ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Le proposte di interventi in materia di processo civile e di strumenti alternativi
Giustizia Insieme vuole proseguire e sollecitare il dibattito sulle prossime riforme della giustizia civile pubblicando il testo finale della Commissione di studio presieduta dal prof. Francesco Paolo Luiso, testo che soltanto in parte è stato trasfuso nella proposta di emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S, sui quali hanno già scritto i professori Giuliano Scarselli, Andrea Panzarola e Bruno Capponi e stanno per essere pubblicati gli interventi dei consiglieri Giuseppe Rana e Raffaele Frasca.
In questo modo la Rivista intende offrire un fattivo contributo alla discussione sulle riforme, nella consapevolezza che soltanto un’ampia convergenza di contributi e condivisioni tra le categorie interessate potrà contribuire a individuare le soluzioni più adeguate per avviare a soluzione un problema che si trascina da troppo tempo, e che presenta infinite sfaccettature. Il testo varato dalla Commissione Luiso è di alto livello, e consente una discussione a tutto campo dei profili ordinamentali, organizzativi, strategici e strettamente processuali.
Giudicato implicito sul regime proprietario e diritto al recupero del bene (nota ad Ad. Plen. 9 4 2021 n. 6).
di Pierfrancesco La Spina
Un'altra decisione in cui il Consiglio di Stato, affrontando il tema della tutela della proprietà privata incisa dall’esercizio illegittimo della potestà ablatoria, mostra lo stretto legame di tale tutela con le regole processuali[1] e, segnatamente, con quelle relative alla “forza” ed alla “portata” del giudicato.
La fattispecie concreta esaminata consiste in una “classica” occupazione appropriativa: per reagire alla quale la proprietaria domandò a suo tempo al Giudice ordinario il risarcimento dei danni per equivalente. Con la pronuncia n. 2860 del 22 novembre 2006 (non impugnata e, dunque, passata in giudicato – alla luce del termine lungo allora vigente – dopo un anno), il Tribunale di Cagliari accolse l’eccezione di prescrizione dell’Amministrazione, individuando il dies a quo nella data della scadenza del periodo di occupazione legittima, durante il quale l’opera nel frattempo realizzata aveva irreversibilmente trasformato il fondo (dando luogo al trasferimento del diritto dominicale in favore dell’Amministrazione).
Probabilmente per il consolidarsi della situazione di fatto, l’Amministrazione medesima – a quanto è dato di leggere nell’analitica motivazione della pronuncia – non definiva il procedimento[2]: cosa che induceva gli eredi ad adire il Giudice amministrativo formulando questa volta, in aggiunta alla domanda di risarcimento per equivalente, quella di risarcimento del danno in forma specifica, allo scopo di ottenere anche la restituzione del bene, previa sua rimessione in pristino. La pretesa partiva dal presupposto che la mancata conclusione del procedimento ablatorio avesse dato luogo al permanere della situazione illecita, vale a dire dell’occupazione senza titolo del suolo, in ordine al quale nessuna perdita del diritto di proprietà poteva dunque immaginarsi. Il Tar Sardegna, con la pronuncia n. 408 del 13 maggio 2019[3], rigettava il ricorso, ponendo in luce che la sentenza del Giudice ordinario rappresentava un limite assolutamente invalicabile: la motivazione è sintetica e sembra basarsi su una logica prevalentemente formale.
In altre parole, secondo il Magistrato amministrativo di prime cure, la pretesa esercitata in sede giurisdizionale amministrativa era da considerarsi strutturalmente omogenea a quella motivatamente respinta a suo tempo dal Magistrato civile (sia pure accogliendo un’eccezione preliminare di merito). In entrambi i casi gli interessati, infatti, si erano avvalsi del rimedio del risarcimento del danno: ed anche se l’articolazione delle domande in sede giurisdizionale amministrativa presentava maggiore complessità, vista la volontà di aggiungere alla richiesta pecuniaria quella di rimessione in pristino e restituzione del bene, “la pretesa risarcitoria, nel suo complesso (sia valore del bene, che occupazione), è stata già oggetto del giudizio civile, definito con sentenza divenuta irrevocabile”.
Il ragionamento dell’adunanza plenaria non si limita ad arricchire il profilo ritenuto centrale dal Tar; ma analizza la portata del giudicato (civile) anche sotto l’aspetto sostanziale, analizzando accuratamente l’assetto di interessi da esso derivante ed evidenziandone la incontestabilità.[4]
L’interpretazione della pronuncia del Giudice di Cagliari, ovviamente indispensabile per individuare il modo in cui il rapporto tra privato ed Amministrazione si era stabilizzato, adotta un apparato argomentativo conforme all’orientamento giurisprudenziale consolidato. Allorché il Tribunale civile di Cagliari aveva respinto la domanda risarcitoria ritenendola prescritta, infatti, ciò era avvenuto sulla base di un presupposto implicito ma non per questo meno chiaro: il perfezionarsi dell’occupazione appropriativa, in virtù della intervenuta trasformazione irreversibile del fondo per i lavori realizzati, implicava infatti, e necessariamente, la definizione dell’assetto dominicale del bene, acquisito dall’Amministrazione in virtù dell’orientamento della giurisprudenza dell’epoca.
Un giudicato il cui oggetto è, in altri termini, dato dall’accertamento dell’acquisto a titolo originario di un diritto assoluto (la proprietà, appunto): situazione in cui, potrebbe dirsi, la “forza espansiva” della cosa giudicata opera al più alto grado. Il diritto di proprietà, come rilevato in dottrina, “sarà sempre lo stesso …. Perciò si individua anche indipendentemente dal fatto genetico … il giudicato sulla proprietà copre tutti i possibili fatti genetici”; e, in definitiva, “il giudicato copre il dedotto e il deducibile”, con l’unica eccezione di ciò che non era ancora deducibile”[5] (il che, come si dirà, anche in una prospettiva puramente processualcivilistica rende coerente la conclusione cui perviene la sentenza in rassegna rispetto a quella, relativa a fattispecie concrete “speculari” in cui la proprietà era stata invece accertata in favore del privato, definite dall’adunanza plenaria con le pronunce n. 2 del 2016 e n. 5 del 2020).
L’aspetto della motivazione che compara per così dire strutturalmente e formalmente le domande spiegate nel giudizio civile prima e in quello amministrativo poi, utilizzato dal Giudice di prime cure per addivenire al rigetto del ricorso, come si accennava viene sviluppato.
Si conferma, pertanto, che il risarcimento per equivalente ed il risarcimento in forma specifica costituiscono rimedi posti a tutela di una situazione soggettiva unitaria (il cui oggetto è l’interesse alla “reintegrazione della sfera giuridica lesa” dal comportamento illecito o dall’atto illegittimo): “il diritto rimane unico, come unica rimane la posizione … fatta valere in giudizio, con la conseguenza che il giudicato di rigetto della prima … preclude una nuova azione sulla seconda”[6].
Senza dubbio, però, l’interesse maggiore della pronuncia è destato dall’analisi del rapporto tra le domande spiegate nel giudizio amministrativo e il precedente giudicato formatosi in sede civile sotto il profilo contenutistico: analisi che si invera nel comparare con attenzione se il risultato concreto perseguito con la richiesta risarcitoria in forma specifica, ma più in generale con la richiesta di restituzione del bene (che, in tesi, avrebbe potuto anche costituire l’oggetto di una domanda di rivendica) sia compatibile con la definizione dell’assetto proprietario a suo tempo incontestabilmente disposto in favore dell’Amministrazione pubblica.
La verifica in parola, a ben vedere, tiene in considerazione un elemento rilevantissimo: l’esigenza di evitare che il “meccanismo preclusivo” eventualmente individuato nella res iudicata si risolva nella intollerabile lesione del diritto di agire e difendersi in giudizio, tanto più che – nella specie – si tratta di proteggere un diritto fondamentale. La cui salvaguardia, però, deve avvenire pur sempre nei limiti che l’ordinamento delinea[7].
Quando, allora, nella sentenza annotata si ricostruisce la portata del “giudicato implicito” – ritenendo, come detto, che l’accoglimento dell’eccezione di prescrizione appunto presupponeva necessariamente la “presa d’atto” dell’intervenuto acquisto a titolo originario del diritto dominicale in favore dell’Amministrazione pubblica – si evidenzia che nella controversia che aveva condotto alla sua formazione “tutti gli aspetti del rapporto su cui verte la questione pregiudiziale” erano stati “oggetto di una valutazione effettiva”; aggiungendosi che, proprio perché tale condizione ricorreva, “l’autorità di cosa giudicata copre l’accertamento, oltre che del singolo effetto dedotto come petitum (mediato), anche del rapporto complesso dedotto come causa petendi, sia esso di natura reale o di natura obbligatoria, dal quale l’effetto trae origine”. E, ponendosi nella medesima ottica, l’adunanza plenaria ritiene pure che l’ampliamento dei confini oggettivi del giudicato deve accompagnarsi all’aumento della “facoltà di modifica delle domande in corso di giudizio, onde evitare che la parte attrice” possa subire preclusioni derivanti da aspetti del rapporto sui quali non vi è stata alcuna (possibilità di) “vera” interlocuzione[8].
A queste rigorose condizioni (quanto meno in astratto peraltro difficili da revocare in dubbio, dato che il principio del contraddittorio costituisce l’in sé dei procedimenti giurisdizionali) tutto ciò che costituisce il contenuto della cosa giudicata, insomma, diviene davvero indiscutibile: inverandosi in tal modo quel “diaframma dal quale discende il concetto di “cristallizzazione” del diritto accertato nel titolo esecutivo ed il conseguente corollario di “intangibilità” del giudicato, nella sua duplice accezione formale (art. 324 c.p.c.) e sostanziale (art. 2909 c.c.)”. A fronte di esso sull’assetto del rapporto potrà nuovamente disputarsi solo alla luce di evenienze sopravvenute nel tempo[9].
Perde rilievo, altresì, la mancanza di una espressa e formale statuizione sul trasferimento della proprietà del bene: e ciò non solo perché su tale trasferimento, come accennato, i contendenti del precedente giudizio civile avevano dibattuto – sia pure al diverso scopo di individuare con esattezza il termine di decorrenza della prescrizione del diritto al ristoro dei danni – ma anche alla luce del principio di “tassatività” delle pronunce costitutive (art. 2908 del codice civile)[10]. Del resto, l’acquisto della proprietà, nell’ipotesi di accessione invertita, avviene a titolo originario, di modo che la sentenza eventualmente emessa ha natura di mero accertamento[11].
Senza dubbio il risultato cui la pronuncia in commento perviene si presenta non del tutto in linea con l’ormai chiaro divieto che le espropriazioni vengano condotte senza il rispetto dei canoni della “buona e debita forma”. Ma, prosegue la decisione[12], il giudicato civile non si pone in contrasto con il diritto dell’Unione europea (la disciplina della proprietà esula dalle competenze di quest’ultima); e l‘inosservanza della trama di principi derivanti dal diritto convenzionale CEDU non dà luogo all’obbligo di “una riapertura generalizzata dei processi – siano essi civili che amministrativi – definiti con sentenza passata in giudicato, nei quali sia stata fatta applicazione dell’istituto pretorio della c.d. occupazione acquisitiva, e di una disapplicazione dei relativi giudicati”.
Sembra questa, a ben vedere, la vera esigenza pratica che aveva dato luogo al contrasto giurisprudenziale risolto dalla pronuncia in commento. Una delle due decisioni richiamate tanto nell’ordinanza di rimessione, quanto in quella di che trattasi, nel richiamare la tesi difensiva della parte privata, aveva per l’appunto messo in luce la “sostanziale ingiustizia” del risultato cui perveniva la tesi della intangibilità dell’accertamento giurisdizionale relativo all verificarsi dell’occupazione appropriativa: in quanto finiva per perpetuare “un principio di diritto in base al quale la proprietà privata potrà essere trasferita con un giudicato contra legem (violazione art. 922, 1350 e 2643 c.c.) sebbene il legislatore abbia promulgato normativa atta a porre rimedio agli effetti di tale giudicato”[13].
Sul piano sostanziale, certo, si tratta di un inconveniente. Ma, a parte il fatto che si tratta di implicazione legata anche al “fluire del tempo”, il quale, com’è noto, secondo l’orientamento consolidato della Corte Costituzionale può concorrere a cagionare protezione non omogenea ad interessi di rilievo anche primario[14], giova porre in luce che la protezione della “cosa giudicata” costituisce l’unica e vera ragione che il Giudice amministrativo d’appello pone a base della propria conclusione. In altre occasioni, infatti, l’assenza di pronuncia giurisdizionale incontestabile sul regime dominicale del bene aveva condotto a soluzione opposta: negando, in fattispecie pressoché identica a quella decisa con la pronuncia annotata, qualunque effetto di acquisizione della proprietà in favore dell’Amministrazione nonostante, a rigore, l’applicazione dei principi generali avrebbe dovuto condurre al rigetto della domanda previa emanazione di una pronuncia (retroattiva) di mero accertamento[15].
La logica della decisione dell’adunanza plenaria, dunque, è consapevolmente circoscritta alla individuazione del punto di equilibrio ritenuto ragionevole tra due situazioni giuridiche fondamentali “in conflitto”: il diritto di proprietà e quello di agire e difendersi in giudizio (di cui l’intangibilità del giudicato costituisce articolazione obbligata). Conflitto che viene così risolto a favore del secondo: e, tutto sommato, la soluzione appare coerente con una giurisprudenza, sia del Magistrato ordinario che di quello amministrativo, che mai ha assegnato al diritto dominicale assoluta inviolabilità[16], escludendolo in tal modo dal novero delle situazioni soggettive a “nucleo rigido”[17].
Solo apparentemente, infine, la soluzione prospettata dall’adunanza plenaria colloca, e sia pure per un limitato arco di tempo, l’Amministrazione pubblica in posizione privilegiata rispetto alla controparte privata.
Nella fattispecie concreta, che potrebbe dirsi speculare, in cui l’accertamento del diritto di proprietà è stato pronunciato invece in favore della parte privata, è infatti noto che l’ormai consolidato orientamento del Consiglio di Stato consente invece all’Amministrazione pubblica di rimettere in discussione l’assetto dominicale del bene, emanando il provvedimento di acquisizione contemplato dall’art. 42 bis del testo unico espropriazioni.
La diversità delle situazioni è, però, sotto il profilo “strutturale” evidentissima: in quanto l’acquisizione del bene, com’è pure noto, avviene esercitando una potestà autonoma[18] (quella prevista oggi dal ridetto art. 42 bis). Riguardo tale potestà nessuna “preclusione” potrebbe dunque derivare dall’accertamento della proprietà in favore della parte privata[19]; trattandosi, in altre parole, di un “tratto libero” dell’azione amministrativa o, se si vuole, di “un potere non ancora esercitato”[20]. Ciò nonostante, anche in tal caso il Giudice amministrativo è giunto ormai ad affermare che a volte il giudicato può impedire “seccamente” all’Amministrazione di rimettere in discussione la proprietà, in particolare quando la sentenza ha condannato in termini espressi quest’ultima a restituire il bene[21], accogliendo la relativa domanda dell’interessato (alla cui opzione di recuperare il bene viene in tal modo attribuita decisiva prevalenza, nonostante la realizzazione dell’opera pubblica): così, il diritto dominicale rimane salvaguardato, in senso assoluto, persino dall’esercizio di un “potere” sopravvenuto e, come detto, completamente autonomo (anzi, la legittimità dell’attribuzione di tale “potere” vien fatta fondamentalmente discendere proprio sull’autonomia in parola)[22]. L’effetto preclusivo in parola si accompagna all’esaltazione (o esasperazione?) del principio della domanda[23], il quale concorre ad attribuire assolutezza all’opzione del privato volta ad ottenere comunque – e, si direbbe, a qualunque costo - la restituzione del bene[24].
Il Giudice amministrativo, del resto, non è certo nuovo nell’accentuare l’effetto preclusivo della sentenza nei confronti della “riedizione del potere”, allorché si tratti di proteggere il diritto di proprietà. Basti pensare all’ormai risalente decisione dell’adunanza plenaria 8 gennaio 1986, n. 1[25], in base alla quale persino la notificazione della sentenza di primo grado che abbia annullato il diniego del permesso di costruire impedisce all’Amministrazione la modifica dello strumento pianificatorio in senso incompatibile con il rilascio del permesso medesimo[26].
Testimonianza, di cui la pronuncia annotata costituisce piena conferma, del fatto che il “sistema” non ha mai in definitiva integralmente dubitato dell’attitudine della sede giurisdizionale amministrativa a definire le condizioni di tutela delle situazioni giuridiche fondamentali[27].
[1] Con più specifico riferimento alla relazione tra acquisizione ex art. 42 bis del Testo unico espropri e giudicato, TROPEA, Giurisdizione e acquisizione sanante: l’ennesima sciarada (nota a Cass., sez. I, ord. N. 29625/20), in www.giustiziainsieme.it, Gennaio 2021).
[2] “Circostanza aggravante”, si direbbe, delle statisticamente frequentissime fattispecie di espropriazioni irregolari, definite icasticamente come “un’autentica onta per la nostra P.A.” (MAZZAMUTO M., Il fantasma dell’occupazione appropriativa tormenta i giudici amministrativi, in Giur. It., 2012, 2668 ss.).
[3] In www.giustizia-amministrativa.it.
[4] “È nel rendere vana la contestazione che si manifesta la forza del giudicato … La cosa giudicata è il mirabile tentativo dell’ordinamento di dare staticità al concreto, ma questo fine esso non può che raggiungerlo che per una via dinamica, cioè rendendo vana o irrilevante la contestazione” (così SATTA S. - PUNZI, Diritto processuale civile, PADOVA 1992, 237). Chiarissimo è, nella decisione del Giudice amministrativo della nomofilachia nella pronuncia annotata, il richiamo al “principio logico di non contraddizione”, il quale sarebbe irrimediabilmente violato ove il G.A. realizzasse un risultato concretamente incompatibile con quello stabilito in sede giurisdizionale ordinaria.
[5] MANDRIOLI-CARRATTA, Diritto processuale civile, vol. I, Torino 2017, 175 ss..
[6] Cfr. par. 7.3.2. della pronuncia annotata, che affronta il rapporto tra le due azioni.
[7] La Costituzione italiana, d’altra parte, pur menzionando espressamente la proprietà privata nella parte I, non la protegge certo incondizionatamente. Nel relativo incipit dei lavori dell’Assemblea, infatti, si legge che “la proprietà privata – fermo restando il suo carattere privato – assume una duplice funzione: personale e sociale. Personale, in quanto a fondamento di essa sta l’esigenza di garantire la libertà e l’affermazione della persona; sociale in quanto l’affermazione della persona umana non è concepibile al di fuori della società, senza il concorso della società, e in quanto è primaria la destinazione dei beni materiali a vantaggio di tutti gli uomini” (TAVIANI Paolo Emilio, su il Diritto di proprietà, in Commissione per la costituzione, III sottocommissione, rinvenibile in www.Camera.it). Al pubblico potere, del resto, non è affidato unicamente il compito di riconoscere le situazioni giuridiche fondamentali, ma anche quello di proteggerle: onde è chiaro che è solo il potere pubblico stesso a stabilire entro che limiti tale protezione opera (in argomento, tra gli altri, LUCIANI, Costituzionalismo irenico e costituzionalismo polemico, in Giur. Cost., 2006, 1646). La presa di posizione dell’adunanza plenaria dirime su tale aspetto un contrasto di giurisprudenza (anche l’ordinanza di rimessione richiamava, tra le decisioni di segno diverso, Cons. Stato, sez. IV, 13 marzo 2020 n. 1827 e 16 novembre 2007, n. 5830, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it).
[8] Sul principio del contraddittorio come “possibilità riconosciuta agli interessati di influire sull’esito del giudizio”, TOSI, Commentario breve alla Costituzione, a cura di CRISAFULLI e PALADIN, Padova, 1990, 24. Da altro punto di vista (nel caso affrontato, dell’Amministrazione originariamente convenuta in giudizio), vale l’affermazione a tenore della quale “nessuna concreta relazione giuridica tra le parti sarebbe realmente stabilita, se fosse consentito a quella soccombente di intentare un nuovo processo sulla base di una ragione, argomentazione, prova prima non addotta e idonea, in ipotesi, a fare determinare diversamente la relazione tra le parti. Solo fatti sopravvenuti o prove o frodi successivamente scoperte potrebbero, sotto certe condizioni, portare a questo risultato” (PUGLIESE G., Giudicato civile (dir. vigente), voce dell’Enciclopedia del diritto, vo. XVIII, Milano 1959, 864).
[9] Sono passaggi della motivazione di Cons. Stato, ad. plen., 9 maggio 2019, n. 7, in www.giustizia-amministrativa.it, che ha affrontato, adottando in termini generali un’ottica coerente a quella della sentenza in commento, il diversissimo tema della possibilità di rivedere la penalità di mora inflitta all’Amministrazione dal Giudice amministrativo (della cognizione o) dell’ottemperanza
[10] Sul quale PAVARIN-GHEDINI, sub art. 2908 c.c., in Commentario breve al codice civile, a cura di CIAN-TRABUCCHI, Padova, 1988, 2130
[11] Il profilo, colto nel par. 7.2. dell’articolata motivazione, conduce poi a confermare l’irrilevanza – oltre che delle risultanze catastali – anche di quelle dei registri immobiliari, avendo nel caso di specie la trascrizione efficacia (neppure dichiarativa ma) di semplice pubblicità notizia. Ciò con l’eccezione delle fattispecie dell’usucapione abbreviata e dell’acquisto dall’erede apparente, in cui la trascrizione assume “ruolo” costitutivo, ferma però restando la natura dichiarativa della sentenza (in argomento, GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 1994, 83). Sulla trascrizione degli acquisti a titolo originario, MENGONI, Gli acquisiti a non domino, Milano, 1994, passim.
[12] Par. 7.7
[13] Cons. Stato, sez. IV, 13 marzo 2020, n. 1827 e, nella stessa direzione, sez. IV 16 novembre 2007, n. 5830, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it.
[14] Tra le tante Corte Cost., 15 novembre 2018, n. 200, per esteso in www.cortecostituzionale.it.
[15] Ci si riferisce, tra le altre, alla pronuncia Cons. Stato, sez. IV. 16 marzo 2012, n. 1514 (in Giur. It., 2012, 2668, s.m., con nota di MAZZAMUTO, per esteso in www.giustizia-amministrativa.it), relativa a procedura irregolare in cui l’ultimazione dei lavori risaliva addirittura al 1995. Di tale ultimazione, però, nessuna pronuncia giurisdizionale dichiarativa aveva, per l’appunto, attribuito incontestabilità.
[16] Non è un caso, ad esempio, che al diritto di proprietà è sempre stato assegnato il connotato della degradabilità (di modo che mai, per esso, la giurisprudenza ha inverato l’inversione logica descritta da NIGRO, Introduzione, nuovi orientamenti giurisprudenziali in tema di ripartizione della giurisdizione fra giudice ordinario e giudice amministrativo, in Foro amm., 1981, 2143, il quale affermava che “dalla formula di Mortara, c’è diritto soggettivo perché non c’è potere, si passa all’altra, completamente alla rovescia, non c’è potere perché c’è diritto soggettivo, dove potere significa ovviamente anche interesse legittimo e giurisdizione amministrativa”).
[17] Espressione utilizzata, tra le altre, da Cass. civ., sez. un., 1° agosto 2006, n. 17461, in Diritto e giustizia, 2006, fasc. 39, 18, con nota di DI MARZO. Sulle ragioni “pratiche” di tale orientamento, “storicamente” originato da un processo amministrativo al tempo fornito di uno strumentario di tutela incompleto, PIGA, Nuovi criteri di discriminazione delle giurisdizioni amministrativa e ordinaria: siamo a una svolta, in Giust. Civ. 1980, 357 ss.
[18] Corte cost., 30 aprile 2015, n. 71, in Foro it., 2015, I, 2629, con nota di PARDOLESI.
[19] Il tema del rapporto tra giudicato ed il successivo esercizio della funzione amministrativa è vastissimo. Ex plurimis, BENVENUTI, Giudicato (dir. amm.), voce dell’Enciclopedia del diritto, vol. XVIII, Milano, 1969, 899.
[20] Il tema del giudicato a formazione progressiva è stato affrontato di recente anche dall’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, nella decisione 9 giugno 2016, n. 11 (in Foro it., 2016, III, 186, con nota di VACCARI). Si tratta di un modo di descrivere il rapporto tra sentenza del Giudice amministrativo e riedizione della potestà amministrativa oggi criticato, in quanto svilirebbe il giudizio di cognizione (in argomento, SPADARO, Giudicato a formazione progressiva e diritto europeo. Un’occasione sprecata dall’adunanza plenaria, in Diritto processuale amministrativo, 2016, fasc. 4, 1169). Per un’impostazione incline invece ad erodere la potestà amministrativa con la successione delle pronunce del Giudice amministrativo della cognizione, anche laddove tale potestà esprima elevata discrezionalità, Cons. Stato, sez. VI, 25 febbraio 2019, n. 1321, in Giustizia-amministrativa.it.
[21] Cons. Stato, ad. plen., 18 febbraio 2020, n. 5 e 9 febbraio 2016, n. 2, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it
[22] Corte Cost. n. 71/2015, cit.
[23] Da ultimo, GRECO, Interesse legittimo ed effettività della tutela, in Giustizia-amministrativa.it.
[24] La questione esula dal tema della protezione del diritto di proprietà, ed involge quello più generale della portata del principio dispositivo e dei suoi possibili inconvenienti: in argomento, SCOCA, Il principio della domanda nel processo amministrativo, in Il corriere giuridico, 2015, 1600 (si tratta di commento a Cons. Stato, ad. plen., 27 aprile 2015, n. 4, per esteso in www. Giustizia-amministrativa.it). Inoltre, COMPORTI G.D., Azione di annullamento e dintorni nell’ottica della soggettività delle forme di tutela, in Giur. It., 2015, 1693.
[25] Per esteso in Foro it., 1986, III, 97.
[26] L’inerenza del diritto di costruire al diritto di proprietà costituisce un orientamento consolidato della giurisprudenza, del quale, nonostante la sinteticità della motivazione, rappresenta ancora sicuro punto di riferimento la sentenza Corte Cost. 30 gennaio 1980, n. 5, in www.cortecostituzionale.it; oltre che, naturalmente, le più risalenti decisioni n. 6 del 1966 e nn. 55-56 del 1968, ibidem. Sul tema, e sulle possibilità di diverse soluzioni legislative a costituzione invariata, si veda la Relazione della commissione di studio per i problemi nascenti dalla sentenza n. 5 del 1980 della Corte Costituzionale, in Riv. Giur. edilizia, 2000, 3, 257); ed il parere Cons. Stato, ad. gen., 29 marzo 2001, rinvenibile sul sito internet www.giustizia-amministrativa.it, reso in vista dell’emanazione del d.p.r. 8 giugno 2001, n. 327.
[27] In argomento, PIGNATELLI, I diritti inviolabili nel riparto di giurisdizione: la resistenza di un “falso” costituzionale, in www.federalismi.it; MAZZAMUTO M., La discrezionalità come criterio di riparto della giurisdizione e gli interessi legittimi fondamentali, in www.giustizia-amministrativa.it.
Cass. S.U., 25 marzo 2021, n. 8500 e fattispecie reddituali a efficacia pluriennale. Sulla rilevanza del valore della stabilità dei rapporti e del consolidamento delle fattispecie impositive in materia tributaria
di Laura Castaldi
Sommario: 1. Premessa - 2. La posizione assunta dalle SS.UU. - 3. Premesse metodologiche - 4. Alcuni contributi al dibattito - 5. Le connesse problematiche alla valenza attribuita al principio di autonomia dei periodi impositivi - 5.1. Disquisizioni intorno all’“inerzia” e alla “non contestazione” con riferimento ad annualità pregresse definitive: a latere fisci - 5.2. (Segue) a latere contribuente - 5.3. Sulla dilatazione temporale degli obblighi di conservazione documentale - 5.4. Un caso di prospective overruling procedurale? - 6. Considerazioni conclusive - 6.2. (Segue).
1. Premessa
Ormai da tempo si registravano divergenze di vedute tra gli addetti ai lavori in ordine all’individuazione dei limiti temporali – in chiave necessariamente preclusivo-decadenziale – alla contestabilità nell’an da parte degli Uffici finanziari di quelle che, da ultimo, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione - Cass. S.U. 25 marzo 2021 n. 8500 - hanno ritenuto identificare con l’espressione “fattispecie reddituali a efficacia pluriennale” ovvero – anche se giuridicamente non è affatto la stessa cosa – “elementi reddituali ad efficacia pluriennale” : volendo con ciò indicare omnicomprensivamente (ma, come vedremo poi, impropriamente) quei fatti ed eventi al verificarsi dei quali il legislatore tributario ricollega effetti – fiscalmente rilevanti e conformanti il modo di essere sostanziale della fattispecie impositiva – destinati però a spiegarsi temporalmente in una pluralità (talvolta indefinita e indeterminabile ex ante)[1] di periodi d’imposta successivi a quello in cui il fatto ha integrato gli estremi di sua rilevanza fiscale.
In un panorama dagli incerti contorni, il recente profilarsi nella giurisprudenza di legittimità di un orientamento interpretativo che, a nostro parere, scandiva rigorosamente la scansione temporale dei contenuti accertativi degli Uffici in stretta osservanza dei termini decadenziali posti dal legislatore a presidio della loro elevazione, ha suscitato inaspettate reazioni ansiogene. Indotte forse da timori su possibili inefficienze o inadeguatezze della macchina amministrativa nel garantire un’efficace azione di contrasto all’evasione fiscale: e così, alla fine, è scattato l’altolà.
Talché – pur in assenza di un reale contrasto giurisprudenziale - all’indomani delle sent. 9993/2018 e 2899/19, con ben quattro ordinanze interlocutorie[2] le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi su di una questione di massima della “particolare importanza”: consistente, appunto e come già detto, nello stabilire se la contestabilità nell’an di un componente redditualmente rilevante ad efficacia pluriennale venga meno per gli Uffici finanziari con il maturarsi del termine decadenziale di rettificabilità in accertamento della dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta in cui siffatto componente reddituale pluriennale ha visto integrarsi la sua fattispecie costitutiva, ovvero se tale profilo di sua contestabilità in accertamento si conservi con riferimento a tutti,indiscriminatamente, i successivi periodi impositivi in cui esso è destinato, talvolta per volontà del contribuente talaltra per disposizione di legge, a spiegare i suoi effetti in chiave conformativa della fattispecie impositiva.
2. La posizione assunta dalle SS.UU.
La pronuncia che ne è scaturita – si tratta come è noto della sent. 25 marzo 2021 n. 8500 – ha visto le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sposare quest’ultima opzione interpretativa: con un percorso argomentativo che, al di là dell’incedere un po’ farraginoso del ragionamento, si riassume a guardar bene in un paio di decisivi passaggi che possono qui agevolmente sintetizzarsi.
La dichiarazione dei redditi è un atto, recettizio, dichiarativo di scienza: come tale, esso è deputato a riportare ed esporre – in chiave doverosamente partecipativa rispetto agli Uffici finanziari– fatti che assumono rilevanza giuridica in ragione degli effetti (fiscalmente rilevanti) che vi ricollega il legislatore ai fini della determinazione/rilevazione, con cadenza annuale, del reddito imponibile riferibile ad un determinato contribuente.
Alcuni fatti sono, per legge o per volontà del contribuente, destinati a rilevare giuridicamente, in chiave di loro incidenza quanto alla determinazione del risultato reddituale imponibile del contribuente, con riferimento ad una pluralità di periodi d’imposta[3]; con ciò trovando (o dovendo trovare) reiterata esposizione in tutte le corrispondenti dichiarazioni dei redditi interessate da tale loro, temporalmente pluriennale, rilevanza giuridica.
Poiché l’attività ricognitiva in accertamento degli Uffici finanziari ha ad oggetto la verifica di correttezza, fedeltà e compiutezza del risultato reddituale complessivo e unitario annualmente riferibile al contribuente, così come emergente dall’articolato e composito iter di sua rilevazione da costui operato (o che avrebbe dovuto essere operato) in sede dichiarativa, ogni fatto che è destinato a incidere su tale risultato è suscettibile di essere sottoposto a verifica e ad eventuale sindacato da parte degli organi accertatori fino allo spirare del corrispondente termine decadenziale di accertamento, senza limiti contenutistici di sorta: con la conseguenza che rispetto a “fatti” aventi valenza reddituale pluriennale, nessun effetto preclusivo quanto alla loro contestabilità in accertamento potrebbe farsi discendere per effetto della loro eventuale mancata contestazione – e intervenuta incontestabilità per compiuto maturarsi dei relativi termini decadenziali di accertamento – da parte degli Uffici finanziari con riguardo alla dichiarazione dei redditi relativa al periodo impositivo nel quale si è verificata quella che la Corte chiama (tradendo un certo imbarazzo concettuale) la loro “genesi causale sostanziale”, e che noi riterremmo invece più corretto chiamare la loro fattispecie costitutiva sostanziale.
3. Premesse metodologiche
Ci permettiamo, rispettosamente, di dissentire dalla posizione espressa dalla Suprema Corte.
E la ragione del nostro dissenso si riassume e si sintetizza in una constatazione magistralmente espressa, per l’appunto, proprio dalla Suprema Corte laddove questa – con un ricorso all’utilizzo grammaticale del modo condizionale che si disvela davvero ricco di significato quando calato nel contesto - rileva come “nella soluzione prospettata, l’amministrazione finanziaria potrebbe contestare il fatto generatore ed il presupposto costitutivo dell’elemento pluriennale anche a molti anni di distanza dal suo insorgere”.
Non si poteva dire meglio per evidenziare il risultato ultimo cui conduce il pronunciamento in rassegna e l’incidenza vanificatoria che esso è destinata a spiegare sul senso e sulla funzione da ascrivere alla natura decadenziale dei termini temporali di accertamento nella logica di sistema che impronta la nostra materia, e sul loro impatto rispetto ad un settore – quello delle imposte sui redditi – dove la disciplina sostanziale e – necessariamente di riflesso – quella procedurale e processuale sono impegnate a coniugare il continuum di venuta ad esistenza dell’indice di espressività di capacità contributiva con la necessità di una sua frazionata rilevazione, a sua volta funzionale alla periodicità di suo assoggettamento a prelievo.
Del resto, come la pensiamo in argomento abbiamo già avuto modo di dirlo altrove, in tempi non sospetti e con dovizia di elementi a corredo[4].
Anche per rispetto dell’economia di una nota quale vuol essere la presente, non ci soffermeremo, dunque, in questa sede a disquisire sui diversi passaggi argomentativi che la Suprema Corte dispiega a sostegno della posizione interpretativa adottata: posto che ciò, fra l’altro, comporterebbe il dover scomodare e mettere in ballo una serie di questioni e problematiche assai complesse che finirebbero per essere trattate necessariamente in superficie e, dunque, senza costrutto alcuno. Quando, per contro, la presa di posizione della Suprema Corte, anche se non certo inaspettata quanto al suo contenuto, ha subito sollevato reazioni di segno vario e diverso: talché già si profila un certo fenomeno inflazionistico di commenti che non è nostra intenzione ulteriormente implementare.
4. Alcuni contributi al dibattito
Ci sia però consentito avanzare qualche breve spunto di riflessione, a titolo di mero contributo, al vivace confronto dottrinale e giurisprudenziale già in corso.
In primo luogo, riteniamo che la delicatezza e il polimorfismo della questione in discussione[5] avrebbe dovuto consigliare una maggiore cautela nell’affrontarla nei termini assolutamente generali e oggettivamente indiscriminati prescelti invece dalla Suprema Corte, pur nella dichiarata consapevolezza della sua complessità[6].
La decisione ci sembra sia stata un po’ precipitosa e, tutto sommato, non una buona idea.
Problemi complessi spesso richiedono soluzioni complesse e opportuni distinguo. L’operata scelta per la generalità e univocità di risposta ha finito invece – a nostro parere – per ripercuotersi e andare a discapito della linearità (ma soprattutto della coerenza intrinseca anche solo lessicale) del pensiero dei Supremi Giudici: che infatti prende le mosse da un orizzonte amplissimo – dove sono richiamate a descrivere il quadro di riferimento, senza distinzioni di sorta, perdite e ammortamenti, sopravvenienze attive, detrazioni e crediti d’imposta - prosegue altalenando pericolosamente tra “fattispecie reddituali pluriennali”, “componenti economici e patrimoniali con rilevanza pluriennale”, elementi con “genesi causale sostanziale” in un determinato periodo d’imposta ma “efficacia poliennale”, per infine approdare a circoscrivere l’attenzione e calibrare il discorso – giusta, probabilmente, l’oggetto del contendere rimesso alla cognizione della Suprema Corte – sulle sole categorie reddituali a rilevazione analitico-contabile dove la disciplina di rilevazione della redditività imponibile, per il reddito d’impresa anche in ragione del principio di derivazione, vede una continuità di rilevanza fiscale di molti componenti positivi e/o negativi di reddito in proiezione ultrannuale.
In questo panorama assai composito, il punto di criticità a nostro parere sta nel ridurre il tutto ad una questione di “fatti” o meglio ad una questione di “narrazione di fatti” concorrenti al risultato reddituale imponibile[7] : rispettivamente da parte del contribuente nella dichiarazione e, in termini necessariamente simmetrici, da parte dell’Ufficio nell’atto di accertamento in rettifica (non a caso, quest’ultimo, denominato tale dal legislatore).
Abbiamo l’impressione che la questione non stia esattamente in questi termini. Né in senso assoluto né in senso relativo.
Che né la dichiarazione né l’accertamento siano, o siano solo, una semplice narrazione reciprocamente partecipativa di meri fatti lo dimostra proprio la latitudine del giudicato tributario: che copre con il crisma della definitività l’accertamento/cognizione che il giudice compie non solo della posizione di debito/credito rispettivamente del contribuente e dell’Amministrazione finanziaria, ma anche del modo di essere della fattispecie impositiva, nei suoi elementi costitutivi da cui si estrinseca il rapporto obbligatorio d’imposta intercorrente tra le parti in causa, coltivando la propria attività cognitiva entro il recinto non solo fattuale, ma anche valutativo, che gli viene riportato dalle parti, e nella dichiarazione e nell’atto di accertamento che tale dichiarazione rettifica, nei limiti di ciò che costituisce il contenuto del ricorso introduttivo del giudizio sotto il profilo oggettivo e motivazionale.
Il contribuente non si limita ad esporre fatti, ma ne offre una declinazione/rappresentazione fiscalmente rilevante proprio attraverso il veicolo della dichiarazione (anche, se del caso, per il tramite di propri comportamenti concludenti a carattere omissivo): lo spirare dei termini decadenziali di rettifica in accertamento della dichiarazione (e, corrispondentemente per il contribuente, di sua emendabilità ex art. 2, co. 8, lg. 322/1998) comporta la cristallizzazione della rappresentazione della fattispecie impositiva che ne scaturisce e che ne è contenuta con quel valore di immutabilità anche pro futuro che è cifra proprio di quell’esigenza di stabilità dei rapporti tributari e presidio alla coerente rilevazione del loro sviluppo temporale che la sentenza della Suprema Corte mette ora pericolosamente in crisi, e sui cui risvolti ci soffermeremo più oltre.
Ma il discorso vale, a maggior ragione, in senso relativo: è sufficiente concentrare l’attenzione sulle cd. “fattispecie ad efficacia pluriennali” che la Corte elenca a titolo esemplificativo nella sentenza per convincersene. Posto che vi si trovano annoverate le perdite pregresse e i crediti d’imposta riportati a nuovo la cui contestabilità, nei termini riconosciuti come ammessi dalla sentenza, non può che comportare necessariamente la rimessa in discussione dell’intero modo di essere dell’imponibile, ovvero addirittura del risultato finale liquidatorio d’imposta, con prospettica riferibilità a periodi impositivi ormai definitivi.
Senza contare che non tutto ciò che la Corte elenca come ricompreso nella sfera d’interesse della sua pronuncia è destinato in realtà a spiegare rilievo in chiave pluriennale sul versante della determinazione del risultato reddituale: com’è invece sicuramente per ammortamenti, sopravvenienze attive, rateizzi di plusvalenze, accantonamenti. Così non è per le detrazioni che incidono ex post sulla liquidazione dell’imposta netta, come pure, e a maggior ragione, per i crediti d’imposta riportati a nuovo che rilevano ai fini della determinazione dell’imposta da versare e fermo restando che anche sul versante dei componenti con rilevanza reddituale pluriennale si potrebbero/dovrebbero operare opportuni distinguo considerando che presentano tale caratteristica anche taluni oneri deducibili (com’è nel caso di cui all’art. 10, lett. e-bis, del T.U.I.R.) che però solo impropriamente possono dirsi concorrere alla determinazione del risultato reddituale complessivo del contribuente.
Ci sembra che una simile multiforme varietà di situazioni meriterebbe un’adeguata considerazione prima di essere pacificamente ricondotta ad un’unica disciplina: per giunta sotto un aspetto di così rilevante importanza qual è quello dell’accertamento.
5. Le connesse problematiche alla valenza attribuita al principio di autonomia dei periodi impositivi
Ci sono poi alcuni, chiamiamoli così, profili di dettaglio (o meglio, di contorno) che rimangono sullo sfondo nell’economia della sentenza ma che – sulla scorta della declinazione interpretativa offerta in ordine al principio di autonomia dei periodi d’imposta, quando sviluppata coerentemente – non paiono di facile risoluzione e aprono prospettive d’indagine tanto complesse quanto inaspettate.
5.1. Disquisizioni intorno all’“inerzia” e alla “non contestazione” con riferimento ad annualità pregresse definitive: a latere fisci
In primo luogo c’è da chiedersi se, ed eventualmente quale, significato debba attribuirsi pro futuro all’eventuale omessa contestazione, da parte dell’Amministrazione finanziaria, di un cd. “componente reddituale pluriennale” nel contesto e all’esito di un’attività di controllo e verifica che abbia interessato una annualità rispetto alla quale essa (non contestazione) abbia assunto i crismi della definitività: e ciò nella duplice prospettiva che l’attività istruttoria sia sfociata, alternativamente, in una chiusura delle operazioni senza elevazioni di sorta (e il relativo termine decadenziale di accertamento sia medio tempore maturato) ovvero abbia condotto, sì, alla notificazione di un avviso di accertamento, ma riportante rilievi e contestazioni altri e diversi rispetto al suddetto componente reddituale pluriennale (irrilevante risultando poi a questo riguardo il fatto che l’atto di accertamento sia o meno stato oggetto di ricorso da parte del contribuente).
In questo caso, infatti, la tesi della Suprema Corte – secondo la quale all’(intervenuta definitività per maturazione dei termini di espletamento dell’) inerzia dell’amministrazione all’accertamento – stante la mera eventualità di quest’ultimo – non potrebbe mai attribuirsi alcun significato concludente, men che mai ingenerante un legittimo affidamento nel contribuente quanto alla corrispondente correttezza della propria condotta fiscale nel trattamento di un componente reddituale pluriennale valevole anche pro futuro – si rivelerebbe assai poco pertinente e forse addirittura impropriamente invocata: posto che, nell’ipotesi prospettata, l’inerzia si atteggerebbe a relativa (riguardando il singolo componente reddituale pluriennale) ma non assoluta, inserendosi piuttosto in un’attività di verifica e accertamento positivamente espletata dall’Ufficio: e anzi, solo impropriamente in un contesto siffatto potrebbe parlarsi di inerzia[8], dovendosi invece più opportunamente parlare di mancata contestazione e, dunque, di positiva condivisione, ad opera degli organi accertatori, delle valutazioni fiscali operate dal contribuente in sede dichiarativa quanto al regime applicabile al componente reddituale pluriennale.
Ci lascia davvero perplessi, in un simile orizzonte, sostenere che il principio di autonomia dei periodi d’imposta osti al riconoscimento di un qualsivoglia effetto preclusivo a future contestazioni da parte dell’Ufficio finanziario circa il trattamento fiscale riservato al componente reddituale pluriennale dal contribuente nelle successive dichiarazioni d’imposta.
5.2. (Segue) a latere contribuente
In ogni caso, la posizione assunta dalla Suprema Corte – con conseguenze ancor più complesse a seconda di come risolviamo la questione appena sopra tratteggiata – non può non ribaltarsi e investire specularmente anche la parte contribuente: la quale dunque, simmetricamente, si ritiene alcuna preclusione di sorta dovrebbe incontrare nell’adempimento dei propri obblighi dichiarativi pro futuro, non solo dall’intervenuta definitività (per maturato termine di loro rettificabilità) di precedenti dichiarazioni quanto all’an, quomodo e quantum di rilevanza fiscale assegnato ad un determinato componente reddituale pluriennale dalle stesse emergenti,[9] ma addirittura dalla mancata impugnazione in toto o in parte qua di un avviso di accertamento dell’Ufficio finanziario che tali profili, nei loro diversi profili di espressione, fosse venuto precedentemente a contestare.
Ed invero, posto che il principio di autonomia dei periodi d’imposta – a maggior ragione nella logica seguita dalle Sezioni Unite – spiega rilievo sul piano sostanziale, esso non ha coloriture di parte e, dunque, la sua lettura dovrebbe necessariamente declinarsi a doppio senso e valere tanto per l’amministrazione finanziaria in sede di verifica in accertamento quanto per il contribuente in sede dichiarativa. Insomma, se la definitività non è preclusiva non lo può che essere a doppio senso. Con buona pace della coerenza e continuità di rilevazione della materia imponibile e/o di conformazione della fattispecie impositiva – pur nella periodizzazione della sua rilevazione ai fini della sua, del pari periodica, soggezione al prelievo – che impronta tutta la disciplina sostanziale in materia di imposte sui redditi.
Con l’ulteriore complicazione – ma di questo facciamo solo rapido cenno perché l’argomento, nella sua complessità, richiederebbe ben altri spazi di approfondimento – che un simile scenario potrebbe risultare suscettibile di comportare conseguenze di non poco conto, laddove il cd. componente reddituale pluriennale sia destinato a rilevare fiscalmente non solo direttamente (e dunque in sé e per sé quale elemento concorrente in positivo o negativo alla determinazione del risultato reddituale imponibile di una pluralità di periodi impositivi), ma altresì ad incidere indirettamente nella determinazione di altre componenti reddituali non pluriennali: com’è segnatamente nel caso degli ammortamenti, per quanto attiene poi alla determinazione delle plusvalenze/minusvalenze dei beni cui essi afferiscono nel contesto del reddito d’impresa o di lavoro autonomo.
La prospettiva d’indagine richiede un po’ di sforzo di immaginazione per essere adeguatamente sviluppata ed esplorata, forse non conduce da nessuna parte ma la nostra sensazione è che qualche opportuna verifica in argomento andrebbe fatta, se non altro per capire se la rigorosa logica delle simmetrie fiscali (oggettive e/o soggettive) che impronta in generale tutto il sistema di imposizione sui redditi, ed in particolare la disciplina di rilevazione analitica del reddito d’impresa e di lavoro autonomo, regge comunque in questo diverso scenario e conserva la sua intrinseca coerenza.
La fantasia poi potrebbe portarci lontano e, allargando l’angolo di visuale, farci chiedere se la lettura dell’art. 7 del T.U.I.R. in punto di “autonomia ed annualità dei periodi d’imposta” – ritenuti dalla Suprema Corte i “fattori interpretativi chiave per la risoluzione del problema” – sia destinata a spiegare qualche significativo impatto sul versante della disciplina degli interpelli e, in particolare, quanto al requisito della preventività della loro proposizione rispetto alla posizione in essere della fattispecie concreta, relativamente alla quale si predica l’obiettiva incertezza applicativa di una determinata disposizione normativa. Condizione, quella della preventività, la cui richiesta ricorrenza tanto limita l’accessibilità a siffatto strumento e l’utilità del medesimo nel consolidare il rapporto di cooperazione tra Amministrazione finanziaria e contribuenti di cui è istituzionalmente auspicato veicolo di attuazione[10].
Non è detto che la pronuncia in rassegna sia destinata ad aprire interessanti prospettive di non lieve momento sotto questo profilo.
5.3. Sulla dilatazione temporale degli obblighi di conservazione documentale
Ma senza divagare troppo e tornando strettamente in medias res, particolarmente stringenti ci sembrano invece i problemi che, neppure troppo sullo sfondo, emergono dalla sentenza per quanto attiene alla dilatazione dei termini temporali relativi agli obblighi di conservazione della documentazione dimostrativa dell’elemento pluriennale: che, se abbiamo compreso bene il ragionamento della Corte, dovrebbero andare di pari passo, adeguandosi e calibrandosi consequenzialmente – quanto al loro dies a quo e relativo loro dies ad quem – con riferimento ai termini decadenziali di accertamento della dichiarazione relativa all’ultimo periodo impositivo di rilevanza fiscale dell’elemento reddituale pluriennale: permanendo inalterata, lungo tutto il corrispondente arco temporale dichiarativo, e a prescindere da medio tempore intervenute definitività di singole annualità per sopravvenuta maturazione dei termini decadenziali di rettifica delle relative dichiarazioni, la verificabilità in accertamento ed eventuale contestabilità, ad opera dell’Ufficio finanziario, dei suoi fatti generatori e dei suoi presupposti costitutivi, a prescindere dal periodo d’imposta cui sarebbe riconducibile la loro insorgenza.
5.4. Un caso di prospective overruling procedurale?
Ora, a noi sembra che qui il problema non sia solo – in via di principio – di pratica applicabilità sul piano operativo, oltreché di resistenza in chiave giustificativa secondo i canoni della proporzionalità e della ragionevolezza, di un simile costrutto.
E che già, sotto questo profilo, molto si potrebbe dire: quando solo si consideri che – stante la varietà e vastità delle fattispecie annoverate dalla Corte (e annoverabili) nell’orbita delle cd. componenti reddituali pluriennali, come tali soggette ai principi enunciati nel suo pronunciamento – l’obbligo di conservazione documentale nei termini declinati dalla Corte può investire sia imprese che lavoratori autonomi, ma anche semplici contribuenti non tenuti alla contabilità[11], può concernere singoli specifici componenti reddituali, ma anche componenti pluriennali che generano e traggono loro fondamento costitutivo nella stessa complessiva fattispecie impositiva relativa ad un determinato periodo impositivo[12], può abbracciare archi temporali ragionevolmente contenuti, ma anche potenzialmente illimitati o straordinariamente ampi[13]. Il tutto, in evidente attrito rispetto alle evocate semplificazioni e all’alleggerimento dagli incombenti formali che sembra andare per la maggiore in questo frangente storico.
C’è, in verità, qualcosa di più.
Non soltanto le espressioni lessicali utilizzate[14], ma proprio la manifesta difficoltà della scansione argomentativa spesa a supporto in parte qua del ragionamento, sembrano tradire la consapevolezza della Corte circa l’intrinseca novità (potremmo chiamarla, forse più correttamente, ragionevole imprevedibilità) che la propria posizione interpretativa in merito ai termini decadenziali di contestabilità in accertamento dei cd. componenti reddituali pluriennali è destinata a spiegare, come ricaduta procedurale[15], sulla parallela prospettica dilatazione temporale degli obblighi di conservazione documentale a carico dei contribuenti. La fatica di far quadrare il cerchio è evidente: come emerge laddove si richiama (a onor del vero con grande onestà intellettuale) il proprio precedente in termini, che però purtroppo suona di tenore esattamente opposto a quanto si pretenderebbe sostenere[16], tentando di dargli un senso coerente con gli assunti predicati; come pure laddove si cerca malamente di sminuire la portata dell’art. 8, co. 5, dello Statuto dei diritti del contribuente per un verso scomodando (fra l’altro discutibilmente) la gerarchia delle fonti, per l’altro sottolineando la connotazione di disposizione di principio da attribuire alla disposizione per contrabbandarne la non applicabilità ai casi di specie, descritti come “ipotesi del tutto caratteristiche”: quando solo poche pagine prima la Corte si è dilungata a constatare la frequenza sempre maggiore che il fenomeno del “differimento pluriennale” registra nel sistema impositivo reddituale per ciò che strumento di equo contemperamento dell’esigenza di preservare il gettito erariale e, al contempo, di ricorrere alla leva tributaria in chiave incentivante per l’attuazione di politiche di modernizzazione e rilancio anche economico (come nel settore edile), ovvero per il perseguimento di obiettivi virtuosi (la tutela dell’ambiente, la salvaguardia del territorio ecc.).
Con un problema di non poco conto che nel frattempo si pone: che sta nell’ esigenza di tutelare, sotto questo versante, il legittimo affidamento medio tempore riposto dai contribuenti nel quadro normativo vigente e nella lettura giurisprudenziale fino ad oggi offertane: esigenza di tutela cui non sembra soddisfacentemente rispondere il richiamo della Corte – quasi alla stregua di una valvola di chiusura – al dovere di ammettere, in sede contenziosa, il contribuente a fornire in altro modo la prova posta a suo carico, in tutti quei casi nei quali vi siano in concreto elementi per ritenere che egli si sia legittimamente privato oltre il termine decennale della documentazione fiscale. Se non altro perché il problema qui è a monte rispetto al diritto di difesa e della prova in giudizio: e riguarda, appunto e prima ancora, la fase endoprocedimentale istruttoria dell’accertamento. Il cui compiuto e soddisfacente svolgimento – secondo un principio di parità delle parti che è il riflesso della buona fede reciproca – - è spesso la miglior profilassi al proliferare del contenzioso: come dimostra di ritenere il legislatore tributario per effetto del combinato disposto dell’art. 5-ter del D.L.vo n. 218/1997 e dell’art. 12 della lg. n. 212/2000.
Insomma, la pronuncia in rassegna profila un problema di possibile lesione del diritto di difesa per tutti quei contribuenti che alla sua stregua si troveranno in difetto rispetto all’adempimento degli obblighi di conservazione documentale così come da essa conformati, per aver riposto affidamento nel disposto dell’art. 2220 c.c. e nell’art. 8, co. 5, della lg. 212/2000, anche alla luce dell’interpretazione datane dalla stessa Corte con la pregressa sent. 9834/2016: problema che però la Corte non affronta né tanto meno risolve e che pare anche di difficile e complessa risoluzione.
Per quanto ci riguarda, dunque, sono molti i punti d’ombra che la sentenza in commento lascia aperti e che potrebbero forse – lo auspichiamo – condurre a qualche ulteriore approfondimento e opportuna puntualizzazione da parte della Suprema Corte: come del resto è già successo con riferimento ad altre questioni, anch’esse particolarmente complesse e di massimo rilievo.[17]
6. Considerazioni conclusive
Ma il punto più interessante per noi è un altro: ed esorbita dalla stretta presa di posizione in ordine alla condivisibilità o meno, dal punto di vista squisitamente giuridico, della soluzione interpretativa adottata dalla Suprema Corte. Su cui abbiamo appena manifestato brevemente alcune nostre riserve. Esso riguardando piuttosto le ripercussioni a più vasto raggio che la sentenza in rassegna, con i suoi assunti di principio, è destinata a spiegare:
- e sul versante dell’agire amministrativo, in particolare quanto all’efficienza e al suo buon andamento costituzionalmente pretesi;
- e sulle scelte e sulle condotte del contribuente: sia come tale, che nel suo essere, a monte, homo oeconomicus in tale veste del pari tutelato dalla Costituzione nel valore della sua libertà appunto di iniziativa economica;
- e, più in generale, sul buon funzionamento del sistema.
Partiamo da quest’ultimo profilo.
Apparentemente, la posizione della Suprema Corte sembrerebbe rappresentare un ottimo punto di approdo nella ricerca di un difficile e precario equilibrio tra due opposte esigenze:
- per un verso quella, diciamo, di tutela del cd. “interesse fiscale” a che sia garantita la massima ampiezza di controllo/verifica/contestabililità e rettificabilità di tutto ciò che, a vario titolo, emerge dalla singola, specifica, dichiarazione d’imposta del contribuente come concorrente alla determinazione del risultato imponibile e/o alla liquidazione del tributo da versare con riferimento al relativo periodo d’imposta: in un’ottica di salvaguardia del gettito tributario e di efficace contrasto all’evasione, e quasi come contrappeso alla mera eventualità dell’accertamento e all’asimmetria conoscitiva che in tal sede caratterizza la posizione dell’Amministrazione finanziaria rispetto al contribuente quanto alle vicende fiscalmente rilevanti che lo riguardano;[18]
- per l’altro verso, quella del contribuente (ma che la Corte correttamente ascrive a interesse generale ed espressione di civiltà giuridica) a che si pervenga, entro un termine ragionevole, alla stabilizzazione del rapporto giuridico tributario che gli fa carico: così da non trovarsi sine die “in balìa” di quelle che la Suprema Corte chiama iniziative recuperatorie – ma che noi riterremmo più corretto indicare come iniziative contestatorie (e solo conseguentemente recuperatorie) – del Fisco.
È vero sì, infatti, che l’Amministrazione può sempre mettere in discussione i fatti presupposti e gli elementi costitutivi del componente reddituale pluriennale con riferimento a qualunque delle dichiarazioni nelle quali esso componente rileva fiscalmente, a prescindere dalla mancata rettifica (in parte qua?) della dichiarazione relativa al periodo d’imposta in cui essi (fatti presupposti ed elementi costitutivi) sono venuti ad esistenza o di altre successive, ma – ecco la chiave di volta – ciò nessuna incidenza spiegherà sull’eventuale intervenuta definitività, per medio tempore compiuta maturazione dei rispettivi termini decadenziali di accertamento, delle precedenti dichiarazioni in cui tale elemento abbia comunque spiegato rilievo nella conformazione della fattispecie impositiva.
Talché – ecco la chiosa della Suprema Corte – niente può eccepirsi quanto al risultato: per ogni singolo periodo impositivo i termini di rettificabilità della relativa dichiarazione e, correlativamente, di accertamento della relativa obbligazione d’imposta rimangono sempre e costantemente quelli di cui all’art. 43 del D.P.R. n. 600/1973.
A noi sembra però che, così argomentando, la Suprema Corte non colga che proprio qui sta il punto di criticità sistematica della soluzione interpretativa sposata: il pegno da pagare per non riconoscere l’allungamento dei termini di accertamento in danno dei contribuenti e, nello stesso tempo, per non prefigurare preclusioni accertative in danno degli Uffici finanziari, sta nel riconoscere come strutturalmente possibile la disomogeneità e non coerente continuità di rilevazione del modo di essere della fattispecie reddituale imponibile in quel suo divenire temporale che trova espressione proprio (anche se non solo) nei cd. elementi reddituali pluriennali.
In evidente contrasto con quella che è la conformazione del rapporto alla stregua della sua disciplina sostanziale.
Quanto ciò sia sostenibile a livello sistematico e costituzionale abbisognerebbe di essere adeguatamente approfondito: considerato che la disciplina procedurale (così come quella processuale) è servente rispetto quella sostanziale e non viceversa.
Si tratta di un campo di riflessione molto complesso, già emerso ed emergente sotto altri e diversi profili nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale[19], che richiede probabilmente un intervento organico a più vasto raggio rispetto al quale non può adeguatamente supplire solo l’elucubrazione giurisprudenziale della Suprema Corte.
6.2. (Segue)
Per quanto attiene poi agli altri due precedenti aspetti, ci permettiamo solo alcune brevi divagazioni senza alcuna pretesa di approfondimento.
Quanto al primo profilo, abbiamo l’impressione che varie siano le questioni su cui meriterebbe riflettere.
Già di per sé, oggi, i termini di accertamento ai fini delle imposte sui redditi sono, nella loro oggettività, estremamente dilatati. Anche volendoci limitare all’attività di accertamento in rettifica, lo spirare del relativo termine decadenziale è attualmente fissato al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione: termine, già considerevolmente ampio, che immancabilmente si sospende, si proroga e ulteriormente si estende per ragioni le più diverse e anche sempre più variegate e numerose (calamità naturali, emergenze pandemiche, manovre condonistiche, interventi di emendatio dell’originaria dichiarazione ad opera dello stesso contribuente, necessità di assicurare il compiuto espletamento di forme varie di contradditorio endoprocedimentale senza che gli uffici patiscano medio tempore il maturarsi di decadenze a proprio danno, e via discorrendo).
A questa già significativa estensione temporale dei termini di accertamento, la posizione interpretativa della Suprema Corte – comunque la si pensi – finisce per certificare anche una altrettanto significativa dilatazione, anche in proiezione temporale, di ciò che ha da formare oggetto di controllo e verifica (ai fini di una eventuale futura contestabilità) a carico degli Uffici. Insomma, ad una (confermata) maggiore latitudine di potere di contestabilità si accompagnerà però una altrettanto simmetrica maggiore latitudine[20] dei compiti di controllo e dei riconnessi oneri istruttori di cui è investita l’amministrazione finanziaria: tanto più gravosi e di difficile espletamento quanto più concernenti, prospetticamente, vicende remote nel tempo, come tali suscettibili di patire approcci ricostruttivi distorti in ragione di fenomeni di decontestualizzazione normativa ma anche, mi si passi il termine, “ambientale”[21]: a loro volta potenziali fattori moltiplicatori di res litigiosa.
Il quadro che ne scaturisce potrebbe porre non pereghini interrogativi non solo sul grado di adeguatezza di risposta dell’apparato burocratico-amministrativo in termini di efficienza, ma anche sulle garanzie di incisività dell’azione accertativa[22]: oltre a profilare pericolosi (e non certo auspicabili) fenomeni di ulteriore parcellizzazione e inflazionamento del contenzioso tributario le cui – notoriamente rallentate – tempistiche di espletamento potrebbero, peraltro, andare ad ulteriore detrimento, incidendo negativamente, per quanto qui interessa, sulla già potenzialmente grave decontestualizzazione cronologica tra attività di accertamento e oggetto accertato.
Quanto al secondo profilo, ci sembra che i problemi siano gli stessi di cui sopra, seppur visti dalla diversa angolazione del contribuente: rispetto al quale essi però assumono una diversa coloritura che potremmo sintetizzare e riassumere nella percezione di una immanente e permanente instabilità (per potenzialmente illimitata contestabilità) del modo di essere del proprio rapporto impositivo reddituale nel suo costante divenire nel tempo: il tutto a discapito di quel valore di certezza che, nel nostro settore al pari di quello penale, si traduce essenzialmente in termini di ragionevole prevedibilità (anche, e talvolta soprattutto, in chiave prospettica) per il contribuente delle conseguenze fiscali delle proprie condotte. Aspettativa che, per costui, non attiene soltanto all’esigenza di essere salvaguardato da possibili oscurità, polivalenza e ambiguità oltre che mutevolezza nel tempo dei dati normativi ma anche dai margini di possibile (e di per sé imperscrutabile nella fondatezza) contestabilità ex post della correttezza fiscale dei propri comportamenti, stanti le significative conseguenze destabilizzanti che ne conseguono[23]: come l’istituzione e la disciplina degli interpelli e dei rulings dimostrano.
Tant’è non è da escludere si registri – come effetto di rimbalzo nell’immediato futuro del pronunciamento in rassegna - un accorciamento, laddove possibile per il contribuente, dei limiti temporali di spendita dei componenti reddituali pluriennali per conseguire il prima possibile il consolidamento della relativa fattispecie. Che non significa affatto mirare conseguire definitivamente il frutto dell’evasione bensì più banalmente archiviare il rischio o l’evenienza della contestazione: fattore di incertezza non solo psicologico ma prima ancora economico e strategico, soprattutto sul piano imprenditoriale.[24]
Il tema è vastissimo e, stanti le sue implicazioni, non può neppure essere accennato in queste brevi note. Viene però da pensare se la sentenza della Suprema Corte non possa essere una buona occasione per soffermarvici adeguatamente l’attenzione.
[1] Come riconosce la stessa Corte facendo riferimento al regime di spendibilità delle perdite pregresse.
[2] Si tratta, nell’ordine, dell’ord. 10701/2020, dell’ord. 15525/2020, dell’ord. 16752/2020 e, infine, dell’ord. 20842/2020.
[3] La Corte parla di “componenti reddituali a rilevanza pluriennale” definendoli come “elementi economici e patrimoniali che, per quanto emersi e consolidatisi nella loro genesi causale sostanziale in una determinata annualità d’imposta sono tuttavia dalla legge fiscale ammessi a produrre effetti sulla formazione della base imponibile di annualità successive eventualmente anche molto lontane da quella di origine”.
[4] Mi permetto di rinviare alla mia nota a commento di Cass. 9993/2018 (CASTALDI, Intorno al principio di autonomia dei periodi impositivi e ai termini decadenziali di accertamento, in Riv. trim. dir. trib. 2019, 194 ss.).
[5]Consistente nello stabilire la latitudine, non solo contenutistico/sostanziale ma anche argomentativo/motivazionale, dell’attività di accertamento degli Uffici finanziari in relazione ai termini decadenziali di suo espletamento.
[6] Secondo quanto è dato leggere nella sentenza in commento, infatti, “non sembra che la complessità ed eterogeneità delle fattispecie siano tali da impedire o sconsigliare una soluzione unitaria al problema giuridico posto dall’ordinanza di remissione” per ciò che – questa la considerazione della Suprema Corte (sulla condivisibilità della quale nutriamo forti riserve) – la materia dell’accertamento e dei termini di suo esperimento “più di ogni altra richiede regole operative il più possibile stabili e uniformi”.
[7] Che poi la Corte sente comunque il bisogno di declinare in termini di “elementi”, di “dati” o “informazioni” e, più oltre – con l’occhiale specificamente concentrato sul reddito d’impresa – come “voci” e dopo ancora come “componenti” con una polisemia che disvela la consapevolezza da parte dei Giudici della difficoltà di ricondurre ad unicum la tematica da trattare.
[8] Che è termine di coloritura volutamente anodina.
[9] E così alla valutazione di un bene relativo all’impresa come fiscalmente non ammortizzabile (ovvero ammortizzabile solo parzialmente nel quantum) operata dal contribuente nella dichiarazione relativa all’esercizio di suo inserimento nel ciclo produttivo e nei successivi, potrebbe seguire, nonostante il sopravvenuto crisma di definitività per maturazione dei termini decadenziali di accertamento/rettifica di siffatta dichiarazione e di altre successive, una diversa valutazione del contribuente medesimo quanto al trattamento fiscale da riservare a siffatto bene negli esercizi successivi di sua incidenza pluriennale.
[10] Concordiamo pertanto con le riflessioni da ultimo svolte in proposito da FARRI, Le incertezze nel diritto tributario, in Dir. prat. trib. 2021, 720 ss.
[11] Com’è nel caso – fra l’altro richiamato proprio dalla Suprema Corte – in cui si discuta dello scomputo in chiave di detrazione decennale pro quota in rate costanti dei costi per interventi di recupero del patrimonio edilizio e di riqualificazione energetica degli edifici, per la ripulitura e ritinteggiatura delle facciate degli edifici ecc..
[12] Com’è laddove si discuta di spendita di perdite pregresse, ovvero addirittura di crediti d’imposta del pari riportati a nuovo da esercizi e dichiarazioni pregresse.
[13] È quanto accade per alcune tipologie di beni – fabbricati destinati all’industria, in genere, ma anche infrastrutture destinate ai servizi pubblici essenziali come porti, aeroporti, autostrade, opere idrauliche fisse ecc. – dalla vita utile particolarmente durevole che, in base ai coefficienti di ammortamento di cui al D.M. 31 dicembre 1988, hanno periodi di ammortamento che abbracciano anche qualche decina di anni.
[14] Non vogliamo scendere nell’esegesi spicciola della sentenza, però ci sembra significativo che la Corte, dopo aver richiamato il proprio precedente (Cass. 9834/16) – meglio descritto alla nt. 18 – ricorra a formule quasi dubitative nel prendere posizione, distaccandosene, rispetto ad esso: in buona sostanza sostenendo come, alla luce del proprio costrutto interpretativo, “non pare inesigibile” che il contribuente sia onerato della diligente conservazione delle scritture “fino allo spirare del termine di rettifica (anche ultradecennale) dell’ultima dichiarazione accertabile”.
[15] La Corte parla di “correlazione servente” che intercorre tra il regime di conservazione documentale e la disciplina dell’accertamento e della sua tempistica.
[16] Il richiamo è a Cass. 9834/2016, nella quale la Suprema Corte, pronunciandosi con riferimento ad un caso di ammortamenti ultradecennali, ha limitato l’ultrattività dell’obbligo di conservazione delle scritture contabili oltre il termine decennale di cui all’art. 2220 c.c. al solo caso in cui l’accertamento – iniziato prima del decimo anno – non sia ancora stato definito a tale scadenza: osservando come, altrimenti, “l’obbligo di conservazione si protrarrebbe per una durata che dipende esclusivamente dalla volontà dell’Ufficio, rispetto al quale il contribuente non avrebbe altra difesa che conservare le scritture sine die”.
[17] È chiaro il richiamo, nel testo, all’evoluzione giurisprudenziale registratasi in tema di efficacia esterna del giudicato tributario all’indomani del pronunciamento della SS.UU. della Cassazione con sent. 13916/2006: per una cui meditata analisi facciamo richiamo, ex multis, a FRANSONI-RUSSO, I limiti oggettivi del giudicato nel processo tributario, in Rass. trib. 2012, 858 ss. Vd. anche, più di recente, seppur con un’impostazioneche ci trova su posizioni distanti, CORRARO, L’efficacia ultra litem del giudicato tributario tra vecchi modelli e nuove teorizzazioni: il lungo cammino della Corte di Cassazione nel segno di una costante incertezza sistematica, in Dir. prat. trib. 2020, 2547 ss..
[18] Come traspare, neppure troppo nascostamente, nell’argomentare della Corte laddove questa – seppur ad altro fine – ricorda che il sistema impositivo, “soprattutto in campo reddituale, trova il proprio fulcro non nell’accertamento (evento che resta pur sempre secondario nella dinamica complessiva delle entrate tributarie) ma nella fisiologia della dichiarazione quale vero e proprio atto di responsabilità autoimpositiva e autoliquidativa”.
[19] Ci limitiamo a solo alcune recentissime note di significativo rilievo in argomento. Con sent. 11 maggio 2021 n. 12372, la Suprema Corte di Cassazione ha disposto che in caso di perfezionamento dell’accertamento con adesione in relazione ad un anno, a situazione immutata, non è legittima la condotta dell'Agenzia delle Entrate che, per gli anni successivi, aumenti la pretesa rispetto ai pregressi accertamenti poi definiti in adesione. In una tale evenienza, gli accertamenti sono parzialmente nulli e la pretesa va ricondotta nell'entità derivante dall'accordo di adesione perfezionatosi per gli anni pregressi. Con sent. 30 marzo 2021 n. 8740, la Suprema Corte ha stabilito che l’efficacia vincolante della risposta dell’Amministrazione finanziaria ad un interpello, limitata alla questione oggetto di quest’ultimo e al contribuente istante, pur non trovando applicazione, in via generale, in relazione a casi analoghi relativi a soggetti diversi dall’interpellante, può estendersi anche a soggetti diversi che, in relazione all’atteggiarsi e alla struttura della fattispecie impositiva, “nonché all’allocazione dei relativi obblighi”, sono indissolubilmente legati alla questione investita dall’interpello.
[20] Peraltro, declinata in chiave di doverosità: pena la negligenza suscettibile di conseguenze sanzionatorie anche in punto di responsabilità contabile a carico dei verificatori.
[21] Non possiamo infatti dimenticare che tutte le disposizioni di legge (anche quelle tributarie) nel loro risvolto applicativo risentono del contesto storico, politico, economico, sociale e giurisprudenziale in cui sono calate: tanto maggiore è lo iato temporale che intercorre tra ciò che è oggetto della verifica e la verifica stessa, tanto maggiore sarà il pericolo di un disallineamento di approcci valutativi dovuti, appunto, a “decontestualizzazioni”.
[22] Volendo essere più chiari: non siamo sicuri che consentire (ma altresì imporre) agli Uffici finanziari di controllare sempre tutto non finisca per andare a discapito della qualità, tempestività ed efficacia dell’azione amministrativa di accertamento. Non ci dimentichiamo che interrogativi molto simili a quelli di cui al testo condussero alcuni decenni fa ad attenuare la rigorosità del principio di unicità e globalità dell’accertamento, portando all’introduzione dell’accertamento parziale. La situazione, se vogliamo, è perfettamente speculare, ma proprio per questo ci sembra meritevole di attenzione per l’insegnamento che può offrire.
Aggiungiamo anche che molte delle scelte di conformazione della disciplina sostanziale dei tributi sono frutto di una pragmatica scelta compromissoria tra l’esigenza di rispetto del principio di effettività nella rilevazione della manifestazione di attitudine alla contribuzione da assoggettare a prelievo e, da un lato, l’esigenza di snellezza, semplicità e non economicamente gravosa applicabilità della disciplina da parte del contribuente, dall’altro, fattibile, efficace ed efficiente controllabilità ex post da parte degli Uffici finanziari. Insomma, il meglio talvolta è nemico del bene.
[23] Si pensi – tanto per enumerarne solo alcune - agli aggravi sanzionatori, ai possibili risvolti penali, alle misure confiscatorie, ai recuperi in pendenza di causa, ai costi e all’alea del contenzioso.
[24] Ne è indiretta conferma la stretta connessione che intercorre tra gli indici di affidabilità fiscale e la valenza premiale che, in tale contesto, essi spiegano in chiave riduttiva dei termini di accertamento.
Giustizia e comunicazione
2. Fare cronaca giudiziaria
Intervista di Maria Cristina Amoroso a Rosaria Capacchione
Nel contributo sul tema del linguaggio giudiziario e la comunicazione istituzionale,Gianni Canzio, Primo Presidente emerito della Corte di Cassazione, ha evidenziato i pericoli insiti nella comunicazione dei media.
Oggi Giustizia Insieme affronta quest’argomento con la giornalista Rosaria Capacchione, firma eccellente di una sapiente cronaca giudiziaria che ha raccontato senza remore i fenomeni camorristici, dal 1985 al 31 marzo 2018 per Il Mattino di Napoli a Caserta e Napoli, ed oggi per la testata Fanpage.it.
Senatrice della Repubblica, Segretario della Commissione permanente della Giustizia e Componente della Commissione d'inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali; autrice di libri di successo che hanno valicato i confini del paese; destinataria dei più preziosi riconoscimenti per il suo straordinario impegno civico, oggi, da intervistata, regala a Giustizia Insieme il suo interessante punto di vista sull’etica della cronaca giudiziaria.
Cosa dobbiamo intendere per cronaca giudiziaria?
La mia carriera è iniziata in un momento in cui nel mondo della comunicazione vi era una separazione organizzativa tra la cronaca nera e la cronaca giudiziaria. La prima era costituita dalla narrazione del fatto, spesso concentrata sul lato più morboso dello stesso, la seconda dal reportage meramente tecnico di quanto emergeva dal processo e, pertanto, non particolarmente ricca di contenuti, essendo spesso limitata al riferimento ad avvenuti arresti, all’esistenza di misure cautelari e, soprattutto, alle pene di volta in volta irrogate.
In questo peculiare contesto, cercai di fare in modo che i miei primi passi nel mondo del giornalismo, per quanto novizi e quindi poco incisivi a confronto di colleghi più noti, presentassero un tratto distintivo.
Decisi, quindi, di affiancare alla narrazione tecnica quella del fatto, fondendo le due forme di comunicazione e, di fatto, attribuendo al concetto di cronaca giudiziaria un diverso contenuto raccontando non solo il processo ma anche la narrazione di ciò che avveniva “oltre”, sia all’interno dello stesso, nel “backstage” dell’aula di tribunale, sia al di fuori, nella società civile, particolarmente ricca di ricordi diretti e parole riferite.
La cronaca giudiziaria per così dire tradizionale è stata, a suo avviso, totalmente superata?
Io ho deciso di non far coincidere il contenuto della cronaca giudiziaria solo con il contenuto del processo, che è solo un frammento della narrazione del fatto che, tra l’altro, non necessariamente coincide con la realtà storica.
È molto interessante la prospettiva del processo come narrazione non meramente tecnica, ci approfondisce questo concetto?
Il processo è il rituale ma non solo. È la celebrazione solenne, ma è anche il testimone che prima di entrare in aula ti racconta qualcosa d’interesse, o la vittima che piange, o qualcuno che viene accompagnato da chi, in maniera assillante, gli ripete cosa deve dire, è l’avvocato che guarda in un certo modo il cliente che sta per dare una risposta cruciale. Tutte queste cose, che chiaramente il giudice non vede, unitamente al racconto raccolto da e tra il popolo, sono preziose tessere di un puzzle che solo l’occhio esterno del giornalista può compiutamente comporre.
Ma questa è la mia posizione, per altri la cronaca giudiziaria è ancora intesa in senso meno esteso per una serie di ragioni molto complesse.
Approfondiamo queste ragioni…
Dovendo limitarmi per evidenti ragioni, in questa sede, a selezionare solo alcune delle molteplici cause, soprattutto due fattori, uno nuovo ed uno vecchio, hanno, a mio avviso, snaturato e snaturano ancora la cronaca giudiziaria. Iniziando dal fattore “nuovo”, molto limitante, è stato, a mio avviso, l’eccessivo ed acritico interesse per le intercettazioni. Per anni non ho avuto alcuna necessità di andare in procura; i miei contatti erano limitati alla polizia giudiziaria e al giudice, evidenti e utili centri di conoscenza ove transitavano misure cautelari e altre informazioni.
Dopo Tangentopoli la caccia ai verbali ha decretato la fine del nostro mestiere, perché affidando al “bianco e nero” il racconto abbiamo barattato il nostro ricco punto di vista con quello che è per definizione solo un frammento della storia il cui contenuto, quando non assolutamente inutile, è comunque difficile da cogliere perché decontestualizzato. Questo è stato, a mio avviso il primo fattore che ha determinato anche una crisi del nostro mestiere chiaramente inteso nell'accezione a me più cara.
In questa prospettiva la riforma delle intercettazioni le è sembrata una giusta soluzione?
A me è sembrata una sconfitta, la necessità di ricorrere ad una legge per far sì che i magistrati non inseriscano nei provvedimenti verbali di intercettazioni non utili e per evitarne la pubblicazione da parte di noi giornalisti, rivela con drammatica chiarezza quanto ci siamo allontanati dal senso dei nostri rispettivi mestieri e dal rispetto dei relativi codici deontologici.
Così come sa di sconfitta l’aver dovuto prevedere delle sanzioni per reprimere comportamenti che non ci dovrebbero appartenere.
Ha parlato di due fattori, uno che Lei ha definito “nuovo” costituito dalle intercettazioni, e il “vecchio” qual è?
Più che vecchio è un fattore senza tempo, una vera e propria costante della cronaca giudiziaria ed è il costo della verità. Andare “oltre” il processo costa, costa in termini economici, soprattutto nelle inchieste in cui ci si scontra con il potere. Solo la gestione economica di una difesa in giudizio rischia di divenire un prezzo insostenibile anche in caso di vittoria giudiziale, un costo che proprio le testate medio piccole, che dovrebbero svolgere il compito di raccontare le realtà locali, non possono sostenere.
La cronaca giudiziaria “difensiva” quindi si autocensura e si rinchiude in una tutelante coincidenza con il processo, quando va bene.
Tutto questo condiziona fortemente l'effettività di una democrazia che si fonda sulla libertà di espressione, poiché è evidente che in un sistema così strutturato, più cresce la possibilità che il giornalista sia responsabile di danni economici, più la sua autonomia è legata, non più e non tanto al colore ma alla ricchezza dell’editore.
Come può influire, a suo avviso, il legislatore sulla modalità di fare cronaca giudiziaria?
Può farlo direttamente prevedendo disposizioni che, di fatto, costituiscono le forme velate di dissuasione cui ho già fatto cenno: prevedendo norme sulla responsabilità dei giornalisti, attribuendo ad alcune condotte rilievo penale, e può farlo anche indirettamente, dando al processo una struttura che impedisce la narrazione di una verità più ampia.
Si pensi ad esempio a quanto è accaduto durante la pandemia. Lo svolgimento dei processi per via telematica senza la previsione di una facoltà per la stampa di collegarsi, sia pur da remoto, per assistervi ha determinato la celebrazione “occulta” di moltissime cause di rilevante interesse pubblico e ha impedito quella narrazione che io sento come necessaria. Noi giornalisti ci siamo dovuti confrontare con questa formula che, di fatto, ci ha estromesso silenziosamente consegnandoci un processo inaccessibile ed ibrido - perché né cartolare né pubblico - che non ci ha consentito, con lo strumento del racconto, di adempiere alla funzione di controllo dell’esercizio del potere giudiziario.
Quanto i tempi di durata del processo influiscono sul modo di fare cronaca giudiziaria?
Un processo che dura tanto non può essere narrato e quindi, per questo verso, controllato. Si può controllare l’estrinseco, ovvero riferire dei lunghi rinvii, della mancata e ripetuta trattazione, ma si perde il controllo sul fatto, sulla gravità dello stesso perché se il suo accertamento vien diluito troppo nel tempo fisiologicamente l’attenzione giornalistica cala e soprattutto per vicende che invece meriterebbero sempre i riflettori accesi, il buio non giova, a tutti i livelli.
Quali processi vengono narrati dalla cronaca giudiziaria?
Per come la intendo io, la scelta su cosa raccontare è totalmente svincolata dalle categorie giuridiche. Non è detto che la cronaca giudiziaria racconti solo di reati.
La prospettiva giornalistica è, a mio avviso, differente da quella degli operatori della giustizia perché non deve tenere conto degli effetti penali della condotta, ma dell’interesse pubblico alla narrazione di un fatto.
Da questo punto di vista ci sono fatti di reato inenarrabili: un processo avente ad oggetto una grande evasione fiscale, a meno che non sia stata commessa da un personaggio pubblico, solitamente non si racconta perché si tradurrebbe in una mera elencazione di numeri. Si racconta il fatto di sangue, il crimine efferato, ma si racconta soprattutto il non reato, che tuttavia riveste interesse perché consente all’opinione pubblica di comprender persone e sistemi, a prescindere dalla loro responsabilità penale. Spesso una delle rettifiche che pubblichiamo consiste nel chiarimento del soggetto coinvolto di non essere indagato, quando l’editore mi consente due righe di replica, in maniera standardizzata, evidenzio che il dato non toglie interesse alla comunicazione che lo riguarda.
Da esperta di comunicazione come giudica la comunicazione istituzionale del mondo giustizia?
Distinguerei due livelli. La comunicazione che avviene tramite i provvedimenti e la comunicazione istituzionale.
Sovente la comunicazione effettuata “in nome del popolo italiano” è ostica e difficilmente comprensibile. In questo caso, il ruolo del giornalista è di fare da medium per restituire al lettore una coincidenza intellegibile tra significante e significato. E in presenza di una decisione non chiara è possibile avere quale medium un giornalista che si informa sul contenuto in maniera approfondita o uno che, al contrario, non cogliendo il senso del provvedimento offre una informazione non del tutto corretta.
Quanto alla comunicazione istituzionale io vorrei chiarire che per quanto chiara nella forma e completa nella sostanza non è la comunicazione che a me serve per fare cronaca giudiziaria, o meglio, non è la comunicazione che mi consente, da sola, di fare una buona cronaca giudiziaria.
Scendendo nel concreto, il comunicato stampa, ad esempio, può essere considerato una forma idonea di informazione dal punto dell’ufficio perché un punto di vista parziale sul quale il giornalista non deve assolutamente appiattirsi, in primo luogo perché la verità può coincidere o meno con la verità processuale del comunicato stampa, e poi perché non è detto che l’interesse pubblico coincida con il contenuto della voce ufficiale dell’ufficio, perché potrebbe invece riguardare fatti e persone non menzionate nel comunicato.
Quale tra le comunicazioni provenienti dalla giustizia non Le piace?
Non mi piace la comunicazione di potere, la conferenza stampa indetta per affermare la superiorità di un ufficio su un altro o sulla polizia giudiziaria.
E quale narrazione della giustizia non le piace?
Non mi piace quando noi giornalisti diventiamo uno strumento e ci prestiamo a raccontare solo una parte del tutto, presentandola come la verità assoluta. Perché ciò non accada bisogna mantenere integra la tensione ad offrire al lettore tutte le notizie, tutte le versioni fornite, in maniera ufficiale o ufficiosa, e sottoporre prima a verifica e poi a critica ciò che viene veicolato. Il mio monito per i colleghi più giovani è di chiedere, informarsi, verificare in maniera ossessiva e solo dopo chiedersi se vi è un interesse pubblico a diffondere una notizia data da una sola delle parti ed interrogarsi sul se e su come farlo.
Le è capitato di essere stata strumento di qualcuno?
Consapevolmente no, perché in maniera caparbia ho sempre valutato in maniera autonoma tutto ciò che mi è stato consegnato dalle fonti.
Le fonti dell’informazione giudiziaria non sono mai cambiate, la notizia la dà chi ce l’ha. Ed allora ciò che conta è mantenere autorevolezza con le fonti, così che sia già chiaro, prima di ogni tentativo, che io, per stile, modo di fare, scelte, non sarò certo lo strumento che cercano. E questo discorso vale nei confronti di tutti. Non bisogna divenire la voce della Procura così come non bisogna divenire il megafono della difesa. E per fare ciò bisogna non valicare i limiti di ciò che è possibile fare, per non dover essere “costretti a ricambiare il favore” e bisogna mantenere quale fede incrollabile l’obiettivo di raccontare il tutto e non solo un frammento dell’accaduto.
Come vive i limiti stabiliti per la comunicazione da parte dei magistrati? Come influenzano il suo lavoro?
Su questo bisogna intenderci e non essere ipocriti. Se è vero, ad esempio, che negli uffici di procura la comunicazione ufficiale è del Procuratore, è altrettanto vero che per piccoli chiarimenti o dettagli su cose di interesse pubblico nessun pubblico ministero mi ha mai invitato a lasciare il suo ufficio.
Quanto è stato difficile essere una cronista giudiziaria, nel senso che le è proprio in terra di camorra?
Fare la cronaca giudiziaria è stato facilissimo. Mi sono concentrata sull’aspetto umano di personaggi anche molto malvagi. La mia naturale vocazione a capire e verificare mi ha portato ad approfondire aspetti che per gli altri giornalisti non meritavano attenzione e così piano piano i miei racconti erano più dettagliati e completi, e offrivano anche a chi indagava spunti inediti. Voler conoscere anche al di là di ciò che accadeva nelle aule di giustizia per me è stato naturale, subire le conseguenze di questa narrazione inedita, e proprio per questo scomoda, è stato chiaramente la parte più complicata.
Lei vive sotto scorta ormai da molti anni, cosa significa per Lei?
Significa rinunciare a fare molte cose. Leggerezze che non mi apparterranno mai più, e non è facile.
Significa però anche sicurezza e rapporti e relazioni umane molto importanti.
Carta stampata e giornalismo televisivo, come cambia la cronaca giudiziaria?
La carta stampata è stata sempre il mio mondo e sempre lo sarà.
La cronaca giudiziaria, come la intendo io, è lontana dalla comunicazione televisiva, salvo la narrazione fatta di telecamera fissa e qualche commento tecnico finale di “un giorno in pretura” non apprezzo altro.
I programmi spesso diventano l’atecnico luogo di celebrazione di un processo alternativo privato della sua storia, e pertanto una narrazione monca che, inaccettabilmente, spesso non ha alcun contatto con le carte.
Lei è stata Senatrice della Repubblica, come questa esperienza ha influito sulla sua comunicazione dei meccanismi del potere legislativo?
Sicuramente dall'interno si capiscono meglio gli schemi di funzionamento di una macchina burocratica estremamente complessa altrimenti davvero difficile da raccontare. Stando in Senato ho visto le cause degli effetti di cui discorrevo nella mia vita antecedente l’esperienza politica.
Quanto al contatto con il potere posso dire che il potere che ho raccontato era più definito del potere che ho visto, dall’interno si percepisce soprattutto un magma indefinito, il potere si sente ma non si vede, nei miei racconti era sicuramente molto più delineato di come l’ho percepito nelle sedi che gli sono proprie.
Un’ultima domanda: Lei che per lavoro ascolta la gente ci dica, come la collettività percepisce la magistratura?
Secondo me la stima è bassissima, non c'è fiducia nella magistratura e la principale causa di questa disistima deriva dall’osservazione dei comportamenti della vita quotidiana dei magistrati, dal loro venir meno ai valori che sono chiamati a far rispettare.
A questo vanno aggiunte la lentezza della giustizia e gli errori giudiziari, fattori che oltre a gettare discredito e dubbi sul funzionamento della macchina giudiziaria consegnano i cittadini in mano a giustizie parallele illecite più funzionali, o percepite come tali. La crisi che investe la magistratura è la stessa che travolge il giornalismo, finché siamo in tempo dovremmo fare, ognuno per ciò che lo riguarda, un ritorno serio a comportamenti che siano d’esempio in quanto traducenti nei fatti un solido sistema valoriale.
La Corte di cassazione sulla sindrome di alienazione parentale: è colpa d’autore?
Nota a Corte di cassazione 17 maggio 2021 n. 13217, Pres. Genovese, est. Caiazzo
di Rita Russo
Sommario: 1. Il caso della madre malevola - 2. L’affidamento super esclusivo - 3. La sindrome di alienazione parentale.
1. Il caso della madre malevola
Una lunga battaglia legale per l’affidamento di una bambina, con alterne vicende nei giudizi di merito, approda in Cassazione.
I processi di affidamento dei minori sono difficili da gestire in sede di legittimità, perché le valutazioni di fatto, notoriamente incensurabili in cassazione, hanno sempre ampio spazio nelle motivazioni dei giudici di primo e secondo grado e talora prevalgono sulle valutazioni in diritto. La materia è regolata da principi e clausole generali quali la primaria considerazione del miglior interesse del minore e la tutela della relazione familiare, la cui concreta attuazione si lega inevitabilmente alle specifiche del caso concreto, a fatti accertati e inquadrati nel tempo e nello spazio e quindi, in definitiva, al giudizio di merito. Ciononostante, anche la valutazione di merito è censurabile in cassazione, se il giudice non segue i criteri legali procedimentali che devono presiedere alle decisioni.
Arriva dunque in cassazione la storia di un rapporto conflittuale tra genitori; la bambina, in età scolare, è stata affidata al padre (affido super-esclusivo), sulla base di quanto emerso in due consulenze tecniche d’ufficio, in primo ed in secondo grado, con risultati sostanzialmente conformi.
È stata diagnosticata la “sindrome della madre malevola” rilevando un elevato grado di conflittualità tra i genitori, con difficoltà comunicative e gravi carenze delle capacità genitoriali della madre, la quale non accetta il ripristino delle relazioni tra padre e figlia, e vorrebbe esclude il padre dal rapporto con la stessa; a ciò si aggiunge l'influenza della famiglia materna (in particolare della nonna), con prospettive dannose e rischiose. Alla madre si addebitano comportamenti “scellerati” quali il procurarsi falsi certificati di malattia per far assentare la bambina da scuola e così impedire al padre di portarla con sé.
La madre reagisce al provvedimento che modifica in termini così rigorosi l’affidamento della figlia, ricorrendo per cassazione e contestando la validità scientifica della diagnosi di “sindrome della madre malevola”, deducendo che si tratta nella sostanza di una diagnosi di sindrome di alienazione parentale (PAS), sia pure non esplicitata, cui la Corte d'appello ha aderito acriticamente.
La Corte di cassazione accoglie questa censura e osserva, richiamando precedente giurisprudenza della stessa Corte, che al fine di modificare l’affidamento del minore non è sufficiente la diagnosi di una patologia; il giudice è tenuto ad accertare la veridicità comportamenti pregiudizievoli per la minore, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia, incluse le presunzioni, ed a motivare adeguatamente, a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della patologia diagnosticata.
La Corte di legittimità ricorda inoltre che qualora venga esperita una consulenza tecnica d’ufficio le relative conclusioni non possono essere acriticamente recepite dal giudice, specie se all'elaborato siano state mosse specifiche e precise censure.
Fin qui l’enunciazione di principi di diritto. La Corte passa poi ad un esame più penetrante, ritenendo non convincenti le conclusioni della consulenza, il cui contenuto è considerato in molti punti generico e non chiaro in ordine alla carenza delle capacità genitoriali della ricorrente; anche le condotte pregiudizievoli sono state solo genericamente enunciate. Si rileva quindi che la Corte d'appello, nel disporre l'affidamento esclusivo della minore al padre, ha escluso l'affidamento condiviso su una astratta prognosi circa le capacità genitoriali della ricorrente, fondata, in sostanza, su qualche episodio, attraverso cui la madre avrebbe tentato di impedire che il padre incontrasse la bambina, senza però effettuare una valutazione più ampia, e senza considerare la possibilità di intraprendere un percorso di effettivo recupero delle capacità genitoriali della madre. E, pur non entrando nel merito della validità scientifica della diagnosi, la Corte conclude nel senso che i fatti ascritti dalla Corte territoriale alla ricorrente non presentano la gravità legittimante la pronuncia impugnata, in mancanza di accertate, irrecuperabili carenze d'espressione delle capacità genitoriali.
Si tratta di considerazioni molto incisive, in cui il giudice di legittimità sembra diminuire considerevolmente il suo tradizionale distacco dal fatto ed esprimere valutazioni di merito, pur non avendo avuto un accesso diretto agli atti, ma solo sulla base dell’esame motivazione e cioè di una sintesi delle emergenze processuali e delle ragioni della decisione, e nell’implicita considerazione che la rigorosa giurisprudenza della Corte Edu in tema di interruzione dei rapporti tra il minore ed uno dei due genitori impone grande cautela[1].
La Corte, però, rese queste considerazioni che servono ad individuare gli errori cui dovrà porre rimedio il giudice di rinvio, la cui decisione è già fortemente indirizzata dalla valutazione di non gravità dei fatti a carico della madre, esprime anche un'altra considerazione di carattere più generale, osservando che la decisione impugnata appare “espressione di una inammissibile valutazione di tatertyp, ovvero configurando, a carico della ricorrente, nei rapporti con la figlia minore, una sorta di "colpa d'autore" connessa alla postulata sindrome” .
Forse, ancora più della sensibilità ai richiami della Corte di Strasburgo[2], è questa la vera ragione ed il fulcro centrale della decisione, e cioè l’esigenza di negare, anche nell’ambito del diritto di famiglia, che nel processo si giudichi (e se il caso si sanzioni) non tanto il fatto commesso, quanto piuttosto il modo d’essere dell’agente. In altre parole, non è ammissibile far discendere dalla diagnosi di una patologia, anche se scientificamente indiscussa e a maggior ragione se dubbia, una presunzione di colpevolezza o di inadeguatezza al ruolo di genitore, scissa dalla valutazione in fatto dei comportamenti. Nel processo si giudica questi ultimi e non la persona, e pertanto è dall’osservazione e dall’analisi dei comportamenti che occorre muovere; la diagnosi può aiutare a comprenderli e soprattutto a valutare se sono emendabili, ma non può da sola giustificare un giudizio -o pregiudizio- di pericolosità a carico del soggetto.
2. L’affidamento super-esclusivo
L’affidamento esclusivo, nel nostro sistema normativo, è ipotesi residuale ma non di scarsa importanza, perché trova applicazione quando il giudice ritenga dimostrata la violazione dei doveri o abuso dei poteri connessi alla responsabilità genitoriale ovvero la sussistenza di una condotta pregiudizievole per la prole.
Di conseguenza, se ne valuta l’applicabilità nei casi di genitori fragili, patologici, disinteressati, inadempienti, aggressivi. Non è però sufficiente accertare la fragilità o la inadeguatezza del genitore, perché il provvedimento di affidamento deve essere modellato dal giudice caso per caso, e pertanto è necessario indagare in concreto sulle cause della inadeguatezza del genitore e sulla emendabilità, totale o parziale, delle carenze riscontrate perché l’art. 337 quater c.c. consente invero di derogare alla regola, ma al tempo stesso impone di fare salvi, nei limiti del possibile, i diritti del minore [3].
Lo schema legale dell’affidamento esclusivo come descritto dall’art. 337 quater c.c. comma secondo, con decisioni di maggior interesse attribuite ad entrambi, non è sensibilmente differente dall’affidamento condiviso con poteri disgiunti sulle questioni di ordinaria amministrazione. Si vuole con ciò mantenere inalterato, nei limiti del possibile, quel doveroso compito genitoriale di collaborare nell’interesse del minore e di consultarsi prima di assumere decisioni che ne orientano la cura, educazione ed istruzione.
La differenza si avverte invece se il giudice dispone limitazioni della responsabilità genitoriale, ove ciò sia funzionale ad evitare pregiudizio per il minore.
L’affidamento super esclusivo è un assetto in cui queste limitazioni si estendono fino ad estromettere il genitore ritenuto inadeguato dalla funzione decisoria insita nella responsabilità genitoriale, e in cui si consente al genitore affidatario di adottare tutte le decisioni riguardanti il minore, anche senza il consenso dell'altro genitore, cui resta però il potere dovere di vigilare sulle scelte compiute dall’altro e se il caso di ricorrere al giudice, qualora le ritenga pregiudizievoli per il minore stesso.
Dette limitazioni si pongono come deroghe alla regola generale della pariteticità dei compiti parentali e quindi devono essere giustificate da una ragione forte e specificamente individuata.
Inoltre, si deve ricordare che affidamento, collocamento e diritto di visita costituiscono aree di intervento diverse e quindi è possibile che l’affidamento sia modellato secondo un regime decisorio fortemente limitativo della partecipazione di un genitore, ma al tempo stesso quel genitore, pur se escluso dalle decisioni che riguardano la vita del minore, possa continuare a frequentarlo ed anche in taluni casi a prendersi cura di lui, ove le capacità di accudimento siano intatte.
Nel disporre l’affidamento si valuta non soltanto con chi deve andare a vivere il bambino, ma anche chi, come e con quali eventuali limitazioni deve esercitare la responsabilità genitoriale. Affidare un minore significa infatti attribuire una responsabilità riguardo le funzioni di cura, educazione ed istruzione del minore e lo strumento per esercitare tali funzioni non può che individuarsi nell’esercizio della responsabilità genitoriale. È netta, nel nostro ordinamento la differenza tra la physical custody e cioè il collocamento e la ripartizione dei tempi di vita del minore, uguale o diseguale, tra i genitori, e la legal custody, vale a dire il potere-dovere di assumere le decisioni che riguardano la vita del minore.
La interruzione dei rapporti non è quindi necessariamente connessa ad un affidamento super esclusivo; inoltre occorre tenere presente che la stessa Corte Costituzionale ha affermato che la interruzione della relazione tra genitori e figli sul piano giuridico, ma anche naturalistico, si giustifica solo in funzione di tutela degli interessi del minore[4].
Non è tuttavia facile definire, in concreto, che cosa debba intendersi per best interests of the child, cioè il miglior interesse del minore, o, come taluni traducono dalla versione in lingua francese, interesse superiore del minore.
In un noto caso di sottrazione internazionale, la Corte Edu ha affermato che l’interesse del minore comprende tanto l’interesse a mantenere regolari rapporti con i genitori quanto l’interesse a crescere in un ambiente sano, stabile e affidabile (sound enviroment). Il contatto con la famiglia si può recidere solo se essa è “particularly unfit”[5]. In questa come in altre decisioni, la Corte di Strasburgo sembra adottare una sorta di presunzione, secondo la quale il miglior interesse dei figli è mantenere rapporti con entrambi i genitori, salvo che siano particolarmente inadatti, rapporto che lo Stato ha il dovere di garantire, con una adeguato “arsenale” di misure positive e salvo ricorrano circostanze di particolare gravità[6].
3. La Sindrome di alienazione parentale
La PAS (Parental Alienation Syndrome), nella descrizione offerta dallo psicologo forense nordamericano Richard Gardner, è un disturbo provocato da un comportamento genitoriale di progressiva svalutazione agli occhi del figlio dell'altro genitore, al fine di rendere difficili i rapporti tra i due. Il minore si trasforma in un veicolo dei sentimenti e delle idee del genitore alienante, che opera il brainwashing (indottrinamento) sul minore, creando una relazione singolare in cui il genitore alienante porta il minore a percepire come propri i sentimenti di odio e rivalsa nei confronti dell’(ex) partner, così determinando il c.d. allineamento o schieramento del bambino con il genitore manipolante.
Diversi specialisti non riconoscono la validità della diagnosi; la teoria non avrebbe basi scientifiche e si fonderebbe soltanto sul pregiudizio indimostrato che, ogniqualvolta viene presentata una denuncia di abuso, vi sarebbe un comportamento patologico della madre, nonché su particolari idee sull’abuso sessuale attribuite a Gardner.
Gli specialisti che condividono e recepiscono la tesi di Gardner o talune sue varianti come ad esempio la P.A.D. (Parental Alienation Desorder) ovvero quelle relative ai "conflitti di lealtà", spesso suggeriscono di allontanare il minore dal genitore che opera il brainwashing, come si farebbe nel caso del genitore abusante o maltrattante. In altri casi si è parlato di “sindrome di Medea” prendendo mosse dal mito greco che vede Medea uccidere i figli per punire il tradimento di Giasone, oppure utilizzate altre definizioni più o meno suggestive. In qualche caso l’accento è sul profilo personologico della madre, in altre sul comportamento di strumentalizzazione di un rapporto privilegiato con i figli, usati come arma nel conflitto con l’ex partner.
Il contatto tra il bambino e il genitore patologico sarebbe dunque da interrompere, allontanando il minore dal genitore “malato”.
Questo suggerimento “terapeutico” talvolta ben si addice alle caratteristiche del caso, ma non può assumersi a regola fissa, perché non è detto che il comportamento manipolativo dipenda da una patologia e non è detto che interrompendo il contatto la questione si avvii a risoluzione: si pensi ad esempio al caso del genitore che cerca di sostenere le proprie rivendicazioni economiche rendendone partecipe i figli che così iniziano a percepire il padre come soggetto inadempiente; è un comportamento censurabile, ma non necessariamente frutto di una patologia, anzi potrebbe affondare la proprie radici in una “colpa” dell’altro genitore; quanto questo comportamento sia indicativo di scarsa capacità genitoriale è una valutazione da rendere nel contesto dell’intera vicenda, raffrontandolo anche con il comportamento dell’altro.
Inoltre, mentre è (relativamente) facile allontanare il bambino dal genitore abusante, è difficilissimo allontanare un minore da un genitore manipolante. Questi genitori hanno di solito altissime performance di accudimento e cura e il minore, se è schierato con il genitore manipolante, è a lui (più spesso a lei) fortemente legato e si oppone con tutte le sue forze ad esserne allontanato. Questo non significa che il miglior interesse del minore si persegua soltanto prendendosene cura materiale, perché anche l’aspetto educativo ha la sua importanza e la rescissione del legame affettivo con l’altro genitore può avere conseguenze, più evidenti nel lungo periodo, sulla sua armonica crescita.
La Corte di cassazione si è già occupata in passato della PAS affermando che il giudice del merito deve verificare il fondamento, sul piano scientifico, di una consulenza che presenti devianze dalla scienza medica ufficiale[7], ma anche che non è solo attraverso la consulenza tecnica che si possono accertare questi comportamenti pregiudizievoli perché il giudice ha a disposizione tutti i mezzi di prova propri del processo civile ed anche uno strumento specifico, quale è l'ascolto del minore, che però non è un mezzo di prova bensì la modalità attraverso la quale il minore esercita il suo diritto di partecipare al processo e di esprimere la sua opinione sulle scelte di vita che lo riguardano[8].
La sentenza in esame, con il suo forte richiamo all’accertamento dei fatti, completa il quadro. La sentenza contiene inoltre un importante riferimento (e qui si avverte forte l’eco della giurisprudenza della Corte Edu) al dovere del giudice di approntare misure per il recupero di una relazione familiare sana.
In questo delicato settore però non è consigliabile usare la coercizione, ma è necessaria la collaborazione di tutte le parti interessate, temendo presente che il decorso del tempo senza che sia stabilito un contatto tra genitore ed il figlio può pregiudicare irrimediabilmente la relazione familiare[9]. Il giudice non può limitarsi a delegare ai servizi sociali un generico controllo e monitoraggio della situazione, ma deve, anche d'ufficio, ricorrere a tutti i mezzi possibili per tutelare la relazione familiare, e tra questi l'affidamento a terzi, le sanzioni aventi finalità dissuasive e la mediazione[10].
Da ricordare, tuttavia, che se pure è compito del giudice informare i genitori sui benefici della mediazione familiare e sottoporre loro l'opportunità di intraprendere un simile percorso, ovvero un percorso di sostegno psicologico e di miglioramento della genitorialità, né la mediazione né la psicoterapia possono essere imposte dal giudice agli adulti, ma sono scelte rimesse alla autodeterminazione delle parti[11].
[1] V. DE MARZO: Sindrome di alienazione parentale e salvaguardia del rapporto familiare: i doveri motivazionali del giudice di merito, in Foronews www.foroitaliano.it 20 maggio 2021
[2] Corte Edu: Piazzi c. Italia, 2.11.2010 n. 36168/09 Lombardo c. Italia 29.1.2013 n.25704/11; Santilli c. Italia, 7.12. 2013, n. 51930/10, tutte in www.giustizia.it (sito del Ministero della Giustizia); v. anche A.I. c. Italia1.4. 2021.
[3] Sia consentito il rinvio a R. Russo Affidamento esclusivo e super esclusivo: l’interesse del minore richiede flessibilità, in Fam. e dir. 2019, 10, 891
[4] V. Corte Cost. 23.1.2013 n. 7 in www.cortecostituzionale.it
[5] Corte Edu Neulinger e Shuruk c. Svizzera, 6.7.2010; in dottrina: LONG Il principio dei best interests e la tutela dei minori, in Questione Giustizia, speciale Corte Strasburgo, aprile 2019.
[6] V. nota n.2
[7] Cass. civ. sez. I 20.3.2013 n. 7401, in Dejure
[8] Cass. civ. sez. I 09.6.2015 n. 11890; Cass. civ. sez. un. 21.10. 2009 n. 22238, in Dejure
[9] Corte Edu, sez. IV, 17.11.2015, B. c. Italia
[10] Cass. civ. sez. I 22.5. 2014 n. 11412; Trib. Reggio Emilia, sez. I, 11.06.2015;Trib. Roma 10.5.2013; Trib. Messina 8.10.2012; Trib. Varese 3.2.2011, tutte in Dejure
[11] Cass. civ., sez. I, 01.07.2015, n. 13506, in Dejure
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