, i limiti edittali), imponga al secondo l’esigenza di colmare il vuoto regolamentare così venutosi a creare. Anche qui, a fronte della sovente e spesso denunciata inerzia parlamentare, la giurisprudenza costituzionale ha reagito, dapprima ammettendo la possibilità che la stessa Consulta intervenga sulla normativa di risulta solo ove la scelta sia di fatto vincolata[54], successivamente e più di recente riconoscendo questa possibilità finanche in situazioni di discrezionalità ancora aperta ma in cui esista già una soluzione ragionevole offerta dal sistema normativo nel suo complesso[55].
Ebbene, spiccano alcuni tratti comuni tra questa ipotesi e quella oggetto del presente scritto: in ambo i casi si assiste ad un dialogo tra due poteri costituzionali, uno di matrice giurisdizionale (Corte costituzionale, giudice amministrativo), l’altro per lo più chiamato a compiere scelte discrezionali (Parlamento, amministrazione); in entrambi le difficoltà derivano dall’immobilità del secondo potere; le soluzioni adottate in tutte e due gli esempi per risolvere il problema affondano le proprie radici su ricostruzioni sistematiche di ampio respiro, estrapolate dall’esigenza di mantenimento di una razionalità complessiva (cioè, rispettivamente, evitare di lasciare irragionevoli lacune nel diritto punitivo e di tenere perpetuamente il privato soggetto al potere amministrativo).
Non si vuole certamente negare con questo che le funzioni costituzionali possano dialogare vicendevolmente, in una costante dinamica di arricchimento reciproco: influenzare l'area dell’altra autorità con l'obiettivo di una cooperazione costruttiva è insito nel sistema di separazione dei poteri voluto dalla Costituzione. L’analogia tra le descritte casistiche serve, a ben vedere, ad evidenziare la tensione verso una deresponsabilizzazione dei decisori pubblici e lo scadimento qualitativo degli ingranaggi che dovrebbero garantire il funzionamento della res publica, alla luce del fatto che o le decisioni vengono prese non correttamente o non vengono proprio assunte. Non si può continuare a sperare che sia il potere della magistratura a ricucire il sistema, distorcendo il suo ruolo e facendogli assumere ora il munus di legislatore, ora quello di amministratore[56].
[1] Al momento in cui si scrive ancora passibile di appello.
[2] Quali “motivazione successiva”, “motivazione sopravvenuta”, “integrazione successiva”. Per una definizione dottrinaria, Occhiena M., Il divieto di integrazione in giudizio della motivazione e il dovere di comunicazione dell’avvio dei procedimenti ad iniziativa di parte: argini a contenimento del sostanzialismo, in Foro amministrativo TAR, II, 2003, 528: “ [le integrazioni sono] modifiche al discorso argomentativo elaborato dall’amministrazione a sostegno del dispositivo provvedimentale dirette ad introdurre, ex novo e dopo l’adozione della decisione, dati motivanti obiettivamente suscettibili di giustificare il provvedimento emanato, che non siano riscontrabili oppure che non siano sufficientemente articolati nell’atto impugnato”.
[3] Se venissero in rilievo elementi sopraggiunti, si dovrebbe per forza riaprire un procedimento ex novo.
[4] A differenza, ad esempio, del sistema tedesco con il par. 114, seconda frase, VwGO (che, introdotto nel 1997, dispone: “L’amministrazione può indicare ulteriori ragioni a sostegno della propria decisione nei procedimenti innanzi all’autorità giurisdizionale”). La ratio della disposizione è così individuata nella risoluzione della Commissione giuridica del 1996 sul progetto di riforma della legge sul processo amministrativo: “Conformemente alla giurisprudenza del Tribunale amministrativo federale, si chiarisce che l'amministrazione può anche introdurre considerazioni discrezionali relative al diritto sostanziale durante il procedimento giudiziario”. Per approfondimenti, Axmann M., Das Nachschieben von Gründen im Verwaltungsrechtsstreit, Francoforte, 2001, 92 e ss.; per analisi di più ampio respiro, Sodan H., Ziekow J., Verwaltungsgerichtsordnung. Grosskommentar, Baden-Baden, 2018, 2326 e ss. e 2426 e ss., e Gärditz K. F., VwGO Kommentar, Colonia, 2018, 1024 e ss. e 1050 e ss.. Sulla necessità comunque di un’interpretazione restrittiva della citata disposizione, si veda Axmann M., op. cit., 182, secondo il quale: “[…] l'ammissibilità dell'integrazione ai sensi del par. 114 deve essere risolta in ogni caso negativamente se il procedimento istruttorio, in particolare il test di opportunità, appare indispensabile per la tutela giurisdizionale dell'attore o se al procedimento istruttorio viene attribuito un peso non trascurabile in un determinato ambito”.
[5] Si rinvia fin da ora al paragrafo successivo.
[6] La distinzione è presente in dottrina (Virga G., Motivazione successiva e tutela della pretesa alla legittimità sostanziale del provvedimento amministrativo, in Diritto processuale amministrativo, V, 1993, 510; Tropea G., Motivazione del provvedimento e giudizio sul rapporto, in Diritto processuale amministrativo, IV, 2017, 1242) e, da ultimo, ha attecchito, con piccole sfumature, anche in giurisprudenza: cfr. Cons. St. sez. VI 3385/2021, con nota critica di Aperio Bella F., Limiti alla convalida del vizio di motivazione in corso di giudizio, disponibile al sito giustiziainsieme.it, 2021, 1.
[7] Virga G., op. cit., 510, ma si veda subito infra; Tropea G., op. cit., 1242; Cons. St. sez. VI nn. 1026 e 1703 del 2023, n. 3385 cit., sez. VI 5984/2018 e sez. III 2247/2014, ma anche TAR Lazio, Roma, sez. III bis, n. 335/2024. Il tema è stato approfondito in TRGA Trento 81/2021 che, richiamando l’arresto del Consiglio di Stato del medesimo anno, conferma l’inammissibilità dell’integrazione a mezzo scritti difensivi.
[8] Il riferimento è a Virga G., ibidem. Ancor più radicalmente, si avverte in Giannini M. S., voce Motivazione dell’atto amministrativo, in Enciclopedia del diritto, XXVII, Milano, 1977, 267, in nota, che la questione se sia possibile per il difensore dell’amministrazione integrare la motivazione mediante gli scritti difensivi “[…] è mal posta e si risolve in un luogo comune; il problema è solo probatorio, in quanto il provvedimento può essere collegato ad altri provvedimenti, a comportamenti, a prassi, che non sono enunciati in alcun atto del procedimento di formazione ma che, se tuttavia, esistono, e se ne dimostra il collegamento, non danno luogo ad alcuna supposizione del difensore all’autorità”.
[9] Cons. St. sez. IV 1018/2014, sez. V 4194/2013, sez. VI 1241/2010; in dottrina, si rinvia a Caporale M., Dal Consiglio di Stato un tentativo di canonizzazione della motivazione postuma, in Giurisprudenza italiana, 2014, 1696.
[10] Tramutandosi “in un organo ausiliario o in un’officina di riparazione dell’amministrazione” (Axmann, op. cit., 143).
[11] Nella letteratura e nella giurisprudenza tedesca al posto del primo limite, se ne indica un altro, e cioè che l’integrazione non snaturi la funzione dell’atto; in forza del par. 114 VwGO, secondo periodo, infatti, anche un provvedimento discrezionale può essere completato nei termini riferiti nel testo: cfr. Sodan H., Ziekow J., op. cit., 2729. Si ha inammissibile mutamento dell’atto (Wesenänderung), a parere di quest’ultima dottrina (ivi, 2731), allorquando si muti il contenuto dispositivo, si sostituiscano i fatti sottesi, si converta l’atto da vincolato a discrezionale, si cambi la base giuridica della decisione discrezionale, si verifichi una carenza di competenza decisionale. Non si può tuttavia escludere che lo “snaturamento” non sia altro che una tacita (e ammissibile) abrogazione della precedente deliberazione.
[12] Iaccarino C. M., Studi sulla motivazione con particolare riguardo agli atti amministrativi, Roma, 1933, 42.
[13] Sempre ammissibile è l’integrazione della mera giustificazione secondo Guantario A., Dequotazione della motivazione e provvedimento amministrativo, in Nuova rassegna di legislazione, dottrina e giurisprudenza, XXI, 2002, 2233.
[14] Preferisce parlare di depotenziamento e non di dequotazione della motivazione, Ramajoli M., Il declino della decisione motivata, in Diritto processuale amministrativo, III, 2017, 895.
[15] Ferrara L., Motivazione e impugnabilità degli atti amministrativi, in Foro amministrativo TAR, IV, 2008, 1197 e Cassatella A., Il dovere di motivazione nell’attività amministrativa, Padova, 2013, 287. Secondo quest’ultimo in particolare la nozione di provvedimento andrebbe decodificata nella sineddoche “decisione motivata”: pertanto la motivazione assurgerebbe a rango di elemento essenziale. Ancora, in Mannucci G., Uno, nessuno, centomila. Le motivazione del provvedimento amministrativo, in Diritto pubblico, III, 2012, 885, si giustifica la tesi della nullità, in quanto la carenza di motivazione comporterebbe l’indeterminatezza dell’oggetto provvedimentale.
[16] Ci limitiamo a ricordare che la Consulta, in due occasioni (ordd. 92/2015 e 58/2017), ha avallato questa lettura, richiamando la corrispondente massima giurisprudenziale (ex multis, Cons. St. sez. III 1629/2014).
[17] La distinzione dell’autotutela in base al profilo funzionale è proposta in Giannini M. S., Istituzioni di diritto amministrativo, Milano, 1981, 557 e, più di recente, in Immordino M., I provvedimenti amministrativi di secondo grado, in Scoca F. G. (a cura di), Diritto Amministrativo, Torino, 2015, 340.
[18] In generale, si può rinviare a Santaniello G., voce Convalida (dir. amm.), in Enciclopedia del diritto, X, Milano, 1962, 503; Cannada Bartoli E., voce Conferma (dir. amm.), in Enciclopedia del diritto, VIII, Milano, 1961, 856; Mazzarolli L., voce Convalida (dell’atto amministrativo), in Enciclopedia giuridica, IX, Roma, 1988, 2.
[19] Quali la sanatoria, il ritiro, la ratifica. Diverso carattere rivestono, pur rientrando nella categoria dell’autotutela conservativa, la mera conferma, la conferma, la rettifica, la conversione.
[20] Nel diritto pubblico, questo aspetto è particolarmente evidente, dal momento che, nelle dinamiche quotidiane, emerge l’esigenza che “le energie dell’azione pubblica non vadano, entro i limiti consentiti dal sistema, disperse, là dove possono invece venire senza pregiudizio risparmiate” (Sandulli A. M., Il procedimento amministrativo, Milano, 1964, 351).
[21] Anche nel diritto civile, sulla base sempre del principio di conservazione dei valori giuridici, è codificato l’istituto della convalida del negozio annullabile (art. 1444 c.c.) - ed eccezionalmente, di quello nullo (in materia testamentaria: art. 590 c.c., in materia di donazione: art. 799 c.c.) - ma qui è la parte titolare del diritto alla caducazione a risanare il negozio, non la controparte, come invece avviene nel diritto amministrativo. Inoltre, nella convalida privatistica, a differenza di quella pubblicistica, il contenuto dell’atto negoziale rimane sempre inalterato.
[22] La rinnovazione dell’atto, cioè la produzione, all’esito di un nuovo procedimento, di un provvedimento dall’identico contenuto ma completamento risanato, non potrebbe invece che avere efficacia ex nunc. Contrario alla naturale efficacia retroattiva della convalida, Falcon G., Lezioni di diritto amministrativo, Padova, 2020, 182.
[23] In termini Cons. St. 3385/2021 cit..
[24] Non si può dunque convalidare un atto nullo, che al massimo sarà passibile di ritiro, né un atto irregolare, semplicemente rettificabile, né tanto meno i provvedimenti non invalidabili secondo il regime dell’art. 21 octies c. 2. Sicuramente estranei all’ambito applicativo della convalida risultano inoltre i poteri connotati da termini perentori, geneticamente non riesercitabili.
[25] Ciò serve anche a rendere più netta la distinzione tra convalida e figure affini. Lo sostengono, tra gli altri, Virga P., Diritto amministrativo, II, Milano, 2001, 143, e Sandulli A. M., Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, 688.
[26] In realtà, il ripristino della legalità violata parrebbe già essere una sufficiente ragione di rilievo pubblico: Falcon G., op. cit., 181, e Ramajoli M., Villata R., op. cit., 694.
[27] Dubbi su questo presupposto sono presenti in Falcon G., op. cit., 181.
[28] Il quesito in senso più ampio potrebbe invero ridursi a questo: si può convalidare - in qualsiasi forma si palesi - il vizio di eccesso di potere?
[29] Proseguendo la comparazione col diritto tedesco, il par. 45 VwVfG mentre al comma 1 n. 2 prevede la convalidabilità dei provvedimenti viziati sotto il profilo formale adducendo in via sopravvenuta la “necessaria motivazione”, al comma 2 esclude questo potere allorquando sia pendente il processo giurisdizionale.
[30] Cfr. Santaniello G., op. cit., 505; Mazzarolli L., op. cit., 2; Falcon G., op. cit., 181. A parere di Ramajoli M., Villata R., op. cit., 696-697, dal combinato disposto con l’art. 21 octies c. 2, le uniche patologie convalidabili sono quelle di incompetenza e comunque giammai quelle sostanziali: “Non appare più corretto sostenere, come in passato, che convalida e annullamento sono conseguenze possibili di un medesimo presupposto, e cioè dell’illegittimità dell’atto[…]”.
[31] La tesi positiva è ad esempio sostenuta in Antonelli V., Commento all’art. 21-nonies, in Paolantonio N., Police A., Zito A. (a cura di), La pubblica amministrazione e la sua azione. Saggi critici sulla legge n. 241/1990 riformata dalle leggi n. 15/2005 e n. 80/2005, Torino, 2006, 675.
[32] Cons. St. n. 3385 cit.. In realtà, la dicotomia è presente anche in dottrina: Nigro M., Scritti giuridici, II, Milano, 1996, 449.
[33] In giurisprudenza, ex multis Cons. St., sez. III 1656/2016, sez. V 750/2016, sez. III 2247/2014, sez. VI 2840/2009, sez. V 342/2003, sez. VI 4158/2000; TAR Lazio, Roma, sez. II 9347/2001. In dottrina, già Mortati C., Obbligo di motivazione e sufficienza della motivazione negli atti amministrativi (a proposito del procedimento di scrutinio nelle promozioni per merito comparativo), in Giurisprudenza italiana, III, 1943, 1; più di recente, Santaniello G., op. cit., 505 e Mazzarolli L., op. cit., 3. Criticamente, in Romano Tassone A., Motivazione dei provvedimenti amministrativi e sindacato di legittimità, Milano, 1987, 394, si qualifica questo orientamento come immotivato e tralaticio.
[34] Rimarca vigorosamente il punto, Occhiena M., Il divieto di integrazione in giudizio della motivazione e il dovere di comunicazione dell’avvio dei procedimenti ad iniziativa di parte: argini a contenimento del sostanzialismo, in Foro amministrativo TAR, II, 2003, 530.
[35] Di crisi della motivazione in ogni attività pubblica (giurisdizione compresa) parla Ramajoli M., Il declino della decisione motivata, in Diritto processuale amministrativo, III, 2017, 894: “[…] si decide anche senza motivare, forti di un’istanza efficientistica che condiziona norme di legge e principi di diritto”. A suo tempo, già denunciava Zito A., L'integrazione in giudizio della motivazione del provvedimento: una questione ancora aperta, in Diritto processuale amministrativo, III, 1994, 586-587, che tale ricostruzione “[…] potrebbe […] aprire la strada ad una prassi dell’amministrazione fatta di provvedimenti poco o nulla motivati […]”.
[36] Ponendosi altresì in contrasto con i canoni sovranazionali (segnatamente, l’art. 296 TFUE sull’obbligo di motivazione degli atti delle autorità europee e l’art. 41 della Carta di Nizza sul diritto ad una buona amministrazione). La motivazione come “forma sostanziale” è un Leitmotiv presso la giurisprudenza unionale: cfr. CGUE C-89/08 del 2009 (Commissione c. Irlanda).
[37] Ci si riferisce, come noto, all’art. 6 della l. 249/1968.
[38] In giurisprudenza, un primo storico arresto fu CGARS 149/1993 in Diritto processuale amministrativo, V, 1993, 507, con note critiche di Virga G., Motivazione successiva e tutela della pretesa alla legittimità sostanziale del provvedimento amministrativo, in Diritto processuale amministrativo, V, 1993, 516 e di Zito A., op. cit., 577; in realtà ancor prima, TAR Veneto, sez. I, 648/1987, in Diritto processuale amministrativo, 1989, 469. Altre pronunce di segno positivo: Cons. St. sez. VI 1054/2003 e 4993/2009; TAR Molise, 41/2003; TAR Lazio, Roma, sez. I, 398/2002. In dottrina, Giannini M. S., voce Motivazione dell’atto amministrativo, in Enciclopedia del diritto, XXVII, Milano, 1977, 267; Caianiello V., Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino, 1988, 411; Falcon G., op. cit., 182; Virga G., op. cit., 1993, 512; Corso G., Processo amministrativo di cognizione e tutela esecutiva, in Foro italiano, 1989, 428; Vaccari S., Il giudicato nel nuovo diritto processuale amministrativo, Torino, 2017, 322.
[39] Schematizzando, gli orientamenti prevalenti in materia individuano l’oggetto del processo, alternativamente, nell’interesse legittimo, nel rapporto amministrativo, nel diritto potestativo all’annullamento dell’atto. La prima impostazione, fatta propria, tra gli altri, da Ranelletti O., Sulla esecuzione in via amministrativa delle decisioni del Consiglio di Stato e delle Giunte Provinciali Amministrative, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1951, 78 e ss., e da Giannini M. S., La giustizia amministrativa. Appunti delle lezioni, Roma, 1972, 174 e ss., poggia sull’art. 7 c.p.a. e specialmente sui commi 1 e 7, che rappresenterebbero la traduzione amministrativistica degli artt. 81 c.p.c. e 2907 c.c.. Essendo la giurisdizione amministrativa connotata soggettivamente al pari di quella civile, come quest’ultima il suo oggetto non potrebbe che essere la posizione sostanziale di interesse legittimo.
Negli ultimi tempi, si è consolidata la tesi, efficacemente sostenuta, per esempio, da Greco G., Dal dilemma diritto soggettivo-interesse legittimo, alla differenziazione interesse strumentale-interesse finale, in Diritto amministrativo, III, 2014, 479, e Patroni Griffi G., Forma e contenuto della sentenza, in Diritto processuale amministrativo, I, 2015, 25 e, nel diritto pretorio, da Cons. St. Ad. Plen. nn. 3 e 4 del 2011, n. 4 del 2018 e sez. VI n. 1321/2019, secondo la quale l’oggetto del processo amministrativo coinciderebbe col rapporto amministrativo, da intendersi come “il sistema proiettato nel tempo delle relazioni giuridicamente rilevanti […] che si instaurano tra pubbliche amministrazioni e privati in relazione all’esercizio della funzione amministrativa e alla tutela dei diritti fondamentali” (Protto M., Il rapporto amministrativo, Milano, 2008, 6). Si intende dunque interpretare l’interesse legittimo come situazione soggettiva finale, con ciò conferendosi la possibilità al giudice di verificare se la pretesa sostanziale del privato sia fondata o meno. Si esalta quella tendenza, sospinta dalla volontà di fornire al ricorrente una tutela stabile e definitiva, che avrebbe comportato la metamorfosi del processo amministrativo, da giudizio sull’atto - singolo punto dell’operato amministrativo - a giudizio sull’intero rapporto di diritto pubblico, tramite il pieno accesso al fatto e alla relazione giuridica instaurata.
A parere dell’ultima tesi, l’ambito oggettivo del processo amministrativo sarebbe l’accertamento del diritto potestativo, a necessario esercizio giudiziario, all’annullabilità del provvedimento amministrativo, conformemente alle doglianze proposte dal ricorrente (Nigro M., Giustizia amministrativa, Bologna, 2002, 228 e ss.; Clarich M., Giudicato e potere amministrativo, Padova, 1989, 133 e ss..).
Per approfondimenti sulle critiche alle tre ricostruzioni, cfr. Valaguzza S., Il giudicato amministrativo nella teoria del processo, Milano, 2016, 75 e ss. e 108 e ss..
[40] Quest’ultima è la strada scelta dal ricorrente nel contenzioso de qua.
[41] Per non parlare poi delle conseguenze sulla valutazione individuale della performance. Per completezza, inoltre, potrebbe ritenersi ammissibile l’azione risarcitoria contro l’amministrazione, sub specie di lesione degli interessi procedimentali del singolo, comunque lesi da un’azione che, in fin dei conti, risultava a monte contra legem. L’insufficienza dell’armamentario difensivo a disposizione del ricorrente è comunque messa in luce da Aperio Bella F., op. cit., 29 e ss.
[42] Pertanto, il magistrato è onerato di effettuare una prognosi postuma su quello che sarebbe stato l’esito del ricorso originario se non fosse sopravvenuta l’integrazione: se il ragionamento controfattuale conduce a ritenere che sarebbe stata più probabile la vittoria del privato, i costi del processo vanno addossati per intero alla p.a., pure qualora risulti vittoriosa nel merito. Non è tuttavia facile giustificare de iure condito questa conclusione. In tema di responsabilità processuale aggravata l’art. 96 c.p.c., applicabile al processo amministrativo per mezzo del rinvio di cui all’art. 26 c.p.a., fa infatti esclusivo riferimento al soccombente. Diverso il discorso invece nell’ordinamento tedesco, ove il par. 155 c. 4 VwGO recita: “I costi processuali derivanti dalla colpa di una parte, ricadono su questa”.
[43] Si pensi al remand cautelare o alle dinamiche dell’istruttoria. Tali poteri ovviamente devono essere impiegati dal giudice in ossequio ai canoni costituzionali di imparzialità, indipendenza e parità delle armi, e non per sostituirsi alla parte pubblica.
[44] Martucci di Scarfizzi F. S., L’integrazione postuma della motivazione alla luce dell’art.21 octies comma 2 della Legge n.241 del 1990. Profili di incidenza sugli atti regolatori adottati dalle Autorità Amministrative Indipendenti, in Diritto Mercato Tecnologia, III, 2015, 18.
[45] Perciò, se si ammette la possibilità per l’amministrazione di un riesame della legittimità in pendenza del giudizio, sembra irrazionale limitare le conseguenze di tale riesame secundum eventum: accordare, cioè, la possibilità di intervenire quando ciò richieda un atto di ritiro, e negare la stessa possibilità, invece, quando il riesame si traduca in una manutenzione della precedente determinazione. In termini, TAR Lazio n. 398 cit.; la suggestione è peraltro ripresa in Carbone A., L’azione di adempimento nel processo amministrativo, Torino, 2012, 255, ove l’autore difatti si dimostra propenso ad ammettere l’integrazione postuma.
[46] Sul tema, ci limitiamo a rinviare a Lopilato V., Cognizione ed esecuzione nel giudizio di ottemperanza, disponibile al sito giustamm.it, 2013, passim e a Cons. St. sez. VI 1321/2019 (con note di Vaccari S., Il Consiglio di Stato e la “riduzione progressiva della discrezionalità”. Verso un giudicato a “spettanza stabilizzata”?, in Diritto processuale amministrativo, 2019, 1172 e ss.; e di Orso F., Ancora sugli effetti del giudicato: un passo avanti e due indietro, ibidem, 1236 e ss.).
[47] Non è un caso che la più volte citata pronuncia n. 3385 del Consiglio di Stato in chiusura faccia esplicito riferimento al nuovo testo dell’art. 10 bis. In Cass., sez. un. n. 18592 del 2020, emanata proprio in esito all’impugnazione della citata sentenza del Consiglio di Stato 1321/2019, viene sottolineato come il principio di effettività della tutela, solennemente proclamato nell’art. 1 c.p.a., esiga la ricomposizione del rapporto di diritto pubblico in termini celeri e stabili. Sembrano essere queste le conclusioni a cui mira Tropea G., op. cit., 1258 e ss., quando richiama la possibilità di applicare il principio del dedotto e del deducibile al processo amministrativo. Il rischio di un regressus ad infinitum è paventato indirettamente anche in Ramajoli M., Il declino della decisione motivata, cit., 907, ove si cita il tema dell’inesauribilità del potere, e più esplicitamente in Ramajoli M., Villata R., op. cit., 316. Ancor prima, Piras A., Interesse legittimo e giudizio amministrativo, Milano, 1962, 447, anche in nota.
[48] I giudici del TAR sembrano avere in mente questo quesito se si guarda all’ultima parte della loro sentenza.
[49] Cfr. par. 3.
[50] Par. 2.
[51] Artt. 2 lett. g) e 4 c. 6 del bando.
[52] Le difficoltà nell’interpretare il successivo intervento della p.a. emergono, ad esempio, anche nel caso trattato in Cons. St. sez. VII 1291/2024
[53] Quali il proliferare delle leggi provvedimento, il sempre più frequente ricorso a fonti governative dal dubbio inquadramento dogmatico, l’avversione per la digitalizzazione, l’abdicazione a favore di moduli di diritto privato nell’agire amministrativo.
[54] Cosiddette “rime obbligate”, a partire da C. Cost. 236/2016 in tema di reato di alterazione di stato di neonato.
[55] “Rime consigliate”; cfr. C. Cost. 40/2019 in punto di reati in materia di stupefacenti. L’apice si è raggiunto con la pronuncia in tema di eutanasia, con la Consulta che, dopo aver lasciato un lasso di tempo per una riforma normativa, sospendendo il giudizio di costituzionalità (C. Cost. 207/2018), ha costruito sulla base del diritto vigente la regolamentazione di riferimento: C. Cost. 242/2019.
[56] Lo denuncia in tema di integrazione postuma della motivazione, Tropea G., Motivazione del provvedimento e giudizio sul rapporto, in Diritto processuale amministrativo, IV, 2017, 1250: “[…] all’ampliamento del potere sostitutivo del giudice, anche quello amministrativo, che finisce per operare come in un appello con effetto devolutivo pieno, spesso consegue una svalutazione del ruolo della pubblica amministrazione: dietro al principio di effettività della tutela sembra quindi celarsi un consistente spostamento dall’amministrazione al giudice del potere effettivo di disporre in ordine all’affare”.
La città della Palla ovale, il campione biondo, la memoria e il futuro
(alla mia città, a 15 anni dalla notte che ci cambiò la vita)
di Paolo Spaziani
Non ricordavo altro se non che fosse domenica, tra il 1987 e il 1989.
Doveva essere una domenica di primavera inoltrata perché il cielo era nitidamente azzurro, il sole, luminoso, induceva ad allentare i cappotti e le cime del Corno Grande e del Pizzo Cefalone abbacinavano di neve bianca, fresca di alcuni giorni.
Lungo il primo Corso, salendo dalla Villa verso la Piazza, si sentiva il vociare dei pronostici. Il rurale dialetto imbuffoniva le parole inglesi. Ma la consapevolezza della tecnica e della tattica induceva serietà e attenzione.
Era una delle nostre cose, il rugby. Come lo erano i nostri tratturi montani. Come le nostre nevi perenni. Come il Castello degli spagnoli e la Cattedrale di San Massimo.
Era l’unica parola inglese pronunciabile in aquilano.
Dal Duomo uscivano quelli della messa di mezzogiorno. I più mattinieri erano stati a quella delle Anime Sante, venti metri più avanti. Gli uni e gli altri si dirigevano, felici, verso i Quattro Cantoni.
Davanti all’Eden si sentiva il profumo delle bombe fritte alla panna. Vi facevano colazione gli studenti che venivano dai Gesuiti e gli anziani che scendevano da Piazza Chiarino.
La Fontana Luminosa era come una statua di ghiaccio. Tra i bellissimi corpi nudi, più basso della conca, si vedeva il Corno Grande. Quando il cielo era così terso, sembrava guardasse poco oltre i pini del Castello.
In basso, lo Stadio era ancora vuoto. Ma più tardi, dopo il pranzo domenicale, nella migliore tradizione aquilana, tutta la città, festante, vi si sarebbe riunita; per sostenere i propri figli, ma anche per onorare i rispettati avversari veneti, la grande squadra di Treviso.
Quel giorno, come ogni domenica, era il giorno della palla ovale.
«Come fai a fumare le Camel se devi giocare? Almeno prendi le Merit! Sono più leggere!»
Giuseppe, il banchista del bar dello Stadio, non sapeva che la sigaretta più buona non è quella dopo pranzo o dopo il caffè, come di solito si dice, ma quella tra il primo e il secondo tempo: quando, negli spogliatoi, il fumo del tabacco sposa l’odore lieve del prato a quello aspro e forte del sudore.
Nero Verdi contro Bianco Verdi. Una sfida classica, quasi sempre (ma non sempre) vinta da loro. Spesso più forti. Sempre fratelli leali di una battaglia comune. Ci rispettavano, li rispettavamo. Li amavamo, ci amavano.
Il rispetto era negli occhi che si incrociavano tra gli avanti nella mischia chiusa; nelle braccia dei trequarti che non placcavano mai oltre il grosso tronco; nelle urla del tallonatore prima di battere le touches; nelle mani dei mediani di mischia; nei piedi dei mediani di apertura.
Da qualche tempo i Bianco Verdi erano ancora più forti. Avevano ingaggiato il trequarti ala più forte del mondo.
Veniva dalla Nuova Zelanda, aveva vinto con gli All Blacks il primo mondiale. Era bellissimo e velocissimo. Ai mondiali, contro l’Italia, aveva segnato dopo 70 metri di corsa solitaria, dalla linea dei 22 a quella di meta.
Avevano provato a placcarlo in sette, senza riuscirvi. Era la meta che tutti i numeri 14 vorrebbero realizzare; che nessun altro ha mai realizzato.
Quel giorno avrebbe giocato contro di noi.
Lo guardai a lungo, in campo. Il corpo snello, i possenti quadricipiti, i dolci capelli biondi: sembrava nato per correre; con la palla ovale sotto il braccio.
Giocammo bene. Come spesso ci accadeva di fare al Tommaso Fattori, stadio imprendibile per i più.
Dopo essere andati sotto riuscimmo a contrattaccare. Alla mano, come nel rugby dei sogni, senza smettere, con fasi continue, in apnea, da destra, da sinistra, quindi ancora da destra. I passaggi riuscivano, le idee venivano, la stanchezza sembrava lontana.
I Bianco Verdi erano chiusi nei loro 22. Erano nelle nostre mani. Avremmo segnato da un momento all’altro.
Poi, l’imprevedibile, per chiunque non sappia della dimensione ultraterrena che il rugby può assumere nelle persone dei più grandi.
Il campione del mondo vede l’unico pallone intercettabile tra i nostri trequarti. Si getta sull’ovale. Angelicamente, lo prende sotto le sue ali. Esplodono i muscoli delle sue gambe. Bruciano l’erba del prato le sue scarpe. Evita una selva di braccia, pur retrocesse, generose, a rincorrerlo. Rimane solo, dardo luminoso irraggiungibile, nell’immensità del campo. Trafigge i pali e i nostri cuori prima di regalarci la maglia numero 14.
Avevo questi pensieri mentre camminavo per le strade ferite, tra i sassi e i cani. Le ombre di gigantesche gru nascondevano profili di case rotte. Le nevi non più perenni del Monte Corno sembravano appassire in un perenne autunno.
Nel prato deserto del Fattori rivedevo le immagini di una partita di rugby e la corsa di un campione; nel suo silenzio identificavo il dolore di una città.
Oggi, dopo quindici anni, quel dolore mi trova impreparato mentre percorro le stesse strade ben curate e guardo le stesse case sontuosamente ricostruite.
Non basta la rinnovata bellezza delle nostre piazze e dei nostri palazzi, l’azzurro intenso del nostro cielo, la bella purità di Nostra Signora di Collemaggio, la maestosa incombenza di San Bernardino, l’apollinea struttura della raffaellita San Silvestro.
I visi delle Anime Sante dapprima mi rimproverano per non essere con loro, di poi mi rassicurano di essere con me.
La voce del mio professore di latino risuona ancora dei versi di Saffo, nelle care itale note di cui li vestì Catullo.
Lei mi sorride, ricordandomi le notti d’agosto sotto il cielo stellato di Pagliare e le parole infinite al fumo di una Marlboro fumata in due.
Un altro campione biondo mi reca l’odore dell’erba del campo di Lucoli e il ricordo della gelida doccia che dividevamo di corsa mentre dalla finestra degli spogliatoi fiocchi di breve argentea illuminavano il monte di Campo Felice.
Sono la nostra memoria e il nostro futuro.
Ora che anche Santa Maria Paganica sarà ricostruita, ora che riapriranno i portici del Liceo, ora che torneranno le bombe dell’Eden, ora che il Fattori si rianimerà: ecco la mia città e i miei campioni; con la palla ovale sotto il braccio.
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