ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il dopo Randstad: se la Cassazione insiste, può sollevarsi un conflitto?
di Marco Mazzamuto
1. La Corte di giustizia UE (21 dicembre 2021, C-497/20) non ha lasciato alcuno spazio al tentativo della Cassazione di aggirare l’orientamento del giudice delle leggi (sentenza n. 6/2018) a proposito dei “soli motivi inerenti alla giurisdizione” (art. 111 cost.), facendo leva su una presunta contrarietà di tale orientamento al diritto UE.
Si trattava di una particolare sensibilità della Cassazione per l’effettività del diritto UE? Niente affatto. Del resto non è difficile trovare casi nei quali la situazione si presenta capovolta. Si prenda ad es. la questione della doppia qualità di impresa pubblica e organismo di diritto pubblico, ove la Cassazione ha ritenuto di far comunque prevalere il sottosistema dei settori speciali (Cass. s.u. n. 4899/2018), di contro a quanto poteva facilmente ricavarsi dalla giurisprudenza UE (Corte giust. ue 10/4/2008, C-393/06). Invero, i principi UE hanno, per diversi aspetti, una potenzialità di scardinamento di assetti consolidati, sicché non vi è nulla di nuovo nei tentativi della giurisprudenza nazionale di recepire a volte tali vincoli con gradualità o con una qualche resistenza: si tratta cioè di un processo complesso di progressiva interazione tra ordinamenti e bilanciamento di interessi. Si pensi da ultimo alla spinosa faccenda delle concessioni balneari: l’indicazione temporeggiatrice del Consiglio di Stato -che erroneamente viene criticata come una sostituzione del legislatore, trattandosi piuttosto di una modulazione del potere di disapplicazione (similarmente alla modulazione dell’annullamento), dunque di un potere giurisdizionale- è chiaro esempio di un percorso di ragionevole compromesso.
Ma la miglior riprova del fatto che il rinvio al giudice UE nel caso Randstad sia stato strumentalizzato, nel quadro di un più ampio disegno di affermare la supremazia della Cassazione sui giudici speciali, si ha con una immediata riapertura del fronte “interno”, come traspare da un recentissimo convegno (Il caso Randstad Italia spa: questione di giurisdizione o di giustizia?, 11 febbraio 2022, vedi Giustizia insieme), specialmente con riguardo alle relazioni del Presidente Raffaele Frasca, Presidente di Sezione della Corte di Cassazione, ma parlante a titolo personale, e del Prof. Romano Vaccarella, ordinario di diritto processuale civile, già giudice costituzionale ed estensore della famosa sentenza n. 204/2004.
La relazione del Presidente Frasca si è mossa su tre punti: 1) il ridimensionamento del valore della pronuncia n. 6/2018 del giudice delle leggi; 2) l’inconfigurabilità di un conflitto di attribuzioni da parte del Consiglio di Stato; 3) una reinterpretazione del dettato costituzionale.
La premessa maggiore, subito esplicitata, è che sui motivi inerenti alla giurisdizione “l’ultima parola” spetti alla Cassazione e non al giudice costituzionale.
Da qui si ricava la presunta erroneità della pronuncia del 2018 in quanto con il giudizio di irrilevanza per difetto di potestas iudicandi il giudice delle leggi si sarebbe sostituito alle Sezioni unite, mentre, semmai, avrebbe dovuto dichiarare l’inammissibilità della questione rinviandola all’organo competente, cioè alle stesse Sezioni Unite. Si tratta di per sé di pure conseguenze deduttive della premessa maggiore e che stanno o cadono insieme a quest’ultima.
Sin qui il discorso rimane invero assai debole. La limitazione del ricorso alle Sezioni unite per “soli motivi inerenti alla giurisdizione” non è più soltanto una semplice previsione di un codice processuale, sino indietro a risalire all’art. 3 della legge 31 marzo 1877, n. 3761, ma è divenuta anche una previsione costituzionale, come tale rimessa all’interpretazione del giudice delle leggi: è dunque del tutto mal posta l’affermazione che in materia “l’ultima parola” spetti alla Cassazione.
Forse nella consapevolezza di una fragile prospettazione, ecco che allora il discorso si arma anche di una, per così dire, astuzia processuale, indagando se vi sia un altro modo per neutralizzare in concreto il ruolo della Corte costituzionale.
Anzitutto, si afferma che la pronuncia n. 6/2018, trattandosi di una sentenza di inammissibilità, a fortiori, non potrà avere l’effetto vincolante di cui sono già prive le sentenze di rigetto. Ma soprattutto si afferma che, qualora le Sezioni unite dovessero tornare sul proprio orientamento, non vi sarebbe modo per far pervenire la questione di fronte al giudice delle leggi.
Si confessa invero che, subito dopo la pronuncia del 2018, nell’ambiente della Cassazione prevalse la cautela. Si temeva infatti che, con un’impugnazione da parte del Consiglio di Stato, la Corte costituzionale avesse potuto confermare il proprio orientamento, questa volta con effetti vincolanti.
Ma, melius re perpensa, il Presidente Frasca ritiene oggi che tale conflitto non sarebbe ammissibile, poiché riguarderebbe organi appartenenti al medesimo potere, citando altresì una, ritenuta significativa, pronuncia n. 368/1996, rectius n. 385/1996, della Corte Costituzionale: dunque, liberi tutti!
Tale assunto, oltre che esprimere per implicito una scarsa considerazione delle prerogative del giudice delle leggi, che si vorrebbero così aggirare, appare comunque privo di fondamento.
Si insiste sul carattere unico del potere giurisdizionale e, sempre con una qualche consequenziale autoreferenzialità, se ne trova la prova più significativa nel fatto che al “vertice” vi sarebbero le Sezioni unite, dimenticando che i giudici speciali sono giurisdizioni “superiori”, come letteralmente, al di fuori dello stesso art. 111, ci indica il dettato costituzionale: “I giudici della Corte costituzionale sono scelti fra i magistrati anche a riposo delle giurisdizioni superiori ordinaria ed amministrative” (art. 135 c. 2 cost.).
Ma ciò di cui non ci si avvede è che anche a presupporre una siffatta stringente unità non per questo ne deriverebbe quanto desiderato sul versante dell’inammissibilità del rimedio.
Nella tradizione giuspubblicistica l’impermeabilità di soggetti o poteri ha sempre avuto, ai fini nell’esperibilità dei rimedi, un valore tendenziale, ma non assoluto. Basti ricordare le sofisticate riflessioni di Santi Romano sulla “suità” degli organi costituzionali e amministrativi e sui rapporti giuridici “riflessivi”, tanto che Vittorio Emanuele Orlando non aveva tema di osservare, riguardo in particolare al diritto amministrativo, che “le moderne istituzioni amministrative possono offrire il caso che una determinata norma assicuri e garentisca una certa sfera di libere facoltà ad enti, senza che perciò si possa dire che essi siano subbietti di quel determinato diritto”, il che “stando al rigore dei principii” non sembrerebbe ammissibile, poiché l’organo “non ha una personalità giuridica distinta da quella dello Stato cui serve”. Si tratterebbe quindi di una “particolarità specialissima del diritto amministrativo”, la quale “suppone il caso in cui si concede facoltà ad un organo amministrativo di impugnare in via contenziosa l’atto di un altro organo amministrativo” (si rimanda per tali riferimenti a M. Mazzamuto, Liti tra pubbliche amministrazioni e vicende della giustizia amministrativa nel secolo decimonono, in Dir. proc. amm., 2019, 405 ss.).
Ebbene, discorso non diverso vale per la giurisprudenza costituzionale, che, del resto, nei percorsi continentali, è essenzialmente figlia della giustizia amministrativa, riguardando mutatis mutandis il sindacato su un atto legislativo piuttosto che su un atto amministrativo.
L’assunta unità di un potere, ammesso e non concesso che sia predicabile nei rapporti tra giudice ordinario e giudici speciali, non è infatti decisiva. Il vero punto scriminante consiste invece nel fatto che vi sia o meno una prerogativa costituzionale che si riferisca, in ipotesi, anche ad un anfratto interno a questo potere. Se questa condizione ricorre il conflitto è ammissibile anche tra organi di uno stesso potere, e di ciò si ha chiara contezza nella giurisprudenza costituzionale.
Così, nel famoso caso Mancuso, ove si intendeva difendere le prerogative costituzionali del Ministro della Giustizia, la Corte ha ritenuto ammissibile il conflitto, tra gli altri, anche nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, con riguardo alla proposta dello stesso Presidente del Consiglio di conferimento, a sé medesimo, dell'incarico di Ministro di grazia e giustizia ad interim (C. cost. ord. 470/1995).
Di particolare significato sono poi le affermazioni di principio sulla tutela delle prerogative costituzionali dei singoli parlamentari rispetto allo stesso organo di appartenenza: “Nell’ambito di istituzioni complesse, articolate e polifunzionali, qual è il Parlamento e quali sono le singole Camere, molteplici sono gli organi che possono configurarsi come poteri a sé stanti, idonei a essere parti nei conflitti di attribuzione. I parlamentari che, come si è detto, sono organi-potere titolari di distinte quote o frazioni di attribuzioni costituzionalmente garantite debbono potersi rivolgere al giudice costituzionale qualora patiscano una lesione o un’usurpazione delle loro attribuzioni da parte di altri organi parlamentari” (C. cost. ord. N. 17/2019 e i precedenti ivi citati).
Ebbene, mutatis mutandis, non vi è alcun dubbio che il giudice speciale, come giurisdizione superiore, goda di una prerogativa costituzionale, espressamente prevista nell’art. 111 cost., nel senso di non potere essere sottoposto ad un giudizio delle Sezioni unite della Cassazione che vada al di là dei “soli motivi inerenti alla giurisdizione”.
Si tratta già di riferimenti di inequivocabile rilievo sistematico. Resta da prendere in considerazione la pronuncia n. 368/1996, rectius n. 385/1996, che, a ben vedere, non sembra affatto condurre alle conseguenze che ne vorrebbe ricavare chi ne ha fatto evocazione. Nel caso di specie un giudice sollevava un conflitto riguardo ad un’azione di responsabilità erariale di fronte al giudice contabile per i provvedimenti di liquidazione dei compensi dei periti dal primo adottati nell’ambito di un procedimento penale. Il giudice costituzionale dichiarava l’inammissibilità del conflitto, ma con una motivazione significativa (corsivi ns.):
-"la concreta attribuzione della giurisdizione, in relazione alle diverse fattispecie di responsabilità amministrativa, è rimessa alla discrezionalità del legislatore ordinario e non opera automaticamente in base all'art. 103 Cost., richiedendo l'interpositio legislatoris, " (sentenza n. 24 del 1993); così come più in generale “appartiene al legislatore, nel rispetto delle norme costituzionali, la determinazione dell'ampiezza di ciascuna giurisdizione (ordinaria, amministrativa, contabile, militare, ecc.) (sentenza n. 641 del 1987)”;
“Il che spiega perché, quando sono in discussione, nei reciproci rapporti fra giurisdizioni, i rispettivi ambiti di competenza, se e in quanto determinati dal legislatore ordinario, il contrasto non assume, di norma, il carattere di conflitto di attribuzione, come confermano gli articoli 111, terzo comma, della Costituzione e 37, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87”
-“la contestata giurisdizione non potrebbe dirsi né attribuita né sottratta alla Corte dei conti da norme costituzionali, dipendendo essa invece dalle determinazioni che la legge abbia fatto in proposito per tener conto di tali esigenze. E questo basta perché si riconosca che l'attuale controversia non presenta le caratteristiche che l'art. 37, primo comma, della legge n. 87 del 1953 richiede, affinché possa instaurarsi un conflitto costituzionale di attribuzioni, rientrante nella competenza di questa Corte”.
E un discorso analogo la Corte sviluppa rispetto alla pretesa lesione dell’indipendenza del giudice:
-“ anche sotto il profilo della previsione dei diversi tipi di responsabilità in cui possono incorrere i giudici, la Costituzione lascia aperto un campo all'esplicazione della discrezionalità del legislatore. Esso porta a riconoscere che, anche sotto questo aspetto, il presente conflitto non attiene alla "delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali".”;
-“le richiamate disposizioni dettate dalla Costituzione a garanzia dell'indipendenza e dell'insindacabilità della funzione giurisdizionale non si oppongono di per sé alla possibilità che la legge preveda casi e forme di responsabilità per atti giudiziari del tipo qui in questione. Ond'è che nemmeno per questa via è possibile ricavare un confine definito dalla Costituzione, che giustifichi la drastica affermazione che alla Corte dei conti è sempre preclusa - si ribadisce: preclusa per ragioni di costituzionalità - la giurisdizione sulla responsabilità dei magistrati per danno erariale”.
In sostanza, gli ambiti delle giurisdizioni usualmente non hanno dei puntuali vincoli costituzionali, ma esigono una interpositio legislatoris, sicché di regola non si può configurare un conflitto di attribuzioni non venendo in gioco la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata da norme costituzionali. In tali casi, potranno essere attivati i rimedi esistenti sulle questioni di giurisdizione, sino al giudizio delle Sezioni Unite della Cassazione (cioè l’evocato art. 111 c. 3, ora c. 8, Cost.), nel contesto dei quali potrà semmai porsi in via incidentale un dubbio di costituzionalità sulle previsioni legislative attinenti alla giurisdizione. In questo senso, l’evocato art. 37, c. 2, L. n. 87/53: “Restano ferme le norme vigenti per le questioni di giurisdizione”.
Ma ciò non può certo valere per il nostro caso: dirimente è che nell’art. 111 c. 8 viene invece in gioco, per usare sempre l’espressione dell’art. 37 cit. c. 1, la “delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali”; a ciò può anche aggiungersi che non vi è un rimedio sub-costituzionale avverso le pronunce delle Sezioni Unite.
Questo trova del resto inequivocabile conferma nei precedenti giurisprudenziali, anche del giudice delle leggi. Non da ora si è affermato che la funzione della Cassazione di cui all’art. 111 va considerata “come rimedio costituzionalmente imposto” (così ad es. C. cost. n. 395/2000) ed immediatamente precettivo (ad es., ex multis, Cass. s.u. n. 2077/1994). E ciò vale sia riguardo al ricorso in Cassazione “per violazione di legge” (c. 2, ora c. 7), sia riguardo al ricorso “per i soli motivi inerenti alla giurisdizione” (c. 3, ora c. 8): “le leggi ordinarie non possono disporre delle funzioni costituzionalmente riservate alla Corte di cassazione (in base al secondo e terzo comma dell'art. 111)” (già C. cost., n. 86/1982). E se dunque il ricorso alle Sezioni Unite “per i soli motivi inerenti alla giurisdizione è una funzione “costituzionalmente” fissata, va da sé, trattandosi del rispecchiamento della medesima disposizione, che il Consiglio di Stato o la Conti dei conti godano della medesima prerogativa “costituzionale” nell’essere sottratti ad un ricorso in Cassazione che oltrepassi i motivi di giurisdizione. Per usare le parole proprio dell’evocata pronuncia n. 385/1996 vi è qui “un confine definito dalla Costituzione”.
In definitiva, sussistono, a nostro avviso, tutti i presupposti perché il Consiglio di Stato (o la Corte dei Conti), più esattamente il suo Presidente (c. cost. n. 302/1995), sollevi un conflitto di fronte al giudice costituzionale avverso una pronuncia della Cassazione che oltrepassi i motivi di giurisdizione.
Anzi, se il giudice della giurisdizione vorrà insistere, è auspicabile che tale conflitto si sollevi quanto prima, poiché non è certo tollerabile che si continui a rimanere sine die esposti all’incertezza di questa pervicace volontà espansionistica della Cassazione (o, si spera, solo di una parte di essa). E senza dimenticare che il passato ci offre un rimedio ancor più radicale, quando, nel 1965, la Corte dei conti arrivò ad affermare che “non può riconoscersi effetto” alla pronuncia delle Sezioni unite su un regolamento preventivo di giurisdizione, sin lì non ammesso nei confronti dei giudici speciali, come se tale pronuncia fosse emessa in carenza di potere, dunque nulla o inesistente (si rimanda a M. Mazzamuto, L’eccesso di potere giurisdizionale del giudice della giurisdizione, in Dir. proc. amm., 2012, 1677).
Va inoltre menzionato, ma solo per completezza, l’implicito tentativo di delegittimazione soggettiva della pronuncia del 2018 messa in campo, e non solo in questa occasione, dal Prof. Vaccarella, e ciò perché il collegio era in composizione ridotta (12) e soprattutto perché le funzioni di redattore vennero attribuite ad un componente che proveniva dalla giurisdizione amministrativa. Potrebbe dirsi, specularmente, lo stesso per il redattore, questa volta proveniente dalla giurisdizione ordinaria, della pronuncia che ha condotto alla dichiarazione di incostituzionalità del d.lgs.vo n. 80/98 con riguardo alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ma evidentemente si usano due pesi e due misure. Comunque non intendiamo aggiungere altro, poiché siamo su un terreno di pure suggestioni.
Se poi vogliono mettersi in gioco dei conflitti d’interesse nell’assetto istituzionale dell’ordinamento, ebbene il primo conflitto di interessi, come già evidenziava, Ludovico Mortara, sta proprio nelle Sezioni unite della Cassazione, cioè di un giudice della giurisdizione che è parte in causa. Ben altro, sarebbe il discorso se tale organo avesse una composizione mista del tipo francese, soluzione questa più naturale, come ancora auspicava lo stesso Ludovico Mortara, in un ordinamento informato al pluralismo giurisdizionale (per questi riferimenti, M. Mazzamuto, Il tramonto dottrinario del mito della giurisdizione unica alla luce dell’esperienza tra Orlando e Mortara, in www.giustizia-amministrativa.it, 2019).
Se per suscitare la sensibilità del Prof. Vaccarella, in un collegio, quello costituzionale, a composizione mista, è sufficiente che vi sia un redattore proveniente dalla giurisprudenza amministrativa per una questione di giurisdizione, figuriamoci allora, da parte nostra, se non vi sarebbe ben a fortiori ragione di lagnarsi del dover continuare ad assistere, da quasi un secolo e mezzo, a decisioni di un giudice della giurisdizione interamente composto da giudici ordinari.
2. Non da ora, anche da una parte della dottrina, si prospetta una reinterpretazione della costituzione nel segno di una visione unitaria della giurisdizione, finendo con ciò inevitabilmente per investire il crocevia sistematico delle funzioni delle Sezioni Unite: l’obiettivo è evidente, fare delle Sezioni unite, in qualche misura, un giudice di legittimità di terzo grado nei confronti dei giudici speciali, promuovendo la Cassazione ad “unica” Corte Suprema.
Il Presidente Frasca si produce in un’esegesi dell’art. 111 nel confronto con codici processuali, invece che con una tradizionale ordinamentale che risale alla legge 31 marzo 1877, n. 3761, per concludere che per motivi di giurisdizione debba intendersi violazioni di legge, sebbene in un ambito più ristretto, quello della violazione delle sole leggi sostanziali e non di quelle processuali. Rievoca il noto argomento della presunta grave incongruenza di un ricorso per violazione di legge sempre possibile per un diritto soggettivo, ma non per un diritto soggettivo rimesso alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, nonché la preoccupazione espressa da Franco Bile nel 1998 della formazione di una doppia nomofilachia negli istituti di diritto comune. Infine il Prof. Vaccarella ripropone una versione ancor più larga, sicché nei motivi di giurisdizione rientrerebbero anche i vizi processuali.
Non è possibile affrontare qui funditus l’argomento. Ci limitiamo ad osservare che questi orientamenti ci sembrano affetti da un semplificante spirito geometrico non sostenuto da un’adeguata consapevolezza della complessità storica e sistematica della materia, indugiando soltanto su una premessa maggiore apodittica, e cioè che esista un solo modello di giurisdizione, quello loro, della giurisdizione ordinaria, che si pretende di assumere anche a modello costituzionale, e su cavillosi tentativi di interpretazioni esegetiche.
Sembra anzitutto che si ignori l’esistenza del diritto pubblico e del suo giudice. Il giudice amministrativo ha la sua ragione d’essere nel diritto pubblico e dunque poco si comprenderebbe perché mai un giudice che si occupa di tutt’altro, che è ambientato in un altro sistema, quello privatistico, dovrebbe operare in un terreno a lui estraneo. E’ questo il senso principale della scelta costituzionale: il mantenimento del diritto amministrativo e del suo giudice, nella consapevolezza che solo quest’ultimo è in grado di applicare i principi del primo, non certo un giudice informato a tutti altri principi. Si comprende così perfettamente, sul piano sistematico, perché le Sezioni unite possano al più atteggiarsi a giudici della giurisdizione, ma non certo a giudici di terzo grado delle giurisdizioni, appunto “superiori”, speciali.
Senza contare della vera ragione di fondo del dualismo: cioè il maggior garantismo del diritto pubblico per il cittadino. Un inquinamento privatistico del diritto e della giustizia amministrativi porterebbe infatti ad una verticale caduta della tutela, come è avvenuto nel pubblico impiego, essendo il vincolo della legalità privatistica, proprio perché rispettosa dell’autonomia privata, ben più flebile del vincolo del regime pubblicistico.
Quando dunque si parla delle posizioni soggettive, magari per evocare un principio di eguaglianza nella nomofilachia, non lo si può fare con una trasversale indifferenza rispetto al sistema nel quale una posizione soggettiva va a collocarsi, cioè in un rapporto di diritto pubblico o in un rapporto di diritto privato. Si prenda ad es. un diritto di proprietà, lo si chiami come si preferisce (diritto soggettivo o altro), ciò che veramente dovrebbe contare ai fini del riparto (e della nomofilachia) è se tale diritto si confronta con altre posizioni giuridiche nell’ambito di rapporti privatistici o nell’ambito di rapporti pubblicistici.
Vero è piuttosto che l’enfatizzazione delle posizioni soggettive ai fini del riparto è stato e continua ad essere fonte di grandi confusioni. Quando si parla di diritti soggettivi in opposizione agli interessi legittimi a cosa ci si riferisce, a diritti soggettivi di diritto privato o a diritti soggettivi di diritto pubblico? Se si guarda a come si è inizialmente formato il sistema non certo ai primi, essendo scontata la giurisdizione del giudice ordinario nei rapporti iure privatorum, bensì ai secondi poiché il problema era quello di dividere le controversie di diritto pubblico tra giudice ordinario e IV Sezione per evitare il conflitto tra giudicati. Ma sappiamo altresì che i diritti soggettivi di diritto pubblico rimasero più che altro sulla carta, grazie alla teoria della degradazione, che finì, sotto altra veste, per perpetuare la tradizionale distinzione tra di atti d’impero (latamente intesi) e atti di gestione, che, a sua volta, aveva assunto il significato di riprodurre la distinzione tra atti di diritto pubblico e atti di diritto privato.
Ed è proprio quest’ultimo, così come in tutti i sistemi dualistici, il vero punto meritevole di attenzione, unitamente alle dinamiche che possono determinarsi nei mutamenti di qualificazione. Significativo è l’esempio della giurisdizione esclusiva, tutta carica delle ambiguità dell’enfatizzazione delle posizioni soggettive. Se già, nel riparto ordinario, i diritti soggettivi di diritto pubblico erano assorbiti negli interessi legittimi con la teoria della degradazione, cosa mai si sarebbe dovuto guadagnare in più con la giurisdizione esclusiva, come giurisdizione anche sui diritti soggettivi (di diritto pubblico)? L’utilità pratica si poté in realtà apprezzare perché la norma processuale sul riparto divenne occasione per una riqualificazione pubblicistica, sul piano sostanziale, di parti dei rapporti che sin lì erano di qualificazione privatistica o di incerta qualificazione. E’ proprio per questo che si inventarono gli atti “amministrativi” paritetici, dove l’aspetto più importante stava nel qualificarli come “amministrativi”, mentre il carattere paritetico rispondeva soltanto all’esigenza di evitare che nel passaggio di regime vi fosse un peggioramento nella sottoposizione ai termini decadenziali. La verità è che le materie di giurisdizione esclusiva non erano tanto segnate dall’incertezza tra diritti soggettivi di diritto pubblico e interessi legittimi, bensì da zone grigie tra diritto pubblico e diritto privato.
Si sarebbe il giudice amministrativo così appropriato di istituti di diritto comune? Certamente sì. Ma, così come aveva già ben chiaro Vittorio Emanuele Orlando, gli istituti di diritto comune sono imputabili al sistema privatistico soltanto in senso storico, poiché è lì che avrebbero avuto la loro prima formazione, non invece che essi siano ontologicamente privatistici, bensì appunto comuni senza ulteriori aggettivazioni. E ciò significa altresì che ogni istituto di diritto comune vive e si caratterizza, modulandosi, in relazione al sistema nel quale si inserisce: anche qui non è praticabile una trasversalità indifferente dell’istituto nel passaggio da un sistema all’altro ed è così del tutto naturale che per i cd. istituti di diritto comune si formino delle nomofilachie autonome, secondo ciascun sistema.
Ciò tuttavia presuppone che l’assetto delle qualificazioni, affinché una fattispecie o un istituto si ambienti in questo o in altro sistema, sia sempre messo o rimesso in ordine, poiché è attraverso questa passaggio che si separano pianamente le sorti delle diverse nomofilachie. Ed è proprio quello che è tradizionalmente avvenuto nella giurisdizione esclusiva con un’espansione delle qualificazioni pubblicistiche.
Quando invece non si procede ad un siffatto riassetto il problema del concorso nella nomofiliachia riemerge inevitabilmente. È quello che sta avvenendo in questi anni con la responsabilità per i danni derivanti da rapporti di diritto pubblico. Vi è un’ontologia privatistica dell’istituto? Niente affatto, come dimostra il caso francese. Se dunque l’ordinamento ha assegnato tale rimedio al giudice amministrativo occorre, come si è più volte suggerito, che, in parte qua, l’istituto comune della responsabilità si ambienti pienamente nel sistema giuspubblicistico e assuma le vesti di una responsabilità di diritto pubblico. Incomprensibilmente invece la giurisprudenza amministrativa, in luogo di separare i forni, continua a configurare il rimedio risarcitorio, rimesso alle sue cure, in termini privatistici, lasciando in campo un disallineamento sistematico ed una inevitabile concorrenza nomofilattica con la Cassazione.
3. Un’ultima questione riguarda la possibilità per le Sezioni unite di sindacare la qualificazione, come interesse di fatto o come interesse giuridicamente rilevante, effettuata dal Consiglio di Stato.
Due cari Colleghi amministrativisti, la Prof. ssa Maria Alessandra Sandulli e il Prof. Fabio Francario, sempre nel contesto del citato convegno, insistono sull’idea che ciò sia possibile, osservando, rispetto al caso Randstad, che il Consiglio di Stato si sarebbe sostituito al legislatore (qui quello UE) e la relativa pronuncia si sarebbe sostanziata in un diniego di giurisdizione. Se ne trae così la conclusione che male avrebbe fatto la Cassazione ad effettuare il rinvio al giudice UE, avendo potuto invece pacificamente decidere da sé la questione, perché appunto traducentesi in un diniego di giurisdizione.
Il Presidente Frasca invece parla al riguardo di error in iudicando, dunque non sindacabile dalle Sezioni unite, se non appunto accedendo alla (da Egli) auspicata dilatazione del significato dei motivi inerenti alla giurisdizione, intesi come anche comprensivi della violazione di leggi sostanziali.
Da parte nostra si condivide pienamente l’idea che si tratti di error in iudicando, poiché attinente al merito, così come del resto già sostenuto dall’antica dottrina (così ad es, Federico Cammeo: v. M. Mazzamuto, L’eccesso.., cit.) e così come del resto si ricava da ciò che fa normalmente la giurisprudenza civile quando, anche nel caso che ricorra invero un interesse di fatto, rigetta un’azione perché il diritto vantato non sussiste, pronunciandosi cioè sul merito e non dichiarando il difetto di giurisdizione. Ovviamente noi ne facciamo derivare una conseguenza opposta, rispetto a quella desiderata dal Presidente Frasca, e cioè che siffatte questioni dovrebbero considerarsi estranee alle questioni di giurisdizione.
Vero è tuttavia che una qualche tendenza a valutare la questione dell’interesse come questione di giurisdizione era già emersa negli anni settanta del secolo scorso nella giurisprudenza delle Sezioni unite, sino a culminare nel famoso caso di Italia nostra, nel quale, per la prima volta, il Consiglio di Stato riconobbe il locus standi ad un titolare di interessi diffusi, salvo poi dover subire la censura della Cassazione che annullò la pronuncia per “difetto assoluto di giurisdizione” (Cass. S.U., 8.5.1978, n. 2207). Veemente, contro siffatto orientamento, fu in quegli anni la reazione di Vincenzo Caianiello di cui si caldeggia la lettura (Id., Il cosiddetto limite esterno della giurisdizione amministrativa ed i poteri della Cassazione, in Giur. it., 1977, IV, 23; v. anche M. Mazzamuto, L’eccesso.., cit.).
Non si può al riguardo che confermare anche la nostra piena contrarietà. Uno degli aspetti più preziosi della tradizione graziosa e pretoria della giustizia amministrativa è l’ampiezza degli interessi ammessi alla tutela, rispetto all’elenco più ristretto di interessi giuridicamente rilevanti della tradizione privatistica: basti ricordare che Laferrière nel suo famoso trattato di giustizia amministrativa riteneva sufficiente anche un semplice interesse morale. Si sono già costruiti nel XIX sec., quando la giustizia graziosa assunse la formale veste giurisdizionale, tanti artifizi, come ad es. gli interessi occasionalmente protetti, per giustificare il perpetrarsi di questa tradizione. Ma si tratta appunto di artifizi: invero non vi è mai stata in ciò alcuna base normativa, bensì si trattava e continua a trattarsi, senza mai addivenire ad un’azione popolare, di una largheggiante selezione equitativa degli interessi da parte del giudice pretore.
Non bisogna lasciarsi traviare dal fatto che nel caso Randstad sia accaduto il contrario di quanto era avvenuto nel caso Italia nostra. Ciò è dovuto soltanto al fatto che in questi anni il giudice amministrativo è stato violentemente additato, specie nel settore degli appalti pubblici, come un impaccio all’azione pubblica e allo sviluppo economico, ed è stato costretto, tradendo in parte (e si spera temporaneamente) la sua tradizione, ad usare la leva della legittimazione per ridurre il contenzioso.
Se sul piano sistematico si volesse legare il giudice pretore ad espresse qualificazioni normative degli interessi giuridicamente rilevanti o lo si volesse al riguardo sottoporre ad uno stringente controllo della Cassazione, più legata ad un giuspositivismo legislativo e ad una tradizione, quella privatistica, caratterizzata da un catalogo più ristretto degli interessi giuridicamente rilevanti, si porrebbero le condizioni per una caduta verticale della tutela.
E la nostra Costituzione ha certo confermato il giudice amministrativo, volendo consapevolmente salvare, anche per tale aspetto, una gloriosa tradizione di protezione dei cittadini di fronte ai pubblici poteri.
L’Italia, l’art. 11 e la guerra
di Alfonso Celotto
Sommario: 1. “L’Italia rinunzia alla guerra come strumento di conquista e di offesa …” - 2. L’aspirazione del nostro Paese a partecipare all’Organizzazione delle Nazioni Unite.
1. “L’Italia rinunzia alla guerra come strumento di conquista e di offesa…”
Così esordiva l’art. 4 del progetto di Costituzione presentato alla Assemblea costituente il 31 gennaio 1947.
Era nitida la volontà di rottura e di contrapposizione con la allora recente guerra, ma si voleva anche porre una visione più ampia, mondiale: lo disse chiaramente Togliatti «per chiarire la posizione della Repubblica italiana di fronte a quel grande movimento del mondo intiero che cerca di mettere la guerra fuori legge», aggiungendo poi che «in particolare, deve essere sancito nella Costituzione italiana per un motivo speciale interno, quale opposizione cioè alla guerra che ha rovinato la Nazione» (3 dicembre 1946, I Sottocommissione).
Quando il testo arrivò in Assemblea, si discusse animatamente sul verbo che era opportuno utilizzare.
Meuccio Ruini chiarì il punto: «Si tratta anzitutto di scegliere fra alcuni verbi: rinunzia, ripudia, condanna, che si affacciano nei vari emendamenti. La Commissione, ha ritenuto che, mentre «condanna» ha un valore etico più che politico-giuridico, e «rinunzia» presuppone, in certo modo, la rinunzia ad un bene, ad un diritto, il diritto della guerra (che vogliamo appunto contestare), la parola «ripudia» … ha un significato intermedio, ha un accento energico ed implica così la condanna come la rinuncia alla guerra» (seduta pom. del 24 marzo 1947).
Poi si scelse di non parlare di guerra “di conquista”. Come osservò ancora Ruini “Risuonava qui come un grido di rivolta e di condanna del modo in cui si era intesa la guerra nel fosco periodo dal quale siamo usciti: come guerra sciagurata di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli. Ecco il sentimento che ci ha animati. Ma è giusta l'osservazione fatta anche dall'onorevole Nitti che però sembra esagerato e grottesco parlare, nelle nostre condizioni, di guerra di conquista. È meglio trovare un'altra espressione”.
Ecco come è nato: “L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.
Ma allora l’Italia rinuncia a ogni tipo di guerra?
Non è proprio così perché occorre una lettura sistematica della costituzione.
L’art. 11 va letto tuttavia assieme all’art. 52 che pone la difesa della patria quale “sacro dovere” e con l’art. 78 che affida al Parlamento la competenza a dichiarare lo Stato di guerra.
Quindi, se da un lato viene dunque energicamente ripudiata la forza bellica come strumento di offesa alla libertà d’altri popoli o come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, dall’altro, permane la facoltà di ricorrere all’uso delle armi per contrastare un altrui ingiustificato attacco all’indipendenza o all’integrità territoriale, coerentemente con il principio di autodifesa sancito dalla Carta delle Nazioni Unite del 1945.
Del resto, quando fu discusso l’art. 52 venne presentato un emendamento di radicale pacifismo con la prima firma dell’on. Cairo, per sancire che “Il servizio militare non è obbligatorio” e che “La Repubblica, nell'ambito delle convenzioni internazionali, attuerà la neutralità perpetua”.
Questo emendamento venne discusso con passione ma fu bocciato ampiamente con 332 voti contrari e soltanto 33 favorevoli.
Insomma, l’Italia non rinuncia ad una guerra difensiva ma condanna per principio la guerra come strumento di offesa e promuove le organizzazioni tese ad “assicurare la pace e la giustizia fra le nazioni”, come precisa la parte finale dello stesso art. 11 Cost.
2. L’aspirazione del nostro Paese a partecipare all’Organizzazione delle Nazioni Unite
Sulla stesura della seconda parte dell’art. 11, profonda influenza ha avuto l’aspirazione del nostro Paese a partecipare all’Organizzazione delle Nazioni Unite.
La diffusa idea di base era che soltanto l’istituzione di una federazione di Stati e la conseguente attenuazione dei pericolosi nazionalismi – con l’abbandono del «dogma della sovranità perfetta», giudicato da Einaudi come il «nemico primo e massimo dell’umanità e della pace» – avrebbe consentito di trasformare i rapporti tra gli Stati, tradizionalmente fondati sulla forza, in rapporti di «collaborazione […] per il bene comune» (Dossetti, seduta del 3 dicembre 1946, I Sottocommissione).
Ben presente nella mente dei Padri costituenti, benché non espressamente menzionata nel testo costituzionale, era anche la prospettiva verso l’integrazione europea. Proprio l’opportunità o meno di inserire un riferimento esplicito all’Europa fu oggetto di ampi dibattiti.
Una prima discussione emerse in seno alla Commissione per la Costituzione tra Lussu e Moro. Il primo aveva presentato un emendamento volto ad inserire, nella seconda parte dell’allora art. 4 del progetto di Costituzione, un riferimento esplicito alle organizzazioni europee, oltre che a quelle internazionali, dando in tal modo risalto al desiderio da più parti manifestato di «dare un’organizzazione federalistica all’Europa». D’altra parte, l’on. Moro, pur dimostrandosi d’accordo con la sostanza della proposta Lussu, aveva sconsigliato il riferimento espresso, ritenendo da un lato che un richiamo testuale all’Europa non fosse conveniente, dall’altro che il riferimento generale ad organizzazioni internazionali non meglio specificate valesse a comprendere anche le istituzioni europee.
Così, al plenum dell’Assemblea, il progetto dell’art. 4 venne presentato senza alcun riferimento esplicito all’Europa.
Il dibattito, tuttavia, si riaccese a seguito dell’emendamento proposto dall’on. Bastianetto, volto ad introdurre, dopo le parole «limitazioni di sovranità necessarie» il riferimento «all’Unità dell’Europa», così motivandolo: «se in questa Carta costituzionale potremo inserire la parola “Europa”, noi incastoneremo in essa un gioiello, perché inseriremo quanto vi è di più bello per la civiltà e per la pace dell’Europa. Perché, badate, onorevoli colleghi, dal punto di vista economico questa Europa non si scinde più; dal punto di vista politico-militare nemmeno si scinde più; dal punto di vista ideologico noi vediamo già che i partiti politici hanno un grande funzione in questa unità europea».
Ancora una volta, tuttavia, la proposta di emendamento non venne accolta, ma non in conseguenza di un’ipotetica ostilità nei confronti dell’integrazione europea, ma perché, come affermato dal Presidente Ruini: «in questo momento storico un ordinamento internazionale può e deve andare anche oltre i confini d’Europa. Limitarci a tali confini non è opportuno di fronte ad altri continenti, come l’America, che desiderano partecipare all’organizzazione internazionale» (seduta pom. del 24 marzo 1947).
Un riferimento all’Europa o all’integrazione europea poteva suonare come un confine esterno, ad esclusione di altri Paesi – primo fra tutti gli Stati Uniti – nei cui confronti l’Italia era legata da un debito storico di grande rilievo.
Si trattò dunque di una prudenza nella forma, per non pregiudicare i delicati equilibri internazionali dell’epoca, che non ebbe mai tuttavia il sapore di una chiusura verso progetti di integrazione di matrice europea che nel frattempo andavano maturando.
Ancora una volta, il tutto viene racchiuso nelle parole del Pres. Ruini di presentazione del testo del futuro art. 11 approvato all’Assemblea: «possiamo fermarci al testo proposto dalla commissione, che, mentre non esclude la formazione di più stretti rapporti nell’ambito europeo, non ne fa un limite ed apre tutte le vie ad organizzare la pace e la giustizia fra tutti i popoli» (Assemblea costituente, seduta pom. del 24 marzo 1947).
Doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi: opinioni a confronto*
Intervista di Roberto Conti a Alessandro Morelli
1. Prof. Morelli, secondo Lei, il nostro tempo ha bisogno di tornare a riflettere sui doveri dell’uomo, tema assai caro a Giuseppe Mazzini che ad esso dedicò il suo celebre saggio?
A partire soprattutto dai primi decenni del nuovo millennio si è iniziato a ripetere da più parti che, a fronte di un’ormai vastissima letteratura sui diritti, mancava un’elaborazione teorica altrettanto estesa e approfondita riguardo ai doveri. Limitando l’attenzione agli studi costituzionalistici, nei decenni precedenti, per la verità, erano state prodotte importanti opere scientifiche sulla categoria dogmatica dei doveri costituzionali o su specifiche situazioni giuridiche passive previste dalla Costituzione: si pensi soltanto al Contributo allo studio dei doveri costituzionali di Giorgio Lombardi, pubblicato nel 1967; al libro, uscito l’anno successivo, di Carmelo Carbone dal titolo I doveri pubblici individuali nella Costituzione; alla monografia di Luigi Ventura su La fedeltà alla Repubblica del 1984, o ancora a quella di Salvatore Prisco, dal titolo Fedeltà alla Repubblica e obiezione di coscienza. Una riflessione sullo Stato “laico”, del 1986. La quantità di studi dedicati alla tematica dei doveri e l’attenzione riservata a quest’ultima da parte della dottrina non erano però minimamente paragonabili a quelle relative ai diritti. Gli anni in cui si esprimeva tale istanza di maggiore attenzione per i doveri (e per il connesso principio di solidarietà) erano probabilmente gli ultimi scorci di quell’“età dei diritti”, parlando della quale Norberto Bobbio, nel 1990, aveva ammonito sulla necessità di non fermarsi alla mera proclamazione, in trattati e carte, dei diritti stessi ma di agire convintamente per la loro concreta attuazione.
L’attentato alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001 e la stagione del terrorismo di matrice islamista dallo stesso inaugurato, prima, e la crisi finanziaria ed economica esplosa nel 2008, poi, avevano già dimostrato la necessità di riscoprire il ruolo fondamentale dei doveri inderogabili di solidarietà come elementi strutturanti la dimensione istituzionale della democrazia pluralista. Successivamente, la pandemia da Covid-19 ha finito con il ribaltare, nella vita sociale, il rapporto tra diritti e doveri, i primi risultando sempre più direttamente condizionati dall’adempimento dei secondi (e, soprattutto, dagli obblighi imposti dalla necessità di salvaguardare la salute collettiva in un contesto emergenziale). Il conflitto in Ucraina e i rischi di un’escalation bellica che potrebbe coinvolgere direttamente anche i Paesi europei riportano in primo piano doveri come quello di difesa della Patria (“sacro” per l’art. 52 della nostra Costituzione) e quello di fedeltà alla Repubblica.
Stiamo, dunque, entrando nell’“età dei doveri”? Direi che ci siamo già da un po’. La categoria dei doveri dell’uomo, alla quale faceva riferimento Mazzini, evoca oggi, per la sua connotazione universalista, la prospettiva della responsabilità intergenerazionale e gli interessi delle generazioni future, che dopo l’introduzione in Costituzione, nel 2012, dei principi dell’equilibrio di bilancio e della sostenibilità del debito pubblico, hanno trovato di recente un ulteriore, importante riconoscimento con la revisione degli articoli 9 e 41 della Costituzione: nel primo dei due, in particolare, si è introdotta la previsione secondo cui la Repubblica “tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”.
2. Per Mazzini i doveri dell’uomo sono quelli che consentono di trovare il punto di equilibrio fra i diversi diritti. È attuale la sua ricostruzione e quanto essa deve misurarsi con il concetto di bilanciamento dei diritti, con la dottrina della atirannicità dei diritti umani?
La riflessione mazziniana sul rapporto tra diritti e doveri si inquadra in una visione fortemente spirituale, orientata dall’idealismo romantico e connotata da una potente istanza etica. Nei Doveri dell’uomo Mazzini si chiede: “Certo, esistono diritti; ma dove i diritti d’un individuo vengono a contrasto con quelli d’un altro, come sperare di conciliarli, di metterli in armonia, senza ricorrere a qualche cosa superiore a tutti i diritti?”. L’equilibrio può essere assicurato “in nome della Patria, della Società, della moltitudine dei vostri fratelli!”. Si postula, pertanto, una superiorità morale dei doveri (verso l’umanità, la patria, la famiglia) sui diritti, che invero appare estranea all’odierna dottrina del bilanciamento, la quale, sullo sfondo di una concezione pluralistica della società e della politica, presuppone, innanzitutto, l’eguale dignità costituzionale dei diritti inviolabili dell’uomo e dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale, prevedendo che la risoluzione delle collisioni tra diritti avvenga nei casi concreti e non in astratto, salvaguardando pur sempre il “contenuto essenziale” di ciascun diritto. Come ha detto la Corte costituzionale, “tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre ‘sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro’ (sentenza n. 264 del 2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe ‘tiranno’ nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona” (sentenza n. 85 del 2013). Nessun diritto fondamentale, pertanto, è superiore agli altri, così come nessun dovere si erge a criterio ultimo di risoluzione delle collisioni tra i diritti (il che ne farebbe un principio “tirannico”, secondo la nota espressione schmittiana, ripresa dalla Corte costituzionale). Diversa è, come ho detto, la visione di Mazzini, animata da una forte tensione spirituale verso l’unità nazionale.
3. Mazzini, ad un certo punto si chiede: E dove i diritti di un individuo, di molti individui, vengono in contrasto coi diritti del paese, a che tribunale ricorrere? In questa domanda si coglie secondo Lei la diversità netta fra diritti e doveri dell’uomo? Oppure si tratta di una domanda retorica, che presuppone l’assenza di una risposta in chi la pone? Ed ancora, esiste un piano diverso e non sovrapponibile, in punto di tutela, fra l’attuazione dei diritti umani e quello dei doveri?
Mazzini risponde alla domanda subito dopo, nel passo richiamato, evocando appunto i doveri verso la patria, la società e la moltitudine dei fratelli. Egli aggiunge: “Cos’è la Patria, per l’opinione della quale io parlo, se non quel luogo in cui i nostri diritti individuali sono più sicuri? Cos’è la Società, se non un convegno d’uomini, i quali hanno pattuito di mettere la forza di molti in appoggio dei diritti di ciascuno?”. Forse anche per la vena polemica del pamphlet mazziniano, dedicato agli operai italiani e scritto contro le opinioni di quelle “scuole rivoluzionarie” che, fino a quel momento, avevano esaltato i diritti, predicando la ricerca della felicità con tutti i mezzi senza però migliorare concretamente la condizione del popolo, Mazzini colloca decisamente in una posizione di superiorità gerarchica i doveri rispetto ai diritti. Come ho ricordato, non esiste, invece, alcuna gerarchia del genere nella dimensione dell’attuale Stato costituzionale, dove, peraltro, non è dato riscontrare nemmeno un rapporto di corrispondenza biunivoca tra diritti e doveri.
Una differenza importante, però, può cogliersi nella diversa struttura delle situazioni giuridiche soggettive attive e passive e nella maggiore facilità delle prime di trovare protezione attraverso gli strumenti giurisdizionali. L’adempimento dei doveri, soprattutto di quelli inderogabili di solidarietà, non sempre è sanzionabile e giustiziabile: si pensi soltanto ai doveri di fedeltà alla Repubblica e di osservanza della Costituzione, quest’ultimo soprattutto quando si tratti di previsioni normative rivolte ad attori istituzionali, per la cui violazione non risulta agevole il ricorso alla Corte costituzionale.
4. Antonio Ruggeri, più volte impegnato nella ricostruzione della teoria dei diritti fondamentali, nel delineare la struttura complessa dei diritti fondamentali ha sostenuto che essa, “riguardata sotto la luce della dignità, appare essere composita, in ciascun diritto e in tutti assieme, nel loro fare “sistema” e porsi al servizio della dignità, potendosi a mia opinione cogliere una componente deontica, resa palese dall’osservazione delle relazioni che l’individuo intrattiene con gli altri individui e l’intera società, conformandosi al canone della solidarietà (art. 2 cost.). La componente in parola è, ancora prima e di più, singolarmente evidente proprio nella dignità, da cui quindi si alimenta e per il cui tramite si diffonde, beneficamente contagiandoli, agli “altri” diritti fondamentali.”
La componente deontica dei diritti fondamenti ai quali Ruggeri accenna riconduce tutti i diritti alla dignità umana. Mazzini, per converso, sembra individuare nei Doveri dell’uomo la colla che tiene uniti i diritti per una comunità che diventa Stato. Così almeno sembra fare quando osserva che occorre “trovare un principio educatore superiore a siffatta teoria (quella dei diritti n.d.r.) che guidi gli uomini al meglio, che insegni loro la costanza nel sacrificio, che li vincoli ai loro fratelli senza farli dipendenti dall’idea d’un solo o dalla forza di tutti”. Quanto secondo Lei questa prospettiva si ritrova nell’art. 2 Cost. allorché si sofferma sui doveri di solidarietà e quanto se ne differenzia e quanto le due prospettive sono realmente fra loro diverse? E ancora, a suo giudizio, può dirsi che la Carta costituzionale sia, almeno in parte, debitrice nei riguardi della lezione mazziniana sui doveri, specie per ciò che concerne il rilievo centrale assegnato al principio di solidarietà?
Per quanto riguarda l’ispirazione mazziniana dell’art. 2 Cost., basti ricordare che nella sua Relazione al progetto di Costituzione, presentata alla Presidenza dell’Assemblea Costituente il 6 febbraio 1947, il presidente della Commissione dei settantacinque Meuccio Ruini, commentando il contenuto dell’art. 6 (poi trasfuso, con modifiche, nell’art. 2 del testo definitivo), rilevò come le enunciazioni sui doveri si accompagnassero “mazzinianamente a quelle dei diritti”: “contro la concezione tedesca che riduceva a semplici riflessi i diritti individuali, – sottolineò ancora Ruini – diritti e doveri avvincono reciprocamente la Repubblica ed i cittadini. Caduta la deformazione totalitaria del ‘tutto dallo Stato, tutto allo Stato, tutto per lo Stato’, rimane pur sempre allo Stato, nel rispetto delle libertà individuali, la suprema potestà regolatrice della vita in comune”. E ancora, citando Mazzini, secondo cui “lo Stato non è arbitro di tutti, ma libertà operante per tutti, in un mondo il quale, checché da altri si dica, ha sete di autorità”, il Presidente puntualizzava che “spetta ai cittadini di partecipare attivamente alla gestione della cosa pubblica, rendendo effettiva e piena la sovranità popolare. Spetta alla Repubblica di stabilire e difendere, con l’autorità e con la forza che costituzionalmente le sono riconosciute, le condizioni di ordine e di sicurezza necessarie perché gli uomini siano liberati dal timore e le libertà di tutti coesistano nel comune progresso”.
Il legame, complesso ma indissolubile, tra diritti inviolabili e doveri inderogabili, mediato dal principio di solidarietà, deve molto, pertanto, al monito mazziniano, pur colorandosi di una connotazione originale, conferitale dall’ispirazione pluralistica della Carta repubblicana. Nell’attuale stagione il rischio maggiore che corriamo è quello di definire in una prospettiva riduzionistica tale rapporto, intendendo i diritti soltanto come situazioni giuridiche subordinate o riflesse rispetto ai doveri. L’individuazione, da parte del prof. Ruggeri, di una “componente deontica” anche nei diritti fondamentali coglie efficacemente l’esigenza di tenere ben presente la complessità della trama ordinamentale, che nel rapporto tra diritti e doveri trova un suo snodo centrale. Specularmente, tuttavia, si potrebbe individuare anche una componente di volontarietà nello stesso adempimento dei doveri, non già nel senso che il rispetto di questi ultimi sia giuridicamente facoltativo (sarebbe un’evidente contraddizione) ma in quello per cui soltanto un’effettiva e intima adesione ai valori di cui quei doveri sono espressione può assicurare un pieno ed efficace adempimento degli stessi. In tal senso la lezione mazziniana mostra, a mio avviso, i suoi tratti di maggiore attualità laddove sottolinea l’importanza dell’educazione ai fini della sopravvivenza dei valori alla base della convivenza civile.
Esemplari sono le pagine dei Doveri dedicate alla distinzione e al rapporto tra istruzione ed educazione: la prima, che si traduce nell’insegnamento di nozioni, scrive Mazzini, “differisce dall’educazione quanto i nostri organi differiscono dalla nostra vita”. Gli organi non sono la vita, ma ne costituiscono gli strumenti e i mezzi di manifestazione: essi “non la signoreggiano, non la dirigono: possono tradurre in fatti la vita la più santa o la più corrotta. Così l’istruzione somministra mezzi per praticare ciò che l’educazione insegna: ma non può tener luogo dell’educazione”. Quest’ultima, invece, si rivolge alle facoltà morali e sviluppa nell’uomo la conoscenza dei suoi doveri, mentre l’istruzione si indirizza alle facoltà intellettuali e rende l’uomo capace di praticare i doveri medesimi.
L’istruzione slegata da un corrispondente grado di educazione è, per Mazzini, una gravissima piaga che conserva le diseguaglianze tra le classi sociali del popolo e “inchina gli animi al calcolo, all’egoismo, alle transazioni fra il giusto e l’ingiusto, alle false dottrine”.
In una prospettiva prossima, da questo punto di vista, al pensiero mazziniano, ho argomentato, in altre sedi (e, in particolare, nel mio I paradossi della fedeltà alla Repubblica, Milano, 2013), che esiste una stretta correlazione tra il dovere di fedeltà alla Repubblica, riconosciuto dall’art. 54 Cost., e il dovere di istruzione previsto dall’art. 34 della Carta, che, dopo avere riconosciuto, al primo comma, il principio per cui la scuola è “aperta a tutti”, stabilisce, al secondo comma, che “l’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita”. Se, infatti, si intende il dovere di fedeltà come il vincolo gravante su ogni cittadino a concorrere solidalmente ad assicurare la continuità dell’ordinamento repubblicano nell’identità dei suoi principi ispiratori e se si riconosce che questi ultimi costituiscono un portato culturale che deve essere conosciuto per poter essere apprezzato e promosso, appare evidente come l’istruzione e, ancor più l’educazione, rappresentino condizioni necessarie, anche se non sufficienti, alla sopravvivenza della democrazia pluralista. L’educazione (civica), d’altro canto, non può e non deve tradursi in un indottrinamento; se lo facesse, finirebbe con il tradire gli stessi principi posti a base dell’ordinamento repubblicano: la libertà di coscienza e la capacità di autodeterminazione della persona. L’educazione, piuttosto, deve tendere a sensibilizzare sul valore della diversità e della pluralità, mostrando come i processi di costruzione dell’identità individuale e di quella collettiva non possano mai prescindere dagli altri.
5. Il collegamento che Mazzini fa dei doveri a Dio come deve intendersi e quanto è secondo Lei oggi attuale in una società intesa come laica per Costituzione? E per altro verso, la radice divina che sembra potere orientare l’uomo verso la legge giusta o ingiusta che pure traspare dalle pagine mazziniane è ancora oggi attuale quando si parla di disobbedienza civile alle leggi in nome di valori fondamentali?
Non c’è separazione tra politica e religione nel pensiero mazziniano, al tempo stesso così accentuatamente intriso di spiritualismo e anticlericalismo. Da questo punto di vista, la distanza rispetto all’etica repubblicana dell’ordinamento costituzionale vigente sembrerebbe notevole.
E, tuttavia, la dimensione ideale entro cui si colloca la Costituzione – anche per la pluralità delle sue matrici culturali, le principali delle quali furono quelle cattolica, marxista e liberale – non è certo d’ispirazione materialista: si pensi soltanto alla vocazione universalistica del riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo, contenuto nell’art. 2, o al riferimento al “progresso spirituale della società”, accanto a quello “materiale”, verso cui possono tendere le attività e le funzioni che ogni cittadino ha il dovere di svolgere (art. 4). Ma si guardino anche le norme che riconoscono l’eguale libertà di tutte le confessioni (art. 8), il regime concordatario (art. 7) e la libertà di religione.
Non sorprende, pertanto, che la Corte costituzionale abbia da tempo riconosciuto, nonostante la carenza di una previsione espressa, la vigenza della libertà di coscienza, come diritto inviolabile, anche nel nostro ordinamento, sulla base del combinato disposto degli artt. 2, 19 e 21 Cost. (sent. n. 467 del 1991). La connotazione pluralistica e laica della nostra legge fondamentale si coniuga, pertanto, con una tensione spirituale insita nello stesso portato del principio personalista, che ispira l’intera trama normativa della Costituzione: il soddisfacimento delle istanze spirituali è, infatti, una declinazione essenziale di quel “pieno sviluppo della persona umana” di cui parla il secondo comma dell’art. 3.
6. “Quand’io dico, che la conoscenza dei loro diritti non basta agli uomini per operare un miglioramento importante e durevole, non chiedo che rinunziate a questi diritti; dico soltanto che non sono se non una conseguenza di doveri adempiti, e che bisogna cominciare da questi per giungere a quelli.” Così Mazzini. Nel nostro tempo, secondo Lei, come può concretizzarsi questa riflessione?
Il passo mazziniano suscita una riflessione sul dominio che fino all’inizio del nuovo millennio, non soltanto nell’ambito dell’elaborazione dottrinale ma anche in quello del dibattito pubblico, hanno avuto i diritti rispetto ai doveri. Si è assistito, per tutta la seconda metà del Novecento, a una proliferazione di “nuovi diritti”, sovente inventati o scoperti da giudici e corti nazionali e sovranazionali. Anna Pintore ha parlato, in tal senso, di “diritti insaziabili”, per indicare proprio questa tendenza alla moltiplicazione potenzialmente illimitata di situazioni giuridiche attive, tutte (o quasi) considerate meritevoli di protezione di rango costituzionale. Un fenomeno che è andato di pari passo con l’affermazione sempre più decisa della giurisdizione nelle dinamiche istituzionali degli Stati democratici.
Negli ultimi decenni, come si è detto, la situazione sembrerebbe essere cambiata e il rapporto tra diritti e doveri parrebbe oggi invertito. Tale mutamento di paradigma, tuttavia, non sembra costituire il portato di un’evoluzione culturale e di una maggiore presa di coscienza della complessità della democrazia pluralista. Al contrario, populismi e sovranismi spingono verso torsioni in senso autoritario delle stesse democrazie contemporanee, sicché l’insistenza sui doveri, in un siffatto clima, più che risultare espressione di una rinnovata istanza solidarista, si colora di inquietanti accenti neo-nazionalisti e illiberali.
7. Nella nostra società, sempre più plurale, sempre più aperta e porosa verso esperienze sovranazionali e sempre più impegnata nel coltivare la cooperazione fra Paesi diversi, quanto è attuale il concetto mazziniano di Patria? E, per altro verso, il parimenti continuo richiamo all’umanità aiuta a spiegare meglio il significato della prospettiva della doverosità che Mazzini propugna?
Nel quadro internazionale di oggi che vede sempre più intensi i vincoli discendenti da tale principio e interconnesse le relazioni tra gli Stati, ritiene dunque che la lezione mazziniana possa o, addirittura, debba esser motivo d’ispirazione per lo svolgimento delle relazioni stesse, come pure di quelle che si svolgono tra i consociati e tra questi e i pubblici poteri?
Per molti italiani il termine “patria” presenta oggi una connotazione negativa, in quanto esprimente un concetto acquisito al patrimonio culturale di una determinata parte politica, così come, di contro, altri concetti, simboli e riti repubblicani sono normalmente ascritti alla tradizione e alla mitologia politica dell’opposto schieramento (si pensi, per esempio, alla Festa della Liberazione), risultando parimenti sgraditi agli avversari. Scontiamo i danni di una sistematica, reciproca delegittimazione degli attori politici, perpetrata per troppi anni, che ha finito con il logorare lo stesso linguaggio costituzionale, non soltanto impedendo l’affermazione di una religione civile ma minando perfino la coesione sociale e l’unità nazionale. Non soltanto per tale ragione ma anche per una serie di ulteriori fattori sociali, economici e culturali, che non mi è possibile indagare in questa sede, scontiamo una crisi di effettività del principio solidarista, che purtroppo trova riflesso in un analogo deficit a livello sovranazionale (basti pensare al modo ben poco solidale in cui l’Europa continua a gestire il fenomeno migratorio). Da tale punto di vista, i moniti e l’accorato invito all’unità di Mazzini appaiono più attuali che mai.
8. E infine, la recente riforma degli artt. 9 e 41, con i richiami fatti all’ambiente ed all’ecosistema, la cui salvaguardia viene riconosciuta come espressiva di un principio fondamentale dell’ordinamento, può, a Suo avviso, per la sua parte concorrere a far rivedere sotto una luce diversa dal passato il dovere di solidarietà in parola, in ciascuna delle sue molteplici forme espressive ed in tutte assieme?
La revisione costituzionale degli artt. 9 e 41 della Costituzione, appena approvata, ha notevoli potenzialità, delle quali ho l’impressione che non si sia avuta e non si abbia piena consapevolezza, nemmeno da parte delle stesse forze politiche che l’hanno promossa. Non nascondo di nutrire qualche perplessità su tale riforma, che, per la prima volta, seppure per motivi condivisibili, ha modificato un articolo rientrante tra i principi fondamentali della Carta. Un precedente pericoloso, che potrebbe essere richiamato un giorno per giustificare modifiche solo apparentemente espansive delle tutele costituzionali o addirittura volte a ridurre o a limitare queste ultime; riforme che, dopo la revisione in esame, sarebbero più difficilmente contestabili benché, secondo un’autorevole dottrina, dovrebbero potersi ammettere soltanto revisioni in melius dei principi fondamentali, risultando vietate quelle regressive, dirette a recuperare principi o istituti che i Costituenti intesero negare o vietare (G. Silvestri).
Il riferimento all’“interesse delle generazioni future”, introdotto adesso nell’art. 9, sembrerebbe voler proiettare in una prospettiva diacronica il principio di solidarietà, conferendo alla responsabilità intergenerazionale la dignità di un principio fondamentale. Appare ovvio che l’impatto di una simile innovazione dipenderà dal seguito che le si vorrà dare, dall’attuazione normativa, amministrativa e giurisprudenziale che la riforma avrà.
In un paese nel quale le riforme hanno sempre più una valenza simbolica e un seguito scarso o inesistente, c’è forse ben poco da sperare. E il quadro non appare certo più roseo se si guarda alla prospettiva internazionale, segnata da tragici eventi bellici che rischiano di farci ripiombare nei più cupi incubi novecenteschi. Il pessimismo dell’intelletto, tuttavia, come ammoniva Antonio Gramsci, non preclude l’ottimismo della volontà, anche perché i momenti peggiori della storia sono quelli che consentono di riscoprire nella dignità umana la ragion d’essere e la finalità ultima della stessa solidarietà.
Ultimi approdi in materia di responsabilità precontrattuale della p.a. (Nota a Cons. Stato, Ad. Plen., 29 novembre 2021, n. 21)
di Maria Baldari
Sommario: 1. Premessa – 2. Il contenzioso e le ragioni di rimessione all’Adunanza Plenaria – 3. La decisione dell’Adunanza Plenaria. Il quesito sub a) – 3.1 Il quesito sub b) – 4. Responsabilità dell’amministrazione anche in caso di annullamento disposto dal giudice – 5. Gli elementi della responsabilità precontrattuale della p.a. – 5.1. L’assenza di colpa in capo al concorrente: rilevi critici.
1. Premessa
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con una sentenza che deve essere idealmente letta unitamente alle altre due pubblicate nella medesima data e attinenti a profili di giurisdizione[1], fornisce chiarimenti in ordine agli aspetti sostanziali della responsabilità precontrattuale della p.a.
Quest’ultima, com’è noto, è ormai riconosciuta da tempo dalla giurisprudenza sia amministrativa che civile; purtuttavia la sentenza in commento si caratterizza per un’analisi più puntuale degli elementi costitutivi della stessa.
Nello specifico, gli aspetti più innovativi sui quali si porrà l’attenzione in questa sede attengono, da un lato, alla sussistenza della responsabilità anche in caso di annullamento del provvedimento favorevole disposto in sede giurisdizionale, dall’altro alle condizioni in presenza della quali il concorrente possa dirsi realmente esente da colpa.
2. Il contenzioso e le ragioni di rimessione all’Adunanza Plenaria
La controversia è instaurata dall’impresa ricorrente al fine di domandare il risarcimento a titolo di responsabilità precontrattuale nei confronti dell’amministrazione ed in particolare per i danni derivanti dalla lesione dell’affidamento sorto in seguito all’aggiudicazione definitiva in suo favore dell’appalto, poi annullata dal giudice[2] e quindi revocata dall’amministrazione in esecuzione della pronuncia di annullamento[3].
Il ricorso viene parzialmente accolto in primo grado dal Tribunale Amministrativo il quale, dopo aver accertato la colpa dell’amministrazione che ha dato causa all’annullamento dell’aggiudicazione (consistita in particolare nell’ambigua formulazione di talune clausole del bando), condanna la p.a. al risarcimento del danno da responsabilità precontrattuale cagionato alla parte privata, limitato al solo interesse negativo, ovverosia «le spese inutilmente sostenute in previsione della conclusione del contratto e le perdite sofferte per non aver usufruito di ulteriori occasioni contrattuali», con riferimento soltanto «alle voci di danno (…) che trovano riscontro in precisi elementi probatori, desumibili dagli atti acquisiti al giudizio». Al contrario, il giudice di prime cure non considera risarcibile «il mancato utile relativo alla specifica gara d’appalto revocata» in quanto non ritiene concretamente provato il lucro cessante[4].
L’amministrazione propone appello con cui contesta, in via principale, di avere agito con negligenza inquadrabile nella culpa in contrahendo ex art. 1337 cod. civ., e, in via subordinata, la quantificazione dei danni risarcibili effettuata in sede di condanna. Anche l’impresa aggiudicataria censura, con appello incidentale autonomo, la quantificazione dei danni operata dalla sentenza di primo grado.
La II Sezione del Consiglio di Stato, dopo aver ritenuto tardivo quest’ultimo mezzo di impugnazione in quanto notificato oltre il termine di sei mesi dal deposito della sentenza impugnata, ravvisa l’esistenza di orientamenti giurisprudenziali contrastanti.
Nello specifico, il segnalato contrasto attiene al diritto al risarcimento da lesione dell’affidamento verso un provvedimento amministrativo illegittimo, poi annullato in sede giurisdizionale. Secondo un primo indirizzo, la sentenza di annullamento del provvedimento amministrativo illegittimo accerterebbe «l’assenza di un danno ingiusto, perché all’originario ricorrente non spettava l’ottenimento del bene della vita sotteso al suo interesse legittimo»[5]. Un’altra corrente giurisprudenziale si mostra invece favorevole al riconoscimento della risarcibilità della lesione dell’affidamento del privato verso un provvedimento illegittimo, annullato in sede di autotutela o in sede giurisdizionale, seppur in presenza di stringenti limiti in tema di prova della colpa dell’amministrazione, del danno subito dall’istante e del nesso di causalità tra l’annullamento e il predetto danno[6].
La II Sez. dichiara di aderire al primo dei citati orientamenti, osservando come nel caso in cui il provvedimento favorevole sia stato revocato in esecuzione di una pronuncia giudiziale, l’eventuale affidamento del privato sarebbe pregiudicato non tanto da una condotta dell’amministrazione, quanto piuttosto da un provvedimento promanante dal potere giurisdizionale, nei confronti del quale non potrebbe esserci in radice, per la natura terza del giudice, alcuna aspettativa qualificata; né la soccombenza in sede giurisdizionale potrebbe mai ridondare in lesione di un affidamento legittimo, idonea a fondare una domanda risarcitoria nei confronti della pubblica amministrazione.
Purtuttavia, in ragione del menzionato contrasto, il collegio rimette all’Adunanza Plenaria ai sensi dell’art. 99, co. 1 c.p.a. le seguenti questioni: «a) se l’interessato ‒ a prescindere dalle valutazioni circa la sussistenza in concreto della colpa della pubblica amministrazione, del danno in capo al privato e del nesso causale tra l’annullamento e la lesione ‒ possa in astratto vantare un legittimo e qualificato affidamento su un favorevole provvedimento amministrativo annullato in sede giurisdizionale, idoneo a fondare un’azione risarcitoria nei confronti della pubblica amministrazione; b) in caso positivo, in presenza di quali condizioni ed entro quali limiti può riconoscersi al privato un diritto al risarcimento per lesione dell’affidamento incolpevole, con particolare riferimento all’ipotesi di aggiudicazione definitiva di appalto di lavori, servizi o forniture, successivamente revocata a seguito di una pronuncia giudiziale»[7].
3. La decisione dell’Adunanza Plenaria. Il quesito sub a)
Discostandosi dall’orientamento accolto dalla sezione rimettente, l’Adunanza Plenaria fornisce risposta affermativa alla prima delle questioni deferite.
Innanzitutto, ricorda come l’affidamento nella legittimità dei provvedimenti dell’amministrazione, e più in generale sulla correttezza del suo operato, sia riconosciuto anche dalla propria risalente giurisprudenza come situazione giuridica soggettiva tutelabile attraverso il rimedio del risarcimento del danno[8]. E ciò sul presupposto che nell’applicare le norme sull’evidenza pubblica la p.a. sia anche soggetta alle norme di correttezza di cui all’art. 1337 c.c. prescritte dal diritto comune.
Le due tipologie di regole operano su piani distinti ed autonomi, non legati da rapporto di pregiudizialità: uno relativo alla validità degli atti amministrativi e l’altro concernente la responsabilità dell’amministrazione e i connessi obblighi di protezione in favore della controparte. Come il collegio ha già avuto modo di chiarire in passato, è ammessa infatti la possibilità che una responsabilità da comportamento scorretto sussista nonostante la legittimità del provvedimento amministrativo che conclude il procedimento «anzi, pur trattandosi di una responsabilità da comportamento illecito, non si traduce in provvedimenti illegittimi» ma, al contrario, ne presuppone la legittimità[9].
Del resto, in tempi recenti il Consiglio di Stato ha precisato che l’affidamento, pur essendo sorto nel diritto civile – al fine di tutelare la buona fede ragionevolmente riposta sull’esistenza di una situazione apparentemente corrispondente a quella creata - rappresenta un principio generale dell’azione amministrativa, in quanto considerato canone ordinatore anche dei comportamenti delle parti coinvolte nei rapporti di diritto amministrativo, sia nel corso del procedimento amministrativo sia dopo che sia stato emanato il provvedimento conclusivo[10].
Secondo il collegio, anche il legislatore avrebbe di recente recepito il predetto orientamento giurisprudenziale, tanto da positivizzare all’art.1, co. 2bis della legge 241/1990 una regola di carattere generale dell’agire pubblicistico in ossequio alla quale i «rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede»[11]. In virtù di tale dato positivo, il dovere di collaborazione e di comportarsi secondo buona fede assume definitivamente una portata bilaterale, rivolgendosi tanto all’amministrazione quanto ai soggetti che a vario titolo intervengono nel procedimento.
La violazione del dovere in esame, nella misura in cui lede aspettative giuridicamente meritevoli di tutela, può essere fonte di responsabilità per la p.a. Con la precisazione che questo può avvenire non solo nei casi di atto legittimo, come già affermato dalla giurisprudenza prima richiamata, ma anche in caso di atto illegittimo successivamente annullato in sede giurisdizionale.
Sulla scorta di siffatte argomentazioni, l’Ad. Plen. enuncia pertanto il principio di diritto secondo cui «nei rapporti di diritto amministrativo, inerenti al pubblico potere, è configurabile un affidamento del privato sul legittimo esercizio di tale potere e sull’operato dell’amministrazione conforme ai principi di correttezza e buona fede, fonte per quest’ultima di responsabilità non solo per comportamenti contrari ai canoni di origine civilistica ora richiamati, ma anche per il caso di provvedimento favorevole annullato su ricorso di terzi».
3.1 Il quesito sub b)
Con riguardo al secondo quesito relativo alle condizioni in presenza della quali sia ravvisabile una simile responsabilità, l’Adunanza Plenaria riconosce che l’evidenza pubblica rappresenta il settore in cui tradizionalmente e più volte è riconosciuta la responsabilità della p.a., e ciò in quanto l’attività contrattuale dell’amministrazione risulta inquadrabile anche nello schema delle trattative prenegoziali, da cui deriva l’assoggettamento al generale dovere di «comportarsi secondo buona fede» enunciato dall’art.1337 c.c.
Tale forma di responsabilità è finalizzata a tutelare l’interesse a non essere coinvolto in trattative inutili; pertanto la reintegrazione per equivalente è ammessa non già in relazione all’interesse positivo, corrispondente all’utile che si sarebbe ottenuto dall’esecuzione del contratto, ma all’interesse negativo, da identificarsi nelle spese sostenute per le trattative nonché nella perdita di occasioni contrattuali alternative.
Così come nei rapporti di diritto civile, affinché un affidamento sia legittimo, è necessario che sia stato raggiunto un livello delle trattative tale per cui la conclusione del contratto rappresenti uno sbocco prevedibile ed il recesso appaia invece ingiustificato[12], parimenti nel diritto amministrativo l’affidamento è legittimo quando sia stata pronunciata l’aggiudicazione definitiva, cui non abbia poi fatto seguito la stipula del contratto[13]. Il recesso ingiustificato in tal caso si manifesta sotto forma di revoca o annullamento d’ufficio della gara che, anche se legittimi, non esonerano l’amministrazione da responsabilità per avere inutilmente condotto una procedura di gara fino all’atto conclusivo ed avere così ingenerato e fatto maturare il convincimento circa la sua positiva conclusione.
Purtuttavia la stessa Adunanza Plenaria, con ciò ridimensionando l’apparente contrasto rispetto alla posizione della Cassazione la quale in passato aveva affermato che la posizione del concorrente è tutelabile «indipendentemente da un affidamento specifico alla conclusione del contratto»[14], patrocina la tesi - già prospettata da parte della giurisprudenza amministrativa - secondo cui la verifica di un affidamento deve essere svolta in concreto, in ragione del fatto che «il grado di sviluppo raggiunto dalla singola procedura al momento della revoca, riflettendosi sullo spessore dell’affidamento ravvisabile nei partecipanti, presenta una sicura rilevanza, sul piano dello stesso diritto comune, ai fini dello scrutinio di fondatezza della domanda risarcitoria a titolo di responsabilità precontrattuale»[15].
Del resto, l’Ad. Plen. si era già espressa nella medesima direzione quando, negando valore dirimente all’aggiudicazione, aveva chiarito come tale responsabilità «possa derivare non solo da comportamenti anteriori al bando, ma anche da qualsiasi comportamento successivo che risulti contrario, all’esito di una verifica da condurre necessariamente in concreto, ai più volte richiamati doveri di correttezza e buona fede»[16].
Il primo requisito dell’affidamento tutelabile viene così individuato nella sua ragionevolezza e nel correlato carattere ingiustificato del recesso.
Il secondo elemento attiene al carattere colposo della condotta dell’amministrazione, da accertarsi secondo le regole generali in materia di illecito aquiliano ex art. 2043 c.c.[17].
Ancora, per il collegio ulteriore elemento è rappresentato dall’assenza di colpa in capo al soggetto che ha riposto l’affidamento, secondo il disposto dell’art. 1338 c.c. ai sensi del quale il risarcimento spetta alla parte che ha «confidato, senza sua colpa, nella validità del contratto».
Sul punto, è analizzato innanzitutto il caso in cui l’annullamento dell’aggiudicazione sia disposto d’ufficio dalla p.a. Al riguardo, viene sottolineata la differenza rispetto alla revoca che opera a seguito di una rivalutazione dell’interesse pubblico: l’annullamento interviene per rimuovere un vizio di legittimità degli atti della procedura di gara, con la conseguenza che se il motivo di illegittimità fosse conoscibile dal concorrente, la responsabilità della stazione appaltante dovrebbe essere esclusa[18].
In secondo luogo, in relazione alle ipotesi in cui l’annullamento dell’aggiudicazione sia disposto in sede giurisdizionale, l’Ad. Plen. sottolinea i profili di specialità che emergono nel diritto amministrativo. In particolare in sede di tutela costitutiva il beneficiario degli atti di cui si chiede l’annullamento, assumendo la qualità di controinteressato, viene posto in condizioni di conoscere la possibile illegittimità del provvedimento; ciò peraltro entro il ristretto arco temporale rappresentato dal termine di decadenza di cui all’art. 29 c.p.a. Tale situazione, a parere del collegio, esclude un affidamento incolpevole, portando ad ipotizzare un affidamento tutelabile solo prima della notifica dell’atto introduttivo.
In base all’iter motivazionale così ricostruito, l’Adunanza Plenaria enuncia il seguente principio di diritto «nel settore delle procedure di affidamento di contratti pubblici la responsabilità precontrattuale dell’amministrazione, derivante dalla violazione imputabile a sua colpa dei canoni generali di correttezza e buona fede, postula che il concorrente abbia maturato un ragionevole affidamento nella stipula del contratto, da valutare in relazione al grado di sviluppo della procedura, e che questo affidamento non sia a sua volta inficiato da colpa».
4. Responsabilità dell’amministrazione anche in caso di annullamento disposto dal giudice
La sentenza in commento, almeno nella parte in cui riconosce la possibilità di configurare una responsabilità precontrattuale in capo alla pubblica amministrazione anche allorquando la stessa agisca come soggetto autoritativo, ribadisce, in verità, un dato ormai abbastanza pacifico.
Com’è noto, infatti, l’originaria distinzione tra attività in regime di diritto privato e attività in regime di diritto pubblico – in virtù della quale solo nell’ambito della prima sarebbe configurabile una responsabilità ex art 1337 c.c. della p.a. – era stata fortemente criticata dalla dottrina la quale ne auspicava da tempo il superamento[19].
Il mutamento interpretativo risale ad un revirement della Cassazione che apriva una breccia in tal senso, sia pure limitando la responsabilità alla fase finale della procedura di scelta del contraente privato, in cui costui lascia la posizione di mero partecipante per assumere quella di parte contrattuale[20].
Si deve soprattutto alla successiva giurisprudenza amministrativa l’accantonamento della convinzione secondo cui prima dell’aggiudicazione gli interessati sarebbero dei semplici partecipanti al procedimento amministrativo, legittimati solo a pretendere la legittimità degli atti compiuti.
Il Consiglio di Stato ha infatti affermato che, sebbene la procedura di evidenza pubblica sia dotata di una doppia natura, i due momenti fattuali, essendo entrambi tendenti al medesimo fine della stipulazione del contratto, devono essere intesi in rapporto di successione logica e dunque in chiave unitaria. Ogni singolo provvedimento risulta pertanto dotato della forza necessaria a generare un legittimo affidamento nel terzo contraente.
Avanzando un parallelismo con la disciplina civilistica, i giudici di Palazzo Spada hanno ritenuto che anche in materia di contratti pubblici si è in presenza di una formazione necessariamente progressiva del contratto secondo lo schema dell’offerta al pubblico, in cui si registra un primo contatto con una pluralità di possibili contraenti. Con l’ulteriore conseguenza che, a fronde della impossibilità di scindere i due momenti, l’amministrazione è tenuta al rispetto delle norme di correttezza di cui all’art. 1337 c.c. anche anteriormente all’aggiudicazione[21].
In maniera non dissimile da quanto accade nel diritto civile, e nello specifico in materia di contratti nel cui ambito è stata elaborata la distinzione tra regole di comportamento e regole di validità[22], la violazione di siffatte regole non darebbe luogo all’invalidità del provvedimento amministrativo ma, nella misura in cui rende scorretto il comportamento complessivamente tenuto dalla p.a., rappresenta fonte di responsabilità.
In altri termini, le norme di diritto pubblico e quelle di diritto privato operano non solo in sequenza temporale, vale a dire prima quelle di diritto pubblico e poi quelle di diritto privato, ma anche in maniera sinergica. Il campo di applicazione del dovere di correttezza è infatti molto esteso, trovando un fondamento, da un lato, nell’art. 2 Cost. in quanto si tratta di un dovere di solidarietà che nasce nei confronti degli altri consociati allorquando si instaurino rapporti qualificati tra loro, dall’altro, nell’art. 41 della Carta di Nizza che sancisce il principio di buona amministrazione, posto a garanzia delle posizioni private coinvolte dall’esercizio del potere amministrativo.
Così inteso, il dovere in esame non è limitato alla procedura di evidenza pubblica ma interessa anche gli altri procedimenti, venendo in rilievo ogni qual volta sussista un affidamento qualificato generato da un comportamento della p.a.[23].
Tale orientamento era stato accolto anche dalla più volte citata Adunanza Plenaria n. 5 del 2018, intervenuta proprio al fine di risolvere il perdurante contrasto giurisprudenziale alimentato da quell’orientamento che sosteneva la natura non affidante della trattativa anteriormente all’aggiudicazione[24].
In quell’occasione il giudice amministrativo non riteneva ammissibile la presenza di “zone franche” caratterizzate da una irresponsabilità della p.a. Lo stesso collegio osservava inoltre che se la regola di correttezza, in virtù del menzionato campo applicativo, si applica anche nei procedimenti amministrativi non finalizzati alla conclusione del contratto, sarebbe irragionevole che la stessa non trovi applicazione proprio nella procedura di evidenza pubblica.
Anche una trattativa seriale, multipla, è dunque idonea a generare un affidamento che, in presenza degli ulteriori elementi sintomatici indicati da quella stessa sentenza[25], risulta meritevole di tutela risarcitoria.
E la pronuncia in commento ribadisce tali principi.
L’aspetto più innovativo della decisione, semmai, sembra ravvisarsi nella ulteriore precisazione circa la sussistenza di tale responsabilità anche nel caso in cui la p.a. abbia revocato il provvedimento di aggiudicazione in ottemperanza ad una sentenza di annullamento del giudice che ne dichiarava la illegittimità. Infatti, mentre nelle fattispecie decise dall’Adunanza Plenaria nelle menzionate sentenze nn. 6/2005 e 5/2018 l’atto amministrativo fonte di affidamento era caratterizzato da legittimità, nel caso di specie veniva in rilievo un atto illegittimo.
Rispetto ad esso nell’ordinanza di rimessione si avanzavano perplessità, da un lato, in ordine alla sua idoneità ad essere fonte di affidamento; dall’altro, in relazione al profilo di responsabilità addebitabile all’amministrazione, trattandosi di un annullamento disposto dal giudice, in esecuzione del quale era poi intervenuta la revoca.
All’evidenza, tali rilievi non appaiono significativi, ove si rifletta sulla ratio dell’istituto della responsabilità precontrattuale che si è tentato di ricostruire. Con la richiesta di risarcimento danni il privato non si lamenta infatti dell’annullamento in quanto tale, ma dal comportamento “scorretto” e “disattento” tenuto dalla p.a. nel rilascio del provvedimento, assistito da una presunzione di legittimità e in quanto tale idoneo a generare affidamento.
5. Gli elementi della responsabilità precontrattuale della p.a.
La sentenza in commento appare maggiormente incisiva quando, nel rispondere al secondo quesito, passa ad analizzare le condizioni e i limiti entro cui può essere riconosciuto il diritto al risarcimento del privato.
Il riferimento al cd. interesse negativo quale tipologia di danno risarcibile è ricavato dall’insegnamento civilistico tradizionale. Solo in caso di successivo inadempimento di un contatto già concluso il risarcimento del danno dovrebbe essere parametrato all’utilità ricavabile dall’esecuzione del contratto stesso. Viceversa, la mancata stipulazione del contratto renderebbe risarcibile soltanto la pretesa ad essere riportati nella stessa condizione in cui il soggetto si sarebbe trovato se non ci fosse stato l’illecito della controparte e, dunque, se la trattativa non fosse iniziata[26].
L’applicazione di siffatti principi alla responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione appare senz’altro condivisibile. Ove così non fosse, e dunque il risarcimento fosse parametrato all’utilità economica ricavabile dall’esecuzione del contatto, si finirebbe per concedere al privato una sorta di “aggiudicazione per equivalente”, così eliminando, in ultima analisi, la soccombenza nel precedente giudizio.
Per quanto attiene al momento a partire dal quale l’affidamento del privato è meritevole di tutela, il collegio in prima battuta ribadisce come, di regola, sia necessaria l’aggiudicazione. Immediatamente dopo, tuttavia, precisa come l’affidamento meritevole di tutela possa sussistere anche prima di tale momento, purché sia “ragionevole”. E la ragionevolezza, lungi da forme di automatismo, deve essere oggetto di un accertamento in concreto che tenga conto del grado di avanzamento della procedura e, dunque, sulla scorta di una valutazione da compiersi caso per caso.
Tale assunto, del resto, rappresenta un approdo ormai condiviso dalla giurisprudenza sia amministrativa che civile le quali, invece, continuano ad assestarsi su posizioni nettamente contrastanti in ordine al profilo della giurisdizione[27].
5.1. L’assenza di colpa in capo al concorrente: rilevi critici
Gli ulteriori requisiti in presenza dei quali può riconoscersi il diritto al risarcimento del privato attengono all’elemento soggettivo dei concorrenti, ed in particolare: da un lato, il carattere almeno colposo della condotta amministrativa; dall’altro, l’assenza di colpa in capo all’affidamento del concorrente. Se in relazione al primo aspetto la sentenza si limita a rinviare alle considerazioni già effettuate in passato, più significative appaiono le determinazioni che essa compie con riferimento al secondo.
Come anticipato, gli eventuali profili di colpa addebitabili al concorrente si atteggiano in termini diversi a seconda che il provvedimento amministrativo illegittimo sia stato annullato in autotutela o in giudizio.
Nel primo caso, l’Ad. Plenaria si limita a precisare che se il motivo di illegittimità «è conoscibile dal concorrente», la responsabilità della p.a. è esclusa. Tale affermazione, in verità, appare piuttosto laconica oltre che poco attenta alle caratteristiche dell’annullamento di cui all’art. 21-nonies, l. 241/1990.
È noto infatti che l’affidamento rappresenta una sorta di “limite interno” all’esercizio del potere, essendo la p.a. tenuta a valutare gli interessi dei destinatari del provvedimento e a dare atto in motivazione delle eventuali ragioni di prevalenza dell’interesse pubblico che ne giustificano la loro sacrificabilità.
Riprendendo la distinzione civilistica cui si faceva riferimento, in questo contesto l’affidamento rileva non solo come regola di comportamento ma anche come regola di validità. Se così è, l’affidamento del privato ingiustamente sacrificato è suscettibile di dare luogo non tanto ad un comportamento scorretto ma, prima ancora, ad una ipotesi di cattivo esercizio del potere. La lesione dell’affidamento meritevole di tutela, in altri termini, potrebbe determinare l’illegittimità dell’annullamento e non un danno meritevole di risarcimento a titolo di responsabilità precontrattuale[28].
Certamente con questo non si intende affermare una sorta di incompatibilità tra esercizio legittimo del potere di autotutela e risarcimento danni, potendo comunque sussistere una situazione in cui, nonostante il legittimo esercizio del potere di annullamento, residuino i margini per un risarcimento a titolo di responsabilità precontrattuale.
Al tal fine, potrebbe immaginarsi una sorta di graduazione nel livello di affidamento: uno più intenso, che preclude a monte l’annullamento ex art 21-nonies l. 241/1990 e dunque opera come regola di validità; uno meno intenso che, pur essendo sacrificabile in ragione di un prevalente interesse pubblico, appare comunque meritevole di tutela risarcitoria e quindi agisce sotto forma di regola di comportamento.
Si tratta, all’evidenza, di un discrimen piuttosto delicato e di incerta perimetrazione, in relazione al quale ci si sarebbe aspettato un maggiore approfondimento da parte della sentenza in esame la quale, come accennato, sul punto è piuttosto sbrigativa.
Passando all’annullamento disposto in sede giurisdizionale, l’Adunanza Plenaria considera la notifica al controinteressato disposta ai sensi dell’art. 41, co. 2 c.p.a. come fatto idoneo ad “interrompere” l’affidamento in ordine alla legittimità del provvedimento e dunque, in ultima analisi, suscettibile di incidere sull’elemento soggettivo[29].
Il concorrente, una volta messo a conoscenza della pendenza del procedimento giudiziale, non godrebbe più di una situazione giuridica meritevole di tutela, ed in particolare del ragionevole affidamento in ordine alla conclusione del contatto, in quanto la caducazione del provvedimento a lui favorevole rappresenterebbe una evenienza non più imprevedibile.
L’approdo sembrerebbe condivisibile: a fronte di un provvedimento sub iudice, ragioni di prudenza dovrebbero infatti indurre ad astenersi dal compimento di operazioni volte a dare esecuzione al provvedimento stesso e ad attendere dunque l’esito del giudizio.
Da tale affermazione si ricava, a contrario, che in caso di annullamento giurisdizionale il solo affidamento meritevole di tutela risarcitoria è quello maturato prima della notifica del ricorso e, dunque, nel ristretto arco temporale di 60 giorni previsto dall’art. 29 c.p.a.
Se è così, l’ipotizzabilità in concreto dell’affidamento incolpevole finisce, però, per essere molto limitata essendole riconosciuto un ambito di applicazione piuttosto scarso.
Per convincersene, è sufficiente avere riguardo alle conclusioni cui la stessa Adunanza Plenaria giunge in relazione al caso concreto.
Nel restituire il giudizio alla sezione remittente e nel ribadire l’esclusione di ogni automatismo in ordine all’affidamento meritevole di tutela, invita a considerare come la ricorrente, proprio in virtù del ruolo di controinteressata assunto nel giudizio di annullamento, «oltre ad acquisire consapevolezza della caducità del provvedimento conclusivo a sé favorevole, ha inoltre potuto difendere la legittimità delle clausole del bando di gara che hanno comportato l’esclusione dell’altro concorrente»[30].
Neppure, sempre ad avviso del collegio, potrebbe rilevare la circostanza che l’esecuzione anticipata dei lavori – cui la ricorrente aveva dato avvio - fosse stata ordinata dall’amministrazione. Per tale evenienza il legislatore, all’odierno art. 32, co. 8 cod. appalti, prevede espressamente una tutela indennitaria pari al rimborso delle spese sostenute.
Quest’ultima, tuttavia, resta una responsabilità per fatto lecito che nulla dice in ordine ai presupposti dell’illecito aquiliano rispetto alla quale, al contrario, presenta carattere di incompatibilità.
In conclusione, allora, e volendo provare a fornire un giudizio riassuntivo sulla portata della pronuncia de qua, potrebbe affermarsi che per quanto in linea teorica il campo di applicazione della responsabilità precontrattuale da provvedimento favorevole poi annullato sia piuttosto esteso e volto a comprendere l’intera procedura di evidenza pubblica, all’atto pratico poi, i requisiti enunciati dal Consiglio di Stato, ed il cui onere probatorio è posto in capo al concorrente, risultano piuttosto stringenti e di difficile realizzazione. L’approccio particolarmente garantista assunto nella prima parte della sentenza, in altri termini, rischia di venire vanificato dalle stringenti condizioni indicate nella seconda parte della sentenza stessa.
[1] Si allude a Cons. Stato, Ad. Plen, sent., 29 novembre 2021, nn. 19 e 20 per le quali si rinvia alle considerazioni svolte da C. Napolitano,Legittimo affidamento e risarcimento del danno: la Plenaria si pronuncia (nota a Cons. Stato, Ad. plen., 29 novembre 2021, n. 20), in questa Rivista, dicembre 2021.
[2] V. Cons. Stato, Sez. V, sent. del 9 dicembre 2008, n. 6057.
[3] Con determinazione dell’8 maggio 2008, n. 37.
[4] T.a.r. Campania – sede di Napoli, sez. VIII, sent. 3 ottobre 2012, n. 4017.
[5] Così Cons. Stato, Sez. V, sent. 17 gennaio 2014, n. 183; nello stesso senso cfr. anche Cons. Stato, Sez. IV, sent. 29 ottobre 2014, n. 5346.
[6] Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, sentenza 20 dicembre 2017, n. 5980; Cons. Stato, Sez. VI, sent. 5 settembre 2011, n. 5002; T.a.r. Campania, Napoli, Sez. VIII, sent. 3 ottobre 2012, n. 4017.
[7] Cons. Stato, Sez. II, ord., 6 aprile 2021, n. 2743, punto 11.
[8] In particolare venivano menzionate le sentenze n. 6 del 5 settembre 2005 e n. 5 del 4 maggio 2018.
[9] Il riferimento è in particolare ad Ad. Plen. n. 5/2018.
[10] In questi termini si è espresso ad es. Cons. Stato, Sez. VI, sent. 13 agosto 2020, n. 5011.
[11] Comma aggiunto dall’art. 12, co. 1, let. a), legge 11 settembre 2020, n. 120 di conversione, con modificazioni, del d.l. 16 luglio 2020, n. 76 recante “Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitali”.
[12] Cfr in tal senso Cass. civ., Sez. II, 15 aprile 2016, n. 7545; Sez. III, 29 marzo 2007, n. 7768.
[13] É questa l’opinione prevalente nella giurisprudenza amministrativa; v. da ultimo, Cons. Stato, Sez. II, 20 novembre 2020, n. 7237.
[14] Così Cass., Sez. I, sent. luglio 2014, n. 15260.
[15] In tal senso ad es. Cons. Stato, Sez. V, sent.15 luglio 2013, n. 3831.
[16] Il riferimento è alla più volte menzionata sent. 4 maggio 2018, n. 5. Nello stesso senso v. anche sent. 19 novembre 2021, n. 20 secondo cui l’affidamento del privato «si proietta sulla positiva conclusione del procedimento, e dunque sull’attuazione dell’interesse legittimo di cui il medesimo privato è portatore, ma che diventa in sé tutelabile in via risarcitoria se l’amministrazione con il proprio comportamento abbia suscitato una ragionevole aspettativa sulla conclusione positiva del procedimento. E ciò a prescindere dal fatto che il bene della vita fosse dovuto ed anche se si accertasse in positivo che non era dovuto».
[17] Sul tema la sentenza non si dilunga, limitandosi a rinviare nuovamente alle considerazioni svolte in Ad. Plen. n. 5/2018.
[18] Cfr. Cons. Stato, Sez. V, sent. 23 agosto 2016, n. 3674.
[19] Si erano espressi in tal senso, fra gli altri, M.S. Giannini, La responsabilità precontrattuale dell'Amministrazione Pubblica, in Studi in onore di Jemolo, Milano, 1963, 263 e ss.; M. Nigro, L'amministrazione tra diritto pubblico e diritto privato: a proposito di condizioni legali, in Foro it., 1961, I, 462 e ss. L. Santucci, Considerazioni in tema di culpa in contrahendo della Pubblica Amministrazione, in Foro it., 1964, I, 301 e ss.; F. Benvenuti, Per un diritto amministrativo paritario, in AA.VV., Studi in memoria di Enrico Guicciardi, Padova, Cedam, 1975, p. 816 ss. Si veda anche F. Manganaro, Dal rifiuto di provvedimento al dovere di provvedere: la tutela dell'affidamento, in Diritto amministrativo, 2016, pp. 93-106,che ricostruisce il pensiero di A. Romano Tassone sulla tematica in esame.
[20] Tra le prime pronunce di questo nuovo indirizzo v. Cass., Sez. Unite, 21 ottobre 1974 n. 2972; nello stesso senso anche Cass., Sez. Unite, 12 maggio 2008, n. 11656.
[21] In tal senso cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 5 settembre 2005, n. 6; Cons. Stato, Sez. V, 15 luglio 2013, n. 3831; ID., 14 aprile 2015, n. 1872. Cons. Stato, Sez. VI, 7 novembre 2012, n. 5638; Cons. Stato, Sez. VI, 25 luglio 2012, n. 4236. In dottrina, si rinvia a S. Amato, I nuovi confini della responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione, in Rivista Giuridica dell'Edilizia, fasc.1, 2014, pag. 1; F. Forte -M.S. Forte, Regole di correttezza e buona fede durante le trattative: natura della responsabilità precontrattuale in Corriere giur., Speciale 2/2013, 29; G.M. Racca, La responsabilità precontrattuale della Pubblica Amministrazione tra autonomia e correttezza, Napoli, 2000, 198 e ss.; F. Manganaro, Riflessioni su talune recenti tendenze in tema di riparto di giurisdizione e responsabilità civile dell'amministrazione, "Giustamm.it", 2009; M.A. Sandulli, Il risarcimento del danno nei confronti delle pubbliche Amministrazioni: tra soluzione di vecchi problemi e nascita di nuove questioni (brevi note a margine di Cons. Stato, ad plen. 23 marzo 2011 n. 3, in tema di autonomia dell’azione risarcitoria e di Cass. SS. UU., 23 marzo 2011 nn. 6594, 6595 e 6596, sulla giurisdizione ordinaria sulle azioni per il risarcimento del danno conseguente all’annullamento di atti favorevoli), in Federalismi.it, n. 7/2011; A. Di Majo, La responsabilità pre-contrattuale della pubblica amministrazione tra tutela dell'interesse pubblico e privato, in Rivista Giuridica dell'Edilizia, fasc.4, 1 Agosto 2020, pag. 291.
[22] In argomento, v. C. Sconamiglio, Regole di validità e di comportamento: i principi ed i rimedi, in Europa e dir. priv., fasc.3, 2008, pag. 599; V. Mariconda, L'insegnamento delle Sezioni Unite sulla rilevanza della distinzione tra norme di comportamento e norme di validità, Corr. Giur., 2008, 230 s.; G. D'Amico, Regole di validità e principio di correttezza nella formazione del contratto, Napoli, 1996; ID., La responsabilità precontrattuale, in Rimedi – 2, vol. V (a cura di V. Roppo), in Trattato del contratto (diretto da V. Roppo), Milano 2006.
[23] Per una disamina più approfondita sulla buona fede della p.a. v., ex multis, A.D. Diana, La responsabilità precontrattuale della Pubblica Amministrazione, Padova, 2000, 44 e ss.; S. Cassese, Dizionario di diritto pubblico, Responsabilità precontrattuale, Milano, 2003, 1267 e ss.; F.G. Scoca, Tutela giurisdizionale e comportamento della pubblica Amministrazione contrario alla buona fede, in Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea. Atti del Convegno internazionale di studi in onore di Alberto Burdese, Padova-Venezia-Treviso, giugno 2001, a cura di L. Garofalo, vol. III, Padova, Cedam, 2003; E. Casetta, Buona fede e diritto amministrativo, in ivi; M. D’Alberti, Diritto amministrativo e diritto privato: nuove emersioni di una questione antica, in Riv. trim. dir. pubbl., 2012, p. 1023 e ss.
[24] In particolare la rimessione all’Ad. Plen. era stata disposta dalla sez. II, ord. 24 novembre 2011, n, 515 che sottolineava come un perdurante orientamento giurisprudenziale, al quale la stessa sezione rimettente aderiva, riteneva che la responsabilità precontrattuale non fosse configurabile anteriormente alla scelta del contraente. Sul punto, cfr. Cons. Stato, Sez. V, 21 agosto 2014 n. 4272; Cons. Stato, Sez. III, 29 luglio 2015, n. 3748; Cons. Stato Sez. V, 21 aprile 2016, n. 1599; Cons. Stato, Sez. V, 8 novembre 2017, n. 5146).
[25] Nello specifico, al punto 51 della sent. n. 5/2018 si legge che «Oltre alla puntuale verifica dell’esistenza dell’affidamento incolpevole, occorrono gli ulteriori seguenti presupposti: a) che l’affidamento incolpevole risulti leso da una condotta che, valutata nel suo complesso, e a prescindere dall’indagine sulla legittimità dei singoli provvedimenti, risulti oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e di lealtà; b) che tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia anche soggettivamente imputabile all’amministrazione, in termini di colpa o dolo. Significativo, sotto tale profilo, lo spunto offerto, ai fini di una ricostruzione sistematica della responsabilità da comportamento scorretto, dal già richiamato art. 2-bis legge n. 241 del 1990, che, nel tipizzare uno specifico caso di scorrettezza procedimentale (il ritardo), ha espressamente previsto che l’inosservanza del termine (comportamento oggettivamente scorretto) è fonte di responsabilità solo se ne risulti il carattere doloso e colposo. È evidente, in tale previsione normativa, il richiamo all’art. 2043 c.c. e al relativo regime probatorio; c) che il privato provi sia il danno-evento (la lesione della libertà di autodeterminazione negoziale), sia il danno-conseguenza (le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate), sia i relativi rapporti di causalità rispetto alla condotta scorretta che si imputa all’amministrazione».
[26] In tal senso cfr. Cass., Sez. Unite, sent.19 dicembre 2017, n. 26725. Per un approfondimento sul danno risarcibile in caso di responsabilità precontrattuale nell’ambito delle trattative tra privati, si rinvia alle considerazioni di C. Turco, Interesse negativo e responsabilità precontrattuale,Milano 1990, 755; Di Majo, Le tutele contrattuali, Torino 2009, 78 ss.; C. Carnicelli, Risarcimento del danno da responsabilità precontrattuale: qualificazione e quantificazione, in Giust. civ., fasc.6, 2011, pag. 293; G. Anzani, Interesse positivo e interesse negativo nelle diverse forme di responsabilità civile, in Responsabilità Civile e Previdenza, fasc.5, maggio 2019, pag. 1692.
[27] Secondo le Sez. Unite, la giurisdizione dovrebbe essere attribuita al g.o. (Sez. Un. ordd. nn. 6594, 6595, 6596 del 2011; sent. n. 2020/8236); per l’Ad. Plen. spetterebbe invece al g.a. (Ad. Plen. n. 19/2021). In argomento, si rinvia alle considerazioni di G. Tropea – A. Giannelli,Comportamento procedimentale, lesione dell’affidamento e giurisdizione del g.o. Note critiche (nota a Cass., sez. un., 28 aprile 2020, n. 8236), in questa Rivista, maggio 2020.
[28] Sul ruolo dell’affidamento nell’ambito dell’annullamento in autotutela, v. M. Trimarchi, Decisione amministrativa di secondo grado ed esaurimento del potere, in P.A. Persona e amministrazione, n. 1, 2017; M. Ramajoli, L’annullamento d’ufficio alla ricerca di un punto di equilibrio, in Riv. giur. urb., 2016, p. 99 e ss.; F. Trimarchi Banfi, L'annullamento d'ufficio e l'affidamento del cittadino, in Diritto Processuale Amministrativo, 2005, p. 847; ID., Affidamento legittimo e affidamento incolpevole nei rapporti con l'amministrazione, in ivi, fasc.3, 2018, pag. 823; F. Francario, Autotutela e tecniche di buona amministrazione, in L’interesse pubblico tra politica e amministrazione, a cura di A. Contieri, F. Francario, M. Immordino, A. Zito, Edizioni Scientifiche, 2010.
[29] Sui destinatari della notificazione del ricorso si rinvia a G. Tropea, Ricorso principale, ricorso incidentale e costituzione delle parti, in AA.VV. Il codice del processo amministrativo. Dalla giustizia amministrativa al diritto processuale amministrativo (a cura di B. Sassani – R. Villata), Giappichelli, Torino, 2012, pp. 470 e ss.
[30] Punto 22, della parte in Diritto. Considerazioni analoghe sono contenute anche in Ad. Plen. n. 20/2021 ove si legge che con l’esercizio dell’azione di annullamento il controinteressato è posto «nelle condizioni di conoscere la possibile illegittimità del provvedimento a sé favorevole, per giunta entro il ristretto arco temporale dato dal termine di decadenza entro cui, ai sensi dell’art. 29 cod. proc. amm., l’azione deve essere proposta, e di difenderlo. La situazione che viene così a crearsi induce per un verso ad escludere un affidamento incolpevole, dal momento che l’annullamento dell’atto per effetto dell’accoglimento del ricorso diviene un’evenienza non imprevedibile, di cui il destinatario non può non tenere conto ed addirittura da questo avversata allorché deve resistere all’altrui ricorso; per altro verso porta ad ipotizzare un affidamento tutelabile prima della notifica dell’atto introduttivo del giudizio».
La Federazione russa annuncia il suo ritiro dal Consiglio d’Europa. Quali effetti sul sistema europeo di tutela dei diritti umani?
di Guido Raimondi
Sommario: 1. L’invasione dell’Ucraina e l’annuncio del ritiro della Federazione russa dal Consiglio d’Europa - 2. Le decisioni del Comitato dei Ministri e della Corte - 3. Quali scenari? - 4. L’esame dei ricorsi russi dopo la possibile uscita della Federazione.
1. L’invasione dell’Ucraina e l’annuncio del ritiro della Federazione russa dal Consiglio d’Europa
La tragedia in corso in Ucraina, teatro di una cruenta invasione da parte della Federazione russa, con lo sconvolgimento della vita civile del Paese e la fuga – si ipotizza – di oltre due milioni di persone, ha provocato da parte del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, già il giorno stesso dell’ingresso delle truppe russe sul suolo ucraino, il 24 febbraio 2022, una decisione con la quale la Federazione russa è stata invitata a cessare immediatamente e incondizionatamente le sue operazioni militari nel Paese invaso[1].
Il giorno successivo, 25 febbraio, il Comitato dei Ministri ha adottato una ulteriore decisione con la quale, ai sensi dell’art. 8 dello Statuto del Consiglio d’Europa, la Federazione russa è stata sospesa quasi integralmente dai suoi diritti di rappresentanza nell’organizzazione, in particolare nell’ambito dello stesso Comitato dei Ministri e dell’Assemblea parlamentare[2].
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha indicato poi delle misure provvisorie nei confronti del governo della Federazione russa e il 10 marzo 2022, dopo il bombardamento dell’ospedale ostetrico/pediatrico di Mariupol, il Comitato dei Ministri ha affermato la propria determinazione a valutare in stretto coordinamento con l’Assemblea parlamentare ulteriori misure nel quadro dello stesso art. 8, cioè l’espulsione della Federazione russa dal Consiglio d’Europa. Lo stesso giorno il ministro degli affari esteri della Federazione russa, Lavrov, ha annunciato l’intenzione del governo russo di lasciare l’organizzazione di Strasburgo.
Agli scenari che si aprirebbero per la Convenzione europea dei diritti dell’uomo in caso di ritiro della Federazione russa dal Consiglio d’Europa, o di una sua espulsione, è dedicato questo breve scritto.
Ma procediamo con ordine, e descriviamo il corso degli interventi del Comitato dei Ministri e della Corte europea fino al 10 marzo 2022.
2. Le decisioni del Comitato dei Ministri e della Corte
La decisione del Comitato dei Ministri del 25 febbraio 2022 con la quale la Federazione russa è stata sospesa dal Consiglio d’Europa precisa, al paragrafo 7, che la Federazione russa rimane soggetta alle sue obbligazioni derivanti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (in seguito, la Convenzione). Il giudice eletto alla Corte europea dei diritti dell’uomo a titolo della Russia rimane in carica e ogni ricorso presente e futuro presentato contro questo Stato o da questo stesso Stato continuerà ad essere esaminato e deciso dalla Corte. La Federazione russa, nonostante la sospensione, può continuare a partecipare alle riunioni del Comitato dei Ministri solo quando quest’ultimo esercita le sue funzioni nel quadro del controllo dell’esecuzione delle sentenze ai sensi dell’art. 46 della Convenzione allo scopo di fornire e ricevere informazioni relative alle sentenze in riferimento alle quali essa sia uno Stato convenuto o ricorrente, senza il diritto di partecipare all’adozione di decisioni da parte del Comitato e senza diritto di voto.
Certamente non spetta al Comitato dei Ministri stabilire quali siano gli effetti giuridici della sospensione della Russia decisa ai sensi dell’art. 8 dello Statuto sull’applicazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, essendo questa questione, compreso l’aspetto della permanenza in carica del giudice eletto a titolo della Russia, come tutte le questioni che riguardano l’interpretazione e l’interpretazione della Convenzione, riservata alla Corte europea dei diritti dell’uomo ai sensi dell’art. 32 della stessa Convenzione. Tuttavia, è importante che il Comitato dei Ministri abbia espresso la volontà politica che la Convenzione continui ad applicarsi, nonostante la sospensione, nei confronti della Federazione russa.
In effetti, in un commento pubblicato qualche giorno dopo[3], chi scrive si esprimeva in senso positivo sulla scelta di sospendere e non invitare immediatamente la Russia a lasciare il Consiglio d’Europa, come pure le circostanze avrebbero certamente permesso di fare, data la gravità dei comportamenti tenuti da questo Stato, osservando da una parte che la decisione permetteva di lasciare aperta la possibilità per gli individui (anche gli ucraini) di presentare ricorsi alla Corte e, d’altra parte, che la decisione presa consentiva di tenere aperto il dialogo con Mosca.
E la Corte è stata subito chiamata in causa dal governo ucraino, che il 28 febbraio ha presentato un ricorso interstatale contro la Federazione russa, ricorso che è stato registrato al numero 11055/22 e che si aggiunge ai numerosi altri già pendenti tra i due Paesi, formulando la richiesta della indicazione di misure provvisorie urgenti alla Federazione russa, ai sensi dell’art. 39 del Regolamento della Corte, in relazione alle “violazioni di massa dei diritti umani commesse dai soldati russe nel quadro dell’aggressione militare lanciata contro il territorio sovrano dell’Ucraina”.
Su questa richiesta la Corte di Strasburgo si è pronunciata il 1° marzo 2022. La Corte ha ricordato innanzitutto la misura provvisoria indicata il 13 marzo 2014 e tuttora in vigore, adottata nel quadro del ricorso interstatale Ucraina e Paesi Bassi c. Russia (nn. 8019/16, 43800/14 e 28525/20) relativa agli avvenimenti in Ucraina orientale, misura che richiama i governi della Federazione russa e dell’Ucraina a conformarsi agli impegni ad essi derivanti dalla Convenzione. Inoltre, con riferimento alla situazione attuale, la Corte ha preso in considerazione le operazioni militari in corso dal 24 febbraio 2022 in diverse parti dell’Ucraina e ha ritenuto che esse creano per la popolazione civile un rischio reale e continuo di violazioni gravi dei diritti protetti dalla Convenzione, in particolare sotto il profilo degli articoli 2 (diritto alla vita), 3 (divieto di tortura e di pene o trattamenti disumani o degradanti) e 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare). Al fine di prevenire tali violazioni e in virtù dell’art. 39 del suo Regolamento, la Corte ha deciso, nell’interesse delle parti e del corretto svolgimento della procedura dinanzi a sé, di invitare il governo russo ad astenersi dal lanciare attacchi militari contro i civili e i beni di carattere civile, compresi le abitazioni, i veicoli di soccorso e gli altri beni di carattere civile specialmente protetti, come le scuole e gli ospedali, e a provvedere immediatamente alla sicurezza degli stabilimenti sanitari, del personale medico e dei veicoli di soccorso sul territorio attaccato o assediato. Con la misura, immediatamente comunicata al Comitato dei Ministri ai sensi dell’art. 39 § 2 del Regolamento, il governo della Federazione russa è stato invitato ad informare la Corte il più presto possibile delle misure che saranno adottate per assicurare il pieno rispetto della Convenzione[4].
Successivamente, in seguito alla presentazione di numerosi ricorsi individuali relativi agli stessi fatti, la Corte, con una ulteriore decisione, preso atto che i ricorsi provenivano da persone che avevano trovato rifugio in dei ricoveri, delle case e altri edifici, le quali temono per la loro vita a causa dei bombardamenti e continui tiri d’artiglieria, che sono privi di accesso o hanno un accesso limitato ai viveri, alla cure, all’acqua, a dei sanitari, all’elettricità e ad altri servizi indispensabili alla sopravvivenza, e che necessitano di un’assistenza umanitaria o di una evacuazione in sicurezza, ha esteso le misure già adottate il 1° marzo a tutti gli individui che forniscano la prova sufficiente di essere esposti a un rischio grave ed imminente di un danno irreparabile alla loro integrità fisica o alla loro vita. Inoltre, sempre sui ricorsi individuali, la Corte ha deciso di indicare al governo della Federazione russa, in base all’art, 39 del Regolamento, che in base agli articoli 2, 3 e 8 della Convenzione incombe ad esso il dovere di garantire il libero accesso della popolazione civile a dei corridoi di evacuazione messi in sicurezza, a cure mediche, ai viveri e alle altre risorse essenziali, oltre che al convogliamento rapido e senza ostacoli degli aiuti e dei lavoratori umanitari[5].
Mentre la situazione sul campo si aggravava di giorno in giorno, il 10 marzo 2022 il Comitato dei Ministri ha adottato una nuova decisione, con la quale tra l’altro, dopo aver deplorato l’«atroce bombardamento» – il 9 marzo 2022 – dell’ospedale ostetrico/pediatrico di Mariupol e richiamato la decisione di sospensione del 25 febbraio precedente, ha invitato il governo della Federazione russa a mettere in esecuzione le misure provvisorie indicate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, in particolare per quanto riguarda i corridoi umanitari e il rapido passaggio dell’assistenza umanitaria, ed ha espresso la propria determinazione ad agire in stretto coordinamento con l’Assemblea parlamentare nel contesto di ulteriori misure da prendere eventualmente nei confronti della Federazione russa nel quadro dell’art. 8 dello Statuto, cioè, dopo la sospensione, la possibile espulsione della Federazione russa dal Consiglio d’Europa[6]. Come si è detto, lo stesso giorno il ministro Lavrov ha annunciato l’intenzione russa di ritirarsi dall’organizzazione.
3. Quali scenari?
Nel momento in cui si scrive (13 marzo 2022), non si ha notizia di una formalizzazione dell’annunciato ritiro della Federazione russa dal Consiglio d’Europa, che quindi resta per il momento, per l’appunto, allo stato di annuncio privo di effetti giuridici. Diversi scenari sono dunque possibili, con un impatto non identico sulla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Alla considerazione di questi possibili scenari dedicheremo le sintetiche righe che seguono.
Punto di partenza è il legame indissolubile tra la condizione di Paese membro del Consiglio d’Europa e la partecipazione alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Secondo l’art. 59 della Convenzione quest’ultima è aperta ai soli Paesi membri del Consiglio d’Europa.
Questa restrizione, non tipica delle convenzioni del Consiglio d’Europa, molte delle quali sono aperte ai Paesi terzi, si spiega per un verso con l’intento di voler preservare il carattere regionale del sistema di tutela messo in piedi dalla Convenzione per il continente europeo. D’altra parte, vi è un’altra spiegazione, che a sommesso avviso di chi scrive possiede un peso anche maggiore. Si tratta della necessità che gli Stati i quali siano disposti ad assumere gli stringenti obblighi previsti dalla Convenzione, rispondano a criteri minimi di efficienza del loro sistema democratico. Si deve trattare cioè di Stati rispettosi della democrazia pluralistica, dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali. Non si dimentichi che il sistema è basato sulla sussidiarietà, e quindi sul previo esaurimento delle vie di ricorso interne. Gli Stati contraenti dovrebbero essere dotati di un sistema giudiziario indipendente e credibile, capace di assicurare una adeguata protezione dei diritti convenzionali già al loro interno. Solo gli Stati che rispondono a queste caratteristiche hanno titolo ad essere ammessi al Consiglio d’Europa e, se le perdono, possono essere sospesi e poi anche espulsi, secondo le previsioni dell’art. 8 dello Statuto. In effetti, in caso di venir meno dello status di Stato membro del Consiglio d’Europa, l’art. 58 della Convenzione prevede che lo Stato interessato perda, nei modi che ora vedremo, anche la qualità di parte della Convenzione.
Supponendo che la Federazione russa formalizzi il suo annunciato ritiro dall’organizzazione, si applicherebbe l’art. 7 dello Statuto, il quale accorda a ciascun Stato membro il diritto di ritirarsi dall’organizzazione semplicemente notificando la sua decisione al Segretario generale del Consiglio d’Europa. In questo caso la notifica avrà effetto alla fine dell’anno finanziario in corso, cioè il 31 dicembre 2022, sempre che essa sia intervenuta entro i primi nove mesi dello stesso anno. Se la notifica pervenisse successivamente, essa produrrebbe il suo effetto alla fine dell’anno finanziario successivo.
Immaginando invece che l’annuncio russo resti, per l’appunto, allo stato di annuncio, e che il Comitato dei Ministri, in coordinamento con l’Assemblea parlamentare, vada avanti nella sua considerazione delle misure previste dall’art. 8 dello Statuto per gli Stati membri che violano gravemente le disposizioni dell’art. 3 dello stesso Statuto (cioè il riconoscimento del principio della preminenza del diritto e il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), si può ipotizzare che, secondo la previsione dello stesso art. 8, la Federazione russa venga invitata a ritirarsi dall’organizzazione nelle condizioni previste dall’art. 7. Non è infatti previsto dallo Statuto che uno Stato membro possa essere immediatamente espulso. In seguito all’invito del Comitato dei Ministri si aprirebbero due possibili scenari: o la Federazione russa accoglie l’invito e invia la notifica del ritiro, il che produrrebbe la sua uscita dall’organizzazione alla fine dell’anno (sempre che la notifica sia fatta entro il 30 settembre), ovvero essa lascia cadere l’invito e resta inerte. In quest’ultimo caso l’art. 8 dello Statuto consente al Comitato dei Ministri di decidere immediatamente l’espulsione, fissando esso stesso la data alla quale lo Stato interessato cessa di essere membro del Consiglio d’Europa. L’art. 8 non lo prevede, ma è evidente che per ragioni pratiche il Comitato dei Ministri, nel formulare l’invito a lasciare l’organizzazione potrà anche fissare un termine oltre il quale, in mancanza di notifica di ritiro, esso provvederà alla decisione di espulsione.
Indipendentemente dalle eventuali procedure di uscita dall’organizzazione, la Federazione russa potrebbe decidere di denunciare la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ai sensi dell’art. 58 di questo strumento. Secondo il § 2 di questa disposizione, però, la denuncia non libererebbe immediatamente la Federazione russa dai suoi obblighi convenzionali. Non solo essa rimarrebbe responsabile convenzionalmente per tutti i fatti commessi fino alla denuncia, ma anche per quelli verificatisi nei sei mesi successivi, giacché il § 1 dell’art. 58 prevede che la denuncia sia data con preavviso di sei mesi.
In caso invece di assenza di denuncia, l’uscita della Federazione russa dal Consiglio d’Europa – volontariamente o per decisione del Comitato dei Ministri - farebbe perdere ad essa anche la qualità di parte contraente. Ma in quali tempi? Il § 3 dell’art. 58 dispone che cessa di essere parte alla Convenzione lo Stato che cessa di essere membro del Consiglio d’Europa “sous la même réserve”, espressione che verosimilmente si riferisce ai precedenti §§ 1 e 2. L’interpretazione del § 3 non è univoca, e su di essa si pronuncerà eventualmente la Corte, cui spetta di decidere, come dicevamo, ai sensi dell’art. 32 della Convenzione su ogni questione di interpretazione e applicazione della Convenzione. A sommesso avviso di chi scrive una interpretazione dell’art. 58 coerente con la sua ratio dovrebbe condurre a ritenere che il termine di grazia di sei mesi si applicherebbe anche nel caso di uscita della Federazione russa dal Consiglio d’Europa non accompagnata dalla denuncia della Convenzione. Probabilmente si tratta di un problema puramente teorico, essendo verosimile, date le circostanze, che la denuncia della Convenzione da parte russa non si faccia attendere.
4. L’esame dei ricorsi russi dopo la possibile uscita della Federazione
In ogni caso, ci sarà un periodo abbastanza lungo durante il quale, uscita la Federazione russa dal Consiglio d’Europa e anche dalla Convenzione, la Corte resterà competente ad esaminare ricorsi portati contro questo Stato. Ma in quali condizioni?
Le circostanze purtroppo non consentono di prevedere che le autorità russe collaboreranno con la Corte nella definizione dei ricorsi che rimarranno da decidere, ricorsi che saranno comunque moltissimi[7]. Questa collaborazione può essere indispensabile, anche se non in tutti casi.
Ci riferiamo in particolare alla necessità che alle decisioni più importanti sui ricorsi russi, quelle delle Camere e della Grande Camera, partecipi il c.d. “giudice nazionale”, cioè il giudice eletto a titolo dello Stato convenuto, ovvero un giudice ad hoc, per la cui nomina è comunque necessaria la collaborazione dello stesso Stato.
Verosimilmente, una volta perfezionata l’uscita della Federazione russa dalla Convenzione, il giudice eletto “a titolo” di questo Stato lascerà la Corte. Se la quest’ultima potrà continuare a decidere i ricorsi che possono essere risolti a livello del Giudice unico e del Comitato di tre giudici (il primo può solo dichiarare i ricorsi inammissibili, il secondo, oltre a questa competenza negativa, ha quella di decidere i casi sui quali vi è una giurisprudenza consolidata, Well Established Case Law), l’intervento del “giudice nazionale” resterà indispensabile per i casi di Camera e di Grande Camera. Se le autorità russe non collaboreranno nella designazione di un giudice ad hoc, questi casi non potranno essere decisi e resteranno in un limbo.
Si vedrà. Forse, volendo mantenere, nonostante le circostanze, uno spirito moderatamente positivo, si può pensare che l’esistenza di casi che rimangono in un limbo potrebbe alimentare la speranza di tempi migliori, nei quali la collaborazione tra la Russia e il resto d’Europa venga recuperata, anche nell’ambito del Consiglio d’Europa e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. In fin dei conti è vero che questa collaborazione ha conosciuto momenti difficili, specie con il rifiuto da parte russa di riconoscere l’autorità di certe decisioni da essa considerate “politiche” (come quelle sulla Transnistria o sul caso Yukos), per non parlare della crisi finanziaria dell’organizzazione provocata dalla decisione russa di sospendere il pagamento della contribuzione dovuta, ma è anche vero che nella stragrande maggioranza dei casi le sentenze della Corte sono state accettate ed eseguite, e che larga parte della società russa, compresa la comunità giuridica, aveva apprezzato la partecipazione della Federazione russa alla Convenzione europea come un importante fattore di modernizzazione per il loro grande Paese.
Su questa pur flebile nota di speranza chiudiamo questa breve riflessione.
[1] CM/Del/Dec (2022) 1426 bis/2.3).
[2] CM/Del/Dec (2022) 1426 ter/2.3).
[3] G.RAIMONDI, Russia, la sospensione della Federazione russa dal Consiglio d’Europa è importante, in Corriere della Sera, 3 marzo 2022 (versione elettronica).
[4] Communiqué de presse CEDH 068 (2022), 1 marzo 2022.
[5] Communiqué de presse CEDH 073 (2022), 7 marzo 2022.
[6] CM/Del/Dec (2022) 1428 bis/2.3.
[7] Attualmente vi sono 13.645 ricorsi pendenti contro la Federazione russa.
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