ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il letto (di Procuste) e le Sezioni Unite-sent.n.6551/2021-: il punto sugli spazi detentivi minimi e un’occasione per parlare ancora di giurisprudenza convenzionale e limiti all’apprezzamento del giudice nazionale
di Fabio Gianfilippi
Sommario: 1.Il rimedio risarcitorio di cui all’art. 35-ter ord. penit. 2. La questione del letto singolo. 3.Le conseguenze della decisione delle SU. 4. Il rapporto tra giurisprudenza alsaziana e giudice nazionale 5. Sui fattori compensativi.
1.Il rimedio risarcitorio di cui all’art. 35-ter ord. penit.[1]
Le Sezioni Unite penali hanno depositato negli scorsi giorni le motivazioni della sentenza 24 settembre 2020 n. 6551/2021, anticipata da notizia di decisione che aveva già determinato dibattito ed una certa attesa, ora ripagata da ventotto pagine di dense argomentazioni, che sono tra l’altro l’occasione per un inquadramento sistematico dell’istituto del rimedio risarcitorio conseguente alla violazione dell’art. 3 CEDU nei confronti del soggetto detenuto, per come introdotto nel nostro ordinamento con d.l. 92 del 26 giugno 2014, poi conv. con modificazioni in L. 117 dell’11 agosto 2014, nell’art. 35- ter della legge penitenziaria.
Come noto, in seguito alla condanna nel caso Torreggiani ed altri v. Italia, avvenuta in relazione alle condizioni detentive patite dai ricorrenti, la CEDU stigmatizzò l’assenza nel nostro ordinamento di un sistema di rimedi interni di tipo preventivo e compensativo in favore delle persone detenute che subissero violazioni dei propri diritti fondamentali in connessione con la propria condizione di restrizione carceraria. Con il d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, poi convertito con modificazioni in L. 21 febbraio 2014 n. 10, si intervenne sull’ordinamento penitenziario con una rimodulazione dell’art. 69 co. 6 e l’introduzione dell’art. 35-bis, apprestando lo strumento inibitorio e rispondendo così, per altro, ad un monito della Corte Costituzionale che era rimasto inascoltato dalla sent. 26/1999. Con il provvedimento già citato, dell’estate 2014, l’operazione fu completata con il rimedio risarcitorio, che si volle modellare in aderenza ostentata alle richieste della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Questo obbiettivo fu perseguito introducendo un “risarcimento del danno”, poi più attentamente descritto in giurisprudenza nei termini del mero indennizzo, in favore del detenuto o dell’internato che avesse subito un grave pregiudizio dalle condizioni detentive patite, che dovevano essere vagliate avendo come parametro di riferimento l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo “come interpretato dalla Corte europea”. Da subito si disse come ciò configurasse un unicum nel nostro panorama normativo, attraverso un richiamo mobile alla giurisprudenza di Strasburgo, che andava a definire il perimetro della valutazione del giudice, in qualche modo agganciandola più fortemente rispetto all’obbligo che comunque grava sul giudice comune di informare le proprie decisioni all’insegnamento della CEDU.
Ove a richiedere il ristoro sia un detenuto, la competenza spetta al magistrato di sorveglianza, che commina una riduzione di pena di un giorno per ogni dieci in cui si è patita una condizione inumana e degradante, mentre ove il reclamo provenga da un soggetto ormai libero, perché già è terminata l’espiazione della pena o della custodia cautelare in carcere, l’azione deve essere proposta dinanzi al giudice civile individuato in relazione al capoluogo del distretto nel quale la persona ha la residenza. In tal caso il ristoro è però di tipo meramente pecuniario, definito in euro 8,00 per ogni giorno di violazione subita. Ancora pecuniario è il rimedio comminato dal magistrato di sorveglianza laddove la pena residua non consenta l’intera decurtazione di pena che sarebbe dovuta, oppure quando la violazione sia durata meno di quindici giorni.
La natura atipica del rimedio, la competenza ripartita lasciando sul tavolo molte situazioni non definite in modo chiaro (persone in misura alternativa? richieste relative a detenzioni pregresse non riferibili al titolo in esecuzione), un richiamo incerto alla attualità del pregiudizio (tuttavia evidentemente escluso da un rimedio di tipo risarcitorio/indennitario), hanno condotto a un profluvio di questioni che il giudice di legittimità è stato chiamato pazientemente a dirimere. Si tratta di questioni complesse che non è obbiettivo di questa prima lettura richiamare.
E’ forse utile, però, ripercorrere, pur senza approfondimento, l’accidentato percorso giurisprudenziale che si è dipanato sino ad oggi, almeno attraverso due questioni di costituzionalità, in entrambi i casi rigettate con complesse precisazioni dalla Consulta (sent. 204/2016 sul rimedio adoperabile nel caso del condannato alla pena dell’ergastolo, sostanzialmente di tipo patrimoniale, se ha già raggiunto soglie espiali utili all’eventuale concessione di benefici penitenziari, e sent. 83/2017 sull’applicabilità dello strumento della riduzione di pena all’internato, con detrazione dalla durata massima della misura di sicurezza detentiva che gli si può comminare) e poi con due interventi delle SU, che hanno preceduto quello di cui qui si parla, circa la sussistenza e la decorrenza di un termine prescrizionale, riconosciuto a partire dall’entrata in vigore della legge anche per l’ipotesi di detenzioni già cessate (cfr. SU penali 21 dicembre 2017, n. 3775), nonché in ordine alla natura (indennitaria) del rimedio e alla durata del predetto termine, ricostruito in dieci anni decorrenti dal compimento di ciascun giorno vissuto in condizioni inumane e degradanti, e salvo sempre il riferimento per le detenzioni esaurite alla data di entrata in vigore della legge (cfr. SU civili 30 gennaio 2018 n. 11018). In tutti i casi il filo rosso seguito dalle decisioni sembra essere quello, di diretta matrice convenzionale, di prescegliere la soluzione più idonea a garantire la massima effettività al rimedio, ed in particolare alla sua forma più compiuta, di riduzione della pena.
La tecnica normativa adoperata dal legislatore del 2014 non ha dunque giovato al lavoro degli interpreti che, per altro, hanno dovuto confrontarsi con una messe soverchiante di richieste. Dalle pronunce in conseguenza emesse dalla magistratura di sorveglianza viene restituita l’immagine di condizioni detentive preoccupanti in molti stabilimenti penitenziari, in particolare per quanto concerne i periodi più risalenti, relativi agli anni del massimo sovraffollamento carcerario, gli stessi che erano già stati non a caso oggetto delle condanne della CEDU nei confronti dell’Italia prima nel caso Sulejmanovic (luglio 2009) e poi Torreggiani ed altri (gennaio 2013).
In concreto, infatti, la maggior parte delle doglianze mosse dai reclamanti ha riguardato proprio il profilo, già preso in considerazione dalle predette pronunce di Strasburgo, della insufficienza degli spazi nei quali la propria esperienza detentiva si era dovuta dipanare. Come si è detto, sotto questo profilo il rinvio mobile contenuto nella disposizione alla giurisprudenza della CEDU richiede al giudice un impegno di approfondimento e aggiornamento costante circa i criteri interpretativi seguiti dai giudici alsaziani. Si tratta di una ricerca resa più complessa dalla natura marcatamente casistica delle decisioni della Corte Europea e dalla diversità delle situazioni nazionali dei paesi che compongono il Consiglio d’Europa, sulle quali la stessa si pronuncia.
Dopo la sentenza Torreggiani, il più significativo approdo della CEDU in materia di condizioni detentive si rinviene ancora oggi nella sentenza 20 ottobre 2016, Grande Chambre Mursic v. Croazia, sulla cui base si è poi costruita la successiva giurisprudenza nazionale.
In quella pronuncia si fissa il criterio per il quale uno spazio procapite di non oltre 3 mq all’interno di una camera detentiva multipla integra una forte presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU, vincibile ove lo Stato dimostri la sussistenza di condizioni che attenuino la portata di tale grave condizione e cioè che i periodi scontati in spazi individuali inferiori ai 3 mq siano stati brevi od occasionali, che l’interessato abbia avuto a disposizione sufficiente libertà di movimento fuori stanza e si sia giovato di una offerta trattamentale sufficiente ed ancora che il contesto detentivo che l’ha ospitato sia stato complessivamente adeguato. Questi tre profili, decisivi, debbono essere tuttavia compresenti e dunque, ove manchi il requisito della sola brevità, nel caso della Mursic considerato carente già a fronte di una detenzione durata poco più di venti giorni, deve riscontrarsi la violazione.
La sentenza Mursic, però, non affronta in modo altrettanto netto e facilmente comprensibile la disamina dei criteri di calcolo con i quali si perviene alla definizione dello spazio minimo da garantirsi al detenuto in cella multipla. Al par. 114 di quella pronuncia si richiama infatti il criterio seguito dal CPT, che esclude dal computo lo spazio occupato dai servizi igienici, ma non scomputa quello occupato dagli arredi. Contemporaneamente, però, la CEDU richiama il c.d. Ananyev test, elaborato nell’omonima pronuncia, alla luce del quale per non configurarsi una detenzione contraria all’art. 3 CEDU occorre che sia garantito uno spazio procapite non inferiore ai 3mq, un letto proprio e non da condividere con altri e la possibilità di muoversi normalmente all’interno della stanza.
Il dibattito che ne è derivato, nella giurisprudenza nazionale, può apparire di poco momento, concernendo di fatto calcoli che sembrano più naturalmente rimessi ad architetti, geometri e capicantiere, ma che in buona sostanza finiscono per riempire (o svuotare) di senso quel minimo di vivibilità che la Corte europea, pur mai dando per assodato che l’umanità e la dignità della detenzione si consumi in metri quadrati, ha voluto comunque assicurare.
Le questioni, cui la S.C. ha dato risposte ormai in larga parte consolidatesi, pur con alcune sensibili fibrillazioni, oggetto ora della assegnazione del ricorso nel caso che ci occupa alle SU, si ricollegano in buona sostanza al odo circa i criteri di calcolo per verificare la sussistenza dei 3 mq, dato per scontato che gli stessi debbano ritenersi al netto dello spazio occupato dal bagno che acceda alla camera detentiva (lo stesso art. 7 d.P.R. 30.06.2000, n. 230 lo considera vano annesso), e cioè se al lordo o al netto degli arredi e poi, ove si accolga questa seconda opzione, di quali arredi.
2.La questione del letto singolo. Le SU esaminano ampiamente la giurisprudenza di legittimità accumulatasi in questi anni, che ha naturalmente guardato all’insegnamento di Strasburgo con peculiare attenzione, costituendo lo stesso una vera e propria fonte integrativa del precetto normativo ma che, quanto alle modalità concrete del computo, in assenza di una indicazione chiara, ha dovuto adattare quel dictum alla giurisprudenza che, medio tempore, si era già formata grazie alle pronunce della magistratura di sorveglianza e che, di fatto, interpretava il riferimento contenuto nell’Ananyev test al dovere di verificare la possibilità di muoversi liberamente nella stanza detentiva come realizzabile scomputando dalla dimensione lorda della stessa lo spazio occupato da arredi fissi, che come tali certamente riducono la facoltà di circolare dentro la stanza. Una posizione a lungo avversata da chi, invece, deduceva dalle motivazioni della Mursic un calcolo al lordo degli arredi, con una successiva ed eventuale verifica (molto difficile però da effettuarsi in concreto attraverso la documentazione a disposizione del giudice) circa il libero movimento in stanza.
Ciò su cui il contrasto restava più marcato era il concreto catalogo delle strutture da considerarsi scomputabili. Data per certa la necessità di scomputare i mobili fissi come gli armadi o i termosifoni, si riscontravano fibrillazioni in particolare in relazione allo spazio occupato dal letto. In alcune pronunce da sottrarsi ove a castello, come normalmente in uso nelle stanze multiple, in altre anche quando singolo, in altre ancora citato senza precisazioni o da eliminarsi poiché amovibile, a differenza di quelli a castello, costituiti da pesanti strutture incompatibili con un loro facile spostamento. Sempre esclusi dallo scomputo, invece, gli arredi mobili quali sgabelli e tavoli.
Con la pronuncia in commento le SU giungono sul punto ad affermare il principio di diritto per il quale: “nella valutazione dello spazio minimo di tre metri quadrati si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello”. Nelle motivazioni si comprende come la scelta oggi fatta propria dalle SU discenda ancora una volta dall’applicazione dell’Ananyev test , nel senso in grado di valorizzarne la ratio, attribuendo rilievo agli spazi liberi nella cella una volta scomputate le strutture che ne ingombrano pavimento e pareti. Il discrimen è dunque tra arredi fissi (come l’armadio) e mobili (come lo sgabello) e l’esclusione del letto singolo deriva dalla maggior probabilità che quest’ultimo sia facilmente amovibile. Occorre ricordare che in passato la giurisprudenza di merito aveva a lungo sostenuto che non dovesse tenersi conto dello spazio occupato dal letto singolo ai fini della valutazione sui mq a disposizione, poiché lo stesso avrebbe costituito comunque una struttura utilizzabile anche per lo svolgimento di molteplici attività giornaliere, oltre che per dormire, ed in definitiva valorizzabile, ove si fosse acceduto ad una nozione di spazio utile alla quotidianità detentiva, piuttosto che di spazio calpestabile o destinato al movimento.
La posizione assunta dalla SU richiama invece, con rigore, la nozione di spazio evincibile dalla giurisprudenza europea e, abbracciando il metodo di calcolo già fatto proprio dalla cassazione, che prevede la valutazione della possibilità di muoversi liberamente tra gli arredi come realizzabile mediante il calcolo dello spazio libero calpestabile all’interno della cella, richiede di scomputare dal lordo lo spazio occupato dagli arredi fissi o tendenzialmente fissi. Si tratta di un arresto di grande rilievo, perché porrà termine ai dubbi interpretativi rimasti nel tempo non risolti in una parte almeno della giurisprudenza. In concreto non può però non segnalarsi come ben difficilmente i letti singoli presenti all’interno dei nostri istituti penitenziari possano rispondere alla nozione di arredo amovibile nella quale le SU li includono. Si tratta di strutture normalmente in ferro, che vengono ancorate ai pavimenti per ragioni di sicurezza, e che perciò sono non meno fisse delle strutture a castello, di cui per altro costituiscono spesso il primo piano, cui viene aggiunto il secondo (e a volte un terzo), ove necessario. Quand’anche amovibili, poi, a differenza di uno sgabello o di un tavolino, che possono essere impilati nel bagno durante le ore della giornata, ben difficilmente tali letti possono davvero essere spostati dai detenuti in modo da non ingombrare considerevolmente l’esiguo spazio della camera detentiva.
Deve dedursi, quindi, che il giudice chiamato a valutare il reclamo ai sensi dell’art. 35-ter ord. penit. dovrà verificare, attraverso apposita istruttoria sul punto, che il letto singolo eventualmente in uso all’interessato abbia caratteristiche di facile amovibilità, non in astratto e ad opera di addetti alla manutenzione dell’amministrazione, ma da parte del detenuto, che in conseguenza potrebbe facilmente circolare nella stanza.
3.Le conseguenze della decisione delle SU
Il chiarimento fornito sembra idoneo a produrre sicuri effetti nomofilattici, ma potrebbe avere rilevanti conseguenze anche in termini di deflazione del cospicuo contenzioso sussistente in materia. Seguendo lo schema delle SU infatti l’amministrazione penitenziaria potrebbe diramare opportune direttive volte ad uniformare gli schemi di risposta alle richieste istruttorie dell’a.g. in ordine alle dimensioni delle camere detentive e degli arredi che le ingombrano, essendo ormai ben definito il perimetro di interesse ai fini della decisione, mentre certamente potrà limitarsi il ricorso ad impugnazioni circa il metodo adoperato dal giudice nel calcolo degli spazi detentivi che, appunto, non sembra più sotto questo profilo controverso.
Le SU si dimostrano per altro consapevoli di un possibile effetto negativo che l’adozione di questo criterio di calcolo rigoroso potrebbe comportare e cioè la tentazione dell’amministrazione di recuperare spazio per evitare di incorrere nella violazione, mediante lo svuotamento delle stanze e magari il posizionamento di armadi all’esterno delle stesse. La risposta è che, evidentemente, una simile opzione non potrebbe sottrarsi al vaglio che la magistratura di sorveglianza sarebbe poi certamente chiamata a fare circa la compatibilità di questa scelta con la tutela dei diritti della persona ristretta, ex art. 35-bis e 69 co. 6 lett. b) ord. penit.
D’altra parte, in questa sede può aggiungersi che i plurimi richiami contenuti nella legge penitenziaria e nel regolamento di esecuzione agli arredi delle stanze detentive ed al corredo che deve garantirsi ad ogni persona privata della libertà personale, perché la detenzione sia conforme a legge e al rispetto della dignità, difficilmente appare compatibile con ogni eventuale svuotamento delle camere.
Di non facile soluzione si rivela invece il quesito relativo alla riesaminabilità delle decisioni già assunte prima dei chiarimenti oggi forniti agli interpreti dalle Sezioni Unite. Ci si domanda, in sostanza, se il detenuto che si sia visto rigettare nel merito una propria richiesta di riduzione pena ex art. 35- ter in relazione a condizioni detentive patite in un certo periodo di tempo in un dato istituto penitenziario, possa oggi riproporre la sua istanza, ove la decisione in precedenza assunta sia stata il frutto dell’applicazione di criteri di calcolo oggi sconfessati dalle SU.
Il tema era già stato oggetto di riflessioni della cassazione, seppur a fronte di chiarimenti via via consolidatasi nella giurisprudenza della sua prima sezione. In questi casi si era affermato come la mera preclusione, debole, che opera nella fase dell’esecuzione e della sorveglianza (per tutti i procedimenti per i quali opera il rinvio all’art. 666 cod. proc. pen.), inibisca soltanto la reiterazione di una richiesta basata sui "medesimi elementi" di altra già rigettata e dunque, a fronte dell’allegazione di elementi nuovi, di fatto o di diritto, consenta una rivalutazione. Nei casi tuttavia posti all’attenzione della S.C. non era mai stata riscontrata la sussistenza di tale condizione, trattandosi di ipotesi in cui, appunto, a venire in rilievo erano stati differenti criteri di calcolo dello spazio individuale minimo, che avrebbero potuto formare oggetto di rivalutazione attraverso una rituale impugnazione e che, consumata quella, dovevano ritenersi intangibili (cfr. cass. 14.12.2017 n. 41155/2018 e 13.07.2018 n. 1531/2019, non massimate).
In questa sede, però, viene in rilievo un mutamento giurisprudenziale cristallizzato in principi di diritto espressi dalla Sezioni Unite, il massimo organo della nomofilachia. Ed in alcuni casi, all’evidenza comunque diversi da quello odierno, si è statuito come lo stesso, considerato alla stregua di ius novum, possa essere incluso nel concetto di nuovo "elemento di diritto", idoneo a superare la preclusione di cui al secondo comma dell'art. 666 c.p.p. (cfr., attingendo alla sola materia penale, SU 21.01.2010 n. 18288; cass. n. 1.04.2014 n. 27702 e 2.10.2017 n. 4679). Se da un lato deve evidenziarsi, per la soluzione negativa, la peculiarità del rimedio dell’art. 35-ter, concernente il diritto all’indennizzo per aver subito una detenzione in condizioni ritenute inumane e degradanti, e dunque al di fuori dell’ambito ordinario della c.d. giurisdizione rieducativa, che naturalmente prevede un vaglio diacronicamente rinnovato delle evoluzioni personologiche dell’istante, dall’altro milita in favore della ripresentabilità proprio il principio di massima effettività del rimedio richiesta dalla fonte sovranazionale.
4. Il rapporto tra giurisprudenza alsaziana e giudice nazionale
Le conclusioni cui giungono le SU sono però poste a valle di una complessa ricostruzione circa le conseguenze della scelta operata dal legislatore italiano, in seguito alla condanna nel caso Torreggiani v. Italia, di elevare la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, mediante il rinvio formale operato nell’art. 35-ter ord. penit., a fonte integrativa del precetto, e dunque, per come già detto, qualcosa di più di un pur autorevole orientamento interpretativo della norma, cui sempre è tenuto il giudice nazionale ex art. 117 Cost.
Le SU chiariscono innanzitutto come il rinvio operi sincronicamente, consentendo di scegliere tra uno dei possibili significati, ma anche diacronicamente, facendo rientrare nella nozione rilevante di cui all’art. 3 diritti e garanzie progressivamente riconosciuti.
Oneroso è dunque il compito attribuito al giudice interno, che tuttavia deve far riferimento alla sola giurisprudenza della CEDU che sia espressione di un suo orientamento consolidato, come tale valorizzato nello stesso art. 28 della Convenzione. Sotto questo profilo le SU richiamano soprattutto l’insegnamento della sent. Corte Cost. 49/2015 che, approfondendo i suoi precedenti fondamentali arresti nelle sent. 348 e 349/2007, tentava di delineare un identikit efficace di questa giurisprudenza convenzionale, mediante indici rappresentativi dell’avvenuto consolidamento: il suo porsi nel solco di precedenti, l’assenza o limitatezza dei dissent, l’aver ottenuto l’avallo della Grande Camera, il non riferirsi in modo peculiare ad ordinamenti giuridici diversi da quello nazionale e poco conferenti alla situazione italiana.
Secondo le S.U., però, una volta che si è individuato l’insegnamento della CEDU rilevante nel caso che il giudice nazionale deve decidere, non soltanto nel campo del sovraffollamento, ma più in generale rispetto all’ampio spettro di possibili violazioni dell’art. 3 CEDU nel campo delle condizioni detentive, non residua al giudice interno uno spazio interpretativo che se ne discosti, e ciò non soltanto nel caso pacifico in cui ciò determini effetti deteriori per il reclamante, ma pure quando invece si vagli un’opzione interpretativa che risulterebbe ampliare la sfera di tutela del diritto rispetto a quanto affermato dalla Corte europea, perché “ciò violerebbe sia il principio dell’obbligo per il giudice comune di uniformarsi alla giurisprudenza europea consolidata sulla norma conferente, sia lo stesso art. 35-ter ord. pen. che, appunto, ha reso la predetta giurisprudenza consolidata la fonte normativa mediante il rinvio per relazionem più colte ricordato.”
E ciò fatta salva soltanto l’astratta possibilità di sollevare su tale interpretazione una questione di legittimità costituzionale per contrasto con il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità ex art. 27 co. 3 Cost.
A questo proposito si cita l’importante precedente costituito, in tema di mandato di arresto europeo, dalla sentenza Corte di Giustizia Unione Europea 15.10.2019 Dumitru-Tudor Dorobantu, nella quale la Corte di Lussemburgo ha inibito ad un giudice nazionale di adottare uno standard di tutela più elevato rispetto a quelli garantiti dall’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali (speculare all’art. 3 Conv. EDU) poiché, pur ribadita la possibilità per gli Stati membri di prevedere standard detentivi minimi più elevati di quelli individuati dalla Carta, gli Stati membri non possono subordinare la consegna di una persona per MAE al rispetto di questi standard più elevati senza con ciò pregiudicare i principi di fiducia e riconoscimento reciproco che la decisione quadro 2002/584 tutelano. Principi che, sia detto per inciso, non sembrerebbero però venire in rilievo in rapporto al reclamo ex art. 35-ter ord. penit., che ha una portata tutta nazionale.
L’unico spazio interpretativo residuo sarebbe dunque quello, in effetti poi esercitato dal giudice di legittimità, lasciato scoperto da un significato non del tutto chiaro delle parole di Strasburgo, dovendo provvedersi invece a sanzionare per violazione di legge l’interpretazione, eventualmente anche più favorevole, del giudice di merito che si basi però su un criterio difforme rispetto a quello indicato dalla CEDU.
L’insegnamento offerto sul punto dalle SU si pone sotto questo profilo al cuore di un dibattito, denso e ancora vivissimo, circa i rapporti tra giurisprudenza convenzionale, costituzionale e ruolo del giudice comune[2]. Una valutazione circa l’efficacia della soluzione prospettata non può però che misurarsi proprio con le conseguenze che nel caso di specie il giudice della nomofilachia ne ha fatto derivare. Se la dottrina ha da tempo evidenziato ad esempio la difficoltà di discernere concretamente cosa costituisca caso per caso giurisprudenza consolidata, in presenza di indici che spesso non conducono univocamente in una direzione (si pensi in materia carceraria agli slittamenti rilevabili tra Torreggiani v. Italia e Mursic v. Croazia), è proprio nel giungere a definire i corretti criteri di computo degli spazi minimi in cella multipla che si apprezza un risultato interpretativo che è frutto del fecondarsi reciproco di posizioni emerse nella giurisprudenza nazionale e sovranazionale, tenute insieme dal principio di garanzia della massima effettività del rimedio riparatorio.
Il ruolo difficile e nello stesso tempo insostituibile del giudice nazionale, interprete diffuso della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, sembra domandare comunque uno spazio significativo che, rispetto ad un sistema convenzionale che focalizza la sua attenzione sugli standard minimi, come necessario a fronte di una pluralità di sistemi nazionali sui quali dispiega la sua opera, li adatti alle peculiarità del contesto domestico in cui deve applicarli, innervando la sua giurisprudenza anche dei risultati di un confronto, nel caso del giudice italiano con la Costituzione (in materia di condizioni detentive trovando nell’art. 27 co. 3 Cost. un moltiplicatore, non necessariamente del tutto sovrapponibile all’art. 3 CEDU), confronto che non può che portare verso un consentito, poiché frutto di tale specifica interpretazione, innalzamento degli standard di tutela.
5. Sui fattori compensativi
Le SU pervengono, infine, a definire un ulteriore principio di diritto che, nelle stesse parole del giudice della nomofilachia, non risultava poi così dibattuto nella giurisprudenza di legittimità, ma richiedeva comunque di essere ribadito, rispetto all’opacità di talune ricostruzioni che potevano trarsi più che altro da pronunce emesse in relazione a procedure per la consegna ad altri Stati di persone in forza di MAE.
Si chiarisce così che “i fattori compensativi costituiti dalla breve durata della detenzione, dalle dignitose condizioni carcerarie, dalla sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella mediante lo svolgimento di adeguate attività, se ricorrono congiuntamente, possono permettere di superare la presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU derivante dalla disponibilità nella cella collettiva di uno spazio minimo individuale inferiore a tre metri quadrati; nel caso di disponibilità di uno spazio individuale fra i tre e i quattro metri quadrati, i predetti fattori compensativi, unitamente ad altri di carattere negativo, concorrono alla valutazione unitaria delle condizioni di detenzione richiesta in relazione all’istanza presentata ai sensi dell’art. 35-ter ord. pen.”.
Sul punto la giurisprudenza convenzionale aveva davvero speso parole di grande chiarezza, che ora semplificano la definizione del principio da parte delle SU. Come già si accennava, brevemente commentando i contenuti della sentenza Mursic v. Croazia, soltanto la compresenza dei tre impegnativi fattori migliorativi di una condizione assai deteriore come quella della restrizione carceraria in uno spazio inferiore ai 3 mq procapite, primo fra tutti la brevità ed occasionalità della stessa, può consentire di superare la forte presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU.
Quando invece il detenuto abbia avuto a disposizione spazi comunque esigui, tra i 3 ed i 4 mq procapite, prevale una “valutazione multifattoriale della complessiva offerta trattamentale”. Spetterà all’interessato l’allegazione di eventuali carenze nell’accesso alle aree esterne, o nell’areazione o illuminazione della stanza, o nella riservatezza dei servizi igienici, o nelle cattive condizioni sanitarie o igieniche complessive e l’amministrazione potrà invece evidenziare, al contrario, la rilevanza dei fattori positivi eventualmente sussistenti.
Particolarmente significativo è il richiamo delle SU alla necessità che il giudice valuti il complesso di tali elementi, facendo riferimento alle concrete opportunità trattamentali poste a disposizione del condannato e non all’offerta trattamentale che astrattamente un certo istituto penitenziario può offrire e dunque non al fatto che in un carcere fosse previsto l’accesso al lavoro o alla scuola per alcuni detenuti, ma che abbia potuto fruire di questa opportunità, e con quali modalità e in che tempi, il reclamante.
[1] Per approfondite analisi sull’istituto si vedano, tra gli altri, F. Fiorentin a cura di, La tutela preventiva e compensativa per i diritti dei detenuti, 2019 e G. Giostra – M. Ruaro, Art. 35-ter commento in F. DElla Casa – G. Giostra, Ordinamento penitenziario commentato.
In ricordo di Gianni Ferrara
di Gaetano Silvestri
Gianni Ferrara apparteneva alla categoria dei giuristi capaci di mantenere saldo il rigore del metodo pur nella consapevolezza – manifestata ampiamente nei suoi scritti – dei profondi legami tra il diritto, l’economia ed i rapporti sociali e politici. Il continuo e vigile controllo sui confini e sui legami tra politica e istituzioni gli ha consentito di svolgere in modo ineccepibile, durante la sua lunga e operosa esistenza, sia il ruolo di costituzionalista scientificamente fedele al dato positivo, sia quello di parlamentare, animato da calda passione civile, anche aspro nelle sue polemiche, ma sempre rispettoso del pluralismo delle idee e delle culture. Non gli è stata difficile questa simbiosi, giacché la sua opzione intellettuale e morale è stata, sin dalla gioventù, lo studio, la difesa e l’attuazione dei princìpi costituzionali. Non a caso la rivista da Lui fondata e diretta per molti anni ha preso il nome di “Costituzionalismo”, che racchiude in sé il proposito della gelosa custodia dei valori di civiltà che stanno alla base di quei princìpi e l’intento di affrontare, senza timidezze, le battaglie necessarie per la loro attuazione.
Non si nascondeva dietro un tremebondo neutralismo. Per questo motivo, specie negli ultimi tempi, esprimeva, nei suoi limpidi interventi, l’amarezza per i ripetuti attacchi alla Carta del 1948 - frutto della Resistenza e dell’ansia di libertà di tanti perseguitati e caduti - non adeguatamente rintuzzati, a Suo parere, dagli stessi costituzionalisti, molti dei quali ritiratisi in vuoti giochini tecnicistici o, peggio, messisi al servizio di “innovatori” miranti a restringere gli spazi di libertà, eguaglianza e pluralismo garantiti dalla Costituzione.
Per Ferrara la lotta per la Costituzione faceva tutt’uno con la difesa del Parlamento, del quale era profondo conoscitore sin dai tempi in cui aveva percorso la carriera di funzionario parlamentare, che gli aveva consentito di analizzare, da vero esperto conoscitore della prassi, i meccanismi di funzionamento delle Camere. Al Parlamento aveva dedicato parte importante della sua produzione scientifica, a partire dall’insuperata monografia sul Presidente di Assemblea parlamentare, del 1965. Non temeva di apparire conservatore dèmodè di fronte alle ricorrenti ondate maggioritarie, presidenzialiste, semipresidenzialiste e simili. In queste tendenze Egli vedeva la veste giuridico-istituzionale di una cultura politica favorevole all’irrigidimento autoritario del sistema costituzionale, celato a stento da velleità efficientistiche e ideologie decisioniste. La disillusione e il pessimismo lo portarono al ritiro dalla politica attiva e alla polemica aperta con molti colleghi (e anche amici), ma non lo ridussero al silenzio, giacché sino all’ultimo fece sentire le sue critiche alle improvvisazioni e ai pasticci dei nuovi mini-costituenti, con i loro ricettari di forme di governo adattati alle aspirazioni contingenti (spesso momentanee!) dei vari leader, di diverse dimensioni, senza idee e senza programmi, che hanno preso il posto dei vecchi partiti, ormai defunti, ma con non minore sete di potere.
Nella sua vastissima produzione scientifica degli ultimi decenni, che non è possibile in questa sede ripercorrere, mi piace citare uno scritto molto significativo del 2004: «Verso la monocrazia. Ovvero, del rovesciamento della Costituzione e della negazione del costituzionalismo». Non rimase solo nell’inesausta lotta contro il disastroso dilettantismo costituzionale talvolta collocato a ridosso della politica politicante, talvolta pateticamente solitario, ma ugualmente animato da volontà distruttiva. Mi basta citare gli accorati avvertimenti di Leopoldo Elia e Temistocle Martines, che dedicarono alla difesa del nostro patrimonio costituzionale gli ultimi anni della loro vita.
Con la scomparsa di Gianni Ferrara perdo un Maestro e un Amico. Ricorderò sempre con nostalgia le serate trascorse insieme a commentare i fatti di attualità e a riflettere sullo stato degli studi di diritto costituzionale. Mi mancherà la Sua sapienza, ma anche la Sua bonaria umanità, che traspariva dai suoi modi burberi, che me lo rendevano ancor più caro.
Il preavviso di diniego e la costruzione della decisione amministrativa (nota a Tar Campania, Napoli, sez. III, 7 gennaio 2021, n. 130). di Marco Brocca
Sommario: 1. La vicenda. 2. La soluzione del giudice. 3. Spunti di riflessione. La fisionomia del preavviso di diniego e le novità normative. 4. Le potenzialità dell’istituto.
1. La vicenda
Il ricorrente, in qualità di imprenditore agricolo, presentava domanda di concessione di un contributo nell’ambito di un bando regionale dedicato al sostegno delle aziende agricole. A seguito di dichiarazione di inammissibilità della domanda, l’imprenditore agricolo presentava controdeduzioni/osservazioni ai sensi dell’art. 10-bis della legge 241/1990, con le quali esponeva le ragioni ritenute prevalenti per la revisione del giudizio dell’amministrazione nel senso dell’accoglibilità della domanda, allegando correlata documentazione a sostegno delle proprie tesi.
La commissione dava atto, con un apposito verbale di riesame, di aver analizzato le controdeduzioni e l’allegata documentazione e di aver concluso il giudizio di revisione nel senso di confermare la conclusione dell’istruttoria in termini di “domanda non ammissibile”, esito confluito nella graduatoria definitiva, che è stata impugnata dal ricorrente dinanzi al giudice amministrativo.
Le censure sollevate da parte ricorrente sono molteplici, ma il Tar si concentra sulla prima, relativa alla violazione dell’art. 10-bis legge 241/1990, giudicata dirimente e assorbente le ulteriori contestazioni dedotte, con l’effetto di ritenere sussistenti i presupposti per la definizione immediata del ricorso nel merito e di decidere con sentenza in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 c.p.a.
2. La soluzione del giudice
Per dirimere la questione il giudice si sofferma sull’asserita violazione dell’art. 10-bis della legge 241/1990, disposizione che, come noto, disciplina l’istituto della comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda.
Il ricorso è accolto perché – a detta del giudice – il provvedimento impugnato è sprovvisto di quella parte motivazionale necessaria in presenza di osservazioni presentate ex art. 10-bis. Riscontrano i giudici “la assoluta genericità, carenza di motivazione, illogicità, sommarietà ed indeterminatezza dell’impugnato verbale nel quale sono state usate delle mere formule di stile che configurano una motivazione apparente [...], l’amministrazione resistente nel procedimento di riesame si è limitata a confermare quanto precedentemente valutato, non dando puntuale ragione, nel provvedimento finale, del mancato accoglimento delle osservazioni presentate, in altri termini, omettendo ogni motivazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che hanno determinato, in relazione alle risultanze dell’istruttoria, la propria decisione, con connessa lesione delle finalità e garanzie partecipative. Tale valutazione è mancata anche nella istruttoria preordinata alla emanazione del provvedimento finale e segnatamente nel verbale di riesame […].
Il Tar, nell’accogliere il ricorso, si sofferma sulla portata della norma e sulle finalità e garanzie dell’istituto del cd. preavviso di diniego. Esso è collocato anzitutto nelle sue coordinate essenziali: si tratta di un supplemento procedimentale la cui attivazione è indefettibile e infungibile per l’amministrazione procedente (almeno nei procedimenti ad istanza di parte e secondo l’ambito delimitato dalla norma) e, al contempo, costituisce una “opportunità” per il privato, il quale può anche non avvalersene e quindi attendere il provvedimento finale. Alla facoltà del privato corrisponde un obbligo per l’amministrazione, quello di prendere in considerazione il materiale ricevuto e di darne conto nella motivazione del provvedimento finale. Con l’ulteriore avvertenza che il preavviso di diniego, quale che sia la reazione del privato, cristallizza l’apparato delle ragioni ritenute dall’amministrazione ostative all’accoglimento dell’istanza, nel senso che il provvedimento finale dovrà reggersi soltanto sulle ragioni già esternate in sede di comunicazione ex art. 10-bis, in una una sorta auto-vincolo e di limitazione dello jus variandi. In altre parole, si tratta di un momento di interlocuzione tra p.a. e cittadino ulteriore e successivo a quello della fase istruttoria connotata dalle forme tipiche della partecipazione; non soltanto una seconda chance per il privato di addivenire all’accoglimento dell’istanza, ma un momento di confronto, più pregnante e potenzialmente più utile perché si colloca in uno stadio più avanzato del processo di ‘costruzione’ della decisione amministrativa, quando la determinazione amministrativa è ormai ‘matura’ e quindi le parti possono interagire non più ai fini della raccolta del materiale istruttorio, ma ormai rispetto al contenuto dispositivo della decisione amministrativa da adottare. Un istituto che implica un’utilità reciproca per le parti in causa: per il privato, che, come detto, può saggiare in sede procedimentale un ultimo tentativo per convincere l’amministrazione all’accoglimento della propria istanza (ovvero, da altra angolatura, il privato può comprendere e assimilare le ragioni della non accoglibilità della propria domanda con la conseguenza di desistere da reazioni impugnatorie e questo genera un evidente effetto deflattivo del contenzioso); per l’amministrazione che può svolgere al meglio la propria ‘missione’ di adozione di decisioni le più ponderate e meditate possibili, anche sul piano della condivisibilità del destinatario.
Lo sforzo di comprensione e consapevolezza della portata dell’istituto emerge nella sentenza e accompagna come un fil rouge ogni passaggio e presa di posizione del giudice, non soltanto per affrontare e risolvere il caso di specie, ma anche per esaminare i tanti dubbi interpretativi che la norma di riferimento ha suscitato nella pratica e ha indotto la giurisprudenza a formulare orientamenti non sempre univoci. In questa direzione si pongono le seguenti affermazioni del Tar:
1) la confutazione delle osservazioni presentate dal privato in risposta alla comunicazione dei motivi ostativi addotti dall’amministrazione ex art. 10-bis legge 241/1990 deve risultare nella motivazione del provvedimento finale, nel senso che nella parte motivazionale che correda l’atto una ‘quota’ deve essere specificamente dedicata all’esternazione delle ragioni per cui non sono condivisibili le osservazioni presentate dal privato; peraltro, questa motivazione non deve essere puntuale e analitica, essendo sufficiente una motivazione che complessivamente e logicamente chiarisca le ragioni del mancato adeguamento dell’azione amministrativa alle deduzioni difensive del privato[1];
2) la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza determina una limitazione dello jus variandi, nel senso che l’amministrazione non potrà, in sede di emanazione del provvedimento finale, addurre nuove ragioni rispetto a quelle già prospettate con il preavviso di diniego[2];
3) non può invocarsi la cd. sanatoria processuale di cui all’art. 21-octies, comma 2, secondo periodo, legge 241/1990 e ciò vale sia per l’ipotesi, più lampante, di omesso avviso dei motivi ostativi sia per il caso di omessa considerazione, in sede di emanazione del provvedimento finale, delle controdeduzioni presentate dal privato. Questa impossibilità si spiega in ragione della diversità ontologica tra la garanzia preliminare di cui all’art. 7 legge 241/1990 e quella sostanziale ex art. 10-bis[3]. La comunicazione ex art. 7 e quella ex art. 10-bis condividono la dimensione garantistica e partecipativa, peraltro la garanzia dell’art. 10-bis – evidenziano i giudici – «svolge un ruolo diverso, e consente alla parte di intervenire a sostenere le proprie ragioni, nella fase predecisoria, contestando l’apparato motivazionale predisposto dall’amministrazione all’esito del procedimento. La partecipazione alla fase decisoria e predecisoria assume una valenza rispetto al formarsi della decisione amministrativa che ha valore ulteriore e diversa da quella che assume la partecipazione alla fase istruttoria, sicchè la mancata previsione del vizio di violazione dell’art. 10-bis tra quelli suscettibili di sanatoria ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, secondo periodo non può essere ascritta ad una lacuna, ma ad una scelta legislativa, non emendabile dall’interprete». Si tratta, infatti, di fase procedimentale avanzata, in cui «le osservazioni del privato potrebbero condurre ad un esito provvedimentale diverso da quello preannunciato, e la loro attenta valutazione trasfusa nella motivazione costituisce estrinsecazione di garanzia sostanziale, sì che non può dedursi un superamento in sede giudiziale di quanto non espresso in sede amministrativa»; ecco perché «le osservazioni del privato introdotte nella sede procedimentale esigono una specifica controdeduzione, proprio nella appropriata sede amministrativa (che potrebbe essere anche l’unica, senz’altro per i motivi di merito)», nella consapevolezza che «il procedimento amministrativo è la naturale sede in cui il contrasto tra PA e cittadino deve emergere ed essere affrontato, mentre il ricorso al giudice amministrativo rappresenta il rimedio esperibile quando gli strumenti del procedimento non hanno consentito di comporre il dissidio e permesso al privato di conseguire il bene della vita cui aspira. Pertanto, trasportare in sede giurisdizionale quanto doveva essere oggetto di adeguata e piena verifica amministrativa non risponde al principio del giusto procedimento, come definito anche in sede sovranazionale. Vien in rilievo al riguardo l’articolo 6 della CEDU […] che pone le garanzie del giusto processo e ancor prima del giusto procedimento».
3. Spunti di riflessione. La fisionomia del preavviso di diniego e le novità normative
A quindici anni dalla sua introduzione[4], il preavviso di diniego sembra ancora alla ricerca della propria identità, fermo su un crinale incerto quanto ad applicazione e, ancora prima, concezione. Alla consapevolezza dell’effetto utile dell’istituto, per la capacità di contribuire in modo essenziale alla costruzione della decisione amministrativa in virtù del contraddittorio tra p.a. e cittadino innescato in una fase molto avanzata del procedimento, si contrappone l’idea che si tratta di uno strumento poco incisivo rispetto al processo unilaterale di determinazione della volontà dell’amministrazione, che si traduce per questo in un (ulteriore) adempimento formale e, dal punto di vista del privato, in un’arma processuale in caso di violazione della relativa disciplina. I piani sono separati, ma collegati, perché è di tutta evidenza che una piena e convinta applicazione dell’istituto e dei sottesi canoni della correttezza e collaborazione tra le parti possa neutralizzare la sua alterazione in adempimento inutile e sterile, anzi disfunzionale nell’economia del procedimento e comodo appiglio processuale per il privato. Si aggiunga che la dimensione garantistica dell’istituto rileva su un duplice piano, quello del privato, in termini di rafforzamento del confronto dialettico con l’autorità procedente, e quello dell’amministrazione che può giovarsi del contraddittorio predecisorio ai fini dell’adozione della più corretta decisione amministrativa.
Di questa prospettiva vi è contezza nella decisione in commento, in cui si evidenzia il binomio degli obiettivi di «effettività della partecipazione del privato» e di «emanazione di un provvedimento il più possibile completo», ovvero, in altre parole, di «trasparenza» e di «dialogo» tra amministrazione e amministrato.
I giudici trovano conferma della visione ‘rafforzata’ dell’istituto nel dato normativo più recente, pur nella consapevolezza dell’inapplicabilità ratione temporis al caso di specie.
Il riferimento è al cd. decreto semplificazioni (decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76 conv. in legge 11 settembre 2020, n. 120), il cui art. 12 ha modificato l’art. 10-bis legge 241/1990. I profili emendati che appaiono qui di interesse sono tre: 1) la portata della motivazione del provvedimento finale rispetto alle osservazioni presentate dal privato; 2) i margini di valutazione dell’amministrazione in caso di riedizione del potere a seguito di annullamento giudiziale; 3) i limiti di applicazione della sanatoria processuale ex art. 21-octies legge 241/1990. La direzione seguita dal legislatore è, come si vedrà, evidente: quella di potenziare l’istituto nella sua portata condizionante la successiva attività decisionale. Come si vedrà, emerge una fisionomia dell’istituto rafforzata in termini di vincolo conformativo e preclusivo non soltanto rispetto al provvedimento finale, ma addirittura in caso di riedizione del potere conseguente ad annullamento giurisdizionale; il rilievo della specificità dell’istituto comporta il corollario dell’impossibilità di parificazione con altri istituti, come la comunicazione di avvio del procedimento, e dunque la non riconducibilità della violazione dell’art. 10-bis tra i vizi non invalidanti il provvedimento amministrativo (discrezionale).
La norma riformata dispone che, in presenza di osservazioni presentate dal privato ex art. 10-bis, il responsabile del procedimento o l’autorità competente «sono tenuti a dare ragione nella motivazione del provvedimento finale di diniego», statuizione che evidentemente ribadisce e rafforza la doverosità della valutazione da parte della p.a. dell’apporto dei privati e del riscontro nella motivazione del provvedimento, con l’avvertenza, aggiunta dalla riforma, che in sede motivazionale l’autorità può intervenire «indicando, se ve ne sono, i soli motivi ostativi ulteriori che sono conseguenza delle osservazioni». Dunque, la norma interviene sull’obbligo di motivazione provvedimentale nella direzione di perimetrarne il contenuto[5]: con la motivazione l’amministrazione, da un lato, deve prendere puntuale posizione rispetto alle osservazioni avanzate dai privati, dall’altro non può discostarsi dai motivi ostativi esternati con la comunicazione ex art. 10-bis, potendo soltanto aggiungere ragioni ostative che valgono come risposta alle osservazioni del privato. In altre parole, la comunicazione dei motivi ostativi determina una cristallizzazione del materiale su cui si fonderà la decisione, con l’effetto di un rafforzamento della fase istruttoria e di quella predecisoria e la rappresentazione che emerge del preavviso di diniego è di un adempimento che “va preso sul serio”, perché segna “un punto di non ritorno” nella costruzione della decisione amministrativa. Il nuovo dato normativo sembra disattendere l’orientamento della giurisprudenza più lassista e sostanziale, che legittima la p.a. a svolgere, in sede di adozione del provvedimento e di suo compendio motivazionale, una valutazione complessiva delle osservazioni del privato e a precisare ulteriormente le proprie posizioni giuridiche, con il limite della riconducibilità di queste ulteriori argomentazioni nello «schema» delineato dalla comunicazione ex art. 10-bis»[6].
Non solo. Nel nuovo dettato normativo emerge che l’effetto preclusivo del preavviso di diniego si prolunga e si riverbera anche sull’attività amministrativa ulteriore ad una pronuncia giurisdizionale di annullamento. La disposizione recita che «in caso di annullamento in giudizio del provvedimento così adottato, nell’esercitare nuovamente il suo potere l’amministrazione non può addurre per la prima volta motivi ostativi già emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato».
In altre parole, la fisionomia rafforzata del preavviso di diniego come linea di confine infraprocedimentale che plasticamente chiude l’attività istruttoria e si riversa sul corredo motivazionale del provvedimento amministrativo, si applica anche in caso di riesercizio del potere doveroso a seguito di annullamento del giudice. In questo caso alla portata conformativa tipica della sentenza di annullamento (variabile, come noto, in base alla tipologia delle censure accolte) si aggiunge una sorta di effetto preclusivo ex lege, che impedisce all’amministrazione di porre a fondamento della decisione, in sede di rinnovazione del potere innescato dalla sentenza caducatoria, motivi già emergenti dall’istruttoria e non esternati in sede provvedimentale.
La valorizzazione legislativa dell’istituto, dunque, investe sia l’ambito procedimentale sia quello post-processuale, con l’aggiunta che quest’ultimo si salda anche con l’ambito processuale, rispetto al quale l’istituto è ulteriormente rinforzato. Il riferimento è al riformato art. 21-octies, che esclude espressamente l’applicabilità della sanatoria processuale di cui al secondo comma, secondo periodo (quella riferita all’omessa comunicazione di avvio del procedimento), al provvedimento illegittimo per violazione dell’art. 10-bis. La norma disattende categoricamente quell’orientamento giurisprudenziale che opera un parallelismo tra gli istituti di cui all’art. 7 e art. 10-bis in nome di una presunta identità funzionale ed estende la sanatoria processuale relativa alla mancanza di comunicazione di avvio del procedimento all’ipotesi del preavviso di diniego. All’esito della riforma la violazione dell’art. 10-bis costituisce sempre un vizio di legittimità dell’atto amministrativo discrezionale, potendo rilevare come vizio non caducante solo in relazione ad attività vincolata (ipotesi di cui al secondo comma, primo periodo dell’art. 21-octies), in evidente differenziazione rispetto al vizio relativo all’avviso di avvio del procedimento per il quale si applicano entrambe le ipotesi di sanatoria dell’art. 21-octies.
La saldatura tra ambito processuale e ambito post-processuale si spiega perché, in assenza della previsione che delimita i motivi ostativi in caso di riedizione del potere e in presenza della disposizione che rende impossibile la sanatoria processuale per l’attività amministrativa di tipo discrezionale inficiata dalla violazione dell’art. 10-bis, si potrebbe verificare quello scenario paventato e stigmatizzato dalla giurisprudenza di una «defatigante alternanza tra procedimento e processo»[7]: ossia di una riespansione piena del potere di valutazione (discrezionale) dell’amministrazione che potrebbe fondare la determinazione di diniego su elementi già noti ma non esternati, con l’effetto di prestarsi a ulteriore contenzioso.
La previsione che inibisce all’amministrazione di invocare, in sede di riedizione del potere, motivi già emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato non arriva ad azzerare l’ambito valutativo dell’amministrazione ovvero a predefinirne l’esito (non potrebbe farlo), ma certamente circoscrive lo spettro entro il quale l’amministrazione dovrà rivalutare la vicenda. In altre parole, l’efficacia oggettiva del giudicato amministrativo non esclude in assoluto la possibilità di riedizione del potere sfavorevole per il privato, ma comporta una perimetrazione dell’ambito motivazionale dell’amministrazione. L’effetto della norma è di contribuire a quella «riduzione progressiva della discrezionalità amministrativa»[8] a seguito di passaggio processuale, che la giurisprudenza più recente postula in un’accezione forte come risvolto del carattere conformativo della sentenza e suffraga sulla base di una interpretazione articolata ed evolutiva del codice del processo amministrativo, da cui ricava un modello di giurisdizione piena ed effettiva, in cui la garanzia della legalità dell’azione amministrativa si salda con la tutela sostanziale delle pretese del privato. Il riferimento non è solo ai principi di giustiziabilità delle pretese e di effettività della tutela, che hanno copertura costituzionale (artt. 24, 103 e 113 Cost.) e sovranazionale (artt. 6 e 13 CEDU), cui si uniforma il codice (art. 1), bensì ai nuovi strumenti di cognizione “ad esecuzione integrata” (art. 34 c.p.a.) ovvero al contenuto della domanda, che richiama l’aspettativa del privato di conseguire il bene della vita (art. 31, comma 3, art. 34, comma 5, art. 40 c.p.a.). Questa giurisprudenza si ricollega con quella che, ispirandosi ai medesimi principi e muovendo dalla consapevole accettazione della permanenza di spazi non coperti dalla sentenza, ritiene doveroso che l’amministrazione, in sede di riesame della vicenda controversa, sia particolarmente rigorosa nella verifica di tutti i profili rilevanti, dunque non soltanto di quelli investiti dalla sentenza, dovendo esaminare l’affare nella sua interezza e sollevando tutte le questioni che ritenga di interesse una volta per tutte e senza la possibilità di tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili non ancora esaminati (principio del cd. one shot temperato)[9].
Mutuando da autorevole dottrina, il preavviso di diniego pare configurato dalla novella legislativa come un «onere di preclusione procedimentale»[10], in una duplice accezione: nel procedimento amministrativo originato da un’istanza privata, quale spartiacque tra la fase istruttoria e quella decisoria, il preavviso di diniego cristallizza i motivi (ostativi) tra i quali l’autorità decidente può attingere per fondare il provvedimento di diniego, essendole precluse ulteriori ragioni; nel procedimento amministrativo doveroso conseguente a sentenza caducatoria, il preavviso di diniego diviene il primo atto (endoprocedimentale) refrattario al recepimento di motivi già emergenti nella precedente istruttoria e non esternati nel provvedimento annullato.
La novella legislativa, pure evidentemente proiettata nella direzione di consolidare l’istituto, presenta delle zone d’ombra in quanto lascia insolute alcune questioni del precedente regime ovvero suscita nuovi punti problematici.
La regola della simmetria dei motivi ostativi condensati nel preavviso con quelli esternati nel provvedimento, con la sola eventualità di addurre motivi ulteriori purchè in funzione di replica delle osservazioni vale, appunto, «qualora gli istanti abbiano presentato osservazioni» e questo si spiega in nome del rafforzamento dell’effettività della partecipazione che il legislatore ha voluto perseguire. Ma in assenza di osservazioni, quale intensità deve avere la corrispondenza tra il preavviso di diniego e il provvedimento? L’idea di una possibile riespansione della motivazione in sede provvedimentale può fondarsi sul dato letterale della norma che correla appunto il parallelismo motivazionale al caso di presentazione delle osservazioni e può spiegarsi come corollario della mancata partecipazione del privato; purtuttavia, l’ipotesi di mancata presentazione delle osservazioni può anche significare accettazione delle ragioni ostative e acquiescenza del privato, con l’effetto che il destinatario del provvedimento non può ritrovare nel provvedimento finale motivi ulteriori a quelli già rinvenuti nel preavviso. L’esito del ragionamento è ribaltato rispetto alla prima tesi, perché l’eventuale allargamento del corredo motivazionale può aversi soltanto in presenza di osservazioni avanzate dal privato e si giustifica nell’esclusiva accezione di «conseguenza delle osservazioni», come recita la norma.
Ulteriore questione riguarda l’ambito applicativo del limite allo jus variandi in sede di riesercizio del potere ovvero se questa preclusione scatti in presenza di annullamento giurisdizionale per accertata violazione della disciplina dell’art. 10-bis oppure si estenda ad ogni provvedimento preceduto da preavviso di diniego e annullato per qualsivoglia vizio di legittimità. La lettera della norma non pare risolutiva («In caso di annullamento in giudizio del provvedimento così adottato»), sebbene una lettura più coerente e stretta all’oggetto della disposizione induca alla prima opzione; peraltro l’interpretazione estensiva asseconda il rafforzamento dell’istituto sotteso alla ratio della riforma e determinerebbe un’innovazione di notevole impatto, per la sua portata generale, come è stato evidenziato dalla prima dottrina che ha esaminato la questione[11].
Anche a voler aderire all’accezione estensiva, si ritiene che la portata innovativa della norma sia da calibrare, comunque, con peculiari situazioni: si pensi al caso di annullamento del provvedimento per motivi attinenti alla fase istruttoria (difetto di istruttoria, travisamento dei fatti, ecc.) che comporta la rinnovazione di questa fase, con il quesito conseguente dell’applicabilità o meno del limite dei motivi ostativi già noti secondo l’art. 10-bis: alla tesi che ritiene inapplicabile l’art. 10-bisperché la rinnovata istruttoria supera e azzera quella precedente colpita dal decisum giudiziale, può contrapporsi altra tesi che ritiene persistente il limite di cui all’art. 10-bis con la precisazione che in sede di riesercizio del potere l’amministrazione dovrà discernere nello spettro dei motivi risultanti dalla nuova istruttoria da portare a sostegno del provvedimento quelli già emersi dall’istruttoria precedente sebbene inficiata, come tali inutilizzabili, e quelli frutto della nuova istruttoria, invece rilevanti. Altra vicenda riguarda l’emersione di elementi nuovi, sopravvenuti o rilevati successivamente per causa non imputabile all’amministrazione. In quanto non «già emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato» essi sono da ritenere esclusi dall’ambito applicativo dell’art. 10-bis, con l’effetto della loro piena rilevanza in sede di riadozione del provvedimento, ma con l’avvertenza – valida anche per la vicenda dell’istruttoria da rinnovare a seguito di sentenza caducatoria – che i nuovi motivi necessitino di un apposito preavviso di diniego.
Il nuovo tenore dell’art. 21-octies ha escluso, come visto, l’applicabilità della sanatoria processuale riferita dalla norma all’omessa comunicazione di avvio del procedimento, alle ipotesi di violazione dell’art. 10-bis, sconfessando quell’orientamento giurisprudenziale che invece l’ammetteva sul presupposto di un’identità funzionale tra i due istituti di partecipazione. È da comprendere se e come questo divieto si riverberi su quell’orientamento giurisprudenziale che, in base a una lettura sostanzialistica della partecipazione e in virtù del principio di raggiungimento dello scopo, parifica la comunicazione di avvio del procedimento e il preavviso di diniego, negando ai casi di violazione degli artt. 7 e 10-bis la capacità invalidante del provvedimento ogniqualvolta l’interessato abbia aliunde ottenuto equipollenti forme di comunicazione e/o sia stato comunque messo nella condizione di interloquire con l’amministrazione[12].
4. Le potenzialità dell’istituto
Una lettura sistematica delle modifiche alla legge 241/1990 ad opera del decreto semplificazioni offre un ulteriore elemento di riflessione. Il riferimento è all’art. 12, comma 1, lett. a) del decreto-legge n. 76/2020 conv. in legge 120/2020, che ha aggiunto all’art. 1 della legge 241/1990 il comma 2-bis, secondo cui «I rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede». In questo modo i principi di collaborazione e buona fede, configurati dalla giurisprudenza quali corollari del principio di buona amministrazione di cui all’art. 97 Cost. e applicati per specifiche questioni relative anzitutto all’attività negoziale della p.a., quindi estesi all’attività procedimentalizzata, e codificati dal legislatore dapprima per specifici settori (si pensi alla disciplina dei rapporti tra amministrazione finanziaria e cittadini-contribuenti, in cui i suddetti principi sono espressamente enunciati nello statuto dei diritti del contribuente), sono stati assurti al rango di «principi generali dell’attività amministrativa».
Questi principi forniscono una determinante chiave di lettura degli istituti di partecipazione, di cui esaltano l’aspetto dialogico e l’aspirazione a un approccio di tipo costruttivo e non conflittuale tra le parti del procedimento. Questo è particolarmente evidente in relazione al preavviso di diniego, perché, come visto, con esso l’interesse del privato alla partecipazione nel processo decisionale, tradotta nella fase istruttoria in un momento episodico e solitario di presentazione di memorie e documenti che l’amministrazione dovrà valutare, anch’essa in forma separata nel momento terminale del procedimento, si concretizza in uno spazio di dialogo più concreto e avanzato. Il confronto tra le parti non riguarderà genericamente l’istanza del privato (o il progetto dell’amministrazione nei procedimenti officiosi), ma si innescherà allorquando l’amministrazione ha maturato il proprio convincimento sulla vicenda ed è pronta a esternarlo. L’aspirazione del privato alla prevedibilità degli esiti dell’azione e al suo apporto costruttivo trovano compimento perché il contraddittorio potrà vertere sulla decisione dell’amministrazione, prefigurata ma non formalizzata e suscettibile ancora di adattamenti e precisazioni. Con il preavviso di diniego la relazione si fa più stringente e dialogica, perché le parti possono confrontarsi reciprocamente sul progetto della decisione in un momento avanzato del procedimento, nel quale i soggetti hanno consapevolezza e convinzione del problema e l’una, l’amministrazione, anticipa la decisione e l’altro, il cittadino, avanza osservazioni/contestazioni. Una comunicazione che si fa bidirezionale e paritaria[13] e, seppure non compromette l’autoritatività e l’unilateralità del potere decisorio dell’amministrazione, realizza sostanzialmente un «contraddittorio sulla decisione»[14].
I principi di collaborazione e buona fede ora codificati esortano, pertanto, le amministrazioni a maggior rigore e scrupolo nell’applicazione dell’art. 10-bis e, ancor prima, a una maggiore consapevolezza del significato dell’istituto, quello di un essere un modus procedendi che assolve la sua funzione solo se consente un effettivo ed utile confronto dialettico con l’interessato prima della formalizzazione dell’atto amministrativo. Lo sforzo è riposto principalmente sul versante dell’autorità, la quale è chiamata a un atteggiamento di apertura piena ai possibili esiti del procedimento, senza preclusioni dettate dal convincimento già maturato e quindi con un’attenzione massima agli apporti del privato. In caso contrario, l’istituto vedrebbe frustrate le proprie finalità e si tradurrebbe in uno sterile adempimento formale e un inutile aggravio procedimentale, un’ulteriore «foglia di fico»[15] alla realtà dei processi decisionali, più eloquente rispetto alle altre perché interverrebbe in un momento alquanto avanzato del procedimento per “ammantare” decisioni già prese.
Il preavviso di diniego, come noto, apre diversi scenari. L’istante può ribadire la propria posizione, secondo una duplice direzione: omettendo la presentazione di qualsivoglia osservazione, per cui il preavviso di diniego vale come mera anticipazione del provvedimento negativo con l’effetto che il privato ha il vantaggio di conoscere in anticipo la decisione dell’amministrazione per preparare, per tempo, le conseguenti mosse, anzitutto la contestazione processuale; oppure può apportare elementi di valutazione aggiuntivi, anche con l’allegazione di ulteriori documenti, su cui l’amministrazione ha il dovere di pronunciarsi. In quest’ultima accezione l’istituto funge da autentico strumento di contraddittorio “in contestazione” e disvela il senso più intenso della partecipazione, perché il cittadino si inserisce nel processo decisionale non soltanto apportando elementi utili sul piano istruttorio, ma potendo prendere posizione sulla progettata decisione finale, con l’intento di mutarne la direzione, e sulla presupposta condizione che l’amministrazione interlocutrice sia disposta a rivedere la propria opinione e non sia affatto prevenuta e arroccata sulle proprie posizioni. Peraltro, l’utilità del contraddittorio predecisorio si riverbera anche sulla “qualità” del provvedimento finale, perché quest’ultimo sarà frutto di una valutazione dell’amministrazione più completa e meditata.
Il privato può anche convincersi delle ragioni dell’amministrazione e, dunque, persuadersi dell’inaccoglibilità della propria istanza, e questo convincimento può risultare per silentium dalla mancata presentazione di osservazioni ex art. 10-bis, ma, in ipotesi, può anche essere formalizzato mediante presentazione di osservazione con contenuto di presa d’atto e accettazione dei motivi esternati dall’amministrazione, oppure può risultare implicitamente dal ritiro dell’istanza. In questo caso il preavviso di diniego funge da strumento di conoscenza e di fattore di persuasione o, meglio, di promozione dell’accettazione[16] e condivisione della scelta amministrativa, con non indifferenti riflessi deflattivi del contenzioso.
Ma è possibile uno scenario “intermedio”. Attraverso le osservazioni conseguenti al preavviso di diniego, il privato può avanzare proposte modificative dell’istanza, affinchè questa si renda accoglibile e l’opzione può essere promossa direttamente dal privato, in assenza di indicazioni dell’amministrazione, ovvero in risposta alle soluzioni modificative o alternative proposte dall’amministrazione a corredo dei motivi ostativi dell’istanza.
Il profilo è delicato, perché la disposizione dedicata al preavviso di diniego non offre appigli in questo senso e neanche le modifiche apportate dalla riforma del 2020 all’art. 10-bis toccano questo aspetto, sebbene argomentazioni significative possono ricavarsi proprio dai codificati principi all’art. 1, comma 2-bis legge 241/1990.
Questo approccio presuppone una logica più complessa rispetto a quella netta del “sì o no”, del “tutto o niente”, dell’approvazione o del rigetto tout court, e implica flessibilità e non intransigenza delle posizioni personali, disponibilità a rivedere il progetto iniziale, accettabilità di modifiche o ridimensionamenti delle istanze iniziali. Dal versante dell’amministrazione è richiesto uno spirito di collaborazione procedimentale[17], e dunque uno sforzo nel senso dell’ascolto attento e dell’esame approfondito delle ragioni del privato, ma anche la ricerca di soluzioni funzionali alla conclusione positiva del procedimento, nell’ottica di accogliere le ragioni del privato senza abdicare alla ragione suprema di cura dell’interesse pubblico.
Seguendo questa strada, il contraddittorio si presterebbe a una funzione peculiare, ulteriore alle accezioni tipiche di integrazione istruttoria e di contestazione predecisoria, che potrebbe dirsi di natura conciliativa o pre-contenziosa in senso lato[18], e sarebbe tale da sviluppare al massimo grado il significato del contraddittorio nella direzione della costruzione, dialogica e risolutiva, della decisione amministrativa[19].
Un’eco di questa impostazione è rinvenibile in parte della giurisprudenza, la quale, valorizzando la ratio di rafforzamento del confronto procedimentale sottesa al preavviso di diniego, ricava una declinazione di significati che vanno dall’esposizione esaustiva dei rispettivi punti di vista all’apporto di chiarimenti ed esplicazioni sino allo sforzo di «raggiungere e concordare soluzioni alternative che avrebbero potuto condurre il procedimento ad un esito finale diverso»[20]. In altre parole, questo orientamento vede nel contraddittorio innescato dal preavviso di diniego la sede utile per le parti non soltanto per esporre i rispettivi punti di vista e per chiarire le rispettive ragioni, ma anche per avanzare e discutere opzioni modificative o alternative alla pretesa iniziale, sulla base della convinzione che questo momento di confronto, per il valore aggiunto che ricava dalla collocazione nel procedimento, sia infungibile rispetto alla fase istruttoria né sia riproducibile nella sede giudiziale.
Questa opzione apre non poche questioni procedurali relative, ad esempio, al ruolo e all’ordine di intervento delle parti, ossia se attenga al privato avanzare, in prima battuta, le modifiche migliorative dell’istanza ovvero le soluzioni alternative oppure se l’amministrazione debba, contestualmente alla formulazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, identificare proposte modificative ovvero, ancora prima, verificarne la possibilità. È ragionevole ritenere che la prima opzione sia più aderente al dato normativo, perché esso identifica nei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza il contenuto della comunicazione, mentre nulla dice in merito all’ambito delle osservazioni proponibili dal privato, fissando solo il vincolo per l’amministrazione di presa in esame di esse e di esternazione delle ragioni del mancato accoglimento. Addossare all’amministrazione l’onere di individuare e proporre le soluzioni modificative dell’istanza ovvero quelle alternative significherebbe appesantire il ruolo dell’amministrazione con un evidente sbilanciamento tra le parti e il rischio di mortificare principi di buona amministrazione, come quelli di economia e non aggravio procedimentale. Pertanto, spetta al privato proporre soluzioni modificative per rendere accoglibile la domanda, come spetta al privato l’onere di confutare il prefigurato diniego dell’amministrazione, portando a sostegno della domanda ulteriori argomentazioni. Alla stessa stregua l’amministrazione deve esprimersi sulle proposte modificative avanzate dal privato alla stessa stregua della presa in esame delle ragioni addotte dallo stesso sin dalla presentazione della domanda. In entrambi i casi, vige il limite, mutuabile dall’art. 10, della pertinenza all’oggetto del procedimento, con i relativi corollari[21], ma nel caso delle proposte modificative/alternative questo limite assume ulteriore pregnanza. La modifica della domanda non può essere di consistenza tale da snaturare l’impianto originario dell’istanza, perché questo implicherebbe l’elusione delle garanzie che accompagnano il procedimento sin dal suo inizio e che coinvolgono anche altri soggetti (si pensi ai destinatari della comunicazione di avvio del procedimento, diversi dalle destinatario del procedimento, ovvero gli altri soggetti che possono esercitare i diritti di partecipazione), i quali sono esclusi dal contraddittorio ex art. 10-bis, ovvero imporrebbe un supplemento procedimentale incompatibile con gli ordinari tempi di conclusione del procedimento[22]. In siffatti casi, pertanto, si tratterebbe sostanzialmente di una nuova domanda, che dovrebbe innescare un nuovo procedimento[23].
Dalla prospettiva dell’amministrazione, è da ammettere comunque (come possibile e non doverosa) lo sforzo di individuare e porre all’attenzione del privato, attraverso la comunicazione ex art. 10-bis, modifiche e/o soluzioni alternative[24], nell’ottica della massima collaborazione tra le parti, combinata con il rispetto di altrettanti, fondamentali principi procedimentali.
L’impostazione che qui si discute, peraltro, non è nuova nel panorama normativo e lo schema del contraddittorio in chiave “costruttiva”, che importa la proposizione di soluzioni modificative al progetto iniziale per favorire la conclusione positiva del procedimento, è rinvenibile nella legge 241/1990 e soprattutto nella legislazione settoriale. In quest’ottica può leggersi l’evoluzione della disciplina della conferenza di servizi, protesa alla ricerca di correttivi (come il cd. dissenso costruttivo e gli effetti del dissenso qualificato) per garantire la funzionalità della conferenza e favorirne la positiva conclusione[25]. Il meccanismo caratterizza anche il nuovo art. 17-bis, relativo, come noto, ai rapporti tra pubbliche amministrazioni in tutti i casi in cui il procedimento è destinato a concludersi con una decisione pluristrutturata, con evidente applicazione del canone della leale collaborazione tra pubbliche amministrazioni[26].
Lo schema del contraddittorio “costruttivo” è presente, più convintamente, nella legislazione settoriale. Ne sono esempi il procedimento di rilascio del permesso di costruire (art. 20, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380) e quello per l’autorizzazione all’insediamento di attività produttive di cui all’art. 25 d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, incardinato presso lo sportello unico di cui all’art. 6 d.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447 (cd. procedimento unico)[27].
Nel primo caso l’organo competente, qualora ritenga che il titolo abilitativo non possa essere rilasciato, valuta l’eventualità che la domanda non accoglibile sia emendabile e, di conseguenza, esterna al richiedente le proposte modificative con le relative motivazioni. Il privato è chiamato a pronunciarsi sulle modifiche e, in caso di adesione, è tenuto a modificare il progetto e integrare la relativa documentazione (art. 20, comma 4, d.P.R. 380/2001). La norma, peraltro, pone delle condizioni all’attivazione e alla buona riuscita del contraddittorio: le modifiche devono essere «di modesta entità» al progetto originario e l’adeguamento deve avvenire entro un arco temporale prefissato (dal responsabile del procedimento per l’adesione e di quindici giorni per l’integrazione della documentazione). Soprattutto, la portata della norma è ridimensionata o, meglio, è condizionata dall’atteggiamento dell’amministrazione, dalla sua predisposizione verso il contraddittorio, in pratica dalla “buona volontà” del responsabile del procedimento, che ha la facoltà e non l’obbligo di valutare la modificabilità del progetto. L’iniziativa resta confinata al versante dell’amministrazione ed è del tutto eventuale. Una valorizzazione del principio di leale collaborazione induce a ritenere che il responsabile del procedimento prima di esternare le ragioni ostative all’accoglimento della domanda attraverso il provvedimento finale e, ancora prima, attraverso il preavviso di diniego, debba valutare la fattibilità di soluzioni modificative che rendano assentibile il progetto. Si tratta di operazione non particolarmente onerosa, perché andrebbe circoscritta alle modifiche di lieve entità. In altre parole, l’autorità non potrebbe rigettare la domanda per riscontrate difformità, che risultano modeste e facilmente superabili[28], e simmetricamente può porre a fondamento del diniego solo difformità insuperabili ovvero rimuovibili ma solo a condizione di modificare sostanzialmente il progetto[29].
La disciplina relativa all’insediamento di attività produttive è, come noto, improntata a un largo favor per l’iniziativa economica privata, che si traduce seguendo le tecniche della concentrazione e della semplificazione di tipo organizzativo (sportello unico, uso della telematica, ecc.) e funzionale (autocertificazione per la conformità alla normativa di settore, silenzio assenso, ecc.); in questo contesto si colloca anche la previsione di un contraddittorio stretto tra cittadino e amministrazione, evidentemente finalizzato al raggiungimento del risultato dell’intrapresa economica, ma anche strutturato in modo da garantire un assetto degli interessi approfondito e condiviso[30].
È prevista, infatti, l’audizione in contraddittorio quale momento di confronto tra l’amministrazione e il richiedente, attivabile quando emergono degli elementi problematici ritenuti dal legislatore superabili, come quelli attinenti alle caratteristiche tecniche dell’impianto ovvero alla localizzazione (art. 6, comma 4, d.P.R. 447/1998). L’indizione dell’audizione resta eventuale, peraltro la sua conclusione implica uno spettro ampio di soluzioni, compresa quella delle modifiche concordate al progetto originario, e il risultato può essere particolarmente avanzato, perché può tradursi nella definizione di un vero e proprio accordo amministrativo ai sensi dell’art. 11 legge 241/1990.
L’opzione dialogica trova ampia attuazione, perché è collocata in una fase avanzata del procedimento, successiva a quella dell’acquisizione del materiale istruttorio, e perché è congegnata in modo da potersi sviluppare secondo molteplici formule, compresa quella più semplice, di tipo orale, svincolata dalla forma cartacea. Non solo. Lo schema del contraddittorio non è ridotto a un’interazione di tipo bidirezionale tra richiedente e amministrazione, ma aspira ad allargarsi per ricomprendere tutti quei soggetti che possono subire un pregiudizio dalla realizzazione dell’impianto produttivo. Costoro («i soggetti, portatori di interessi pubblici o privati, individuali o collettivi nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dalla realizzazione del progetto dell'impianto produttivo», comma 13) possono intervenire nel procedimento non soltanto con la rituale presentazione di memorie e osservazioni, ma anche chiedendo di essere ascoltati in contraddittorio ovvero nell’ambito di apposita conferenza di servizi (art. 4, comma 4). In questo modo, l’interesse alla positiva conclusione del procedimento, che pare ispirare l’intera disciplina, non emerge in termini assoluti, perché deve confrontarsi con l’esigenza della pienezza del contraddittorio.
Nell’ordinamento vi sono casi in cui il meccanismo del contraddittorio di tipo “costruttivo” è collegato specificamente all’art. 10-bis legge 241/1990. L’intento di avvicinare ulteriormente le parti, attraverso un rapporto dialettico che favorisca la soluzione positiva del procedimento senza rinunciare alla massimizzazione della cura dell’interesse pubblico, ispira la disciplina del procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica semplificata (art. 146, comma 9, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42; d.P.R. 13 febbraio 2017, n. 31).
Qui la semplificazione è declinata in forme accentuate ma usuali – di tipo documentale, organizzativo, procedurale – cui si aggiungono inedite soluzioni di interazione tra le parti funzionali alla conclusione positiva del procedimento.
La prima soluzione si verifica nel caso in cui l’amministrazione procedente si avveda della non accoglibilità dell’istanza perché non conforme al regime paesaggistico dell’area. In questo frangente l’amministrazione deve procedere secondo lo schema dell’art. 10-bis legge 241/1990, con l’avvertenza che la comunicazione non può limitarsi a esternare i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, ma deve esplicare «le modifiche indispensabili affinchè sia formulata la proposta di accoglimento» (art. 11, comma 6, d.P.R. 31/2017). Il preavviso di diniego innesca, in questo modo, un intermezzo procedimentale che si snoda attraverso la presentazione da parte del privato di osservazioni e adeguamenti progettuali e l’ulteriore esame dell’amministrazione procedente, il cui esito sarà l’accoglimento della domanda ovvero il rigetto motivato «con particolare riguardo alla non accoglibilità delle osservazioni o alla persistente incompatibilità paesaggistica del progetto adeguato» (comma 6). Quest’ultima formula lascia intendere che il ricorrente non sia vincolato a recepire tout court le modifiche progettuali indicate dall’amministrazione, ma che può presentare delle altre su cui l’amministrazione si pronuncerà nuovamente. In altre parole, nel momento terminale del percorso decisionale l’amministrazione non dovrà limitarsi a verificare il recepimento pieno delle modifiche progettuali da essa prospettate, ma dovrà sforzarsi di valutare anche quelle differenti che, dal punto di vista del privato, assicurano l’adeguamento del progetto in chiave di compatibilità paesaggistica. Lo spirito che permea questa parentesi procedimentale sembra quello del contraddittorio aperto al massimo grado per la costruzione di una decisione satisfattiva delle ragioni di entrambe le parti[31].
Quasi a compensazione di questo supplemento istruttorio è previsto che, in caso di persistenza della valutazione negativa, l’amministrazione procedente chiuda il procedimento con l’adozione del provvedimento negativo, senza il passaggio dinanzi alla soprintendenza, invece obbligatorio nello schema ordinario. Soluzione che risponde, evidentemente, al principio di economicità dell’azione amministrativa[32] e che non viola quello di leale collaborazione istituzionale, posto che l’autorità competente assume una funzione di “filtro” rispetto alla soprintendenza, che è sgravata dall’esame di istanze già ritenute inaccoglibili[33].
Pur nel silenzio della norma, è da ritenere che l’elemento delle modifiche progettuali per rendere accoglibile la domanda possa essere omesso nel preavviso di diniego, ove l’amministrazione riscontri che l’incompatibilità paesaggistica del progetto sia insuperabile in modo assoluto, nel senso che neanche l’introduzione di modifiche di adeguamento riescono a superare la difformità del progetto alle prescrizioni d’uso ovvero ai valori paesaggistici qualificanti il bene considerato, con l’ovvia precisazione che l’amministrazione dovrà esternare questo profilo in modo adeguato nel preavviso di diniego, in luogo della prospettazione delle modifiche progettuali. Questa soluzione può essere mutuata dalla norma che l’ammette espressamente in sede di valutazione della soprintendenza, in ragione della identità di ratio e struttura delle due valutazioni.
In effetti, quando è superata positivamente la prima valutazione, quella dinanzi all’amministrazione procedente, la proposta di accoglimento della domanda è sottoposta all’esame della soprintendenza (comma 7). All’esito della valutazione le soluzioni sono diversificate. Se la valutazione è positiva, l’amministrazione procedente adotta il provvedimento finale conformandosi al parere (vincolante) della soprintendenza.
Se la valutazione è negativa, occorre distinguere: se i motivi sono insuperabili, nel senso che il progetto «risulti incompatibile con i valori paesaggistici che qualificano il contesto di riferimento ovvero contrasti con le prescrizioni d’uso eventualmente presenti» (comma 7), la soprintendenza dovrà effettuare la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda, nella quale fornirà «idonea ed adeguata motivazione» dell’impossibilità di rendere compatibile il progetto. Se i motivi ostativi sono superabili, nel senso che possono essere apportate modifiche al progetto per renderlo compatibile dal punto di vista paesaggistico, nel preavviso di diniego dovranno essere indicate «le modifiche indispensabili per la valutazione positiva del progetto» (comma 7).
In entrambi i casi si apre un momento di contraddittorio in cui il privato può presentare osservazioni e, ove possibile, «il progetto adeguato». La soprintendenza, nel caso in cui ritenga di non poter mutare il proprio convincimento, adotterà direttamente il provvedimento di diniego in luogo dell’autorità procedente. Anche sulla soprintendenza incombe un onere motivazionale rinforzato: il provvedimento di diniego deve essere accompagnato da «specifica motivazione, con particolare riguardo alla non accoglibilità delle osservazioni o alla persistente incompatibilità del progetto adeguato con la tutela dei beni vincolati» (comma 7).
Una lettura congiunta dell’art. 1, comma 2-bis, e dell’art. 10-bis della legge 241/1990 sembra avvalorare e veicolare la linea direttrice che affiora da questi riferimenti normativi, sparsi e settoriali: quella di un “dialogo procedimentale” pieno ed effettivo, serio e leale, dialettico e propositivo, tra pubblica amministrazione e privati quale metodo irrinunciabile nella costruzione della decisione amministrativa.
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[1] In giurisprudenza già Cons. Stato, sez. II, 20 febbraio 2020, n. 1306, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, sez. IV, 27 marzo 2019, n. 2026, in www.giustizia-amministrativa.it; Consiglio di Stato, sez. V, 25 luglio 2018, n. 4523, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Sardegna, Cagliari, sez. II, 2 luglio 2020, n. 367, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Toscana, Firenze, sez. III, 21 aprile 2020, n. 464, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Campania, Napoli, sez. III, 2 marzo 2020, n. 947, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Puglia, Lecce, sez. III, 27 dicembre 2018, n. 1934, in www.giustizia-amministrativa.it.
[2] Si tratta di principio uniforme in giurisprudenza, la quale precisa che «anche se non deve sussistere un rapporto di identità, tra il preavviso di rigetto e la determinazione conclusiva del procedimento, né una corrispondenza puntuale e di dettaglio tra il contenuto dei due atti, ben potendo la p.a. ritenere, nel provvedimento finale, di dover meglio precisare le proprie posizioni giuridiche, occorre però che il contenuto sostanziale del provvedimento conclusivo di diniego si inscriva nello schema delineato dalla comunicazione ex art. 10 bis l. n. 241 del 1990, esclusa ogni possibilità di fondare il diniego definitivo su ragioni del tutto nuove, non enucleabili dalla motivazione dell’atto endoprocedimentale» (Tar Liguria, Genova, sez. I, 25 febbraio 2015, n. 232, in Foro amm., 2015, p. 580; similmente, Consiglio di Stato, sez. III, 29 luglio 2014, n. 4021, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Campania, Napoli, sez. VI, 9 marzo 2020, n. 1041, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Veneto, Venezia, sez. III, 21 gennaio 2019, n. 72, in www.giustizia-amministrativa.it ; Tar Friuli-Venezia Giulia, Trieste, sez. I, 12 dicembre 2017, n. 371- 29/07/2014, n. 4021, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Calabria, Catanzaro, sez. II, 12 gennaio 2016, n. 49, in Foro amm., 2016, p. 185).
[3] Il punto non è pacifico in giurisprudenza: nel senso dell’applicabilità dell’art. 21-octies, comma 2, secondo periodo, della legge 241/1990, in virtù della riconosciuta identità sostanziale di funzioni sottese alle due comunicazioni, v., ad esempio, Tar Campania, Napoli, sez. I, 1 marzo 2017, n. 1185, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Campania, Napoli, sez. VIII, 7 febbraio 2014, n. 883, in Foro amm., 2014, p. 678; Tar Campania, Napoli, sez. III, 30 aprile 2009, n. 2246, in Foro amm., 2009, p. 1170; Tar Basilicata, Potenza, sez. I, 27 novembre 2008, n. 901, in Foro amm., 2008, p. 3137; Tar Campania, Salerno, sez. I, 11 febbraio 2008, n. 183, in Foro amm., 2008, p. 576; Tar Lazio, Roma, sez. I, 8 gennaio 2008, n. 73, in Foro amm., 2008, p. 110. Nel senso, cui aderisce la sentenza in commento, della diversità ontologica con impossibilità di sostenere un parallelismo tra i due istituti e connessa non riconducibilità dell’art. 10-bisnell’ambito applicativo dell’art. 21-octies, secondo comma, secondo periodo, della legge 241/1990, v., ad esempio, Cons. Stato, sez. VI, 6 agosto 2013, n. 4111, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Sicilia, Catania, sez. II, 20 gennaio 2017, n. 121, in Foro amm., 2017, p. 246; Tar Veneto, Venezia, sez. III, 31 marzo 2014, n. 35, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Toscana, Firenze, sez. III, 3 maggio 20143, n. 715, in Foro amm., 2013, p. 1519; Tar Liguria, Genova, sez. I, 27 dicembre 2011, n. 1922, in Foro amm., 2011, p. 3889; Tar Puglia, Bari, sez. II, 14 gennaio 2010, n. 53, in Foro amm., 2010, p. 264; Tar Campania, Napoli, sez. IV, 28 dicembre 2009, n. 9603, in Foro amm., 2009, p. 3553. Peraltro, in giurisprudenza è ricorrente l’affermazione secondo cui «l’istituto del c.d. preavviso di rigetto, di cui all’art. 10-bis, l. 7 agosto 1990, n. 241 ha lo scopo di far conoscere all’amministrazione procedente le ragioni fattuali e giuridiche dell’interessato che potrebbero contribuire a far assumere una diversa determinazione finale, derivante dalla ponderazione di tutti gli interessi in gioco; tuttavia, tale scopo viene meno ed è di per sé inidoneo a giustificare l’annullamento del provvedimento nei casi in cui il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, sia in quanto vincolato, sia in quanto, sebbene discrezionale, sia raggiunta la prova della sua concreta e sostanziale non modificabilità» (Cons. Stato, sez. II, 12 febbraio 2020, n. 1081, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, sez. II, 17 giugno 2019, n. 4089, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, sez. II, 30 maggio 2019, n. 3611, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, sez. II, 19 febbraio 2019, n. 1156, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, sez. IV, 11 gennaio 2019, n. 256, in Foro amm., 2019, p. 62; Tar Campania, Napoli, sez. VIII, 3 ottobre 2019, n. 4726, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Campania, Napoli, sez. III, 1 dicembre 2016, n. 5555, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Lazio, Roma, sez. III. 24 novembre 2015, n. 13258, in Foro amm., 2015, p. 2886), massima da cui si ricava l’accostamento, incidenter tantum, del caso di violazione dell’art. 10-bis sia alla prima ipotesi di sanatoria processuale di cui all’art. 21-octies, secondo comma, che attiene ai provvedimenti vincolati, sia alla seconda fattispecie, relativa ai provvedimenti discrezionali. La questione è stata affrontata dal legislatore, con il recente decreto semplificazioni, su cui si dirà al par. 3.
[4] La dottrina che si è occupata dell’istituto è notevole: v., oltre agli Autori citati nelle note successive, P. Chirulli, La partecipazione al procedimento (artt. 7, 8, 10-bis l. n. 241 del 1990 s.m.i.), in M.A. Sandulli (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, 2020, pp. 291 ss.; F. Trimarchi Banfi, L’istruttoria procedimentale dopo l’articolo 10-bis della legge sul procedimento amministrativo, in Dir. amm., 2011, pp. 353 ss.; S. Fantini. Il preavviso di rigetto come garanzia "essenziale" del cittadino e come norma sul procedimento, in Urb. app., 2007, 11, pp. 1388 ss.; C. Videtta, Note a margine del nuovo art. 10 bis della l. n. 241 del 1990, in Foro amm. Tar, 2006, pp. 837 ss.; E. Frediani, Partecipazione procedimentale, contraddittorio e comunicazione: dal deposito di memorie scritte e documenti al preavviso di rigetto, in Dir. amm., 2005, pp. 1005 ss.; S. Tarullo, L’art. 10 bis della legge n. 241/90: il preavviso di rigetto tra garanzia partecipativa e collaborazione istruttoria, in Giustamm, 2005, pp. 1 ss.
[5] In ordine al contenuto della motivazione rileva anche la preclusione di fondare il preavviso di diniego su «inadempienze o ritardi attribuibili all’amministrazione», previsione introdotta dall’art. 9, comma 3, della legge 1 novembre 2011, n. 180, e che la giurisprudenza, soffermandosi sul termine «attribuibile» in luogo di altri come «imputabile», ha letto nel senso che «il legislatore non ha voluto dare alcun rilievo allo stato soggettivo: anche un ritardo incolpevole ma oggettivamente riferibile all’amministrazione sarà dunque rilevante (mentre la colpa continuerà ovviamente a rilevare a fini risarcitori)»: così Tar Lombardia, Milano, sez. II, 14 novembre 2013, n. 2520, in Foro amm. Tar, 2013, 3296.
[6] V. nota 2.
[7] Cons. Stato, sez. VI, 25 febbraio 2019, n. 1321, in Dir. proc. amm., 2019, p. 1171; Cass. civ., sez. un., 7 settembre 2020, n. 18592, in Giustamm, n. 9, 2020; Tar Lazio, Roma, sez. II-bis, 30 giugno 2020, n. 7254, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Lazio, Roma, sez. II-bis, 30 luglio 2020, n. 8888, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Lazio, Roma, sez. II-bis, 3 agosto 2020, n. 8956, in www.giustizia-amministrativa.it. Il tema è sempre più consapevolmente affrontato dalla giurisprudenza: si veda, ad esempio, l’affermazione di Cons. Stato, Adunanza plenaria, 9 giugno 2016, n. 11, in Foro amm., 2016, p. 1470, in tema di giudicato amministrativo a formazione progressiva, secondo cui «»l’esecuzione del giudicato amministrativo (sebbene quest’ultimo abbia un contenuto poliforme), non può essere il luogo per tornare a mettere ripetutamente in discussione la situazione oggetto del ricorso introduttivo di primo grado, su cui il giudicato ha, per definizione, conclusivamente deciso; se così fosse, il processo, considerato nella sua sostanziale globalità, rischierebbe di non avere mai termine, e questa conclusione sarebbe in radicale contrasto con il diritto alla ragionevole durata del giudizio, all’effettività della tutela giurisdizionale, alla stabilità e certezza dei rapporti giuridici (valori tutelati a livello costituzionale e dalle fonti sovranazionali alle quali il nostro Paese è vincolato); da qui l’obbligo di esecuzione secondo buona fede e senza che sia frustrata la legittima aspettativa del privato alla stabile definizione del contesto procedimentale».
[8] V. nota precedente.
[9] «Ciò allo scopo di evitare che la realizzazione dell’interesse sostanziale possa essere frustrato dalla reiterazione di provvedimenti, basati sempre su inediti supporti motivazionali»: ad esempio, Cons. Stato, IV, 54 marzo 2011, n. 1415, in Foro amm. CdS, 2011, p. 846; Cons. St. sez. III, 14 febbraio 2017, n. 660, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, sez. V, 13 settembre 2018, n. 5371, in Foro amm., 2018, p. 1464.
[10] M. Clarich, Giudicato e potere amministrativo, Padova, 1989, pp. 115 ss., richiamato, con specifico riferimento al preavviso di diniego, da D. Vaiano, Preavviso di rigetto e principio del contraddittorio nel procedimento amministrativo, in Scritti in onore di Leopoldo Mazzarolli, Padova, 2007, IV, pp. 447 ss.; Id., Il preavviso di rigetto, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, 2017, pp. 643 ss.; F. Saitta, La partecipazione al procedimento amministrativo, in AA.VV., Istituzioni di diritto amministrativo, Torino, 2017, p. 190; G. Milo, Il preavviso di diniego dopo la legge 11 settembre 2020, n. 120, in AmbienteDiritto, 2020, n. 4, p. 1152.
[11] G. Milo, Il preavviso di diniego, cit., p. 1151.
[12] In questo senso, con specifico riferimento all’art. 10-bis, v., ad esempio, Cons. Stato, 6 novembre 2007, n. 5729, in Foro amm. CdS, 2007, p. 3097; Tar Umbria, Perugia, sez. I, 5 maggio 2014, n. 241, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Lombardia, Brescia, sez. I, 15 gennaio 2018, n. 5, in Com. It., 2008, p. 69; Tar Veneto, Venezia, 7 settembre 2005, n. 3430, in www.giustizia-amministrativa.it.
[13] F. Merusi, Diritti fondamentali e amministrazione (o della «demarchia» secondo Feliciano Benvenuti), in Dir. amm., 2006, 543 ss., il quale vi ravvisa un esercizio attivo di diritti di libertà (p. 550).
[14] Ivi, p. 550.
[15] L’espressione è utilizzata da R. Ferrara, La legge sul procedimento amministrativo alla prova dei fatti: alcuni punti fermi...e molte questioni aperte, in Dir. e proc. amm., 2011, p. 65, per avanzare dubbi sulla consistenza del dato normativo relativo alla partecipazione e sul dato della scarsità di riforme che lo ha interessato a fronte di modifiche più sostanziose di altri istituti.
[16] Sulla logica, sottesa all’art. 10-bis, dell’accettazione che fa da pendant con quella del contraddittorio in contestazione v. M. Protto, Il rapporto amministrativo, Milano, 2008, p. 188. In termini generali, sul criterio dell’accettabilità giuridica della scelta amministrativa v. le osservazioni di F. Manganaro, Principio di legalità e semplificazione dell’attività amministrativa. I. Profili critici e principi ricostruttivi, Napoli, 2000, pp. 119 ss.
[17] S. Tarullo, Il principio di collaborazione procedimentale. Solidarietà e correttezza nella dinamica del potere amministrativo, Torino, 2008.
[18] P. Lazzara, Art. 10 bis, in A. Romano (a cura di), L’azione amministrativa, Torino, 2016, p. 384, che pure solleva l’esigenza di accogliere questa prospettiva con cautela, in ragione dei risvolti che il mutamento dell’oggetto implica rispetto alle garanzie procedimentali, anzitutto quella dell’art. 7 legge 241/1990.
[19] V. Cerulli Irelli, Lineamenti di diritto amministrativo, Torino, 2017, p. 330; Id., Verso un più compiuto assetto della disciplina dell’azione amministrativa. Un primo commento alla legge 11 febbraio 2005, n. 15, recante “Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241”, in ASTRID Rassegna, 2005, p. 11; M. Ramajoli – R. Villata, Procedimento. Art 10 bis l. n. 241/1990, in Libro dell'anno del Diritto 2012 – Treccani, Roma, 2012, p. 2; D. Vaiano, Commento dell’art. 10-bis, cit., p. 641; A Carbone, Il contraddittorio procedimentale. Ordinamento nazionale e diritto europeo convenzionale, Torino, 2016, p. 269.
[20] Tar Campania, Salerno, sez. I, 9 marzo 2016, n. 589, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Sicilia, Palermo, sez. II, 23 luglio 2014, n. 2003, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Calabria, Catanzaro, sez. I, 16 dicembre 2013, n. 1129, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Lazio, Roma, sez. II-bis, 8 ottobre 2013, n. 8682, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Campania, Napoli, sez. VII, 9 dicembre 2013, n. 5640, in Foro amm. Tar, 2013, p. 3831; Tar Campania, Salerno, 5 agosto 2013, n., 1740, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Sicilia, Catania, sez. I, 27 giugno 2013, n. 1855, in Foro amm. Tar, 2013, p. 2146; Tar Veneto, Venezia, sez. I, 8 luglio 2011, n. 1162, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Lazio, Latina, sez. I, 18 marzo 2010, n. 322, in Foro amm Tar, 2010, p. 953.
[21] Per esempio, la mera “disponibilità” ad apportare modifiche sostanziali al progetto è stata considerata irrilevante, perché generica, rispetto all’art. 10-bis: Tar Campania, Napoli, sez. IV, 6 giugno 2017, n. 2952, in www.giustizia-amministrativa.it.
[22] Tar Campania, Napoli, sez. IV, 6 giugno 2017, n. 2952, cit.
[23] Tar Toscana, Firenze, sez. II, 12 maggio 2017, n. 684, in www.giustizia-amministrativa.it.
[24] Tar Puglia, Bari, sez. III, 25 novembre 2011, n. 1807, in Foro amm. Tar, 2011, p. 3636.
[25] Per entrambe le tipologie di conferenza di servizi – quella semplificata e quella simultanea – l’amministrazione dissenziente è tenuta ad accompagnare il dissenso con la specificazione delle modifiche necessarie ai fini dell’assenso (art. 14-bis, comma 3; art. 14-ter, comma 3), previa valutazione della fattibilità delle stesse («ove possibile», art. 14-bis, comma 3). La norma si preoccupa anche del profilo dei rapporti tra proposta di modifica e progetto iniziale. Infatti, in sede di conferenza simultanea, l’amministrazione procedente, se valuta che le condizioni e prescrizioni avanzate a corredo del dissenso non comportano «modifiche sostanziali» alla decisione oggetto della conferenza e le ritiene accoglibili, previa consultazione con i privati e con le altre amministrazioni interessate, adotta la determinazione motivata di conclusione positiva della conferenza (art. 14-bis, comma 5). In caso contrario è da ritenere che la questione debba rimettersi alla conferenza in modalità sincrona, per una nuova valutazione collegiale (art. 14-bis, comma 6). Il meccanismo è utilizzato anche per la disciplina del dissenso qualificato. In caso di opposizione avanzata da amministrazione preposta alla cura di interesse sensibile, prima della formale devoluzione della questione al consiglio dei ministri, è prevista, per iniziativa della presidenza del consiglio dei ministri, l’indizione di una riunione alla quale parteciperanno l’amministrazione procedente, quella dissenziente e le altre presenti alla conferenza e l’obiettivo di questa riunione è «l’individuazione di una soluzione condivisa» (art. 14-quinquies, comma 4), segno dell’apertura a un metodo amministrativo orientato alla ricerca di soluzioni appaganti i diversi punti di vista, anche quando questa ricerca imponga un supplemento di attività e uno sforzo reciproco, che implichi pure la rinuncia parziale alle proprie pretese o ragioni. Per questo la devoluzione all’organo politico per eccellenza, il consiglio dei ministri, è configurata come l’extrema ratio e, peraltro, anche in questa sede l’organo non è chiamato a una valutazione risolutiva netta, incentrata sulla mera alternativa di accoglimento o meno dell’opposizione, perché sono possibili soluzioni intermedie, come l’accoglimento parziale dell’opposizione con modifica diretta del contenuto della determinazione di conclusione della conferenza (art. 14-quinquies, comma 6). Si tratta di un modo di procedere che altro non è che un’applicazione del principio di leale collaborazione tra amministrazioni, espressamente richiamato dalla norma (art. 14-quinquies, comma 4).
[26] Infatti, l’amministrazione alla quale è stato chiesto l’assenso può rappresentare esigenze istruttorie ovvero «richieste di modifica», con l'avvertenza che queste devono essere «motivate e formulate in modo puntuale» e nel termine originario (comma 1). La revisione dello schema di provvedimento da parte dell’amministrazione procedente innesca un nuovo momento di confronto con l’altra amministrazione e, nel caso in cui questa non rilascia l’assenso, la questione è devoluta al Presidente del Consiglio dei ministri, il quale «previa deliberazione del Consiglio dei ministri, decide sulle modifiche da apportare allo schema di provvedimento» (comma 2).
[27] Ulteriori forme avanzate di contraddittorio tra p.a. e privati, non solo nelle modalità (interpelli, audizioni, ecc.), ma pure negli esiti possibili, comprensivi di soluzioni concordate, anche modificative o alternative alle istanze o proposte iniziali, sono rinvenibili in molteplici procedimenti dell’amministrazione finanziaria ovvero in quelli di competenza di autorità indipendenti, nonché nel settore ambientale (si pensi al procedimento di valutazione di impatto ambientale) e nella disciplina delle grandi opere infrastrutturali.
[28] Tar Lazio, Latina, sez. I, 4 febbraio 2008, n. 86, in www.giustizia-amministrativa.it.
[29] Nel senso di «obbligo» dell’amministrazione, che comunque sussiste solo qualora le modifiche non siano tali da comportare «un ampio “ripensamento” del progetto e, in sostanza, nella presentazione di un progetto qualitativamente diverso» v. Tar Lazio, Latina, sez. I, 4 marzo 2009, n. 168, in www.giustizia-amministrativa.it. Riconduce al difetto di istruttoria la mancata verifica della proponibilità di modifiche di modesta entità al progetto originario Tar Campania, Napoli, sez. VIII, 21 gennaio 2015, n. 376, in www.giustizia-amministrativa.it.
[30] Sottolinea che le due parti in causa – impresa e amministrazione – non si pongono in termini di antagonismo, ma di comune obiettivo dello sviluppo del territorio di riferimento e che in questa peculiare configurazione del rapporto tra le parti può scorgersi un’utile chiave di lettura dell’intera disciplina, G. De Giorgi Cezzi, Il procedimento semplificato mediante autocertificazione per la realizzazione di impianti produttivi nel regolamento sullo sportello unico, in E. Sticchi Damiani – G. De Giorgi Cezzi – P.L. Portaluri – F.F. Tuccari, Localizzazione di insediamenti produttivi e semplificazione amministrativa. Lo sportello unico per le imprese, Milano, 1999, pp. 17-18. Evidenzia il profilo della collaborazione tra pubblico e privato quale elemento centrale e tratto distintivo della nuova disciplina, anche in ragione delle traduzioni originali in essa contenute, G. Gardini, Un nuovo modello di azione pubblica: il procedimento di autorizzazione all'insediamento di attività produttive in base al d.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447, in Dir. amm., 1998, p. 572. Sulle novità in termini di «partecipazione qualitativa» v. I.M. Impastato, La conferenza di servizi «aperta» nel D.P.R. n. 447 del 1998 ovvero della «semplificazione partecipata», in Dir. amm., 2001, pp. 481 ss.
[31] Sottolinea l’importanza riservata dalla norma al cd. dissenso costruttivo P. Marzaro, Autorizzazione paesaggistica semplificata e procedimenti connessi, in Riv. giur. urb., 2017, p. 229.
[32] S. Amorosino, Il nuovo regolamento di liberalizzazione e semplificazione delle autorizzazioni paesaggistiche (d.P.R. n. 31 del 2017), in Riv. giur. urb., 2017, p. 186.
[33] Cons. Stato, sez. atti norm., 1° settembre 2016, n. 1404, in Foro amm., 2016, p. 2140.
Michele Taruffo, Verso la decisione giusta, Torino, Giappichelli, 2020, 447
di Bruno Capponi
L’ultima opera di Michele Taruffo, scomparso lo scorso dicembre, è una raccolta di saggi, taluni molto brevi, che l’a. ha evidentemente immaginato come un percorso “culturale” verso la ricerca della decisione “giusta” (già la scelta dell’aggettivo è sintomatica del contesto in cui l’opera va collocata). Manca una introduzione che illustri al lettore le ragioni della silloge, mancano i riferimenti della eventualmente già avvenuta pubblicazione dei saggi in qualche rivista, italiana o straniera (l’impressione che se trae è che, a fronte di scritti già noti, altri sono il frutto inedito dell’allineamento lungo quel percorso che lo Studioso aveva deciso di intraprendere, o di far intraprendere al lettore, quasi a conclusione della sua parabola). Assenti anche le notizie sull’autore che pubblicazioni di questo tipo, riassuntive di un lungo cammino di riflessioni e di studi, in genere presentano (anche quando gli autori sono ben noti, com’è certamente il caso di Michele Taruffo). Come avviene per gli scritti dei giuristi maturi, il corredo di note è sempre ridotto all’essenziale, ovvero manca del tutto.
Il lettore si trova così di fronte a una raccolta piuttosto estesa (quasi 450 pagg.) che presenta 32 saggi divisi in quattro parti: Aspetti della giustizia civile (6), che segna l’inizio del cammino e che rimanda a temi generali come l’accesso alla giustizia, la giurisdizione come attività di “creazione” del diritto, il multiculturalismo processuale; Sulla verità (6), tema caro all’a. e anche indagato in forma monografica (La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Laterza, Bari, 2009); Sulla prova (13), parte che riflette i forse più consistenti interessi scientifici di Taruffo, o almeno quelli per i quali lo Studioso è maggiormente noto anche all’estero, e che infatti raccoglie il maggior numero di saggi; Sulla decisione (7), argomento la cui analisi l’a. non ha mai più abbandonato dopo la pubblicazione della sua prima monografia (1975) su La motivazione della sentenza civile e che, ovviamente, è strettamente connesso col tema del giudizio di fatto che lo aveva portato a indagare in modo inedito e di fatto insuperato, già nei primi anni Settanta, il tema scivoloso delle prove atipiche.
Il tratto caratteristico di tutti i saggi – perché questo era il tratto dell’a. – è la linearità e, diremmo, l’ineluttabilità degli argomenti grazie ai quali vengono contestate, e spesso ribaltate, quelle opinioni comuni che il neofita tenderebbe ad accettare come fossero declinazioni della legge. Taruffo dubita di tutto, e dimostra con abilità che qualsiasi argomentazione del giurista è reversibile, qualsiasi opinione per quanto consolidata può essere ridiscussa sin dalle premesse, qualsiasi conclusione può rivelarsi fallace quando assoggettata a verifica serrata con autonomia e indipendenza di giudizio. Ciò non soltanto allorché oggetto dell’esame sia un tema sfuggente e “filosofico” come quello della “verità” (gustose le tre divagazioni ispirate dalla lettura del saggio di U. Eco, Sulle spalle dei giganti, La Nave di Teseo, Milano, 2017), ma anche quando viene presa di petto l’interpretazione, comunemente accettata da intere generazioni di processualisti, di una norma centrale dell’istruzione probatoria qual è l’art. 115 c.p.c.; dopo gli studi di Carnacini, Cappelletti e Liebman e dopo i tentativi, un po’ meno riusciti, di studiosi successivi che avevano provato a ravvisare nella norma una garanzia del diritto alla prova (mi riferisco a E.F. Ricci), poteva darsi per scontato che il brocardo sui probata partium fosse giustificato a garanzia dell’imparzialità anche psicologica del giudice, che non può porsi alla ricerca della prova, che è quanto dire indagare sul fatto, senza rischiare di perdere, anche inconsapevolmente, la sua posizione di terzietà rispetto alle parti in contesa. Taruffo, in un saggio breve (neppure venti pagine) ma densissimo, giunge a dimostrare non soltanto che il brocardo, generalmente tramandato come «aforisma dell’antica sapienza», è frutto di una manipolazione letterale relativamente recente – con l’aggiunta di partium – che sembra aver ingannato lo stesso Calamandrei, ma soprattutto che la tesi di Liebman, che per molto tempo è parsa la sintesi vincente di tutti i precedenti studi, risulta essere del tutto ingiustificata proprio alla luce della Relazione al Re (§ 14), che lascia l’asserto – «la mancanza di autonomi poteri istruttori del giudice è condizione necessaria per assicurare la sua imparzialità e neutralità di giudizio» – privo di qualsiasi conferma empirica. La conclusione attinta – «nel momento presente non si può far altro che constatare che nel nostro ordinamento [il principio dispositivo in materia di prove] non trova adeguata giustificazione né come principio tecnico né come principio categorico, oltre a non essere chiaramente enunciato nel tenore letterale di alcuna norma» (pag. 344) – suona, oltre che come conclusione critica di un saggio che abbatte una sorta di idolum, come un programma di ricerca per il futuro studioso che voglia indagare – mutuando le parole di Liebman – il vero Fondamento del principio dispositivo.
Ne emerge la figura di uno studioso rigoroso, privo di preconcetti, disposto a qualsiasi indagine anche (o forse soprattutto) fuori del diritto e dei confini nazionali alla perenne ricerca dei principi fondamentali presenti e ricorrenti in ordinamenti anche tra loro lontani, che vengono vagliati senza preconcetti e soprattutto senza la pretesa di ricavarne ricette e pratiche soluzioni da esportare sic et simpliciter nel nostro sistema, eternamente in crisi e così alla continua ricerca di “soluzioni”; con una chiara tendenza a sorridere di talune opinioni, quando riconosciute prive di qualsiasi fondamento scientifico (ciò che avviene sovente). Di certo, al nostro a. non difetta una buona dose di umorismo: qualità che si affaccia prepotente, ad esempio, quando afferma, a proposito dell’assonanza tra “disponibilità” del diritto e “principio dispositivo”, che «l’art. 12 delle Preleggi invita l’interprete a tener conto del “significato proprio” delle parole usate dal legislatore, non del loro suono» (pag. 328); o quando accenna ai terrapiattisti come portatori «di una certezza che a quanto pare continua ad essere largamente condivisa» (pag. 373); o quando, parlando della motivazione giustificativa, conclude che «tutto sommato, la dimostrazione del teorema di Pitagora non ha nulla di retorico ma il teorema vale perché è logicamente giustificato» (pag. 395); o ancora quando ci informa che l’espressione italiana equivalente di bullshit – “stronzata” – «non è elegante … anche se allude efficacemente al fenomeno» (pag. 131, in nota).
Ogni recensione non è neutra, riflettendo i gusti e le preferenze del redattore. Dico questo per giustificare che, dell’intero e vario materiale raccolto nella ricca e ariosa pubblicazione, a me sembra di dover prediligere gli aspetti che rimandano ai due grandi “fari” del lungo impegno di studio dell’a.: la motivazione della sentenza anche in funzione del suo controllo e – tema strettamente connesso – la Corte di cassazione vertice delle giurisdizioni (la sua definizione “vertice ambiguo” è ormai entrata nell’uso comune: cfr. Il vertice ambiguo. Saggi sulla Cassazione civile, Il Mulino, Bologna, 1991). Nella quarta parte dell’opera, Taruffo torna sul modello del vertice tra common e civil law, definendolo stavolta “astratto” e ciò «nella misura in cui la decisione della singola corte – che pure riguarda sempre questioni di diritto – prende o non prende in considerazione i fatti che hanno determinato la controversia nel caso concreto» (pag. 421); prosegue comparando il precedente con efficacia persuasiva, proprio del nostro sistema, con le pronunce di altre Corti supreme recanti “direttive interpretative” (in uso in Russia come a Cuba) che hanno carattere vincolante per tutti i giudici, le amministrazioni, i soggetti pubblici e privati e dunque risultano frutto di un’attività «sostanzialmente analoga a quella di produzione di norme, anche perché non deriva dalla decisione di casi concreti».
Secondo Taruffo, il modello italiano produce un elevato grado di astrattezza specie nella formulazione delle massime, rivolte dal passato (il caso deciso) al futuro ma con l’utilizzo di espressioni sintetiche e stereotipate che non sempre enunciano la vera ratio decidendi della questione di diritto affrontata; sottolinea l’a. che «il punto essenziale è che comunque il precedente di civil law viene concepito come una regola, formulata in termini generali e astratti, e non come l’applicazione di una norma a una fattispecie concreta» (pag. 424); una mitigazione di questa “astrattezza” può venire dal fatto che il nostro precedente è tutt’altro che uno stare decisis, non esistendo da noi – ovvero esistendo in modo assai flebile, soprattutto nell’interpretazione giurisprudenziale, tra sezione semplice e sezioni unite – un vincolo che deriva dal precedente, vincolo che del resto, ove ritenuto sussistente, si mostrerebbe in conflitto con la norma costituzionale – davvero abusata nelle sue applicazioni – che vuole qualsiasi giudice soggetto soltanto alla legge.
Eppure, proprio nel nostro sistema – nel quale peraltro la Corte di cassazione svolge una pluralità di funzioni anche tra loro in conflitto: vedi il caso della cassazione c.d. sostitutiva – sta sempre più prendendo piede la decisione di ricorsi “nell’interesse della legge”, in casi, cioè, in cui non c’è o non c’è più una controversia da risolvere (ciò che quasi spregiativamente viene indicato come jus litigatoris) e resta un principio, ossia una regola rivolta al futuro, da affermare (lo jus constitutionis). Si tratta, a mio avviso, di una chiara anomalia del nostro sistema, sebbene non da tutti percepita, che rischia di alterare la funzione della Corte: la quale, sebbene suprema, è pur sempre un giudice, che deve giudicare un caso concreto e proprio giudicando quel caso concreto può affermare una regola astratta (o suscettibile di essere astrattizzata); non anche, da giudice, affermare una regola in pura “astrattezza” per i soli casi futuri, prendendo magari spunto da un caso che, quanto alla sua concreta risoluzione, più non interessa. Nel contesto attuale, citare le parole di Calamandrei che parlano di coordinazione tra funzione legislativa e funzione giudiziaria rischia di essere fuorviante. L’evoluzione in atto della nostra Corte suprema mostra che forse, ora come ora, non risponde del tutto al vero l’idea che essa «rimane vincolata a decidere nel merito, in un modo o nell’altro, tutte le specifiche questioni di diritto su cui vertono tutti i ricorsi che ad essa vengono proposti» (pag. 428), anche perché la selezione dei ricorsi, che la Corte non riesce a realizzare con lo strumento a ciò deputato (art. 360 bis c.p.c., norma di incertissima interpretazione e, perciò, di occasionale applicazione) viene poi eseguita in modo piuttosto indiscriminato – nonostante il self-restraint che a volte è dato cogliere all’interno della stessa Corte – con gli strumenti dell’autosufficienza del ricorso e della specificità del motivo, grazie ai quali l’organo di legittimità riesce spessissimo ad affrancarsi dalla decisione del “merito” dei ricorsi. Ma, fatta in questo modo, la selezione ha un intollerabile tasso di casualità, e risulta addirittura odiosa allorché sanziona la più o meno esercitata perizia del difensore tecnico nel redigere il ricorso che la Corte si dichiarerà poi in condizioni di poter scrutinare.
Un discorso molto chiaro l’a. dedica al tema della motivazione e del suo controllo, e in particolare al controllo che avviene, o dovrebbe avvenire, in sede di legittimità (pag. 409 ss.). Con una lucida analisi, e resistendo al mantra del “nulla è cambiato” col quale molta dottrina ha tentato di esorcizzare l’improvvisata riforma del 2012, Taruffo prende atto che il nostro sistema sta affrontando una vera e propria crisi della motivazione: che nasce da interventi normativi, realizzati e tentati (chi non ricorda quelli del ministro Orlando, con gli avvocati chiamati a motivare i verdetti dei giudici?), da discorsi ambigui su diritto ed economia e anche da orientamenti giurisprudenziali (non esclusi quelli della stessa Cassazione – specie la sezioni unite del 2015 sulla mancata copertura offerta dalla legge sul diritto d’autore quanto alle attività processuali, ciò che legittimerebbe la riproduzione in sentenza di qualsiasi atto di parte o degli ausiliari). Una crisi che viene da lontano, come ben testimoniano, nella IX Legislatura, le pagine della Risoluzione del CSM sul d.d.l. Vassalli recante Provvedimenti urgenti per il processo civile, redatta da G. Borrè, specie nei passaggi sul “collo di bottiglia” delle decisioni e sulla conseguente necessità di “sdrammatizzare” il problema della stesura delle motivazioni.
Quando Taruffo parla del “minimo costituzionale” delle sentenze gemelle del 2014 (che ribattezza come “massimo” costituzionale, perché la norma del comma 6 dell’art. 111 Cost. non può essere intesa se non in termini di effettiva motivazione: pag. 412), avverte chiaramente il carattere posticcio e autoreferenziale delle massime ripetute, anche a fronte della garanzia imposta da quel comma 6; gli sembra infatti impossibile che il controllo – pur “evoluto” dalla logicità alla legittimità – non debba ricomprendere la “sufficienza” e la “contraddittorietà”, salvo che quest’ultima non si presenti nella ennesima forma patologica della «manifesta e irriducibile contraddittorietà» (qui la massima consolidata, dice Taruffo, è «in poche righe intrinsecamente contraddittoria o, nel migliore dei casi, irrimediabilmente vaga» perché la corte non affronta mai il problema di stabilire «quando una contraddizione non è né “manifesta” né irriducibile” e quindi potrebbe essere considerata irrilevante»: pagg. 413-414). L’a. sottolinea che il recupero della formula originaria del n. 5) dell’art. 360, realizzato nel 2012, non ha avuto l’obiettivo di selezionare un vizio nuovo, fino ad allora inedito, sulla ricostruzione del fatto (come la giurisprudenza della corte, a partire dalle sentenze gemelle, ha ripetuto allo scopo di regolare i confini col vecchio motivo), bensì ha perseguito il risultato di escludere del tutto il controllo sulla motivazione, che poi la corte stessa ha “recuperato” lavorando sul n. 4) e anche sul n. 3) dello stesso art. 360 ma imponendo comunque il limite del “minimo costituzionale”; d’altra parte, non può non convenirsi sulla considerazione secondo cui un recupero pieno del controllo dovrebbe passare attraverso un mutamento di giurisprudenza sulle violazioni degli artt. 115 e 116 c.p.c., che un consolidato orientamento tende a non ammettere (o, meglio, tendeva, vigente il n. 5) nella lezione che abbiamo conosciuto tra il 1950 e il 2012).
Le pagine su precedente e nomofilachia (pag. 442 ss.) mostrano gli equivoci alla base della riforma del 2016, nota per aver realizzato la “cameralizzazione” del giudizio di legittimità. Chi abbia esperienza pratica di tale giudizio sa bene che spesso restano del tutto imperscrutabili le ragioni per le quali un ricorso complesso viene avviato per la camera di consiglio mentre altro ricorso, in apparenza più lineare o modesto, è ammesso ai fasti della pubblica udienza; d’altra parte, si leggono spesso ordinanze ampiamente motivate (a volte anche della sezione VI, che dovrebbe realizzare una selezione preliminare) che vengono poi richiamate quale “precedente” alla stessa stregua di una sentenza delle sezioni unite. Per l’osservatore, infatti, spesso non è dato distinguere le sentenze dalle ordinanze, anche perché le raccomandazioni dei primi presidenti sulla relativa tecnica di redazione raramente vengono seguite; e del resto nessuna raccomandazione tecnica potrebbe suggerire all’estensore di una sentenza, fosse anche delle sezioni unite, di scrivere un trattatello in cui esibire la propria cultura o le proprie preferenze scientifiche senza collegamenti o ricadute espliciti rispetto al caso deciso.
Troppo spesso si perde di vista che nelle sentenze (o nelle ordinanze) a parlare è la Suprema Corte di cassazione e non questo o quell’estensore: i quali hanno molte altre sedi (dalle Accademie alle Scuole) in cui poter liberamente dibattere, smessa la toga, i problemi giuridici che sono o saranno chiamati ad affrontare da giudici.
D’altra parte, come possiamo continuare a parlare di nomofilachia quando – scegliamo un argomento a caso – la sezione III è in grado di pubblicare, nonostante un importante precedente “nomofilattico” delle sezioni unite (sent. 27 novembre 2007, n. 24627), due decisioni che, a soli tre mesi di distanza l’una dall’altra e senza che la successiva tenga conto della precedente, affermano da un lato che sono sempre ammissibili anche le impugnazioni incidentali tardive che riguardano un capo della decisione diverso da quello oggetto del gravame principale o che investono lo stesso capo ma per motivi diversi da quelli già fatti valere con l’impugnazione principale (ord. 11 novembre 2020, n. 25285) e, dall’altro lato, che «ai sensi dell’art. 334 c.p.c. e del combinato disposto di cui agli artt. 370 e 371 c.p.c., sono inammissibili le impugnazioni incidentali tardive che hanno contenuto adesivo al ricorso principale, quelle che investono un capo della sentenza non impugnato ed inoltre quelle che investono lo stesso capo impugnato ma per motivi diversi da quelli fatti valere con il ricorso principale: in tali casi, infatti, essendo l’interesse ad impugnare già sorto in conseguenza dell’emanazione della sentenza di appello, l’impugnazione deve essere proposta nei termini di cui all’art. 325 c.p.c.» (ord. 24 agosto 2020, n. 17614)? E non si tratta certo di un caso isolato, perché chi si dedichi a studiare la giurisprudenza della nostra Cassazione scopre facilmente, in relazione alla stessa questione, l’esistenza di più filoni perfettamente autoreferenziali e “a comparti stagni”, nei quali l’ultima sentenza della serie richiama i soli precedenti conformi ignorando l’esistenza di quelli dell’altro o degli altri filoni, destinati così a marciare paralleli per anni, radicando l’incertezza dei risultati. Due esempi a caso: il tema delle restituzioni in appello di quanto versato in esecuzione provvisoria della sentenza di primo grado, che a volte è materia di pronuncia d’ufficio e a volte richiede la domanda di parte, ammessa senza preclusioni nonostante l’art. 345 c.p.c.; il tema dell’interpretazione dell’art. 2929 c.c., se la norma riguardi le sole nullità relative o anche a quelle assolute; e gli esempi potrebbero continuare ad libitum. Vengono a proposito le parole dell’a.: «se si parla della funzione nomofilattica che la Cassazione dovrebbe svolgere attraverso i suoi precedenti comunque vincolanti, si giunge a dimenticare l’antico detto, attribuito tra gli altri a Seneca, per cui errare humanum est, ma perseverare diabolicum» (pag. 444).
Non sorprende che dello stesso fenomeno – la nomofilachia – all’interno della Cassazione si abbiano idee molto diverse: per taluni, l’attività muove dal basso, mediante la definizione dei giudizi e l’affermazione della regola che sempre parte dall’esame del caso; per altri, la funzione rileva direttamente dinanzi alla legge e può anche prescindere dall’analisi del caso concreto. Per taluni, il diritto è quello oggettivo (di cui parla l’art. 65 ord. giud.); per altri, il diritto è quello che viene vagliato e ricostruito, a volte “inventato” nel senso latino del termine, secondo canoni di rilevanza costituzionale o eurounitaria, divenendo di necessità opinione, autorevolissima ma pur sempre discutibile, dell’organo di legittimità (il “diritto giudiziario”).
Una nota finale. Il libro è dedicato non alla decisione “legittima”, bensì alla decisione “giusta”; l’a. sembra indicare i passaggi per il raggiungimento di tale obiettivo attraverso la verità (pag. 99 ss.), il corretto utilizzo delle norme sulla prova (pag. 187 ss.), la presentazione di una teoria della decisione giusta (pag. 357 ss.), che sia certa e coerente (pag. 369 ss.) ancorché complessa (pag. 383 ss.) per poi tornare al problema di base (“quel che muove”…), ossia il rapporto tra prova e motivazione (pag. 297 ss.) e il suo controllo specie in sede di legittimità (pag. 409 ss.) e così da parte di un “vertice” che sembra alla ricerca perenne di una sua precisa identità (pag. 417 ss.) anche e soprattutto nella cultura del precedente e della nomofilachia (pag. 433 ss.).
Se il percorso è chiaramente tracciato, possiamo dire che la strada davanti a noi verso la decisione “giusta” è ancora molto lunga.
I difetti dell’attuale sistema elettorale del CSM: una prospettiva per il futuro prossimo che non metta a rischio l’autonomia della magistratura*
di Giacomo d’Amico
Sommario: 1. L’illusoria idea della capacità taumaturgica dei sistemi elettorali e la natura delle correnti come veto player collettivi - 2. La “scelta” del sistema elettorale del CSM quale riflesso della sua composizione e del suo ruolo nell’ordinamento costituzionale - 3. I possibili correttivi al vigente sistema elettorale - 4. Le proposte del rinnovo parziale e del sorteggio - 5. Conclusioni: chi abusa dell’autonomia…non deve mai rischiare di perderla!
1. L’illusoria idea della capacità taumaturgica dei sistemi elettorali e la natura delle correnti come veto player collettivi
L’idea, inespressa ma implicita, che sta alla base di tutte le discussioni sul sistema elettorale del CSM è quella della sua capacità taumaturgica [1] rispetto ai guasti e alle degenerazioni di talune condotte di singoli magistrati e/o di gruppi di essi, come se la scelta dell’uno o dell’altro meccanismo potesse, tutto d’un colpo, risolvere o prevenire i guasti del consociativismo giudiziario.
Questa idea deve ritenersi oggi del tutto superata per almeno due ragioni. Innanzitutto, perché in generale, cioè per qualsiasi tipo di elezioni, «non esiste […] un sistema ottimale esente da inconvenienti» ([2]). L’esperienza dei sistemi elettorali per i due rami del Parlamento, che negli ultimi ventisette anni si sono succeduti tra interventi del legislatore e pronunzie della Corte costituzionale ([3]), ha dimostrato non solo che la degenerazione dei comportamenti degli attori politici non è direttamente imputabile al meccanismo con cui sono eletti, ma che, spesso, l’obiettivo perseguito con la scelta di talune regole elettorali rispetto ad altre risulta essere clamorosamente fallito. Occorre dunque prendere atto che, non di rado, si chiede ai sistemi elettorali ben più di quanto essi possano offrire ([4]).
La seconda ragione per la quale non si può confidare nella capacità taumaturgica dei sistemi elettorali del CSM sta nel fatto che «[n]essun sistema elettorale, almeno a partire dagli anni Settanta, ha mai retto all’accusa di favorire la politicizzazione del Consiglio superiore» ([5]) o, per dirla con parole diverse, «nessun sistema elettorale sino ad oggi sperimentato è riuscito a contenere il peso delle correnti» ([6]). Ciclicamente si verifica, quindi, un fenomeno singolare, per cui l’emersione di prassi degenerative fa riaprire, in dottrina e tra le forze politiche, il dibattito sulle regole elettorali del CSM per poi scoprire che la modifica di queste ultime non ha sortito alcun effetto utile ai fini della risoluzione dei problemi in relazione ai quali era stata promossa la riforma elettorale.
In generale, la sostanziale inefficacia dei sistemi elettorali è anche il frutto di un (naturale) fenomeno di adattamento degli attori politici, i quali “variano” le loro scelte in merito alle modalità di aggregazione in base al sistema elettorale con il quale avrà luogo la competizione. Si rivela pertanto illusorio pretendere che gli stessi, in presenza di una variazione delle regole del gioco, continuino a comportarsi nello stesso modo in cui avevano agito sotto la vigenza di regole diverse. Come pure è illusorio ritenere che la loro azione non sia condizionata dalle condotte dei competitor. è dunque fondamentale prendere atto che i comportamenti degli attori politici (quali sono le correnti ([7]) nelle dinamiche elettorali del CSM) sono caratterizzati da una razionalità rispetto al fine da essi perseguito ([8]).
Può essere utile, a tal proposito, la riflessione che la scienza della politica ha svolto sul ruolo dei c.d. veto player individuali e collettivi ([9), intendendosi, con questa formula, «gli attori individuali o collettivi il cui consenso è necessario per modificare lo status quo» ([10]). Da questo punto di vista, le elezioni dei membri togati del CSM, come pure l’assunzione, in seno a quest’ultimo, di talune decisioni (specialmente quelle concernenti il conferimento degli incarichi direttivi e semi-direttivi e i procedimenti disciplinari), costituiscono il contesto in cui l’azione delle correnti può ricondursi a quella di veri e propri veto player collettivi. è infatti in queste occasioni che maggiore rilevanza assumono il peso delle singole correnti e la loro capacità di puntare sulla soluzione in grado di ottenere il sostegno della maggioranza del plenum. Se è vero che questo ruolo può costituire il valore aggiunto dell’articolazione correntizia, agevolando l’individuazione della soluzione intorno alla quale “coagulare” la maggioranza necessaria ([11]), è altrettanto vero che la rilevanza delle correnti, se non “contenuta” entro gli argini del fisiologico sviluppo delle istanze pluralistiche, può tradursi in una mera pratica spartitoria.
La scelta del sistema elettorale non è, dunque, risolutiva ai fini dell’eliminazione di tali aspetti patologici, il cui inquadramento, peraltro, dipende da opzioni di carattere culturale. Le correnti dei magistrati sono intese, infatti, da taluni, come naturali espressioni del pluralismo ideologico e, da altri, come vere e proprie consorterie o – riprendendo la definizione del Prof. Spangher – «correnti di persone», costruite intorno a centri di interesse e di potere piuttosto che a modelli culturali di riferimento.
La presa d’atto dell’incapacità dei sistemi elettorali di correggere o di prevenire pratiche spartitorie o condotte ancor più discutibili non può, però, indurre a considerare del tutto indifferente la scelta delle regole elettorali. Queste, infatti, non sono caratterizzate da una sostanziale succedaneità, né lo è il metodo elettivo rispetto ad altri modi di selezione della componente togata del CSM.
2. La “scelta” del sistema elettorale del CSM quale riflesso della sua composizione e del suo ruolo nell’ordinamento costituzionale
Occorre, dunque, ritornare alla questione di partenza e interrogarsi preliminarmente su qual è e quale debba essere il ruolo del CSM. Solo sulla base delle risposte date a queste domande si potrà avere un quadro più nitido di ciò che ci si deve attendere dal sistema che regola la sua elezione.
Nelle precedenti sessioni di questo convegno è stato spesso utilizzato il termine “rappresentanza”. Immaginare il rapporto tra il corpus dei magistrati e il CSM in termini di rappresentanza è, però, fuorviante, in quanto si rischia di assimilare la funzione del CSM a quella degli organi di rappresentanza politica. Da questo punto di vista, la dottrina costituzionalistica è concorde nel ritenere che il Consiglio superiore non è un organo rappresentativo in senso stretto della magistratura, lo è semmai della pluralità di posizioni e di idee. Al riguardo, è stato acutamente rilevato che il CSM ha «una policy, cioè un complesso di criteri orientativi, ma non [può] interferire con le politics, cioè con la politica partitica» ([12]). Analogamente può dirsi che il Consiglio superiore della magistratura non ha – né deve avere – un proprio indirizzo politico, ma è un organo dotato di «forza politica». Le incertezze sulla ricostruzione della funzione svolta dal CSM nell’ordinamento costituzionale ([13]) richiamano alla mente gli analoghi dubbi che la dottrina ha da sempre nutrito nei confronti dell’attività svolta dalla Corte costituzionale e, in misura minore, dal Presidente della Repubblica. Anche in questi casi, è risultato complicato “classificare” questi organi secondo gli schemi tradizionali; non a caso, sono state elaborate formule come quella della «forza politica» della Corte costituzionale ([14]) o dell’indirizzo politico generale o costituzionale del Capo dello Stato, nelle quali trovano un punto d’incontro le esigenze di dare atto dell’influenza politica di questi organi e della loro differenza rispetto a quelli di rappresentanza politica.
Pur con le dovute differenze, sembra che ad analoghi risultati possa giungersi anche per il CSM, che, oltre a essere presieduto dal Presidente della Repubblica, presenta, quanto alla sua composizione, significative “assonanze” con la Corte costituzionale, almeno per quel che concerne il terzo dei componenti eletto dal Parlamento in seduta comune. Per queste ragioni, può risultare utile il ricorso, anche per il Consiglio superiore della magistratura, a formule come quella dell’indirizzo politico costituzionale ([15]), non a caso elaborata dal suo Autore per tutti gli organi costituzionali e non per il solo Capo dello Stato ([16]). Resta poi il nodo, tutt’ora irrisolto della natura del CSM, «cioè se esso debba considerarsi organo costituzionale, a rilevanza costituzionale o di “alta amministrazione”» ([17]).
In definitiva, la varietà delle formule impiegate per definire il ruolo svolto dal CSM è sintomatica della sua incerta collocazione nell’ordinamento costituzionale. Da questo punto di vista, la perenne oscillazione delle ricostruzioni dottrinali rappresenta la logica conseguenza di questa incertezza. Tutto ciò non costituisce un limite dell’organo ma è, al contrario, il suo punto di forza, idoneo a porlo al confine tra la giurisdizione (soprattutto per quanto attiene alla competenza in materia di provvedimenti disciplinari) e la politica (da intendersi come politica della giurisdizione). Questa costante oscillazione è, dunque, nelle corde del CSM e deriva dalla sua natura, per molti versi, ibrida, voluta già dai Padri Costituenti.
Sempre muovendo dalla prospettiva della individuazione delle basi da cui partire, non può essere tralasciato il fatto che si tratta di un organo che ha un numero di componenti esiguo e che quello dei membri eletti è assai ridotto in termini assoluti ma risulta cospicuo in termini relativi. A tal proposito, è significativo che il peso specifico di ciascun consigliere all’interno del plenum è pari a quello di ventitré deputati e di quasi dodici senatori ([18]). In altre parole, il peso specifico di ciascun consigliere del CSM corrisponde a poco più di quello di un gruppo parlamentare alla Camera e al Senato.
I riflessi di questa considerazione sul piano delle regole elettorali sono evidenti, soprattutto se si considera l’ipotesi – giustamente scartata dalla dottrina – di un sistema prevalentemente maggioritario ([19]). Gli effetti di quest’ultimo sarebbero, infatti, pericolosamente amplificati da quanto appena detto in merito alla consistenza numerica del Consiglio e al peso specifico di ciascun consigliere.
L’esiguità in termini assoluti del numero dei componenti elettivi e la sua consistenza in termini relativi assumono una particolare rilevanza sul piano della rappresentanza delle c.d. minoranze; basti pensare che anche la previsione di un sistema proporzionale puro potrebbe non garantire la loro presenza in seno al Consiglio. Non può, infine, essere sottaciuto l’effetto selettivo svolto dalla previsione di collegi, effetto direttamente proporzionale al loro numero e inversamente proporzionale alle loro dimensioni.
Se questo è il “contesto” nel quale trovano applicazione le regole del gioco elettorale, occorre anche avere chiari gli obiettivi da perseguire con la scelta di un sistema elettorale piuttosto che di un altro. Al riguardo, la Corte costituzionale, in una recente pronuncia relativa alla previsione di soglie di sbarramento nella legge che disciplina l’elezione dei rappresentanti italiani nel Parlamento europeo ([20]), ha affermato che il superamento «della mera “registrazione proporzionale della pluralità socio-politica”» ([21]) e quindi la scelta di un sistema proporzionale possono giustificarsi «per porre in essere meccanismi idonei ad assicurare efficacia ed efficienza del procedimento decisionale».
In particolare, la Corte, riprendendo affermazioni contenute in pronunce precedenti ([22]), ha precisato che «l’esigenza di rappresentare l’“universalità” dei cittadini elettori» può essere sacrificata in nome dell’esigenza «di assicurare la governabilità e [di] quella di evitare la frammentazione politico-partitica che potrebbe rallentare o paralizzare i processi decisionali all’interno dell’assemblea parlamentare».
Pare abbastanza evidente che né l’una né l’altra delle due esigenze sussistono nel caso dell’elezione della componente togata del CSM. Rispetto a questo organo non si pone infatti né un problema di governabilità né di eliminazione della frammentazione politico-partitica ([23]). In qualche fase storica si è posto il problema (richiamato dal Cons. Santalucia nella sua relazione) di non rappresentare le minoranze (prevedendo soglie di sbarramento particolarmente elevate), ma generalmente ci si è preoccupati della questione opposta, cioè di assicurare la presenza delle stesse.
3. I possibili correttivi al vigente sistema elettorale
Alla luce di queste premesse può essere esaminato il vigente sistema elettorale, introdotto dalla legge n. 44 del 2002 ([24]), il quale soffre di quel difetto di origine di cui sopra si è detto, cioè dell’errata convinzione che potesse escogitarsi un insieme di regole del gioco elettorale tale da eliminare le degenerazioni correntizie. Com’è noto, questo sistema prevede tre collegi unici nazionali, il voto non è più per liste ma è su singoli candidati e ogni elettore ha un voto per ciascuno dei tre collegi unici nazionali. Dunque, l’introduzione del collegio unico nazionale si affianca all’eliminazione delle liste e già questo è un elemento di incongruenza, poiché risulta impossibile «per i candidati […] fare a meno dell’appoggio di gruppi organizzati su tutto il territorio nazionale» ([25]).
Non decisiva appare la questione “classificatoria”, cioè capire se si tratti di un sistema elettorale maggioritario ([26]) o proporzionale (come pure si è sostenuto nelle relazioni di accompagnamento di taluni disegni di legge ([27]) e durante i dibattiti parlamentari). Al riguardo, la previsione di tre collegi unici nazionali, pur in assenza di un sistema di liste, finisce con il rendere decisivo il peso delle correnti, con la conseguenza che sarà pressoché impossibile l’elezione di un candidato molto apprezzato nel contesto territoriale in cui opera ma poco conosciuto a livello nazionale o che è privo del supporto di una corrente di riferimento.
Se così è e se si vuole ridurre il peso delle correnti nella elezione dei componenti togati del CSM (obiettivo, questo, unanimemente voluto dai più, almeno a parole), non resta che affidarsi a un sistema elettorale misto che abbia una componente proporzionale, al fine di assicurare il pluralismo di idee e di contributi, ma che dia qualche chance anche a candidati validi seppure privi del sostegno a livello nazionale derivante dalla loro fama o dal peso della corrente.
Deve dunque escludersi sia l’ipotesi di un sistema maggioritario puro sia quella di un proporzionale puro con liste concorrenti, per la ragione che la prima soluzione esalterebbe i personalismi, la seconda il correntismo. Non resta che affidarsi a sistemi misti, in cui la combinazione tra proporzionale e maggioritario può realizzarsi in vari modi. Solitamente il mix consiste nell’assegnazione di una parte o percentuale dei seggi con l’un sistema e della restante con l’altro ([28]), oppure in un meccanismo di riparto proporzionale dei seggi sul quale si innesta un premio di maggioranza ([29]). Misto è anche quel sistema che prevede un riparto su base maggioritaria al primo turno e su base proporzionale al secondo; questo è il caso del meccanismo ideato dalla c.d. Commissione Scotti, secondo cui al primo turno i seggi sarebbero stati assegnati con criterio maggioritario su base territoriale, mentre al secondo con criterio proporzionale per liste concorrenti su base nazionale. A ben vedere questo sistema finirebbe paradossalmente con il riunire gli inconvenienti derivanti sia dall’uno che dall’altro sistema elettorale, finendo con il favorire sia i personalismi (al primo turno) sia i candidati di corrente (al secondo).
Risulta evidente quindi che l’operazione cui sarebbe chiamato il legislatore che decidesse di modificare l’attuale sistema elettorale non è affatto di facile soluzione, non potendosi accogliere acriticamente qualsiasi combinazione dei criteri proporzionale e maggioritario, ma dovendosi piuttosto valutare gli specifici effetti discendenti dall’una scelta o dall’altra.
Al netto delle valutazioni critiche sopra espresse, sembrano restare sul campo due ipotesi, così riassumibili: quella del voto singolo trasferibile e quella del sistema elettorale del Senato vigente prima del 1993.
La prima ipotesi, formulata dalla c.d. Commissione Balboni ([30]) e poi ripresa da autorevole dottrina ([31]), prevede la possibilità per gli elettori di scegliere più candidati ma secondo un proprio ordine di preferenza, anche a prescindere, quindi, dall’appartenenza dei due o più candidati alla stessa lista. In questo modo sarebbe scardinato il meccanismo delle liste, in quanto l’elettore potrebbe dare un ordine alle sue preferenze. Al di là della sua complessità ([32]), questo sistema, nel tentativo di limitare il peso delle correnti, potrebbe però favorire cordate trasversali o quanto meno un sostanziale appiattimento ideologico e culturale dei candidati, che, pur di accaparrarsi il sostegno trasversale, potrebbero tendere a sfumare le differenze. Al contempo, sarebbe sicuramente esaltata la libertà degli elettori, il che si tradurrebbe nella massima rappresentatività degli eletti.
La seconda ipotesi punta a recepire il sistema elettorale vigente per il Senato prima del referendum del 1993 ([33]). Questo sistema, che ha consentito di passare dal proporzionale al maggioritario a seguito della consultazione referendaria, si caratterizzava per una singolare combinazione che consentiva l’operatività solo eventuale delle regole maggioritarie. Esso prevedeva, infatti, che il territorio di ciascuna Regione fosse diviso in tanti collegi uninominali quanti erano i senatori da eleggere; inoltre, ciascun candidato nei collegi uninominali doveva “collegarsi” ad almeno due candidati in altrettanti collegi della stessa regione. All’interno dei collegi uninominali sarebbe stato eletto il candidato che avesse ottenuto il 65% dei voti; qualora questa soglia non fosse stata raggiunta, i voti di tutti i candidati sarebbero stati raggruppati in liste di partito a livello regionale, dove i seggi sarebbero stati allocati utilizzando il metodo D’Hondt delle maggiori medie statistiche e quindi, all’interno di ciascuna lista, sarebbero stati dichiarati eletti i candidati con le migliori percentuali di preferenza. Dunque, il riparto sarebbe avvenuto con il criterio proporzionale a livello nazionale, secondo il metodo D’Hondt che non dà resti.
Nella prassi il numero dei candidati che hanno ottenuto almeno il 65% dei voti e quindi dei senatori eletti con il sistema maggioritario è sempre stato molto esiguo, sfiorando solo nelle elezioni del 1948 il 5%. Negli ultimi decenni di vigenza della legge (dal 1968 al 1992), poi, questo numero non ha superato le due unità. Quest’ultima considerazione potrebbe indurre il legislatore, che intendesse estendere all’elezione della componente togata del CSM questo meccanismo elettorale, a ridurre la percentuale necessaria per l’elezione all’interno del singolo collegio, portandola a una – anche sensibilmente – più bassa, ad esempio del 55%. In questo modo aumenterebbero le possibilità di elezione in seno ai collegi senza precludere del tutto il riparto su base proporzionale. Non mi parrebbe opportuno prevedere percentuali più basse del 55% perché altrimenti i seggi finirebbero con l’essere assegnati in gran parte con un sistema di tipo maggioritario, cioè all’interno dei collegi, e non con il riparto proporzionale su scala nazionale. In definitiva, applicando questo meccanismo elettorale al CSM, dovrebbero essere previsti tanti collegi uninominali quanti sono i seggi da assegnare, esclusi i due della Cassazione.
A queste previsioni dovrebbe, inoltre, accompagnarsi l’obbligo di apparentamento con almeno altri due candidati, in modo da mantenere il legame derivante dalla consonanza ideologica e culturale. Anche in questo caso, la determinazione del numero degli altri candidati con cui apparentarsi sarebbe decisiva per la connotazione del sistema elettorale, dovendosi ritenere che l’aumento di questo numero possa produrre l’effetto di amplificare il legame correntizio.
Al di là della combinazione di elementi propri del sistema proporzionale e di quello maggioritario, è evidente che il buon funzionamento di questo meccanismo dipende dal giusto “dosaggio” della percentuale necessaria per essere eletti nel collegio uninominale e del numero minimo di altri candidati con cui apparentarsi, non potendo, la prima, scendere oltre una certa soglia e il secondo superare un certo valore.
Non bisogna poi tralasciare il fatto che – come evidenziato in apertura di questo scritto – le correnti adegueranno le loro condotte al mutato quadro elettorale, con la conseguenza che potrebbero essere necessari alcuni ulteriori aggiustamenti per conciliare le diverse esigenze sopra esaminate.
4. Le proposte del rinnovo parziale e del sorteggio
In alternativa al mutamento del sistema elettorale nei termini descritti, non è da scartare l’ipotesi di un rinnovo parziale del CSM; in particolare, è stato proposto di eleggere ogni due anni quattro laici e otto togati, sia per evitare «la dispersione integrale ed antifunzionale delle competenze acquisite dai consiglieri», sia per «aiutare a “scomporre” certe dinamiche e certi “blocchi” di potere» ([34]). Per assicurare il rinnovo parziale del CSM sembra, però, inevitabile il ricorso a una legge costituzionale; sebbene infatti possa discutersi sull’interpretazione da dare al penultimo comma dell’art. 104 Cost., secondo cui «[i] membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili», non pare realizzabile con legge ordinaria lo “sfasamento temporale” iniziale della durata di metà dei componenti ([35]). In altre parole, per la prima elezione sarà necessario modificare la durata in carica dei membri elettivi, prevedendo, ad es., che il mandato di coloro che hanno avuto i quozienti elettorali più alti duri quattro anni, mentre quello degli altri solo due. Questa deroga alla previsione dell’art. 104 Cost. dovrebbe quindi essere prevista da una legge costituzionale.
La soluzione del rinnovo parziale non sembra risolvere, però, il problema del meccanismo di elezione, che resterebbe comunque immutato; anzi, l’elezione di un numero più ridotto di componenti potrebbe accentuare gli elementi maggioritari del meccanismo elettorale, personalizzando – anche eccessivamente – la contesa (si pensi, ad esempio, ai due magistrati con funzioni di legittimità, che sarebbero eletti uno per volta). Dunque, il rinnovo parziale potrebbe risultare una soluzione più complicata da realizzare e, al tempo stesso, non del tutto risolutiva; più complicata, perché occorrerebbe una legge costituzionale almeno per assicurare lo “sfasamento temporale” iniziale, non del tutto risolutiva, perché finirebbe con il perpetuare, se non peggiorare, i limiti della legge elettorale.
Del tutto superata ([36]) – almeno nel momento in cui si scrive – sembra poi la proposta, sostenuta dall’attuale Ministro della Giustizia Bonafede, di introdurre un sorteggio preventivo dei candidabili ([37]); in particolare, il sistema elettorale sarebbe stato articolato in due fasi: in una prima, sarebbe stato sorteggiato il venti per cento degli eleggibili tra i magistrati in possesso dei requisiti di cui all’art. 24 della legge n. 195 del 1958, nella seconda, si sarebbe proceduto all’elezione tra i magistrati sorteggiati che avessero presentato la propria candidatura ([38]).
Non vi è dubbio – almeno a mio parere – che siffatte previsioni, se fossero approvate nei termini anzidetti, si esporrebbero al rischio di essere dichiarate incostituzionali. A poco varrebbe osservare che l’art. 104 Cost. fa un generico riferimento, quanto all’elettorato passivo, agli «appartenenti alle varie categorie» e non a “tutti”, dovendosi piuttosto ritenere che questa previsione non possa non essere interpretata in senso omnicomprensivo, cioè di ritenere eleggibili tutti i magistrati e non solo una percentuale estratta a sorte.
V’è poi da aggiungere che forti sospetti di irragionevolezza si appuntano sulla percentuale, indicata nel disegno di legge, di eleggibili che dovrebbero essere sorteggiati; ritenere candidabili solo un quinto degli eleggibili (20%) produrrebbe una significativa compressione del diritto di elettorato passivo che tradisce la ratio della disposizione costituzionale di cui all’art. 104 Cost.
Non trascurabile è poi il rischio che un magistrato sorteggiato nella prima fase possa sentirsi “costretto” a candidarsi per ragioni di appartenenza correntizia, in quanto unico “rappresentante” di quell’area. Si avrebbe, in questo modo, un’ulteriore compressione della libera scelta del soggetto titolare di elettorato passivo.
Al contempo, non sembra che utili indicazioni a favore del metodo del sorteggio possano trarsi da due ipotesi in cui è previsto il ricorso a questo meccanismo decisionale; si allude a quanto affermato nella sentenza n. 35 del 2017, a proposito della scelta del collegio di elezione da parte del capolista eletto in più collegi ([39]), e al sistema di individuazione dei docenti universitari componenti delle commissioni per l’abilitazione scientifica nazionale (ASN) e per le c.d. chiamate.
Nell’un caso (scelta del collegio di elezione), la Corte costituzionale, a fronte di una normativa che consentiva un’«opzione arbitraria» del capolista, idonea a condizionare l’elezione degli altri candidati, ha precisato che quello del sorteggio costituisce (rectius, costituiva, trattandosi di un sistema elettorale poi superato dalla legge n. 165 del 2017) un «criterio residuale», previsto già dal legislatore, che – nel caso di specie – assicurava una normativa elettorale di risulta all’esito dell’illegittimità costituzionale dell’art. 85 del d.P.R. n. 361 del 1957. Dunque, il ricorso al sorteggio (del collegio di elezione) si giustificava solo in quanto extrema ratio, desumibile dal contesto normativo, per evitare di rimettere alla scelta arbitraria del capolista la decisione sull’elezione di altri candidati.
Non conferente risulta anche la comparazione con il sorteggio dei componenti delle commissioni dell’ASN e delle c.d. chiamate (a livello locale). In questo caso, infatti, non si tratta di dare voce al pluralismo presente nella comunità accademica, bensì di selezionare i docenti universitari ritenuti più idonei a valutare i candidati. Da questo punto di vista, appare condivisibile la scelta del legislatore di individuare, come unico criterio valido per la selezione dei commissari, la produttività scientifica degli stessi (valutata attraverso il sistema delle c.d. mediane), in coerenza peraltro con tutto il complesso normativo che mira a valorizzare i docenti scientificamente attivi (ad es. consentendo solo a questi di fare parte dei collegi di dottorato ecc.). In questo quadro si colloca il sorteggio dei commissari, limitato, come si è detto, a coloro che hanno raggiunto le c.d. mediane.
Al riguardo, appare significativo che il meccanismo precedentemente previsto (per i concorsi locali, non essendovi all’epoca una procedura di comparazione su scala nazionale) e superato dal legislatore del 2010 era quello dell’elezione dei commissari (fatta eccezione per il c.d. membro interno designato dall’Università che aveva bandito il concorso). Il meccanismo dell’elezione aveva però dimostrato tutti i suoi limiti, non essendovi alcun nesso oggettivo tra l’elezione di uno specifico commissario e il compito a esso assegnato in relazione alla sede che aveva bandito; semmai, avrebbe avuto un senso un’elezione dei commissari su scala nazionale, volta a selezionare i docenti ritenuti più idonei a svolgere l’attività di componenti delle commissioni. Ciò ha provocato, in qualche raro caso, l’elezione del tutto casuale di un commissario piuttosto che di un altro e, nella gran parte dei casi, vere e proprie campagne elettorali al fine di eleggere commissari non invisi al membro interno e alla struttura universitaria che aveva bandito il concorso.
Il fallimento di questo metodo di individuazione dei commissari nei concorsi universitari dimostra che l’elezione ha un senso solo se funzionale ad assicurare un rapporto di consonanza (non sempre di rappresentanza) tra l’elettore e l’eletto in relazione agli specifici compiti cui è chiamato quest’ultimo, altrimenti diventa un meccanismo per selezionare non i candidati ritenuti più idonei ma quelli considerati amici.
Se così è, non appare indifferente l’individuazione di un magistrato piuttosto che di un altro come componente del CSM, né appare convincente l’elezione limitata ai magistrati sorteggiati, che potrebbe escludere dall’elettorato passivo proprio coloro che, per il loro bagaglio culturale e per la loro esperienza professionale, sono maggiormente in grado di svolgere i compiti cui è chiamato il CSM. Non del tutto persuasiva risulta pure la proposta di un «sorteggio dei migliori» ([40]), non essendo facilmente individuabile un criterio per selezionare questi ultimi. Da questo punto di vista, la «laboriosità» o l’«indice di decisioni confermate in appello» potrebbero non essere elementi sufficienti per selezionare i magistrati più adatti. Si tratta infatti di scegliere non i migliori per laboriosità, ma coloro che, senza demeriti, siano ritenuti più idonei a farsi portatori del pluralismo di idee e di culture presenti all’interno della magistratura.
In definitiva, l’ipotesi del sorteggio integrale o parziale (nei termini di cui si è detto) appare non solo in contrasto con il dato dell’art. 104 Cost. ma anche intrinsecamente irragionevole ([41]).
6. Conclusioni: chi abusa dell’autonomia…non deve mai rischiare di perderla!
Alla luce delle considerazioni fin qui svolte non resta che confidare, per un verso, in una modifica delle regole elettorali che non faccia venir meno il carattere proporzionale del meccanismo di riparto dei seggi, per altro verso, in un significativo mutamento culturale che non rifiuti le correnti ([42]) ma che punti a riscoprire le ragioni di appartenenza ideologica e culturale, rifuggendo dalle famigerate «correnti di persone» ([43]) e dal «deleterio sistema dei “pacchetti” nelle nomine, specie dei titolari di uffici direttivi» ([44]).
Estremamente attuale resta ancora oggi la lezione di Vittorio Denti che quasi quaranta anni fa scriveva: «[il giudice] deve uscire dalla logica del potere burocratico che la tradizione gli ha imposto e sentire la sua funzione come legal profession che si legittima in base a due aspetti essenziali: il compito di garantire la correttezza in tutte le manifestazioni della vita associata, e il possesso di una preparazione culturale adeguata a sostenere il continuo raffronto con le realtà nelle quali è chiamato ad operare» ([45]).
Questo non è probabilmente un obiettivo facilmente raggiungibile; è però sicuramente l’orizzonte verso cui tendere, rispetto al quale l’autonomia della magistratura deve essere un presupposto fuori discussione e non un’arma da brandire sia pure per finalità dissuasive. Per questa ragione l’abuso dell’autonomia, che pure deve essere stigmatizzato e sanzionato là dove possibile, non deve mai indurre a metterla in discussione. In altre parole – riformulando il titolo di un recente scritto sul tema ([46]) – chi abusa dell’autonomia…non deve mai rischiare di perderla!
* Tratto dal volume Migliorare il CSM nella cornice costituzionale editore CEDAM, collana: Dialoghi di giustizia insiemehttps://www.lafeltrinelli.it/libri/migliorare-csm-nella-cornice-costituzionale/9788813375331?awaid=9507&gclid=CjwKCAjwlID8BRAFEiwAnUoK1bjoo2A6KrpvpTBT-yU5i2WUpXqo7o-R7jlbyFc_rkbudWc8cpmcfBoCmy0QAvD_BwE&awc=9507_1602232055_06e1f697dd85945fae256cfe65201e17
([1]) In merito, F. Dal Canto, Verso una nuova legge elettorale del CSM: contrastare la lottizzazione preservando il pluralismo, in Forum di Quad. cost., 16 luglio 2019, p. 1, scrive icasticamente: «L’idea del “potere salvifico” della legge elettorale non è certo nuova».
([2]) G. Silvestri, Consiglio superiore della magistratura e sistema costituzionale, in Questione Giustizia, 4/2017, p. 27. Sul punto, la dottrina politologica si è sforzata di ricostruire il problema delle regole elettorali in chiave di «ingegneria costituzionale»: cfr., per tutti, G. Sartori, Ingegneria costituzionale comparata, il Mulino, Bologna, 2013.
([3]) Il riferimento è, in particolare, alle sentenze n. 1 del 2014 e n. 35 del 2017, ma è anche a quelle decisioni che hanno dichiarato inammissibili taluni quesiti referendari che, se ammessi e approvati dal corpo elettorale, avrebbero potuto stravolgere le leggi elettorali di Camera e Senato (fra le più recenti, ordinanze n. 10 del 2020 e n. 13 del 2012).
([4]) Si tratta di un fenomeno che non deve sorprendere in quanto riconducibile alla generale tendenza della politica a rifugiarsi nelle valutazioni e nei dati tecnici per risolvere questioni che la stessa politica preferisce non affrontare, pur avendo gli strumenti per definirle.
([5]) F. Dal Canto, Verso una nuova legge elettorale del CSM, cit., p. 1.
([6]) N. Zanon, F. Biondi, Chi abusa dell’autonomia rischia di perderla, in Forum di Quad. cost., 27 giugno 2019, p. 2.
([7]) Sulle origini e sull’evoluzione delle correnti della magistratura italiana si veda, da ultimo, G. Melis, Le correnti della magistratura. Origini, ragioni ideali, degenerazioni, in questionegiustizia.it, 10 gennaio 2020.
([8]) Sulle dinamiche legate alla competizione elettorale relativa ai membri togati del CSM si vedano le interessanti riflessioni svolte da D. Piana, A. Vauchez, Il Consiglio superiore della magistratura, il Mulino, Bologna, 2012, pp. 90 ss.
([9]) L’utilità dell’estensione di questo approccio alle dinamiche interne alla magistratura si coglie soprattutto in termini di comprensione di talune azioni collettive. Sul punto si rinvia a G. Tsebelis, Poteri di veto. Come funzionano le istituzioni politiche (2002), trad. di D. Giannetti, il Mulino, Bologna, 2004, spec. pp. 77 ss.
([10]) G. Tsebelis, op. cit., p. 51.
([11]) G. Tsebelis, op. cit., p. 109, rileva che «[v]eto player individuali decidono in base alla regola dell’unanimità (dato che il disaccordo di uno solo di essi può impedire una modifica dello status quo) mentre veto player collettivi per prendere decisioni ricorrono alla regola della maggioranza qualificata o della maggioranza semplice» (p. 109).
([12]) A. Pizzorusso, L’organizzazione della giustizia in Italia. La magistratura nel sistema politico e istituzionale, Einaudi, Torino, 1990, ora in Id., L’ordinamento giudiziario, vol. I, Editoriale Scientifica, Napoli, 2019, p. 116; F. Dal Canto, Verso una nuova legge elettorale del CSM, cit., p. 3.
([13]) Si pensi, ancora, al dibattito sull’utilizzo dell’espressione «organo di autogoverno», su cui criticamente, tra gli altri, S. Bartole, Autonomia e indipendenza dell’ordine giudiziario, Cedam, Padova, 1964, pp. 3 ss., e A. Pizzorusso, Problemi definitori e prospettive di riforma del C.S.M., in Quad. cost., 1989, ora in Id., L’ordinamento giudiziario, vol. II, cit., pp. 1065 s.
([14]) T. Martines, Contributo ad una teoria giuridica delle forze politiche, Giuffrè, Milano, 1957, ora in Id., Opere, I, Giuffrè, Milano, 2000, pp. 206 ss.
([15]) In termini analoghi G. Silvestri, Consiglio superiore della magistratura e sistema costituzionale, cit., pp. 22 ss., il quale precisa che «il Csm non può pretendere di esprimere un indirizzo politico fuori dal campo proprio dell’amministrazione della giustizia civile e penale […] lo stesso Consiglio può e deve invece esprimere un proprio indirizzo politico in materia giudiziaria – che vale a formare l’indirizzo politico costituzionale – nel rispetto, beninteso, delle riserve di legge contenute nella Costituzione e nell’ovvio riconoscimento della superiorità della fonte legislativa, sottoposta soltanto alle norme costituzionali» (p. 24).
([16]) Per P. Barile, I poteri del Presidente della Repubblica, in Riv. trim. dir. pubbl., 1958, pp. 295 ss. spec. p. 308, tutti gli organi costituzionali sono compartecipi della funzione di indirizzo politico generale o costituzionale, mentre solo alcuni di essi sono contitolari di quella di indirizzo politico di maggioranza. La formula dell’«indirizzo politico generale o costituzionale» è stata elaborata da Barile per definire l’attuazione dei fini costituzionali permanenti e per distinguere quest’ultima dalla natura contingente dell’indirizzo politico di maggioranza. Questa formula, che apparentemente non ha avuto molto successo in dottrina, continua a essere ciclicamente ripresa per la sua capacità di cogliere talune sfumature che la rigida distinzione tra attività di indirizzo e attività di garanzia non riesce a giustificare. Tra coloro che hanno ripreso e sviluppato l’impostazione teorica di Barile si segnala E. Cheli, in Atto politico e funzione d’indirizzo politico, Giuffrè, Milano, 1961, pp. 137 ss. e in Il Presidente della Repubblica come organo di garanzia costituzionale, in Studi in onore di Leopoldo Elia, I, Giuffrè, Milano, 1999, pp. 301 ss.
([17]) Così testualmente T. Martines, Diritto Costituzionale, XIV ed. interamente riveduta da G. Silvestri, Giuffrè, Milano, 2017, p. 445. Sul tema si veda, dello stesso Autore, Organi costituzionali: una qualificazione controversa (o, forse, inutile), in Studi in onore di Feliciano Benvenuti, III, Mucchi, Modena, 1996, pp. 1035 ss. e ora in Id., Opere, I, cit., pp. 607 ss.
([18]) A questo risultato si giunge calcolando un ventisettesimo dei componenti della Camera e del Senato.
([19]) Si allude a un sistema c.d. misto con una forte componente maggioritaria.
([20]) Sentenza n. 239 del 2018, punto 6.2 cons. dir.
([21]) L’espressione riportata dalla Corte tra virgolette è tratta da D. Fisichella, Elezioni (sistemi elettorali), in Enc. dir., XIV, Giuffrè, Milano, 1965, p. 653.
([22]) Soprattutto nelle sentenze n. 193 del 2015 e n. 35 del 2017.
([23]) Cfr. G. Silvestri, Giustizia e giudici nel sistema costituzionale, Giappichelli, Torino, 1997, spec. pp. 179 s.
([24]) Per un quadro aggiornato dei precedenti sistemi elettorali e delle diverse proposte in campo si rinvia a C. Salazar, Questioni vecchie e nuove sul sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura, in giudicedonna.it, 2-3/2019, pp. 1 ss.
([25]) F. Dal Canto, Verso una nuova legge elettorale del CSM, cit., p. 2.
([26]) In tal senso, F. Dal Canto, op. et loc. ult. cit., e Id., Il Consiglio superiore della magistratura tra crisi e prospettive di rilancio, in Liber Amicorum per Pasquale Costanzo, in Consulta Online, 30 gennaio 2020, p. 10.
([27]) Cfr. Camera dei deputati, XVIII legislatura, proposta di legge n. 226, d’iniziativa dei deputati Ceccanti e M. Di Maio.
([28]) Al riguardo si pensi al c.d. Mattarellum, cioè al sistema elettorale vigente in Italia dal 1993 al 2005, introdotto a seguito del referendum abrogativo parziale sulla legge elettorale del Senato e poi delle due leggi del 1993 (n. 276 e n. 277) che, rispettivamente, apportarono qualche aggiustamento alla legge del Senato, oggetto del referendum, e modificarono il sistema elettorale della Camera per adeguarlo a quello dell’altro ramo del Parlamento.
([29]) Il riferimento è al c.d. Porcellum, introdotto con la legge n. 270 del 2005, con il quale si è votato dal 2006 al 2013.
([30]) Il cui testo è consultabile in E. Balboni, La Relazione finale della Commissione di studio per la riforma del sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura (1996), in Quad. cost., 3/1997, e ora in Forum di Quad. cost., 16 giugno 2019, pp. 1 ss. In particolare, sulla proposta di un sistema elettorale basato sul c.d. voto singolo trasferibile si veda p. 10 dello scritto citato.
([31]) N. Zanon, F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, V ed. riv. e ampl., Zanichelli, Bologna, 2019, p. 40.
([32]) Riconosciuta dai suoi stessi sostenitori: N. Zanon, F. Biondi, op. et loc. ult. cit.
([33]) In questo senso G. Silvestri, Giustizia e giudici nel sistema costituzionale, cit., p. 180; Id., Consiglio superiore della magistratura e sistema costituzionale, cit., p. 28.
([34]) N. Zanon, F. Biondi, Chi abusa dell’autonomia rischia di perderla, cit., p. 3.
([35]) In questi termini la relazione della c.d. Commissione Balboni, per la quale si veda E. Balboni, La Relazione finale della Commissione di studio per la riforma del sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura (1996), cit., p. 9.
([36]) Sugli scenari che si aprono dopo l’abbandono dell’idea del sorteggio si veda V. Savio, Quale sistema elettorale per il Consiglio superiore della magistratura?, in questionegiustizia.it, 25 febbraio 2020.
([37]) La proposta di introdurre un sorteggio per selezionare i componenti del CSM è stata avanzata per la prima volta nei primi anni ’70 dal Movimento sociale italiano, sia pure con modifica della Costituzione, e poi ripresa dal Ministro Alfano in un progetto del 2009. Sul punto si veda, di recente, S. Benvenuti, Brevi note sull’affaire CSM: vecchi problemi, ma quali soluzioni?, in Osserv. cost. AIC, 1/2020, 7 gennaio 2020, p. 27 s.
([38]) Su questa proposta si rinvia ai commenti, tra gli altri, di V. Savio, Come eleggere il Csm, analisi e proposte: il sorteggio è un rimedio peggiore del male, in questionegiustizia.it, 26 giugno 2019; N. Rossi, La riforma del Csm proposta dal Ministro Bonafede, in questionegiustizia.it, 12 luglio 2019.
([39]) Sentenza n. 35 del 2017, punto 12.2 del cons. dir.
([40]) In questo senso M. Ainis, Il sorteggio dei migliori, in la Repubblica, 8 giugno 2019, p. 33.
([41]) Su ulteriori profili di irragionevolezza legati alla peculiarità delle funzioni svolte dai consiglieri si sofferma F. Troncone, La nuova legge elettorale del CSM: una diversa soluzione è possibile, in www.unicost.eu, 26 luglio 2019.
([42]) è appena il caso di rilevare che l’associazionismo dei magistrati è espressamente tutelato dall’art. 25 della Raccomandazione CM/Rec (2010) 12 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa agli Stati membri su giudici: indipendenza, efficacia e responsabilità, consultabile in Giustizia Insieme, 1-2/2011, p. 207, secondo cui «[i] giudici devono essere liberi di formare ed aderire a organizzazioni professionali i cui obiettivi siano di garantire la loro indipendenza, tutelare i loro interessi e promuovere lo Stato di diritto». Sul punto, E. Bruti Liberati, CSM, l’esigenza di cambiare il sistema elettorale, in Corriere della sera, 25 giugno 2019, p. 26.
([43]) Secondo la definizione data da G. Spangher nella sua Relazione al presente Convegno.
([44]) G. Silvestri, Pizzorusso e l’ordinamento giudiziario, in A. Pizzorusso, L’ordinamento giudiziario, vol. I, cit., p. XIX. Negli stessi termini, M. Luciani, Il Consiglio superiore della magistratura nel sistema costituzionale, in Osserv. cost. AIC, 1/2020, 7 gennaio 2020, p. 17.
([45]) V. Denti, La cultura del giudice, in Quad. cost., 1/1983, pp. 35 ss.
([46]) N. Zanon, F. Biondi, Chi abusa dell’autonomia rischia di perderla, cit.
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