La Corte edu interviene sull’assetto del procedimento disciplinare a carico dei magistrati nell’ordinamento turco. Alcune riflessioni a margine per un confronto con l’attuale panorama italiano. Nota a Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Eminağaoğlu c. Turchia, 9 marzo 2021, ric. n. 76521/12
di Viviana Di Nuzzo*
Sommario: 1. Premessa: la vicenda all’esame della Corte e l’assetto del potere giudiziario in Turchia. – 2. La riconosciuta violazione dell’art. 6 Cedu da parte della Turchia: il diritto ad avere accesso ad un tribunale. – 3. L’utilizzabilità in sede disciplinare di intercettazioni disposte in altro procedimento. 3.1. La violazione dell’art. 8 Cedu da parte della Turchia. – 3.2. La soluzione delle Sezioni Unite della Cassazione civile italiana sull’utilizzo delle intercettazioni acquisite aliunde nel procedimento disciplinare davanti al CSM. – 4. La mancanza di effettive e adeguate garanzie nella limitazione della libertà di espressione. – 5. Considerazioni conclusive.
1. Premessa: la vicenda all’esame della Corte e l’assetto del potere giudiziario in Turchia
Nella sentenza in esame la Corte europea dei diritti dell’uomo affronta il delicato tema del procedimento disciplinare a carico dei magistrati nel contesto dell’ordinamento turco, fornendo un’utile occasione per riflettere sul livello di tutela delle garanzie di indipendenza e imparzialità dei rappresentanti del potere giudiziario negli Stati contraenti. La Corte, difatti, riconosce la violazione di tre norme convenzionali da parte della Turchia: in particolare, l’art. 6, § 1, in riferimento al mancato riconoscimento della possibilità di accedere ad un tribunale a seguito di sanzione disciplinare; l’art. 8 per l’illegittima utilizzazione ai fini del procedimento disciplinare di intercettazioni disposte invece nell’ambito di un procedimento giurisdizionale di natura penale; infine, l’art. 10 in relazione alla carenza di adeguate garanzie processuali nella limitazione delle libertà di espressione a tutela del ricorrente. Invero quest’ultimo, in qualità di giudice ad Istanbul e di chair di un’associazione di magistrati, Yarsav, era stato sottoposto alla sanzione del trasferimento, una delle più gravi tra quelle previste dall’ordinamento giudiziario interno in queste ipotesi, al termine di un procedimento disciplinare instaurato dal Consiglio Superiore dei Giudici e dei Procuratori (High Council of Judges and Prosecutors, ossia HSYK, dalle iniziali del nome dell’organo in lingua turca) a seguito di alcune dichiarazioni che lo stesso aveva rilasciato sia alla stampa sia nell’ambito di conversazioni telefoniche private soggette ad intercettazione.
La pronuncia appare di grande rilevanza non solo perché consente di analizzare diversi e interessanti profili in merito alle violazioni riscontrate dai giudici di Strasburgo ma anche perché costituisce una proficua occasione per una riflessione da una diversa prospettiva sull’attuale configurazione del potere giudiziario italiano, scosso di recente da alcune vicende di particolare interesse giuridico, che hanno ricevuto un considerevole impatto mediatico, nate proprio dalla captazione di conversazioni tra esponenti della magistratura e parzialmente riconducibili agli argomenti affrontati nel caso in esame.
Peraltro, a distanza di un mese dalla decisione della Corte edu contro la Turchia, le Sezioni Unite Civili hanno depositato le motivazioni di una rilevante pronuncia, in cui veniva riconosciuta nei confronti dei magistrati la piena utilizzabilità per finalità disciplinari delle risultanze di intercettazioni legittimamente disposte ed effettuate nell’ambito di un procedimento penale[1].
Già da ora pare indispensabile sottolineare un significativo punto di divergenza tra l’impostazione della Corte di Cassazione e quella approntata dai giudici europei: mentre la prima ha riconosciuto piena natura giurisdizionale al procedimento disciplinare a carico dei rappresentanti della magistratura[2], la Corte di Strasburgo nel caso Eminağaoğlu ha escluso la giurisdizionalità dell’organo che ha emesso la sanzione disciplinare, rilevando al contempo la mancata previsione della facoltà di ricorrere ad un organo giurisdizionale per ottenere la revisione della decisione di trasferire l’interessato, qualificata dal diritto nazionale come di natura amministrativa.
Per meglio comprendere tanto quest’ultima considerazione relativa alla natura dell’HYSK quanto il ragionamento della Corte e le soluzioni decisorie cui essa perviene, pare comunque indispensabile ripercorrere rapidamente la vicenda da cui è scaturito il ricorso a Strasburgo, con qualche riferimento all’ordinamento giudiziario turco.
Nell’ambito di un procedimento penale vòlto ad accertare l’identità degli associati di una presunta organizzazione criminale, conosciuta con il nome di “Ergenekon”, la Corte d’Assise di Istanbul autorizzava la captazione telefonica del giudice Eminağaoğlu per un periodo limitato di tre mesi, ai sensi della Legge n. 2802 sui magistrati[3]. A seguito di tale attività investigativa, che non comportava alcuna conseguenza penale per il ricorrente, il 30 ottobre 2009 il Ministro della Giustizia dava avvio al procedimento disciplinare nei suoi confronti per il fatto di aver compromesso con alcune sue dichiarazioni il decoro e l’onore della professione e di aver dismesso la propria dignità e il rispetto. Gli veniva contestato, in particolare, di aver esercitato una certa influenza, attraverso asserzioni di natura politica e avvalendosi della propria posizione, sullo svolgimento del processo in corso relativo al caso “Ergenekon”. Poiché veniva irrogata la sanzione disciplinare del trasferimento, il giudice si rivolgeva in sede d’appello all’Assemblea Plenaria, che però non modificava la misura sanzionatoria, pur ammettendo che alcune delle intercettazioni su cui si basava la decisione della Seconda Sezione dell’HYSK non erano caratterizzate da una serietà tale da determinare una pronuncia sfavorevole all’interessato.
A questo punto, la decisione impositiva del trasferimento divenne definitiva; tuttavia, nel 2015 l’Assemblea Plenaria procedette ad una revisione della sanzione imposta, sulla scorta di una novella legislativa che era intervenuta l’anno precedente e che consentiva la possibilità di richiedere una rivalutazione delle sanzioni emesse in un arco di tempo comprendente anche il periodo in cui si era svolto il procedimento a carico di Eminağaoğlu, il quale riuscì quindi a beneficiare di una modifica della sanzione, ricevendo un richiamo formale.
La Corte europea peraltro non ha escluso la lesione dei diritti facenti capo al ricorrente per il solo fatto che fosse intervenuta una sostituzione della misura sanzionatoria, dal momento che il trasferimento prescritto inizialmente aveva certamente leso rilevanti interessi del soggetto coinvolto.
Il ragionamento della Corte ha messo in evidenza la sostanziale carenza di garanzie di indipendenza e imparzialità dei giudici e dei procuratori in Turchia: difatti, non è prevista nei loro confronti alcuna possibilità di ricorrere ad un tribunale, tanto in senso formale quanto sostanziale, in caso di sanzioni disciplinari imposte a seguito di esternazioni che, seppur ricadenti sotto la copertura del diritto ad esprimere liberamente il proprio pensiero, certamente potevano avere delle ripercussioni sull’intero sistema giudiziario, data la posizione rivestita dal ricorrente. Quest’ultimo, invero, aveva manifestato opinioni forti e dal contenuto compromettente nei confronti di alcuni colleghi che, nell’ambito dell’indagine “Ergenekon”, avevano, a suo dire, esercitato i propri poteri in maniera non del tutto conforme al diritto interno, insinuando il dubbio che si fossero verificate violazioni dei diritti fondamentali di chi aveva subíto misure cautelari o atti investigativi[4].
L’apparato motivazionale della sentenza richiama frequentemente il ruolo preminente che la magistratura riveste in una società democratica e il legame speciale di fiducia e lealtà (“special bond of trust and loyalty”) che sussiste tra i funzionari pubblici e lo Stato; proprio per tale ragione e anche in virtù dell’esigenza di garantire l’indipendenza del sistema giudiziario, la Corte ricorda che rientra tra le sue prerogative il dovere di prestare particolare attenzione alla protezione dei magistrati quando si trova ad esaminare l’adeguatezza convenzionale dei procedimenti disciplinari che li riguardano (par. 76). E tale protezione non può non tener conto dell’incidenza che l’uso sempre più diffuso di strumenti captativi comporta anche a detrimento della libertà di comunicazioni di soggetti che ricoprono tale ruolo istituzionale. Proprio questo profilo merita una scrupolosa analisi e soprattutto fornisce l’occasione per una comparazione con l’ordinamento italiano, nel quale la citata sentenza delle Sezioni Unite Civili ha considerato utilizzabili a fini disciplinari le risultanze dell’attività captativa disposta in sede penale, non operando in tale ipotesi il divieto di cui all’art. 270 c.p.p. I rinvii della Cassazione alla sentenza Eminağaoğlu, d’altronde, consentono di apprezzare un chiaro esempio di dialogo transgiudiziale, offrendo all’interprete la possibilità di verificare se esso costituisca un avanzamento della tutela dei diritti e delle garanzie fondamentali[5].
Queste considerazioni introduttive tracciano dunque la direzione del presente commento, il quale mira ad analizzare le ragioni sottese alle violazioni riscontrate, sollecitando una riflessione sull’importanza rivestita dalle garanzie di indipendenza e imparzialità della giurisdizione anche nel nostro ordinamento, seppur tenendo conto delle peculiarità proprie di due sistemi di giustizia penale profondamente diversi tra loro.
2. La riconosciuta violazione dell’art. 6 Cedu da parte della Turchia: il diritto ad avere accesso ad un tribunale
Un proficuo punto di partenza per procedere ad una siffatta analisi si rinviene nella violazione della disposizione di cui all’art. 6, § 1, Cedu, nella parte concernente il diritto di accesso ad un tribunale, anche alla luce del fatto che è a tale profilo che la sentenza in esame ha dedicato maggior spazio.
La Corte sin da subito riconosce di aver sviluppato nel corso degli anni una giurisprudenza caratterizzata da un ampio approccio a questa fondamentale garanzia, così da far rientrare sotto la copertura di tale previsione convenzionale tutti quei casi nei quali, sebbene all’apparenza non siano in gioco diritti civili, sussista comunque una significativa ripercussione su un diritto privato di natura pecuniaria o meno. Questa impostazione ha permesso ai giudici di Strasburgo di estendere l’applicazione del diritto ad un equo processo dall’ambito delle sole controversie civili a questioni che gli Stati contraenti possono inquadrare come controversie pubbliche (par. 60)[6].
Applicando il test elaborato nella sentenza Vilho Eskelinen, necessario per determinare se una questione sorta tra lo Stato e i suoi dipendenti pubblici ricada sotto la lente dell’art. 6, la Corte esamina il ricorso alla luce dei principi espressi in tale previsione[7]. Essa prende così in considerazione il fatto che la Turchia ha categoricamente escluso l’accesso ad un tribunale per tutte le tipologie di misure disciplinari contro giudici e procuratori; in particolare, il Governo turco non ha dimostrato che l’esclusione fosse giustificata da un rilevante interesse nazionale, non essendo peraltro sufficiente a legittimare tale mancanza il rapporto tra Stato e funzionari giudiziarî (par. 80).
A tal proposito, i giudici europei evidenziano che la sanzione disciplinare emessa nei confronti del giudice turco non è stata sottoposta al vaglio di alcun organo giurisdizionale, il che ha causato dunque una evidente lesione del suo diritto a ricorrere ad un tribunale. Infatti, l’HSYK nel sistema giuridico domestico non è considerato un “tribunale”, bensì un organo costituzionale che esercita i propri poteri nel rispetto del principio di indipendenza (par. 94). Ma anche volendo provare a superare la qualificazione formale e privilegiando invece una prospettiva che guardi alla sostanza delle sue funzioni, la Corte esclude la giurisdizionalità sia della Seconda Sezione dell’HSYK sia dell’Assemblea Plenaria, dal momento che i procedimenti disciplinari davanti a tali organi non godono delle garanzie che la Convenzione europea richiede per qualsiasi procedimento di fronte ad una corte ordinaria.
A differenza di quelle ipotesi in cui segue ad una sanzione amministrativa il controllo giurisdizionale assistito dalle garanzie previste dall’art. 6 Cedu, nella fattispecie i giudici di Strasburgo non hanno dunque riscontrato alcuna verifica da parte di un organo con funzione di giudice[8].
A ben diversa conclusione sarebbe probabilmente giunta la Corte con riferimento all’ordinamento italiano, dove, come già notato, è stato ampiamente riconosciuto che il procedimento disciplinare dei magistrati ha natura giurisdizionale ed è connotato da un carattere di specialità derivante dalla particolare funzione cui esso assolve, che consiste nel dovere di vigilare sulla corretta condotta dei magistrati per alimentare nei consociati la massima fiducia nell’ordinamento giudiziario[9]. Da qui discende anche la necessità di rispettare durante l’intero procedimento il diritto di difesa e il principio del contraddittorio, egualmente tutelati dalla Carta Costituzionale e dalla Convenzione europea.
Sulla configurazione del giudizio disciplinare italiano, d’altronde, la Corte di Strasburgo si era pronunciata, tra l’altro, nel caso Di Giovanni, in occasione del quale, applicando il citato “Vilho Eskelinen test”, aveva affermato che il ricorso rilevava sotto il profilo civilistico dell’art. 6[10]; essa, inoltre, aveva confermato la piena giurisdizionalità dell’organo decidente, la cui pronuncia era stata oggetto di censure anche dinanzi alla Corte di Cassazione.
Emerge subito la differenza di approccio ad un simile tema dei due ordinamenti nazionali considerati, profondamente dissimili tra loro, soprattutto quando vi sia in gioco l’operazione di bilanciamento tra rilevanti interessi statali e diritti fondamentali dei cittadini. Se infatti il sistema turco, valorizzando quello special bond che intercorre tra lo Stato e i funzionari pubblici, consente l’irrogazione di una sanzione disciplinare anche in assenza di un controllo giurisdizionale, l’ordinamento giudiziario italiano riesce ad assicurare la piena indipendenza e imparzialità dell’organo deputato al procedimento disciplinare dei magistrati. Si spiega così perché la stessa Corte europea - nel giudicare il ricorso Di Giovanni in merito all’indipendenza e imparzialità, quest’ultima esaminata sia sotto un profilo soggettivo sia sotto un profilo oggettivo, dei giudici del Consiglio Superiore della Magistratura - non avesse riscontrato la possibilità di sollevare alcun dubbio in merito[11].
Del resto, proprio la rilevanza del potere giudiziario per la tenuta di uno Stato democratico e improntato al principio di separazione dei poteri richiede che la disciplina del procedimento a carico dei magistrati costituisca il risultato del bilanciamento effettuato tra l’esigenza, per un verso, di accertare e sanzionare la responsabilità disciplinare e, per altro verso, il rispetto del diritto di difesa del magistrato e di parità delle armi anche in tale contesto. L’impossibilità, in Turchia, di richiedere e ottenere che a pronunciarsi su provvedimenti disciplinari sia un organo giurisdizionale solleva seri dubbi in merito all’effettività della tutela spettante al soggetto interessato e, soprattutto, circa il pieno rispetto di tutte le garanzie proprie di un processo equo.
3. L’utilizzabilità in sede disciplinare di intercettazioni disposte in altro procedimento
La Corte ha poi esaminato un ulteriore profilo di non minore impatto sistematico, concernente la legittimità dell’uso ai fini del procedimento disciplinare di intercettazioni che erano state disposte nell’ambito di un procedimento penale. Nel caso di specie, l’indagine penale relativa all’organizzazione criminale “Ergenekon”, durante la quale erano state intercettate le conversazioni telefoniche del giudice Eminağaoğlu, si era conclusa con un’archiviazione in favore del ricorrente, al quale poi venne solamente notificata, al termine delle operazioni, una nota informativa con riguardo alla distruzione dei risultati ottenuti attraverso l’attività captativa disposta sull’utenza telefonica a lui intestata.
Tuttavia, una copia dei files era stata inviata all’organo disciplinare e aveva permesso l’avvio del procedimento sfociato nella sanzione del trasferimento.
La rilevanza di tale questione sollecita un’attenta riflessione anche in ragione all’attualità del tema nel panorama italiano, dove la giurisprudenza ha più volte affrontato il problema relativo all’utilizzabilità delle intercettazioni in procedimento diverso da quello in cui venivano autorizzate, imponendo da ultimo l’intervento delle Sezioni Unite Civili proprio rispetto al loro impiego a fini disciplinari avverso giudici e pubblici ministeri.
3.1. La violazione dell’art. 8 Cedu da parte della Turchia
Nell’affrontare la lesione dell’art. 8 Cedu, la Corte europea richiama la giurisprudenza del caso Karabeyoğlu, in occasione del quale i giudici di Strasburgo avevano rilevato un’illegittima ingerenza da parte dell’autorità pubblica turca nei confronti del ricorrente. Quest’ultimo, analogamente alla vicenda in esame, aveva subíto un procedimento disciplinare dove erano state prese in considerazioni alcune intercettazioni, originariamente autorizzate in sede penale[12].
Riprendendo le considerazioni svolte nel 2016, la pronuncia in esame sottolinea che l’inosservanza della norma convenzionale discende dall’uso delle intercettazioni in maniera non conforme al diritto interno, in quanto le risultanze dell’attività di captazione erano state utilizzate al di fuori dello scopo per cui erano state acquisite (par. 161). Il ricorrente, peraltro, aveva ricevuto una lettera in cui veniva informato della distruzione dei files, ma, come evidenzia la Corte, indubbiamente una copia era rimasta a disposizione delle autorità inquirenti che la trasmettevano all’organo disciplinare.
In un’epoca in cui il progresso tecnologico comporta un utilizzo esponenziale di mezzi investigativi sempre più sofisticati, i quali hanno assunto un’estensione tale da sollevare non poche preoccupazioni, la decisione della Corte si pone nel solco della giurisprudenza europea che mira ad un progressivo rafforzamento della tutela dei diritti fondamentali degli individui, consentendone restrizioni, in una società democratica, solo in presenza di rilevanti interessi generali e in linea con i principi di proporzionalità e legalità[13].
È evidente che la circolazione del materiale probatorio accentua i rischi connessi all’uso di informazioni ottenute mediante tale mezzo di ricerca della prova nei confronti delle persone indagate e, ancor più di soggetti terzi, quand’anche questi non siano destinatari in via diretta della captazione; difatti, individui formalmente estranei all’indagine penale rischiano di dover subire forti restrizioni nell’esercizio dei propri diritti fondamentali, primo tra tutti la libertà e la segretezza delle comunicazioni, i quali risulterebbero fortemente compromessi da un simile potenziale invasivo per la sola circostanza che i terzi abbiano intrattenuto conversazioni con la persona sottoposta all’atto acquisitivo[14].
Si consideri inoltre che, qualora l’intercettazione si rivolga nei confronti di esponenti della magistratura, verosimilmente la diffusione di comunicazioni private rischia di diventare ingestibile e incontrollata, dato il rilievo mediatico che assumono le vicende riguardanti i rappresentanti del potere giudiziario.
Dal ragionamento adottato dalla Corte emerge dunque la pericolosità dell’attività intercettativa nei confronti di soggetti che ricoprono un ruolo di rilevanza preminente all’interno di uno Stato democratico e che svolgono una funzione statale imprescindibile, la quale dovrebbe essere sorretta da garanzie tali da salvaguardare l’imparzialità e l’indipendenza del magistrato sottoposto al procedimento disciplinare.
Potremmo dunque ipotizzare che la sanzione disciplinare nel procedimento turco non sia stata emessa, come dichiarato dal Governo domestico, perché il ricorrente aveva causato un pregiudizio alla dignità della categoria professionale cui apparteneva, bensì per il contenuto effettivo delle sue dichiarazioni, che denunciavano alcune irregolarità nella conduzione del procedimento penale “Ergenekon”, avente ad oggetto un’organizzazione criminale accusata di aver ordito un piano per compiere un colpo di Stato.
Peraltro, l’ordinamento giuridico interno non ammette, in linea di principio, la trasmigrazione dei brogliacci dal procedimento penale a quello disciplinare, il quale risulta sfornito delle garanze tipiche della funzione giurisdizionale. Alla lue di ciò, la declaratoria dell’avvenuta violazione dell’art. 8 risulta perfettamente coerente, se si pensa che il giudice turco, oltre ad aver subíto inconsapevolmente l’acquisizione dei dati relativi al suo traffico telefonico, non aveva avuto modo di ricorrere ad un tribunale ordinario o comunque ad un organo giurisdizionale per poter censurare l’uso illegittimo di tali prove, che non erano state effettivamente distrutte, come invece gli era stato comunicato.
3.2. La soluzione delle Sezioni Unite della Cassazione civile italiana e sull’utilizzo delle intercettazioni acquisite aliunde nel procedimento disciplinare davanti al CSM
Questioni analoghe a quelle poste all’attenzione della Corte europea hanno affrontato anche le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione italiana nell’analizzare il problema dell’utilizzo nel procedimento disciplinare di risultati di attività captative eseguite in sede penale. Per tale ragione, giudicando il ricorso di un magistrato che aveva subíto la sospensione cautelare dalla funzione e dallo stipendio sulla base di risultati captativi provenienti da altra sede, la sentenza non poteva esimersi dal citare la decisione resa in merito al caso Eminağaoğlu, unitamente ad altri rilevanti precedenti giurisprudenziali provenienti da Strasburgo[15]. I giudici della Cassazione si avvalgono delle argomentazioni formulate a Strasburgo per avvalorare la tesi dell’utilizzabilità nel procedimento disciplinare delle intercettazioni disposte in sede penale, escludendo che in tali ipotesi sussista un contrasto degli artt. 16 e 18 del d.lgs. 109 del 2006 con l’art. 8 Cedu e contestualmente affermando la manifesta infondatezza della questione di legittimità rispetto all’art. 117 Cost. (par. 38); alla stessa conclusione giungono anche rispetto alla valutazione concernente il supposto contrasto tra le stesse norme e gli artt. 15 e 24 Cost.
In effetti tali previsioni contengono una clausola di compatibilità, in quanto operano un richiamo alle norme del codice di procedura penale concernenti sia le attività di indagine sia lo svolgimento del dibattimento. La ratio di tali previsioni risiede nella necessità di salvaguardare le specificità del giudizio disciplinare che, sempre nel rispetto del diritto di difesa della persona incolpata, deve garantire «l’efficacia dell’azione di accertamento e repressione degli illeciti disciplinari dei magistrati demandata dall’art. 105 Cost. al Consiglio Superiore della Magistratura»[16].
Proprio tali disposizioni costituiscono, secondo l’impostazione della sentenza, la via d’ingresso nel procedimento disciplinare dei risultati di intercettazioni effettuate in sede penale, compatibilmente con quanto disposto dall’art. 270 c.p.p. e in virtù di un bilanciamento tra la necessità di preservare l’inviolabilità della libertà e segretezza delle comunicazioni e la specialità del giudizio sulla responsabilità dei magistrati.
Ed è proprio tale ultimo punto che fa sorgere alcune perplessità. Le attività intercettative devono essere eseguite nel rispetto dei diritti fondamentali, i quali potrebbero essere limitati solo compatibilmente con la riserva di legge e con atto motivato dell’autorità giudiziaria. Ci si chiede dunque se e in che misura le disposizioni contenute negli artt. 16 e 18 possano comportare in modo costituzionalmente orientato l’utilizzo delle intercettazioni in sede disciplinare.
Autorevole dottrina dubita della possibilità che la compressione di diritti fondamentali possa discendere da clausole di compatibilità, lasciando intendere che il rinvio alle norme del codice di rito potrebbe non pienamente soddisfare la riserva di legge, trattandosi di una estensione in malam partem del dettato codicistico che richiederebbe invece l’intervento del legislatore[17].
Si potrebbe obiettare che nell’ambito del procedimento penale la limitazione del diritto alla libertà e riservatezza delle comunicazioni della persona intercettata, in linea di principio, può avvenire solo nel rispetto delle garanzie costituzionali, visto che le previsioni codicistiche in materia richiedono comunque un intervento (di regola previo o, eccezionalmente, successivo) del giudice. Dunque, in quella sede l’interessato - e anche qui potrebbe aprirsi un amplissimo dibattito sul soggetto titolare della legittimazione attiva e sui diritti a lui spettanti - avrebbe la possibilità di eccepire eventuali invalidità nell’attività di ricerca della prova, dal momento che egli è assistito dalle tutele approntate dal legislatore in riferimento alla disciplina in questione.
Sennonché una simile impostazione appare eccessivamente restrittiva perché l’utilizzazione nell’ambito di un diverso procedimento, avente carattere extrapenale, dei risultati investigativi amplifica i rischi di restrizione di libertà costituzionalmente garantite, anche e soprattutto laddove l’uso sia diretto nei confronti di soggetti estranei al procedimento penale che non abbiano avuto alcuna possibilità di contestare vizi dell’attività di captazione.
In altre parole, vero è che la limitazione si verificherebbe in presenza dei presupposti richiesti dal dettato costituzionale, ma è altrettanto vero che i dati così acquisiti avrebbero delle ripercussioni all’interno di un procedimento sfornito delle stesse garanzie, quale quello concernente la responsabilità dei magistrati.
Al fine di rendere compatibili tali disposizioni con l’assetto costituzionale, le Sezioni Unite, richiamando la propria giurisprudenza[18] e raffrontandola con le indicazioni provenienti in materia dalla Corte europea, hanno ribadito la non operatività del divieto di cui all’art. 270 c.p.p. nei procedimenti disciplinari a carico dei magistrati, facendola derivare dal carattere di specialità proprio di questa tipologia di accertamento. La Corte nel suo massimo consesso ha, nell’ultimo decennio, radicalmente escluso l’esistenza di preclusioni vòlte all’uso nel procedimento disciplinare delle risultanze di intercettazioni svolte aliunde, sulla scorta della considerazione che il pubblico ministero gode di un ampio potere di indagine finalizzato a svolgere un controllo penetrante sulla correttezza dei comportamenti tenuti dai rappresentanti del potere giudiziario.
Un così consistente potere investigativo non può tuttavia sfociare in lesioni ingiustificate di diritti fondamentali, dovendo sempre garantirsi quel bilanciamento tra l’interesse generale ad accertare e reprimere gli illeciti disciplinari dei magistrati e l’interesse del singolo a veder rispettati i propri diritti e a poter ricorrere ad un giudice per censurare profili di illegittimità.
Su quest’ultimo punto, la Cassazione ha sancito la facoltà in capo all’interessato di eccepire nel procedimento ad quem la mancanza o l’illegalità del provvedimento autorizzativo disposto nel procedimento a quo, «in ragione dei richiami al codice di procedura penale contenuti negli articoli 16 e 18 del decreto legislativo n. 109/2006» (par. 26)[19].
È chiaro che la soluzione delle Sezioni Unite fosse finalizzata a recuperare un controllo di legalità del dato probatorio così acquisito e dal cui utilizzo potrebbero discendere sanzioni disciplinari, anche abbastanza gravi, per l’incolpato. La supervisione del giudice disciplinare in questo modo funge da garanzia per assicurare che tale procedimento si svolga in modo giusto ed equo e sia improntato al rispetto del diritto di difesa del soggetto interessato.
In merito a questo profilo si coglie la differenza di soluzioni tra le Sezioni Unite Civili italiane e la Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Eminağaoğlu: i giudici di Strasburgo, invero, hanno riconosciuto la violazione dell’art. 8 Cedu perché innanzitutto la legislazione turca non prevede la possibilità di far circolare le prove acquisite tramite intercettazione dal procedimento penale a quello disciplinare. Si consideri, inoltre, che l’accertamento relativo alla responsabilità disciplinare dei magistrati, in quell’ordinamento, non ha natura giurisdizionale, come sopra chiarito, per cui le garanzie poste a tutela della persona risulterebbero limitate in misura eccessiva. D’altra parte, neppure l’asserita distruzione dei files era stata sufficiente a tutelare la posizione del giudice interessato, dal momento che comunque una copia era giunta all’attenzione dell’organo disciplinare.
Al di là delle differenze sostanziali tra le due decisioni, dovute non solo alle peculiarità degli ordinamenti giuridici considerati ma anche alle tipologie di giudizio che le due Corti sono chiamate a rendere, il profilo maggiormente problematico attiene alla circolazione al di fuori dell’ambito penale dei risultati dell’attività intercettativa che, seppur disposta nel rispetto delle garanzie costituzionali e nei limiti previsti dalla legge, finisce comunque col produrre una non trascurabile ingerenza dell’autorità pubblica nella sfera privata dei cittadini, determinata dall’utilizzazione in diversa sede processuale delle informazioni captate nell’ambito del procedimento penale.
L’art. 270 c.p.p., per la delicatezza della questione che disciplina, necessiterebbe forse di un intervento del legislatore che dovrebbe specificare con maggior precisione sia in quali procedimenti possano confluire le risultanze investigative derivanti dalla captazione sia i limiti soggettivi e oggettivi di acquisizione ed utilizzabilità ultra fines degli esiti della circolazione probatoria[20].
Il tema in esame, comportando un indebolimento del diritto alla riservatezza delle comunicazioni, costituzionalmente tutelato, impone che il provvedimento autorizzativo dell’intercettazioni venga emesso solo qualora sia strettamente necessario e comunque nel rispetto del canone di proporzionalità[21]. E, forse, un risultato positivo nella direzione di una tutela maggiormente effettiva si potrebbe ottenere introducendo un obbligo in capo alle autorità procedenti di rispettare analoghi requisiti anche ai fini dell’acquisizione dei dati così ottenuti in procedimenti diversi da quello a quo, affinché ne risultino rafforzati i presidi di salvaguardia dei diritti fondamentali coinvolti da tali strumenti probatori.
4. La mancanza di effettive e adeguate garanzie nella limitazione della libertà di espressione
Rimane da accennare al punto della decisione dalla Corte europea dei diritti dell’uomo relativo alla dedotta violazione dell’art. 10 Cedu. La pronuncia riconosce infatti che la Turchia non ha garantito al magistrato Eminağaoğlu adeguati ed effettivi strumenti di salvaguardia da abusi connessi alle restrizioni del diritto a manifestare le proprie opinioni, imponendo a suo carico la sanzione del trasferimento per delle dichiarazioni pubbliche che egli aveva rilasciato in diverse sedi in merito alla conduzione dell’indagine “Ergekenon” da parte di altri giudici.
La Corte ricorda che i rappresentanti del potere giudiziario incontrano dei limiti nell’esercizio del diritto ad esprimere liberamente la propria opinione in tutti quei casi in cui entrino in gioco l’autorità e l’imparzialità dell’ordinamento giudiziario (par. 121).
Nella fattispecie - notano i giudici - la sanzione disciplinare imposta al ricorrente derivava dal fatto che lui avesse rilasciato dichiarazioni pubbliche, non essendo connessa all’esercizio della funzione; quindi è sicuramente configurabile un’interferenza con il godimento dei diritti discendenti dall’art. 10 della Convenzione. Resta dunque da verificare se tale interferenza sia giustificabile ai sensi della previsione di cui al § 2 dello stesso articolo. A tal proposito, la valutazione che emerge dalla pronuncia accerta che la restrizione del diritto fondamentale coinvolto era disciplinata dalla legge (la n. 2802) e perseguiva l’obiettivo di mantenere l’autorità e l’imparzialità dei giudici.
Bisogna però considerare che le dichiarazioni del ricorrente riguardavano questioni oggetto di un dibattito di interesse generale, legato alle modalità con cui si stava svolgendo un procedimento penale e ad un asserito collegamento tra i magistrati procedenti e il Governo. Tuttavia, agli occhi della Corte la decisione dell’organo disciplinare risultava carente di un’adeguata motivazione in ordine al profilo relativo al pregiudizio causato dalle dichiarazioni del magistrato alla dignità e all’onore della professione. Non solo; perché unitamente a tale omissione i giudici di Strasburgo hanno tenuto conto della non giurisdizionalità dell’HSYK, per cui il ricorrente non ha avuto modo di essere sentito da un giudice con le garanzie del contraddittorio. Dunque, non è stata correttamente compiuta la necessaria operazione di bilanciamento richiesta dalla Convenzione per compensare la limitazione del diritto ad esprimere il proprio pensiero nella vicenda de qua.
La Corte ha colto l’occasione fornita dalla fattispecie in esame per reiterare la necessità che ogni ordinamento democratico trovi quel punto di equilibrio imprescindibile tra le garanzie di terzietà e imparzialità dei magistrati e il diritto di questi ad esprimere le loro opinioni, senza in alcun modo pregiudicare la categoria professionale di cui fanno parte. Un esempio in tal senso è proprio il noto caso Palamara, che nell’ultimo anno ha interessato l’ordinamento giudiziario italiano a seguito delle intercettazioni di comunicazioni del dottore Luca Palamara, membro del CSM, e delle dichiarazioni che lo stesso aveva reso in merito all’esistenza di un presunto “sistema” che gestiva le nomine dei magistrati a incarichi direttivi.
5. Considerazioni conclusive
La disamina delle complesse questioni affrontate dalla Corte europea consente di formulare alcune osservazioni conclusive.
La dedotta violazione dell’art. 6, §1, Cedu sul mancato riconoscimento del carattere giurisdizionale in capo all’organo di autogoverno della magistratura turca ha avuto un effetto dirimente sulle declaratorie relative alle violazioni delle altre due disposizioni convenzionali, l’art. 8 e l’art. 10. Difatti, la limitazione dei diritti fondamentali tutelati da tali ultime previsioni può avvenire solamente nel rispetto dei requisiti richiesti dal sistema convenzionale e assicurando al singolo la possibilità di poter partecipare effettivamente ad un processo dotati di carattere giurisdizionale.
Nel caso in esame, quindi, proprio l’assenza di un giudizio dinanzi ad un tribunale con tutte le garanzie tipiche di un procedimento giurisdizionale ha condotto la Corte a riconoscere le violazioni delle disposizioni convenzionali.
Nella particolare ipotesi della trasmigrazione, da un procedimento ad altro di diversa natura, dei dati probatori intercettati è impensabile che non sia riconosciuta al magistrato, nella sedes ad quem, la possibilità di realizzare una difesa piena e completa davanti ad un giudice, come richiesto dalla Corte europea. La rilevanza dei diritti in gioco non ammette deroghe in violazione del dettato convenzionale, perché anche il giudizio disciplinare deve rispettare i canoni del fair trial.
Ancora, come sostenuto dalla Corte di Cassazione italiana, è di preminente rilevanza che l’incolpato abbia la facoltà di eccepire eventuali vizi nel procedimento acquisitivo e di richiedere la distruzione dei brani e dei brogliacci non rilevanti. Rimane peraltro insoluto il problema relativo ai limiti d’ingresso nel procedimento disciplinare di intercettazioni che coinvolgano anche soggetti estranei all’accertamento penale ma che, inconsapevoli, abbiano intrattenuto conversazioni telefoniche con il destinatario della captazione. Non è da escludere l’ipotesi di prevedere anche per tali soggetti la costruzione di uno strumento giuridico che permetta loro di ottenere l’esclusione di informazioni che li riguardino, captate mediante un’attività intercettativa, e che non appaiano necessarie ai fini del giudizio disciplinare.
Chiaramente la delicatezza della materia impone che sia il legislatore a disciplinare in modo dettagliato e specifico requisiti e limiti di ammissibilità del trasferimento e dell’uso delle risultanze di intercettazioni in altre sedi procedimentali, quale il giudizio disciplinare. Solo così le autorità procedenti potranno pienamente assolvere ai propri obblighi di controllo. Ma non basta; occorre che esse compiano un accurato scrutinio di necessità e proporzionalità dell’acquisizione dei risultati dell’attività intercettativa realizzata in sede penale, affinché anche la circolazione delle prove ottenute mediante tale attività, dato il suo elevatissimo potenziale intrusivo nei confronti di libertà costituzionalmente e convenzionalmente garantite, si realizzi in linea con la configurazione legislativa di questo peculiare mezzo di ricerca, che si staglia quale extrema ratio all’interno degli strumenti investigativi nell’odierno assetto del diritto probatorio penale.
*Dottoranda di ricerca in Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Messina
[1] Cass., sez. un., n. 9390, 8 aprile 2021, in Ced. Cass., rv. 660918, che richiama anche la sentenza della Corte europea in esame. Per un primo autorevole commento alla decisione della Cassazione, v. G. Spangher, Sull’utilizzabilità in sede disciplinare delle intercettazioni eseguite in sede penale. A proposito delle recenti Sezioni Unite Civili n. 9390/2021, in Giustizia Insieme, 26 aprile 2021.
[2] Per un’analisi sull’impianto del procedimento disciplinare a carico dei rappresentanti del potere giudiziario nell’ordinamento italiano, cfr. S. Di Amato, La responsabilità disciplinare dei magistrati. Gli illeciti, le sanzioni, il procedimento, Milano, 2013; M. Fantacchiotti – M. Fresa – V. Tenore – S. Vitello, Profili procedurali: il procedimento disciplinare innanzi al C.S.M.: iniziativa, istruttoria, conclusione, in Id., La responsabilità disciplinare nelle carriere magistratuali. Magistrati ordinari, amministrativi, contabili, militari, onorari, Avvocati dello Stato, Milano, 2010, pp. 347 ss; L. Caso, I. Magistrati e Avvocati dello Stato, in F. Carinci – V. Tenore, Il pubblico impiego non privatizzato, Milano, 2007.
[3] Per approfondire brevemente la vicenda che fa da sfondo al ricorso in esame, v. Le condanne per Ergenekon in Turchia, su www.ilpost.it, 5 agosto 2013; Che cos’è Ergenekon?, ibid., 22 febbraio 2011.
[4] La sentenza in commento dà atto di alcune di queste dichiarazioni e delle circostanze in cui esse sono state espresse sia nella parte relativa al fatto (parr. 13 ss.) sia in quella dove affronta la violazione dell’art. 10 Cedu (parr. 136 ss.).
[5] Sul dialogo tra Corti, che coinvolge anche le Corti costituzionali, v., ex multis, P. Gaeta, La scala di Wittgenstein: dialogo tra Corti, giudice comune e primauté della Corte Costituzionale, in Giustizia Insieme, 17 ottobre 2019; A. Ridolfi, Giurisdizione costituzionale, Corti sovranazionali e giudici comuni: considerazioni a proposito del dialogo tra Corti, in Rivista AIC, 2016, n. 3, p. 61 ss.; M.P. Iadicicco, La diagnosi genetica preimpianto nella giurisprudenza italiana ed europea. L’insufficienza del dialogo tra le Corti, in Quaderni costituzionali, 2015, n. 2, p. 325 ss.; M. Carducci, “Imitazioni” e “dialoghi” come «amministrazione» del linguaggio?, in AA.VV., Studi in onore di Giuseppe de Vergottini, in L. Melica - L. Mezzetti - V. Piergigli, Padova, 2015, I, p. 381 ss.; A. Ruggeri, “L’intensità” del vincolo espresso dai precedenti giurisprudenziali, con specifico riguardo al piano dei rapporti tra CEDU e diritto interno e in vista dell’affermazione della Costituzione come “sistema”, in https://www.giurcost.org/studi/ruggeri24.pdf, 5 febbraio 2013, p. 1 ss.; R. Conti, I giudici e il biodiritto. Un esame concreto dei casi difficili e del ruolo del giudice di merito, della Cassazione e delle Corti europee, Roma, 2014; G. Tesauro, Ancora sul dialogo tra giudice italiano e corti europee, in AA.VV., Studi in onore di Claudio Rossano, Napoli, 2013, IV, p. 2397 ss.; P. Ridola, Il “dialogo tra le Corti”: comunicazione o interazione?, in Percorsi costituzionali, 2012, n. 3, p. 273 ss.; G. de Vergottini, Oltre il dialogo tra le Corti. Giudici, diritto straniero, comparazione, Bologna, 2010; G. Zagrebelsky, Corti costituzionali e diritti universali, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2006, n. 2, p. 297 ss; A.M. Slaughter, A Global Community of Courts, in Harv. Int’l L.J., 2003, 44, p. 191 ss.
[6] Cfr. ex plurimis, Corte eur. dir. uomo Savitskyy c. Ucraina, 26 luglio 2012, ric. n. 38773/05; Enea c. Italia, GC, 17 settembre 2009, ric. n. 74912/01; Taşkın e altri c. Turchia, 10 novembre 2004, ric. n. 46117/99; Ganci c. Italia, 30 ottobre 2003, ric. n. 41576/98; Philis c. Grecia (n. 2), 27 giugno 1997, Reports 1997-IV; Le Compte, Van Leuven e De Meyere c. Belgium, 23 giugno 1981, ric. n. 6878/75 e 7238/75. La Corte europea in materia di procedimenti disciplinari riguardanti il diritto a proseguire l’esercizio di una professione aveva già invocato la copertura del § 1 dell’art. 6 Cedu in una sentenza che aveva visto protagonista l’ordinamento italiano: Corte eur. dir. uomo, Di Giovanni c. Italia, 9 luglio 2013, ric. n. 51160/06.
[7] Corte eur. dir. uomo, Vilho Eskelinen e altri c. Finlandia, GC, 19 aprile 2007, ric. n. 63235/00. Il test elaborato dai giudici di Strasburgo in questa pronuncia prevede che le controversie tra Stato e dipendenti pubblici siano di natura civile ai sensi dell’art. 6, a meno che non vengano soddisfatti congiuntamente due requisiti: primo, lo Stato deve aver espressamente escluso l’accesso ad un tribunale per determinate categorie di professioni pubbliche; secondo, tale esclusione deve essere giustificata sulla base concreta di un interesse generale dello Stato (par. 62).
[8] Cfr. ad esempio Corte eur. dir. uomo, Ramos Nunes de Carvalho e Sá v. Portogallo, GC, 6 novembre 2018, ric. n. 55391/13 e altri; Tsfayo c. Regno Unito, 14 novembre 2006, ric. n. 60860/00.
[9] V, fra tutte, Cass., sez. un., 25 gennaio 2013, n. 1771, in Foro it., Rep. 2013, voce Ordinamento giudiziario, n. 134. Anche la Corte Costituzionale si è pronunciata sulla rilevanza dell’interesse pubblico sotteso all’esigenza di accertare l’eventuale responsabilità disciplinare dei rappresentanti della magistratura, dovendo il relativo procedimento assicurare il corretto svolgimento della funzione giurisdizionale, la quale gode di speciali garanzie di indipendenza e imparzialità, tutelate dal dettato costituzionale. V. Corte cost., 13 aprile 1995, n. 119, in Foro it, 1995, I, 1401; id., 22 giugno 1992, n. 289, in Foro it, 1994, I, 3276.
[10] Corte eur. dir. uomo, Di Giovanni c. Italia, 9 luglio 2013, ric. n. 51160/06, parr. 37 – 38.
[11] Sul profilo funzionale dell’indipendenza dei giudici assicurati dall’organo di autogoverno della magistratura, v., per tutti, S. Bartole, Il potere giudiziario, II ed., Bologna, 2012, p. 63 ss.
[12] Corte eur. dir. uomo, Karabeyoğlu c. Turchia, 7 giugno 2016, ric. n. 30083/10.
[13] Sull’incidenza del canone di proporzionalità con riferimento all’uso delle nuove tecniche di sorveglianza occulta, v., ad es., F. Nicolicchia, Il principio di proporzionalità nell’era del controllo tecnologico e le sue implicazioni processuali rispetto ai nuovi mezzi di ricerca della prova, in www.archiviodpc.dirittopenaleuomo.org., 8 gennaio 2018; M. Caianiello, Il principio di proporzionalità nel procedimento penale, in Dir. pen. cont., 2014, 3-4, p. 143 ss. Cfr. Corte eur. dir. uomo, GC, S. e Marper c. Regno Unito, 4 dicembre 2008, ric. n. 30562/04 e n. 30566/04, § 112, ove si afferma che la tutela discendente dall’art. 8 Cedu risulterebbe eccessivamente indebolita qualora l’autorità procedente non si preoccupasse di effettuare un’accurata valutazione sia dei vantaggi derivanti dalla forza estensiva che connota tali strumenti sia degli interessi fondamentali in gioco. V. ancora Corte eur. dir. uomo, GC, Roman Zakharov c. Russia, 4 dicembre 2015, ric. n. 47143/06, che precisa quali garanzie minime debba rispettare il provvedimento limitativo del diritto al rispetto della vita privata e familiare (ad es., durata e modalità di svolgimento delle operazioni, conservazione dei dati soggetti destinatari della captazione); ancora, Corte eur. dir. uomo, Kennedy c. Regno Unito, 18 maggio 2010, ric. n. 26839/05; Marchiani c. Franci, 27 maggio 2008, ric. n. 30392/03; Vetter c. Francia, 31 maggio 2005, ric. n. 59842/00; Lambert c. Francia, 24 agosto 1998, ric. n. 23618/94; Malone c. Regno Unito, 2 agosto 1984, ric. n. 8691/79.
[14] Cfr. F. Resta, La Direttiva sulla protezione dei dati personali in ambito giudiziario penale e di polizia, le intercettazioni e la tutela dei terzi, in Giustizia Insieme, 15 dicembre 2020; G. Santalucia, Il diritto alla riservatezza nella nuova disciplina delle intercettazioni. Note a margine del decreto legge n. 161 del 2009, in Sistema Penale, 2020, 1, p. 47 ss.; sull’assenza di una specifica tutela per soggetti terzi v. C. Conti, La riserva delle intercettazioni nella “delega Orlando”. Una tutela paternalistica della privacy che può andare a discapito del diritto alla prova, in Diritto penale contemporaneo, 2017. n. 3, pp. 92 – 93.
[15] Si noti tuttavia che la Cassazione si preoccupa di specificare che la sentenza dei giudici europei è successiva alla camera di consiglio in cui è stata decisa la sentenza (v. par. 37.2).
[16] Cass., sez. un., n. 9390, cit., par. 20.
[17] V. G. Spangher, Sull’utilizzabilità in sede disciplinare delle intercettazioni eseguite in sede penale, cit., p. 3, il quale spiega che «il riferimento alla “compatibilità” servirebbe a modulare l’operatività delle norme processuali in relazione alla ricordata specialità dell’oggetto della procedura disciplinare nei confronti dei magistrati».
[18] V. Cass., sez. un., n. 741, 15 gennaio 2020, in Ced. Cass., rv. 656792, che ammette addirittura la trasmissione dalla sede penale a quella disciplinare delle sole trascrizioni in forme riassuntiva; allo stesso modo, Cass., sez. un., n. 14552, 12 giugno 2017, in Ced. Cass., rv. 644570-02; Cass., sez. un., n. 3020, 16 febbraio 2015; Cass., sez. un., n. 3271, 12 febbraio 2013, in Ced. Cass., rv. 625433; Cass., sez. un., n. 15314 del 24 giugno 2010, in Ced. Cass., rv. 613973; Cass., sez. un., n. 27292, 23 dicembre 2009, in Ced. Cass., rv. 616804; Cass., sez. un., 12717 del 29 maggio 2009, in cui la Corte afferma che «l’art. 270 c.p.p., comma 1, - non trovando in particolare applicazione al giudizio di prevenzione che pure ha una connotazione “penalistica” a differenza del procedimento disciplinare di magistrati - riguarda specificamente il processo penale deputato all'accertamento di responsabilità penali che pongono in gioco la libertà personale dell'indagato o dell'imputato sicché possono giustificarsi limitazioni più stringenti all'acquisizione della prova».
[19] Cfr. Cass., sez. un., n. 13426, 25 marzo 2010, in Ced. Cass., rv. 246271, in cui viene affermato il principio di diritto per cui «l'inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, accertata nel giudizio penale di cognizione, ha effetti in qualsiasi tipo di giudizio». Sempre sul presupposto del rinvio alle norme codicistiche, la Corte ha anche affermato che il sottoposto al giudizio cautelare ha il diritto di chiedere al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione copia dei supporti materiali delle intercettazioni su cui si fonda la richiesta cautelare di sospensione dalla funzione e dallo stipendio (par. 32).
[20] Sulla problematicità delle disposizioni di cui all’art. 270 c.p.p. e dell’interpretazione che ne dà la giurisprudenza, v. J. Della Torre, La nuova disciplina della circolazione del captato: un nodo arduo da sciogliere, in M. Gialuz, Le nuove intercettazioni. Legge 28 febbraio 2020, n. 7, in Diritto di Internet, 2020, suppl. al n. 3, p. 90 ss.
[21] F. Nicolicchia, op. loc. cit.; M. Caianiello, op. loc. cit.