ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La riforma del processo di famiglia
di Giuliano Scarselli
Sommario: 1. Premessa - 2. Pronunce d’ufficio e terzietà del giudice - 3. Il diritto alla prova - 4. I diritti della famiglia come società naturale - 5. Le sanzioni - 6. Brevi conclusioni.
1. Premessa
Mi presto a qualche osservazione sulla recente riforma del processo di famiglia di cui alla legge delega approvata ora definitivamente dal Parlamento.
Premetto che, seppur la riforma si faccia apprezzare per l’intento di unificare i numerosi riti oggi esistenti, su aspetti più specifici, o, se si vuole, più di dettaglio, a mio sommesso parere lascia invece a desiderare.
Credo, intanto, che, esclusa l’idea della completa soppressione dei Tribunale per i minorenni, peraltro da più parti invece in passato avanzata, quello che ci si poteva aspettare era che al Tribunale per i minorenni fossero estese le garanzie e le regole del giusto processo esistente dinanzi al Tribunale ordinario; al contrario qui mi sembra qui si sia intrapreso il percorso inverso, ovvero si siano estese a quest’ultimo le officiosità tipiche della giustizia minorile.
Se questo è il percorso fatto, secondo quanto mi cingo a rilevare sinteticamente, è chiaro che lo stesso non può trovarmi consenziente, poiché credo che l’indisponibilità di molti diritti riconducibili alla famiglia e soprattutto ai minori, non giustifichino comunque la rinuncia alle garanzie del giusto processo; e penso, infatti che, tutto al contrario, debba essere monito di ogni operatore di giustizia che tutti i processi, anche se aventi ad oggetto diritti indisponibili, debbano in ogni caso assicurare ogni garanzia processuale.
2. Pronunce d’ufficio e terzietà del giudice
Un primo settore da analizzare concerne i poteri d’ufficio attribuiti al giudice.
Non che già il sistema attuale della famiglia non li conoscesse, solo che questa riforma, come anticipato, invece di sopprimere, contenere, o dare nuova regolamentazione a detti fenomeni secondo criteri di rispetto della terzietà del giudice, ha fatto la cosa inversa, ovvero ha mantenuto ogni potere officioso esistente, e in più ne ha ribaditi e/o aggiunti di nuovi, sparsamente contenuti nella legge delega.
2.1. E valga quanto di seguito si osserva.
a) In primo luogo, con riferimento ai procedimenti di cui agli artt. 330, 333, 334, vi erano già, e vi sono, poteri officiosi attribuiti al giudice dal 3° comma, dell’art 336 c.c., in quale recita che: “In caso di urgente necessità il Tribunale può adottare, anche d’ufficio, provvedimenti temporanei nell’interesse del figlio”.
Questa disposizione, che consente al giudice, quindi, d’ufficio, di provvedere in via d’urgenza alla sospensione della potestà genitoriale o all’allontanamento di un genitore dalla vita familiare, e che da molti è considerata di dubbia costituzionalità, e in ogni caso espressione del periodo storico del codice civile, ovvero del 1942, non viene soppressa dalla odierna riforma del processo di famiglia ma anzi questa, dapprima addirittura riteneva di poter estendere il potere officioso del giudice dal terzo comma al primo comma, prevedendo così in generale che “all’art. 336 del c.c. sono apportate le seguenti modificazioni: a) al primo comma dopo le parole sono adottati sono aggiunte le seguenti: “d’ufficio o” e dopo le parole “dei parenti” sono aggiunte le seguenti “del curatore speciale del minore qualora nominato”; poi si è evitato di intervenire sul primo comma dell’art. 336 c.c. e si è previsto solo, sempre fermo il 3° comma, di “modificare l’art. 336 c.c. prevedendo la legittimazione a richiedere i relativi provvedimenti anche al curatore speciale del minore” (così punto 26); e il curatore speciale al minore può essere nominato, anche d’ufficio, in ogni momento.
b) Cosa analoga è stata fatta con riferimento all’art. 403 c.c. (v. punto 27).
Lì si prevede che se il minore si trovi esposto nell’ambiente familiare a grave pregiudizio e pericolo per il suo benessere fisico, il provvedimento di allontanamento e di sua messa in sicurezza può essere preso dalla pubblica autorità, ovvero da un organo amministrativo.
Dopo di che si prevede che la pubblica autorità trasmetta la decisione al P.M. , il quale poi chiede la convalida nelle 72 ore al Tribunale per i minorenni, il quale la concede nelle 48 ore ancora successive con decreto, ovvero con provvedimento privo del contraddittorio, con il quale nomina, sempre senza contraddittorio, il curatore speciale del minore.
Soltanto successivamente, e con un termine, direi non perentorio, di ulteriori 15 giorni, viene fissata una udienza “di comparizione personale delle parti” (chi siano le parti non è indicato, e i genitori non sono espressamente nominati), a seguito della quale si provvede alla conferma, modifica o revoca del decreto di convalida.
Trattandosi in questi casi di limitazione della libertà personale, la scelta legislativa non sembra conforme ai limiti e alle regole previste dall’art. 13 Cost.
c) Seppur, poi, i poteri officiosi del giudice richiamati alla lettera m) del punto 23 possono considerarsi equivalenti a quelli già esistenti oggi all’art. 708 c.p.c., v’è comunque da rilevare che poteri officiosi del giudice sono in seguito ribaditi alla lettera r), visto che il giudice può pronunciare ogni provvedimento “anche d’ufficio per i minori”; al punto t) “adottare provvedimenti relativi a minori d’ufficio e anche in assenza di istanze”, e: “possa disporre d’ufficio mezzi di prova a tutela dei minori nonché delle vittime di violenza, anche al di fuori dei limiti del codice civile”; ed ancora statuito al punto z) dd), il quale prevede “la nomina anche d’ufficio del curatore speciale del minore”, disposizione che va ad incidere e modificare l’art. 78, 79 e 80 c.p.c., che fino ad oggi, e tutto al contrario, prevedevano che la nomina di un curatore speciale avvenisse solo a seguito di domanda di parte; e infine la medesima disposizione considera “la possibilità di nomina di un tutore del minore, anche d’ufficio, nel corso e all’esito dei procedimenti di cui alla lettera a) (quindi: in tutti i procedimenti di famiglia) e in caso di adozione di provvedimenti ai sensi degli artt. 330 e 333 c.c.”.
d) Dunque, in estrema sintesi, invece di sopprimere i residui poteri officiosi ancora presenti nei codici, la riforma li ha ribaditi e introdotti di nuovi.
Mi sembra un primo punto sul quale porre una riflessione, poiché la pronuncia d’ufficio pone deroga al principio della domanda, e il principio della domanda, tutelato dall’art. 24 Cost., è posto a salvaguardia della terzietà del giudice.
Né può replicarsi che la deroga al principio della domanda è giustificata dalla indisponibilità dei diritti o dall’interesse superiore del minore, poiché questi interessi sono assicurati dalla presenza del PM e del curatore speciale del minore, mentre il giudice, anche dinanzi a questi diritti, e anche a fronte dell’interesse superiore del minore, deve comunque rimanere terzo e imparziale; e la terzietà e l’imparzialità del giudice escludono che questi possa provvedere d’ufficio.
Peraltro, a mio sommesso parere, contrasta con la terzietà del giudice anche la previsione di cui al punto 24 lettera f) per la quale ai giudici della famiglia non si “applica il limite dell’assegnazione decennale nella funzione”.
Il giudice della famiglia, ancorché si occupi di problemi particolari, deve rimanere, a mio sommesso parere, egualmente un giudice, sotto tutti i profili e nessuno escluso, e non può dunque trasformarsi in un funzionario, come diceva Piero Calamandrei, che “si mette in viaggio alla scoperta dei torti da raddrizzare” (CALAMANDREI, Istituzioni di diritto processuale civile, Padova, 1941, 113), poiché ciò comprometterebbe la terzietà della sua funzione.
Dal che io credo che, proprio in ossequio alla sua indipendenza, anche i giudici della famiglia dovrebbero sottostare tanto al principio della domanda quanto al limite decennale dell’assegnazione della funzione.
2.2. La pronuncia d’ufficio trova poi due altre discutibili conseguenze:
a) la prima è che normalmente una pronuncia d’ufficio è anche una pronuncia che si emana inaudita altera parte, ovvero senza il contraddittorio; cosicché la scelta della decisione d’ufficio non infrange, normalmente, soltanto il principio della domanda ma anche quello della difesa.
Ciò, peraltro, trova conferma nel testo di legge al punto 23, lettera f) ove si prevede che il giudice possa “assumere provvedimenti d’urgenza nell’interesse delle parti e dei minori prima dell’instaurazione del contraddittorio”.
Dal che, direi, dal combinato disposto delle norme sopra menzionate, si arriva alla conclusione che tutti i provvedimenti in questione, se urgenti, possono essere assunti d’ufficio e senza contraddittorio.
b) La seconda, in questi casi, è data dall’individuazione del giudice che debba pronunciare d’ufficio questi provvedimenti.
Ebbene, al riguardo il punto 23 lettera c) afferma che “la prima udienza di cui alla lettera l) e le udienze alle quali devono essere adottati provvedimenti decisori, anche provvisori, sono tenute dal giudice relatore (ovvero un giudice monocratico) con facoltà dello stesso di delegare ai giudici onorari specifici adempimenti”.
Dunque, la pronuncia delle gravi misure sopra viste sono adottate da un giudice monocratico, il quale addirittura, per la relativa pronuncia, può delegare un giudice onorario per specifici adempimenti.
Credo che chiunque abbia a cuore le garanzie processuali non possa condividere scelte di questo genere.
3. Il diritto alla prova
Un secondo settore d’analisi deve essere quello attinente al diritto alla prova.
Mi sembra che in molte parti della riforma il principio dell’onere della prova non sia rispettato; e poiché anche il diritto alla prova attiene, evidentemente, ad aspetti del giusto processo assicurati dalla nostra costituzione, l’analisi di questi momenti mi sembra necessaria.
3.1. La prima questione sulla quale porre l’attenzione è quella che si trova disciplinata alla lettera b) del punto 23, la quale prevede che “in presenza di allegazione di violenza domestica o di genere”, ecc……. discendano misure di salvaguardia delle vittime.
La norma è giustissima nella misura in cui tende a reprimere ogni forma di violenza, ma i provvedimenti restrittivi non possono discendere da una semplice allegazione e devono al contrario trovare riscontro in una prova, quanto meno sommaria e/o prima facie, della sussistenza della violenza allegata.
Immaginare viceversa che la sola allegazione, ovvero la sola denuncia che una parte faccia nei confronti di un'altra, possa costituire, di per se’ sola, il presupposto per l’emanazione di provvedimenti di cui agli artt. 342 bis e ter c.c., ovvero provvedimenti di allontanamento del coniuge dalla propria casa e dai propri luoghi, e disporre altresì l’intervento dei servizi sociali, è qualcosa che è in contrasto con il principio dell’onere della prova e, direi, tutt’assieme, con le nostre regole di base della tutela dei diritti.
3.2. La lettera z), aa), prevede di nuovo che “in presenza di allegazioni o segnalazioni di un comportamento di un genitore tale da ostacolare il mantenimento di un rapporto equilibrato e continuativo con l’altro genitore………siano assicurate l’abbreviazione dei termini processuali e la concreta realizzazione dei provvedimenti adottati nell’interesse del minore”.
Ripeto: al fine dell’emanazione di un qualunque provvedimento avente natura giurisdizionale la mera allegazioni o segnalazioni non può essere sufficiente.
I provvedimenti devono discendere dall’esistenza di prove; se le prove non vi sono, i provvedimenti non possono essere adottati.
Se, tutto al contrario, arriviamo ad accettare l’idea che un provvedimento possa esser dato senza prove, allora noi neghiamo garanzie che sono state la conquista della nostra civiltà giuridico/processuale.
3.3. Altra questione relativa al diritto alla prova è rappresentata dal comma 23 lettera f) per il ricorrente, e comma 23 lettera h) per il resistente convenuto, poiché entrambe le parti, nel processo di famiglia, devono fornire “l’indicazione dei mezzi di prova e dei documenti dei quali intendono avvalersi a pena di decadenza fin dagli atti introduttivi del giudizio”; dopo di che non sembra vi sia la possibilità di recuperare carenze o mancanze in punto di prova, e in nessun altro modo possono essere depositati dalle parti nuovi documenti o richiesti nuovi mezzi di prova.
La successiva lettera i) dà una disciplina per il ricorrente in caso di domande riconvenzionali del convenuto, e la possibilità “di nuove istanze istruttorie alla luce delle difese della controparte”; ma, evidentemente, la norma è ambigua, poiché subordina il diritto del ricorrente a nuove istanze istruttorie solo se queste si pongano in nesso eziologico con le difese del convenuto, e non si capisce se questo diritto il ricorrente ce l’ha sempre o solo a fronte di domande riconvenzionali; mentre la legge non attribuisce in nessuna parte al convenuto la possibilità di articolare nuovi mezzi istruttori dopo quelli richiesti con la comparsa di costituzione.
Si tratta, decisamente, di un passo indietro rispetto all’esistente, sotto un duplice profilo:
a) in primo luogo perché nella situazione attuale, come è noto, i procedimenti in camera di consiglio non hanno preclusioni istruttorie, e nei procedimenti di separazione e divorzio, dopo l’udienza presidenziale, e ai sensi dell’art. 708 c.p.c., si nomina il giudice istruttore, e si danno alle parti in via istruttoria i nuovi termini di cui all’art. 183 c.p.c. (art. 709 e 709 bis c.p.c.), cosicché entrambe le parti, liberamente e successivamente, possono depositare ulteriori documenti e chiedere nuovi mezzi di prova anche dopo gli atti introduttivi del giudizio.
b) In secondo luogo perché queste decadenze istruttorie contrastano con il regime adottato dalla stessa riforma, sul medesimo punto, con riferimento al processo civile.
La legge delega, infatti, seppur dopo accese discussioni, ha sì scelto di porre decadenze istruttorie fin dagli atti introduttivi del giudizio, però ha poi inserito il temperamento di cui al comma 5 lettera f), con il quale entrambe le parti, dopo gli atti introduttivi del giudizio, possono sempre “indicare i nuovi mezzi di prova e le produzioni documentali”.
Questa ulteriore possibilità non è indicata nel processo di famiglia; cosicché appare incongruo che nel processo di famiglia, e diversamente dal resto del processo civile, vi siano decadenze istruttorie che fino ad oggi non esistevano, e che non esisteranno nemmeno domani nel processo civile.
È la prima volta che il processo di famiglia ha decadenze istruttorie più rigide rispetto a quelle degli altri processi civili.
Ciò, peraltro, può esser causa di inasprimento dei contenziosi, perché obbliga, come si dice, le parti a vuotare il sacco subito e per l’intero; ma non è scelta razionale in ambito di famiglia, ove al contrario sarebbe da favorire la misura e il contenimento delle pretese giudiziarie.
3.4. Sempre in punto di prova è poi discutibile la scelta che è stata fatta con riferimento all’intervento dei servizi socio-assistenziali o sanitari di cui alla lettera z), ff).
Il ruolo dei servizi socio-assistenziali nei Tribunali per i minorenni è stata causa di discussione in passato, ed in particolare si rilevava che per il loro ruolo, e le modalità con le quali questi assumevano informazioni, le loro relazioni non potessero costituire veri mezzi di prova ai fini delle decisioni del giudice, in quanto, appunto, assunte senza il rispetto delle regole del giusto processo, e senza il diritto al contraddittorio e alla difesa delle controparti, spesso addirittura nella segretezza delle stesse operazioni di raccolta dei dati e della loro esternazione.
Orbene, una volta arrivati a regolare un processo unico per la famiglia, doveva apparire chiaro porre delle regole precise a tutela del giusto processo alle relazione dei servizi sociali, dalla pubblicità e trasparenza degli interventi, al diritto alla difesa e al contraddittorio.
Questa riforma non ha fatto niente di ciò.
Si è limitata a disporre che le relazioni devono essere “redatte tenendo distinti con chiarezza i fatti accertati, le dichiarazioni rese dalle parti e le valutazioni formulate dagli operatori”; ma nient’altro è stato precisato ne’ sulle modalità di acquisizione delle informazioni, ne’ al diritto alla trasparenza e al contraddittorio nel momento in cui le informazioni vengono acquisite, ne’ alla rilevanza probatoria che queste relazioni possono avere all’interno del processo.
E, ovviamente, il rischio è che esse continuino ad essere assunte senza il rispetto del diritto alla difesa, e parimenti continuino, anche da sole, ad esser la base di molte decisioni assunte dai giudici minorili.
4. I diritti della famiglia come società naturale
Una terza questione che mi permetto di rilevare è quella dell’idea stessa di famiglia che questa riforma sembra perseguire.
Poiché a me sembra, infatti, che questa riforma stia mirando ad una famiglia sotto forte incidenza dello Stato, ove gli spazi di autonomia delle persone sia assolutamente limitato.
E io non credo si possa accettare un modello di famiglia di questo tipo, perché la nostra stessa Costituzione, con l’art. 29, riconosce al contrario alla famiglia i diritti di “società naturale”.
E ripeto: una cosa è l’interesse superiore dei minori; altra cosa immaginare che la famiglia sia una società assoggettata al pubblico controllo.
Al riguardo faccio emergere quanto segue.
4.1. Alla lettera f) del punto 23 si prevede che il ricorso introduttivo di un qualunque processo di famiglia debba necessariamente indicare “un piano genitoriale che illustri gli impegni e le attività quotidiane dei minori, relativamente alla scuola, al percorso educativo, alle eventuali attività extrascolastiche, sportive, culturali e ricreative, alle frequentazioni parentali e amicali, ai luoghi abitualmente frequentati, alle vacanze normalmente godute”.
Si consideri, poi, che il c.d. piano genitoriale può essere disposto dal giudice con l’emanazione dei provvedimenti temporanei ed urgenti, e che il mancato rispetto da parte dei genitori del piano genitoriale configuri comportamento sanzionabile ai sensi dell’art. 709 ter c.p.c. (lettera r).
Tengo a precisare, al riguardo, che il piano genitoriale non concerne le sole famiglie ove vi siano state violenze, o situazioni di grave pregiudizio o pericolo per la incolumità psico-fisica dei suoi componenti, o abbandono di minori, o forte degrado morale o materiale, ecc……ma si ha, tutto al contrario, nei confronti di ogni famiglia, anche se di alto tenore culturale, sociale o economico, e senza alcun problema di violenze, o di sopraffazioni di uno sull’altro.
Ora, io non credo che il sindacato del giudice sulla vita di una famiglia possa spingersi fino a questi dettagli, e/o che lo Stato, tramite il giudice, abbia il diritto di conoscere e decidere financo sulle vacanze, sullo sport, sui luoghi o le persone che si frequentano, ecc…
Mi sembra sia la prima volta che si immagini una deriva di questo genere, che mi pare in contrasto con il diritto di libertà delle persone.
Credo, al contrario, che costituisca diritto della famiglia quello di frequentare le persone che più aggradano, studiare quello che più piace, avere tendenze religiose o completamente laiche, preferire il mare alla montagna o viceversa, il cinema al teatro, la palestra alle riunioni culturali, ecc….
E credo sia diritto di ognuno di mutare in ogni momento i propri impegni, o i propri programmi, o le proprie vacanze; ovviamente nel rispetto della libertà degli altri componenti della famiglia, ma certo liberi dal controllo dello Stato, che non può spingersi fino a questo punto.
4.2. Sempre sotto questo profilo va sottolineata la lettera g), con la quale: “Il giudice indichi quali sono le informazioni che ciascun genitore deve obbligatoriamente comunicare all’altro”.
Anche in questo caso, è vero che vi sono separazioni tra coniugi molto litigiose e colme di aggressività, e che non sempre i genitori hanno la civiltà di portarsi reciproco rispetto; tuttavia, anche in questo caso, mi sembra che qui la misura si sia un po’ oltrepassata, poiché il giudice della famiglia, sempre a mio parere, non può imporre ad una parte che comunichi, a sua discrezione, all’altra, necessariamente, fatti della sua vita privata.
Oppure, se si ritiene lo possa fare, allora, ripeto, il rapporto che si dà tra famiglia e Stato è nuovo, e stiamo marciando verso una famiglia che non è più quella che avevamo avuto fino ad oggi.
4.3. Stesso autoritarismo lo abbiamo sui poteri istruttori.
Con la lettera t), il giudice ha “poteri istruttori officiosi di indagine patrimoniale”; e poi con la lettera t), il giudice “può disporre d’ufficio mezzi di prova a tutela dei minori nonché delle vittime di violenze, anche al di fuori dei limiti stabiliti dal codice civile”.
Qui, probabilmente, non v’è molto di nuovo rispetto alle procedure già esistenti; tuttavia anche queste disposizioni si inquadrano, a mio parere bene, nel contesto che ho appena descritto.
5. Le sanzioni
Sempre nella medesima logica, la riforma del processo di famiglia prevede una serie di sanzioni per chi non si comporti nei modi comandati.
Come non fossero sufficienti le sanzioni che la riforma ha previsto per ogni processo civile, e che si trovano al punto 21, ove si legge: “prevedere il riconoscimento all’amministrazione della giustizia quale soggetto danneggiato nei casi di responsabilità aggravata e conseguentemente, specifiche sanzioni a favore della cassa delle ammende”; e poi ancora: “Prevedere conseguenze processuali e sanzioni pecuniarie nei casi di rifiuto giustificato di consentire l’ispezione prevista dall’art. 118 c.p.c. e nei casi di rifiuto o inadempimento non giustificati dell’ordine di esibizione previsto dall’art. 210 del medesimo codice”; il processo di famiglia ne ha introdotti di altri, e precisamente alla lettera f) “disponendo le sanzioni per il mancato deposito della documentazione senza giustificato motivo ovvero per il deposito di documentazione inesatta o incompleta”; e poi ancora alla lettera l) “disponendo le sanzioni per la mancata comparizione (alla prima udienza) senza giustificato motivo”.
Mi sembra eccessivo.
Vorrei ricordare che il diritto alla difesa è, appunto, un diritto, non un dovere, e pertanto nessuno può essere sanzionato perché non si difende; cosicché è impensabile, almeno per me, che qualcuno possa esser sanzionato perché non partecipa ad una udienza o non depositi della documentazione.
Si danno disposizione senza tener conto degli equilibri che vanno necessariamente trovati tra ricerca della verità e diritto di libertà.
Bisognerebbe ristudiare i classici.
6. Brevi conclusioni
Qualcuno ha detto che si tratta di una riforma epocale.
Sinceramente, io non ne colgo la portata.
Capisco l’esigenza di dare un rito unico ai giudizi in materia di famiglia, ma non si poteva allora utilizzare per ciò il rito previsto per tutte le altre cause civili di cui al punto 5 di questa stessa riforma?
Ove si fosse fatta una cosa del genere, peraltro, meglio probabilmente si sarebbe assicurato anche ai procedimenti di famiglia la terzietà del giudice, il contraddittorio, il diritto alla prova, e si sarebbe evitato discutibili ingerenze sulla vita privata e familiare delle persone, evitato altresì di aggiungere sanzioni su sanzioni, e altre cose del genere.
Si dirà che i processi di famiglia necessitano di un pronto intervento che nell’ordinario processo di cognizione non si ha.
In realtà, non mi sembra che il rito unico di cui al punto 23 abbia caratteristiche tali da assicurare tempi senz’altro più brevi o pronti interventi; ne’ mi sembra che lo stesso presenti divergenze rilevanti rispetto al rito previsto con il punto 5 in punto di ragionevole durata.
Sotto questo profilo, peraltro, erano allora più funzionali i vecchi riti camerali con i quali si giudicavano tante questioni attinenti alla famiglia; erano procedimenti certamente più rapidi e più elastici, e, sotto certi profili, anche più garantisti, poiché quelli non avevano, a differenza di questi, preclusioni in punto di eccezioni e prove.
Abbandonare i riti camerali per un rito ordinario poteva avere il senso di trasferire anche al contenzioso della famiglia e dei minori le garanzie del giusto processo; ma se la scelta del legislatore non è stata quella, poiché le officiosità di quei riti si sono mantenute e se ne sono aggiunte delle nuove, che senso ha avuto, allora, abbandonare i procedimenti camerali per aderire ad un rito autoritario e a preclusioni?
Ferma l’introduzione, peraltro già fatta propria dalla giurisprudenza, della nomina anche d’ufficio del curatore speciale del minore, per il resto, forse, si poteva fare meno.
A chi spetta dire la parola “Fine”: commento alla pronuncia del Tribunale di Belluno del 4 novembre 2021 in materia di fine vita
di Daria Passaro
Sommario: 1. Il filo sottile della vita di Samantha D’Incà. Liberi di scegliere “un atto d’amore” - 2. Commento alla pronuncia del Tribunale di Belluno del 4 novembre 2021. Fondamento normativo-giurisprudenziale e riflessioni a margine - 3. Note di aggiornamento in tema di fine vita: l’autorizzazione al primo suicidio assistito in Italia tra innovazione e incertezze applicative.
1. Il filo sottile della vita di Samantha D’Incà. Liberi di scegliere “un atto d’amore”
La materia del fine vita, vista al microscopio, si presenta come una fitta rete di pronunce giurisprudenziali, timide disposizioni legislative, innumerevoli casi pratici sottoposti al vaglio del giurista, della politica, della religione, della bioetica e dell’opinione pubblica. Dietro queste maglie c’è la vita appesa a un filo di pazienti la cui sorte è “rimessa”, in qualche modo, al ruolo dei giudici che, nella perdurante assenza di un’esauriente legge sul punto, all’occasione sono chiamati a dettare la “giustizia sostanziale” del caso concretamente rivolto alla loro attenzione.
Alle spalle della pronuncia del Tribunale di Belluno, intervenuta lo scorso 4 novembre, risiede la storia di fine vita di Samantha D’Incà, una giovane di appena trent’anni in condizione di coma irreversibile dal 6 dicembre 2020, a seguito di grave infezione batterica successiva ad un intervento di routine per una banale rottura di femore. Samantha attualmente vive attaccata a una macchina in una Rsa di Belluno, secondo il parere dei medici senza alcuna concreta possibilità di miglioramento delle prospettive di vita.
La condizione di Samantha ha spinto i genitori a chiedere la nomina urgente di un amministratore di sostegno chiamato a compiere le valutazioni relative ai trattamenti sanitari necessari per la sua sopravvivenza.
Precisamente, il padre Giorgio ha chiesto di assumere la nomina di amministratore in favore della figlia, con l’espresso potere di rifiutare per conto di lei le cure di mantenimento in vita - ivi comprese la nutrizione e/o idratazione artificiale - nonché di assumere le determinazioni del caso in ordine alla sedazione palliativa profonda associata alla terapia del dolore.
L’iter intrapreso dai familiari ha richiesto, ai fini di una completa valutazione da parte del Tribunale di Belluno, l’acquisizione di considerazioni qualificate da parte di specialisti in materia, tra i quali figura il Prof. Leopold Saltuari dell’Università di Innsbruck, chiamato a relazionare in ordine alle potenzialità riabilitative della beneficiaria. Il dott. Saltuari ha chiarito come la remissione ad una condizione di autonomia debba escludersi con convinzione, lo stato di coscienza di Samantha dovendosi qualificare come status vegetativo di vigilanza privo di coscienza.
Alla medesima conclusione è pervenuta, in seguito alle osservazioni eseguite presso l’Ospedale di Vipiteno nell’agosto 2021, la dott.ssa A. Alibrandi sull’invariabilità della diagnosi relativa al disturbo di coscienza, ribadendo l’impossibilità di formulare ipotesi prognostiche favorevoli a un recupero funzionale.
Nel settembre 2021, è infine intervenuto sulla questione il Comitato Etico per la Pratica Clinica dell’U.L.S.S. n. 1 Dolomiti, precisando che Samantha, nutrita artificialmente mediante una sonda inserita nello stomaco attraverso la parete addominale (PEG), ormai non risponderebbe a stimoli né verbali né visivi.
Rebus sic stantibus, considerata la probabilità del verificarsi di complicanze e di una mancata risposta alle terapie messe in atto, il Comitato ha espresso l’opportunità di procedere alla sedazione palliativa profonda, palesando la necessità di nominare un amministratore di sostegno chiamato a prestare il necessario consenso informato sul punto. La condizione clinica descritta e l’analisi dei profili bioetici emergenti suggerirebbero, a ben vedere, di non escludere una desistenza dal trattamento di nutrizione artificiale, supportata da un necessario percorso palliativo, dietro necessaria condivisione con i familiari e con l’amministratore di sostegno da nominarsi.
In ogni caso, per quanto afferisce alla ricostruzione delle volontà della donna, in linea con quanto previsto dalla legge n. 219 del 2017 e dai principi stabiliti dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 21748/2007, il Comitato ha sottolineato la necessità di procedere ad una ricostruzione quanto più solida e genuina possibile, mediante l’analisi complessiva di tutti gli elementi utili.
Sulla base delle intervenute determinazioni qualificate, il padre di Samantha ha rinnovato la richiesta di essere nominato amministratore di sostegno in favore della figlia, con espressa attribuzione del potere di assumere le decisioni e prestare il consenso idoneo a interrompere le attuali terapie ed i trattamenti di sostegno vitale. Il consenso rileverebbe altresì per selezionare, di concerto con i medici, le modalità di sospensione di tali trattamenti e di sedazione palliativa profonda, alla luce del quadro clinico e del parere del Comitato Etico.
Ebbene, dopo quasi un anno in stato vegetativo, con la pronuncia del Tribunale di Belluno del 4 novembre - nella forma di un decreto di apertura dell’amministrazione di sostegno in capo al richiedente - si è definita la vicenda giudiziaria della trentenne di Feltre, il tribunale autorizzando il padre a “staccarle la spina”, previo parere dei medici.
Per meglio dire, sebbene il giudice tutelare chiarisca che la decisione sul fine vita per Samantha debba essere in concreto assunta dai medici - melius dietro loro parere - non può non intravedersi nel provvedimento in esame una delibera dalla portata storica, rivoluzionaria perché dimostra che anche senza disposizioni scritte le volontà possono e devono essere rispettate. Una decisione pronta a tenere vivo il dibattito sulla complessa questione del fine vita, vieppiù in considerazione delle sopraggiunte novità in tema di autorizzazione al suicidio assistito.
La decisione del Tribunale di Belluno rimbomba nelle parole dei familiari di Samantha, memori della solidarietà manifestata dalla figlia nei noti casi di fine vita di Eluana Englaro e Dj Fabo, e a tutti gli effetti appare come la concessione di un “atto d’amore”, la libertà di scegliere la fine quando “la vita in un letto, tra dolori e sofferenze, non è più vita, non è dignità, ma soltanto patimento”.
2. Commento alla pronuncia del Tribunale di Belluno: fondamento normativo-giurisprudenziale e riflessioni a margine
Il percorso argomentativo intrapreso dal Tribunale di Belluno nella vicenda giudiziaria di Samantha D’Incà si pone a conclusione di una minuziosa disamina delle disposizioni normative e delle chiarificazioni giurisprudenziali sul punto.
Il giudice di Belluno, in prima battuta, evidenzia che la legge 22 dicembre 2017 n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) – attuativa dei principi di cui agli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione e degli artt. 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea – tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all'autodeterminazione della persona, stabilendo che nessun trattamento sanitario possa essere iniziato o proseguito senza il consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge. A tal fine, sono considerati trattamenti sanitari- in quanto tali rinunciabili- anche la nutrizione e idratazione artificiali, consistendo nella somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici.
La possibilità che ad assumere tali determinazioni sia un amministratore di sostegno sorge all'art. 3, comma 4, della stessa legge, disponendo che, nel caso in cui sia stato nominato un ads la cui nomina preveda l'assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, il consenso informato è espresso o rifiutato anche dall’ads ovvero solo da quest'ultimo, purché si tenga conto della volontà del beneficiario, in riferimento al suo grado di capacità di intendere e di volere.
Nondimeno, un evidente limite al raggio di azione dell’amministratore è sancito al comma 5, che precisa che, qualora l’ads, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT), rifiuti le cure proposte mentre il medico le ritenga appropriate e necessarie, la decisione debba essere rimessa al giudice tutelare.
A tal riguardo, il Tribunale rinvia alla sentenza della Corte Costituzionale 13 giugno 2019, n. 144, che ha chiarito come l’esegesi dell’art. 3, commi 4 e 5, della legge n. 219 del 2017, non consenta di affermare che il conferimento della rappresentanza esclusiva in ambito sanitario rechi ex se, automaticamente e necessariamente, il potere di rifiutare i trattamenti sanitari necessari al mantenimento in vita. Lungi da qualsivoglia automatismo, le norme sopra menzionate si limiterebbero a disciplinare il caso in cui l’amministratore di sostegno abbia ricevuto anche tale potere, spettando solo al giudice tutelare, in ogni caso, attribuirglielo in occasione della nomina, sempre che in concreto ne ricorra l’esigenza. Detta prerogativa in capo al giudice tutelare comporta che lo stesso verifichi la sussistenza di condizioni di salute tali da rendere necessaria una decisione sull’accettazione ovvero il rifiuto dei trattamenti sanitari di sostegno vitale.
La questione in esame, in linea con l’analisi del giudice di Belluno, si inquadra pacificamente in una nuova dimensione del concetto di salute, da intendersi non come mera assenza di malattia, bensì come stato di completo benessere psico-fisico. Ed è in questo contesto che la giurisprudenza richiamata dal Tribunale afferma la necessità che il consenso all’interruzione dei trattamenti sanitari, manifestato dal “rappresentante legale” del soggetto incapace, sia effettivamente espressivo della volontà dell’interessato.
Invero, la volontà del paziente deve ricostruirsi sulla base delle sue precedenti dichiarazioni e della sua personalità, del suo stile di vita e dei suoi convincimenti etico-religiosi, risultanti da elementi di prova chiari, univoci e convincenti, affinché sia garantita una decisione nell'esclusivo interesse dell'incapace. Si tratterebbe, dunque, della ricerca del best interest, l’ads dovendo assumere le decisioni non "al posto" dell'incapace né "per" l'incapace, ma "con" l'incapace, ricostruendo quanto più minuziosamente possibile la presunta volontà del paziente prima di cadere in stato di coscienza.
Una ricerca di notevole complessità, che mira a indagare i desideri espressi dal paziente prima della perdita della coscienza ovvero a desumere la volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche.
Forte di tali precedenti giurisprudenziali, il giudice di Belluno ha ribadito la necessità – in assenza di espresse Disposizioni Anticipate di Trattamento redatte nelle forme previste dall’art. 4 della legge 22 dicembre 2017 n. 219 – di procedere alla ricostruzione della volontà di Samantha, sulla base delle dichiarazioni rese dai familiari dell’interessata nel corso del procedimento.
Sul punto, il padre della beneficiaria ha riferito la ferma volontà di Samantha, emersa limpidamente nel corso della vita vissuta accanto alla famiglia, di non essere lasciata in condizioni di coma nel caso in cui si fosse trovata tenuta in vita da macchinari, in assenza di una possibilità di risveglio; in spregio a qualsiasi accanimento su chi non è in grado di esprimere la propria volontà. Un trattamento di questo tipo, nella ricostruita volontà di Samantha, sarebbe egoista e disumano.
Nondimeno, il Tribunale ha specificato come solamente a seguito della proposta di trattamento sanitario, formulata dal medico nell’interesse del beneficiario, l’amministratore di sostegno sia chiamato ed autorizzato – in forza di uno specifico provvedimento emesso dal giudice tutelare – ad esprimere (o rifiutare) il consenso informato riguardo alle cure proposte ed ai trattamenti necessari al sostegno vitale, senza che all’attribuzione del potere di prestare (o negare) tale consenso possa ricollegarsi quello di revocare un consenso già prestato o di sollecitare attivamente l’interruzione di tali trattamenti.
E ciò a maggior ragione in un caso come quello in esame, ove la beneficiaria del trattamento di sostegno vitale, da meno di un anno in uno stato vegetativo dichiarato irreversibile, ha appena trent’anni e non ha redatto espresse disposizioni anticipate di trattamento. Tali circostanze hanno imposto al giudice di applicare un principio generale di precauzione, ancor prima di ogni considerazione di carattere etico, atto ad accogliere un’interpretazione necessariamente restrittiva delle disposizioni della legge 22 dicembre 2017, n. 219.
Dopo aver delineato il quadro normativo-giurisprudenziale sopra ricostruito, il giudice ha nominato e attribuito all'amministratore di sostegno i poteri necessari alla cura e assistenza di Samantha e alla sua rappresentanza in via esclusiva, ivi compreso il potere di esprimere, in nome e per conto di lei, il consenso informato al compimento di tutte le necessarie attività diagnostiche, terapeutiche o chirurgiche.
Per quel che rileva maggiormente, è stato altresì’ attribuito all’ads il potere di prestare il consenso all’eventuale interruzione delle attuali terapie e dei trattamenti di mantenimento in vita della stessa, compresa la desistenza dalla nutrizione artificiale somministrata mediante PEG, purché a seguito di specifica proposta dei medici aventi in cura la paziente. I sanitari, difatti, in tanto potranno proporre interventi in tale direzione in quanto sussistano le condizioni di un severo aggravamento e di mancata risposta alle cure erogabili ovvero in presenza di rischi di complicanze, così come ribadito dal Comitato Etico per la Pratica Clinica dell’U.L.S.S. n. 1 Dolomiti.
Questa precisazione impone di scegliere, in concerto con i medici, le modalità di interruzione dei trattamenti ed il percorso di sedazione palliativa profonda idoneo a evitare qualsiasi fonte di sofferenza o dolore. Per converso, deve escludersi il conferimento di un autonomo potere di revoca del consenso (nonché di impulso all’interruzione) rispetto ai trattamenti di sostegno vitale attualmente in corso.
La disamina dell’iter logico argomentativo disegnato dal giudice tutelare del Tribunale di Belluno consente di trarre almeno due conclusioni di immediata percezione.
In primo luogo, la circostanza per cui dietro il consenso all’interruzione di trattamenti vitali si pone un’imprescindibile attività di concerto con i sanitari interessati - i soli a poter dare impulso e proposta alle procedure di interruzione - dimostra come il giudice abbia inteso sottrarre le determinazioni del caso a qualsiasi forma di automatismo e di arbitrarietà da parte dell’ads nominato. Come a voler sancire che, fermo il riconoscimento del potere di rifiutare i trattamenti salvavita, la parola Fine può essere pronunciata allorquando sussista la vigilanza, il concerto e l’osservazione da parte di soggetti “terzi e qualificati”.
La seconda conclusione che si legge marcatamente tra le righe delle dodici pagine del provvedimento, emergendo in formula limpida, è l’importanza delle Disposizioni Anticipate di Trattamento.
La ormai nota novità introdotta dalla Legge n. 219/2017 in merito alle D.A.T. appare di estrema rilevanza perché consente di esprimere anticipatamente le proprie volontà in ordine ai trattamenti sanitari, con una dichiarazione efficace per il futuro nell’ipotesi cui sopravvenga un’incapacità di autodeterminarsi. Il sanitario è, per ciò solo, tenuto al rispetto delle disposizioni anticipate di trattamento e può disattenderle, in accordo con il fiduciario, solo nel caso in cui appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica del paziente, ovvero per sopravvenienza di terapie non prevedibili al momento della redazione, idonee a garantire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita del paziente.
Nel panorama del fine vita, il ricorso alle DAT dimostra la sua urgenza soprattutto in casi come quello di Samantha, ove prestabilire anticipatamente punti fermi mette la persona in condizione di confrontarsi con un medico che le spieghi i trattamenti da ricevere o non in caso di futura incapacità di autodeterminazione, e/o con uno psicologo, trattandosi di una scelta che in larga misura dipende dai propri valori e dai limiti che si decide di fissare.
Un colloquio, quello sulle Dat, che parte sempre dalla persona, dalle sue conoscenze e da domande specifiche, soprattutto quando non si abbia una ferma conoscenza della legge, ma un forte desiderio di autodeterminazione. Redigere le DAT si traduce, allora, in una decisa espressione di autodeterminazione personale, imprescindibile per non lasciare ad altri il peso di scelte che possono essere difficilissime e che rischiano, fatalmente, di discostarsi dalla volontà dell’interessato, affinché spetti a lui e solo a lui dire la parola Fine.
3. Note di aggiornamento in tema di fine vita: l’autorizzazione al primo suicidio assistito in Italia tra innovazione e incertezze applicative
La storia di Samantha, stavolta osservata da lontano, non porta alla luce il solo tema delle DAT ma, in una prospettiva più ampia, tutto il macro-cosmo del fine vita, che al suo interno ricomprende almeno due grandi fenomeni: quello dell’eutanasia legale, in relazione al quale in Italia è in corso un iter referendario volto alla parziale abolizione dell’art. 579 c.p. nella fattispecie del reato di omicidio del consenziente, sì da consentire le pratiche di eutanasia attiva; quello del suicidio assistito, per cui recentemente si è compiuta un’innovazione tanto notevole quanto foriera di incertezze applicative.
Per meglio dire, lo scorso 23 novembre il comitato etico dell’azienda sanitaria delle Marche ha autorizzato il suicidio assistito di Mario, un paziente tetraplegico immobilizzato da dieci anni a causa di un incidente stradale e in condizioni irreversibili, dopo che a giugno il Tribunale di Ancona aveva ordinato di verificare se esistessero o meno le condizioni necessarie a tal fine. Il giudice anconetano aveva così riconosciuto in capo a Mario un vero e proprio “diritto all’accertamento” dei presupposti ritenuti necessari secondo la Corte Costituzionale.
Per la prima volta in Italia un’azienda sanitaria locale ha autorizzato il suicidio assistito ed applicato un’importante sentenza della Consulta del 2019 - pronunciata in relazione al noto caso Fabo e al processo in capo al leader radicale Marco Cappato - secondo la quale non è punibile il mero aiuto alla realizzazione di un proposito suicidario autonomamente cristallizzatosi, purché siano rispettate alcune condizioni.
La decisione dell’ASL Marche si innesta nella vicenda di fine vita di Mario, la cui richiesta di suicidio assistito era stata avanzata nell’agosto del 2020 e inizialmente respinta dall’ASL, rifiutandosi di attivare le procedure di accertamento indicate dalla sentenza della Corte Costituzionale per la non punibilità degli interventi di aiuto al suicidio. Tali condizioni impongono che il paziente, tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sia affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze psico-fisiche che egli reputa intollerabili.
Mario aveva quindi presentato un’istanza al Tribunale di Ancona, che in un primo momento aveva ribadito le ragioni dell’ASL e pur riconoscendo nel paziente i requisiti previsti dalla Consulta, non aveva ritenuto possibile obbligare gli operatori sanitari a garantire il diritto al suicidio assistito.
L’uomo aveva quindi presentato un ulteriore reclamo, a seguito del quale il Tribunale di Ancona aveva ribaltato la precedente decisione e ordinato all’azienda sanitaria delle Marche non di garantire il suicidio assistito bensì di verificare i criteri utili alla non punibilità dell’aiuto al suicidio.
Pertanto, il comitato etico dell’azienda, organismo indipendente di medici e psicologi chiamato a garantire la tutela dei diritti dei pazienti, ha riconosciuto nel paziente la sussistenza delle condizioni imposte dalla Consulta per l’accesso al suicidio assistito, specificando, tuttavia, che restano da individuare le modalità di attuazione.
Per meglio delineare il macro-cosmo del fine vita, deve precisarsi che il suicidio assistito è altro dall’eutanasia, nel suicidio assistito il farmaco necessario a uccidersi venendo autonomamente assunto dal paziente. Nell’eutanasia, per contro, il medico riveste un ruolo attivo e determinante, provvedendo a somministrare direttamente il farmaco e non limitandosi a sospendere le cure o i macchinari salvavita.
Dal punto di vista della normazione dei fenomeni delineati, attualmente in Italia manca una disciplina legislativa tanto dell’eutanasia attiva quanto del suicidio assistito, venendo in rilievo la sola sentenza della Corte Costituzionale sul caso Cappato. Per converso, l’eutanasia passiva, da intendersi come mero rifiuto delle cure, è consentita e regolata dalla legge sul testamento biologico.
Per quanto attiene all’eutanasia attiva, si ribadisce, è in corso la proposta di un referendum per cui a ottobre sono state depositate alla Corte di Cassazione più di un milione di firme e che se venisse autorizzato dovrebbe svolgersi il prossimo anno, abrogando una parte dell’articolo 579 del codice penale, in modo da consentire le pratiche eutanasiche “attive”.
È evidente che, l’intervenuto riconoscimento dell’aiuto al suicidio, per quanto rivoluzionario, lasci aperte e sospese notevoli incertezze sulle modalità attuative. Nel caso di specie, Mario nella sua richiesta aveva fatto una proposta sul farmaco da somministrare per accedere al suicidio assistito (il tiopentone sodico) e sul dosaggio da utilizzare, ma il comitato ha avanzato molteplici perplessità, sostenendo che il dosaggio richiesto (20 grammi) costituirebbe una quantità non supportata da letteratura scientifica e rilevando che la richiesta sarebbe manchevole delle specifiche modalità con cui procedere tecnicamente alla somministrazione.
Nell’orbita di tali incertezze, dopo la decisione del comitato etico dell’Asur, la Regione Marche ha comunicato che dovrà essere il tribunale di Ancona, con nuova decisione, a determinare se il paziente tetraplegico potrà avere diritto al suicidio medicalmente assistito; quasi a rivelare un’amara verità, che ad ogni prudente passo avanti in tema di fine vita debba seguire qualche diffidente passo indietro, qualche passaggio di testimone ai giudici che, ancora una volta, sono chiamati a “dettare legge”.
Del resto, il problema principale in materia permane quello legislativo, mancando una legge sul suicidio assistito, dietro il silenzio del Parlamento e la ritrosia, più o meno espressa, dei partiti politici. Sebbene una proposta di legge in materia di morte volontaria medicalmente assistita sia all’esame delle commissioni Giustizia e Affari sociali della Camera, c’è la concreta possibilità che prima dell’approvazione della legge si concluda l’iter referendario sull’eutanasia legale.
Se questo è lo stadio attuale del fine vita in Italia, allora le storie di Dj Fabo, ieri, di Samantha D’Incà, oggi, di Mario, ancora, rivelano un unico dato di fatto: nell’incerto macro-cosmo del fine vita, l’unica certezza pare essere rappresentata dal ricorso al “rinvio indietro” ai giudici, chiamati a dare corso ad una “giurisprudenza creativa”, quella che ad oggi sembra essere l’unica a decidere davvero a chi (e come) spetti pronunciare la parola Fine.
Riferimenti
1) Corte Costituzionale, sentenza del 13 giugno 2019, n. 144;
2) Corte Costituzionale, sentenza del 25 settembre 2019, n. 242;
3) Corte di Cassazione, sentenza del 4 ottobre 2007 n. 21748;
4) Legge sul Consenso Informato e sulle DAT del 22 dicembre 2017 n. 219, pubblicata in G.U. del 16 gennaio 2018, n. 12;
5) Passaro D., Lo scenario italiano del fine vita, in Giustizia Insieme, 15 aprile 2019;
6) Passaro D., A sostegno e a difesa della persona umana: il diritto al rifiuto delle cure tra poteri dell’ADS e prerogative del giudice tutelare., in Giustizia Insieme , 24 marzo 2020;
7) Passaro D., La rivoluzione “clandestina” dopo il caso Dj Fabo: commento alla sentenza del Tribunale di Ancona del 9 giugno 2021, in Giustizia Insieme, 9 luglio 2021;
8) Tribunale di Ancona, ordinanza del 9 giugno 2021.
Temporaneità, eccezionalità e gradualità delle misure per fronteggiare l’emergenza pandemica: la sospensione “prorogata” dell’esecuzione degli sfratti al vaglio della Corte costituzionale (nota a Corte cost. n. 213/2021)
di Francesco Taglialavoro
Sospensione dell’esecuzione degli sfratti per morosità: compressione del diritto di proprietà e solidarietà sociale alla prova dell’emergenza pandemica.
Sommario: 1. Introduzione - 2. Il caso - 3. La normativa di riferimento - 4. La questione di legittimità costituzionale - 4.1. I parametri evocati dai giudici remittenti - 4.2. Le considerazioni dell’Avvocatura generale dello Stato - 4.3. Ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale - 4.4. La decisione della Consulta - 5. Considerazioni conclusive.
1. Introduzione
Con una sentenza formalmente limitata alla sospensione dell’esecuzione degli sfratti per morosità, come da ultimo prorogata sino al 31 dicembre 2021, la Corte costituzionale fornisce parametri utili per valutare la legittimità anche di altri provvedimenti di contrasto alla pandemia da SARS COV 2.
Al contrario di quella relativa alla sospensione delle procedure esecutive per pignoramento immobiliare, dichiarata incostituzionale con la recente sentenza n. 128/2021[1], la proroga dell’esecuzione degli sfratti per morosità non contrasta con gli articoli 3, 24, 42, 77 e 111 della Costituzione poiché, a differenza della prima, rispetta i principi della temporaneità e della gradualità.
La compressione del diritto di proprietà del locatore, secondo la Corte, ha però raggiunto «il limite massimo di tollerabilità», ragione per la quale la sospensione deve ritenersi «senza possibilità di ulteriore proroga»: in altri termini, pur permanendo l’eccezionalità delle circostanze che hanno portato all’adozione della misura e anche a fronte di una eventuale nuova graduazione della stessa, un’ulteriore proroga farebbe venir meno il requisito della temporaneità, con la conseguente prevalenza, nel bilanciamento dei contrapposti interessi, di quello – ad oggi parzialmente sacrificato – del locatore.
2. Il caso
La pronuncia annotata trae origine da due giudizi, rispettivamente celebratisi innanzi ai Tribunali di Trieste e di Savona.
Nel primo[2], a fronte del rifiuto dell’ufficiale giudiziario di procedere alla notifica del preavviso di rilascio, il creditore ricorreva ai sensi dell’art. 610 c.p.c., richiamando il titolo costituito dall’ordinanza di convalida dello sfratto del 25 gennaio 2021 – emessa, però, in relazione ad una morosità risalente al luglio del 2019 – e chiedendo sollevarsi la questione di legittimità costituzionale della normativa che ne aveva impedito l’esecuzione.
Nel secondo[3], anche in questo caso in relazione ad una morosità risalente al 2019, la locatrice aveva ottenuto la convalida dello sfratto il 20 gennaio 2021 e ne aveva minacciato l’esecuzione il 15 marzo 2021: a fronte del rifiuto dell’ufficiale giudiziario di procedere all’esecuzione, motivato richiamando la «attuale impossibilità ex lege di procedere», la locatrice ricorreva al Tribunale, deducendo l’illegittimità costituzionale del «regime di sospensione dell’esecuzione dei provvedimenti di rilascio degli immobili, disposta in origine dall'art. 103, comma 6, del decreto-legge n. 18 del 2020, convertito nella legge n. 27 del 2020 e successive proroghe».
Nei casi sinteticamente descritti, dunque, gli ufficiali giudiziari avevano semplicemente applicato la legge, rifiutandosi, del tutto legittimamente, di dar corso alle minacciate esecuzioni.
Si ritiene utile, pertanto, iniziare questo commento da una schematica ricostruzione del quadro normativo, la cui evoluzione, peraltro, è stata decisiva per il rigetto della questione di legittimità costituzionale.
3. La normativa di riferimento
Nell’ambito di un più complessivo quadro di misure volte a fronteggiare l’emergenza pandemica causata dal SARS COV 2, il Governo ha disciplinato il tema della sospensione dell’esecuzione dei provvedimenti di rilascio di immobili con diverse previsioni, tutte contenute in decreti legge poi convertiti.
L’evoluzione del quadro normativo è stata la seguente.
A) Con l’art. 103, comma 6, del decreto legge n. 18 del 2020[4] è stata prevista la sospensione dei provvedimenti di rilascio degli immobili, anche a uso non abitativo, fino al 1° settembre 2020.
La latitudine del provvedimento è ampia perché, in applicazione dello stesso, sono state sospese le esecuzioni di tutti i provvedimenti di rilascio, a prescindere dalla loro fonte (che poteva essere uno sfratto per morosità, una licenza per finita locazione, l’esecuzione di un provvedimento di sequestro giudiziario, etc.).
B) Con l’art. 17-bis del decreto legge n. 34 del 2020[5] è stata prorogata la sospensione dei soli provvedimenti di rilascio pronunciati nell’ambito di procedimenti di sfratto per morosità o per finita locazione, al 31 dicembre 2020.
La norma, quindi, ha operato una prima restrizione del perimetro operativo della sospensione, escludendone l’applicabilità a tutti i provvedimenti di rilascio fondati su titoli diversi da uno sfratto per morosità o per finita locazione.
C) Con l’art. 13, comma 13, del decreto legge n. 183 del 2020[6], la sospensione della esecuzione è stata prorogata al 30 giugno 2021, limitatamente ai provvedimenti di rilascio adottati per mancato pagamento del canone alle scadenze.
Il perimetro della proroga viene quindi ulteriormente circoscritto, espungendo dal campo di applicazione l’esecuzione fondata sugli sfratti per finita locazione.
Quindi:
- Dal primo settembre 2020 è ripresa l’esecuzione degli ordini di rilascio fondati su titoli diversi dallo sfratto per morosità o per finita locazione;
- Dal 31 dicembre 2020 è ripresa l’esecuzione degli ordini di rilascio fondati sugli sfratti per finita locazione;
- Le esecuzioni relative agli sfratti per morosità restavano sospese sino al 30 giugno 2021.
D) Con l’art. 40-quater del decreto legge n. 41 del 2021[7], riguardante la sospensione degli sfratti per morosità, è stato infine introdotto un regime di proroga differenziato in base al giorno di adozione del provvedimento di rilascio.
Nello specifico: per i provvedimenti adottati dal 28 febbraio 2020 al 30 settembre 2020, la proroga si estende sino al 30 settembre 2021; per i provvedimenti adottati sino dal primo ottobre 2020 sino al 30 giugno 2021, la proroga si estende sino al 31 dicembre 2021.
Il quadro relativo ai soli sfratti per morosità è quindi il seguente:
- sfratti convalidati prima del 28 febbraio 2020: scadenza proroga 30 giugno 2021.
- sfratti convalidati dal 28 febbraio 2020 al 30 settembre 2020: scadenza proroga 30 settembre 2021;
- sfratti convalidati dal 1°ottobre 2020 al 30 giugno 2021: scadenza proroga 31 dicembre 2021;
- sfratti convalidati dopo il 30 giugno 2021: nessuna sospensione.
4. La questione di legittimità costituzionale
4.1 I parametri evocati dai giudici remittenti
Il Tribunale di Trieste, ritenuta la non manifesta infondatezza delle doglianze della ricorrente, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 103, comma 6, del decreto legge 17 marzo 2020 n. 18, dell'art. 17-bis del decreto legge 19 maggio 2020, n. 34; e dell’art. 13, comma 13, del decreto legge 31 dicembre 2020, n. 183.
Si tratta, evidentemente, di tutta la normativa richiamata nel precedente § 3 ad eccezione dell’art. 40-quater del decreto legge n. 41 del 2021, sopravvenuto all’ordinanza di rimessione (datata 24 aprile 2021, mentre l’art. 40-quater è stato introdotto dalla legge di conversione il 21 maggio 2021).
Il Tribunale di Savona, ritenuta rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, ha sollevato la questione in relazione a tutta la normativa qui scrutinata, compreso l’art. 40-quater del decreto legge n. 41 del 2021, con la sola eccezione dell’art. 17-bis del decreto legge n. 34 del 2020, non reputato pertinente.
Quanto ai parametri, entrambi i giudici hanno evocato il possibile contrasto con gli articoli 3, 24, 42 e 117 della Costituzione.
Il Tribunale di Trieste ha aggiunto anche la possibile violazione degli articoli 47 e 77 mentre il Tribunale di Savona ha richiamato anche gli articoli 11, 41, 111 della Costituzione nonché l’art. 6 della CEDU e l’art. 47 della CDFUE.
Quanto all’articolo 3, entrambi i remittenti hanno segnalato l’intrinseca contraddittorietà della disciplina sottesa alle disposizioni impugnate: la sospensione dell’esecuzione dei rilasci ha, infatti, natura generalizzata e prescinde da una indagine sulla causa della morosità (che può ben risalire, al contrario, a periodi antecedenti all’emergenza pandemica[8]).
Il giudice, peraltro, non ha neppure il potere di operare un bilanciamento tra i contrapposti interessi, anche in relazione all’incidenza degli effetti della pandemia nelle rispettive situazioni personali, con l’effetto di rendere la sospensione del tutto irrazionale, soprattutto quando, come nel caso posto all’attenzione del Tribunale di Savona, sia proprio il locatore a versare in situazione di difficoltà economica.
Sarebbe tutelato, in sintesi, esclusivamente il diritto del conduttore di disporre dell’immobile, senza alcun bilanciamento con il diritto del locatore.
Quanto all’articolo 11, la censura va ovviamente letta in correlazione a quella fondata sugli articoli 111 e 117 della Costituzione richiamati in relazione agli articoli 6 della CEDU e dell’art. 47 della CDFUE: secondo il Tribunale di Savona, la normativa scrutinata, impedendo la concreta realizzazione del diritto accertato in sede di cognizione, priverebbe il locatore del diritto di accesso alla giustizia.
Connessa a questa argomentazione è, intuitivamente, quella fondata sulla possibile violazione dell’articolo 24: entrambe le ordinanze hanno ritenuto che le norme scrutinate, impedendo l’esecuzione del rilascio dell’immobile, sottraggano al creditore il diritto di accesso alla tutela esecutiva che è parte essenziale della tutela giurisdizionale.
Quanto all’articolo 42, la continua proroga della sospensione dei rilasci costituirebbe un’espropriazione sostanziale senza indennizzo, con l’aggravante (aggiunge il Tribunale di Savona anche in relazione all’articolo 41), delle difficoltà per il locatore di recuperare ex post i canoni dovuti. Secondo il Tribunale di Trieste, in questo modo, si violerebbe anche la tutela del risparmio nel settore immobiliare riconosciuta dall’art. 47.
Il solo Tribunale di Trieste ha rilevato, infine, la possibile contrarietà dell’articolo 13, comma 13, del decreto legge 31 dicembre 2020, n. 183, con l’articolo 77 della Costituzione, per assenza dei presupposti di necessità e urgenza «laddove le disposizioni di legge impugnate (…) concorrono a sospendere provvedimenti di rilascio per situazioni di morosità (…) le quali si siano verificate anteriormente al manifestarsi della emergenza sanitaria per la pandemia».
Il Tribunale triestino richiama anzitutto la giurisprudenza costituzionale per la quale la violazione 77 Cost. ricorre nei riguardi di disposizioni “estranee” o addirittura “intruse” rispetto all’oggetto della decretazione d’urgenza: nel caso scrutinato, secondo il remittente, l’art. 13, comma 13, del decreto legge 31 dicembre 2020, n. 183 sarebbe anzitutto «per se stesso inserito in una decretazione dedicata a situazioni altre e diverse (più precisamente "termini legislativi", "realizzazione di collegamenti digitali", "esecuzione della decisione (UE, EURATOM) 2020/2053 del Consiglio, del 14 dicembre 2020" e "recesso del Regno Unito dall'Unione europea") rispetto alle quali la disciplina del rilascio degli immobili è sicuramente inconferente»; in secondo luogo, la proroga prevista dall’articolo scrutinato sarebbe in realtà estranea alla normativa dedicata all’emergenza epidemiologica, perché applicabile anche in relazione a morosità che – se preesistenti alla pandemia – nulla avrebbero a che vedere con la stessa.
4.2. Le considerazioni dell’Avvocatura generale dello Stato
Intervenuto in entrambi i giudizi di legittimità costituzionale, il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato dall’Avvocatura generale dello Stato, ha chiesto il rigetto dei ricorsi per manifesta infondatezza di tutte le prospettate questioni.
Nello specifico:
- quanto all’articolo 3 della Costituzione, entrambi i remittenti non avrebbero colto la ratio legis sottesa alla normativa censurata, che non consisterebbe nella tutela del conduttore incolpevole, ma andrebbe ricercata nella salvaguardia del diritto all’abitazione in una situazione emergenziale nella quale doveva essere garantito il mantenimento dell’ordine pubblico.
- quanto alle censure fondate sugli articoli 11, 111, 117 Cost., 6 CEDU e 47 CDFUE, lette anche in correlazione con la asserita violazione dell’art. 24 Cost. (ricordiamo che, in sintesi, i remittenti paventavano un possibile diniego di giustizia per impossibilità di accesso alla tutela esecutiva), secondo la difesa statale la tutela esecutiva non sarebbe impedita ma soltanto ritardata, in virtù, peraltro, di norme la cui efficacia è destinata a esaurirsi in via definitiva il 31 dicembre 2021.
Non solo: «una ripresa indistinta delle procedure esecutive di rilascio dopo la data del 30 giugno 2021, oltre a problemi di ordine pubblico e sociale, avrebbe determinato una grave sofferenza della macchina organizzativa preposta all’attuazione dei provvedimenti da eseguire».
- Quanto alla possibile violazione degli articoli 42 e 47 della Costituzione, le norme censurate non costituirebbero un’espropriazione in senso sostanziale e non si porrebbero in contrasto con la tutela del risparmio immobiliare, attesa la natura temporanea dei provvedimenti.
- Quanto, infine, alla censura fondata sull’art. 77 della Costituzione, la disposizione di cui all’art. 13, comma 13, si inserirebbe coerentemente nell’ambito del decreto legge 31 dicembre 2020, n. 183, cosiddetto “mille proroghe” «volto, per l’appunto, a procrastinare la vigenza di alcune disposizioni normative, molte delle quali correlate, come l’art. 103, comma 6, del predetto d.l. n. 18 del 2020, all’emergenza epidemiologica da Covid-19».
Il ragionamento è semplice: l’articolo 13, comma 13, proroga la vigenza di una previsione normativa (di una sospensione, nello specifico) ed è inserita in un decreto dichiaratamente volto a prorogare una serie di disposizioni normative. Non sussiste, quindi, alcuna “estraneità” della disposizione rispetto al decreto in cui la stessa è inserita.
4.3. Ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale
Dopo una schematica ricostruzione del quadro normativo, la Consulta affronta il tema dell’ammissibilità delle prospettate questioni.
Poiché lo scrutinio deve essere circoscritto alle disposizioni in concreto applicabili (entrambi i giudizi erano relativi a esecuzioni “tentate” nel 2021), la Corte reputa inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione all’art. 103, comma 6, del decreto legge n. 18 del 2020 (che aveva previsto la sospensione delle esecuzioni fino al 30 giugno 2020), e all’art. 17-bis del d.l. n. 34 del 2020 (che aveva prorogato detta sospensione sino al 31 dicembre 2020).
Quanto all’art. 40-quater del decreto legge n. 41 del 2021, che, come si ricorderà, non era stato censurato dal Tribunale di Trieste in quanto successivo all’ordinanza di rimessione, secondo la Consulta non occorre disporre la restituzione degli atti al giudice per un nuovo esame, poiché lo ius superveniens «ha semmai aggravato, non certo ridimensionato, il vulnus denunciato dal giudice rimettente»: le stesse questioni sollevate dal Tribunale triestino in relazione all’articolo 13, comma 13, del decreto legge n. 183 del 2020, possono quindi essere riferite anche alla disposizione sopravvenuta (comunque censurata dal Tribunale di Savona).
Quanto ai parametri, la Consulta reputa inammissibili le censure fondate sull’asserita violazione dell’art. 47 CDFUE: la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea può essere infatti invocata quale parametro interposto soltanto quando la fattispecie oggetto di legislazione interna sia disciplinata anche dal diritto europeo. La questione è dunque inammissibile poiché il remittente non ha indicato «perché, e in che termini, la fattispecie sarebbe disciplinata dal diritto europeo».
La Corte dichiara infine inammissibili le censure prospettate dal Tribunale di Savona in relazione agli articoli 11 e 41 della Costituzione in quanto «del tutto prive di motivazione, limitandosi il giudice rimettente a evocare i parametri costituzionali, senza alcuna specifica adeguata illustrazione dei motivi di censura».
Tutte le altre questioni sono ammissibili.
Ma infondate.
4.4. La decisione della Consulta
La Corte costituzionale reputa portante la censura fondata sulla violazione dell’art. 3 della Costituzione e, a questa, dedica la parte più ampia e interessante della decisione.
Si analizzeranno per prime le questioni definite complementari.
Per quanto attiene alla possibile violazione dell’art. 77 della Costituzione, la proroga prevista dall’articolo 13, comma 13, del decreto legge n. 183 del 2020, formalmente inserita in un decreto legge dal contenuto assai eterogeneo, sarebbe – secondo il Tribunale di Trieste – estranea o addirittura “intrusa” rispetto alle norme approvate per fronteggiare l’emergenza pandemica, in quanto riferibile anche a morosità che, con essa, nulla hanno a che vedere: quest’ultimo dato, peraltro, priverebbe la norma dei fondamentali requisiti della necessità e dell’urgenza.
La Consulta giudica la questione è infondata: la disposizione censurata si colloca all’interno di un provvedimento dal contenuto dichiaratamente eterogeneo, rispetto al quale la proroga dalla stessa prevista non può certamente ritenersi estranea o addirittura intrusa.
In altri termini: una disposizione che “proroga” la vigenza della sospensione dell’esecuzione dei rilasci non può certamente ritenersi estranea rispetto a un decreto legge definito, appunto, mille proroghe.
Del resto, premette la Corte, l’urgente necessità di provvedere può riguardare «una pluralità di norme accomunate dalla natura unitaria delle fattispecie disciplinate, ovvero anche dall’intento di fronteggiare situazioni straordinarie, complesse e variegate, che richiedono interventi oggettivamente eterogenei, afferenti quindi a materie diverse (sentenze n. 149 del 2020, n. 137 del 2018, n. 170 e n. 16 del 2017 e n. 32 del 2014), ma indirizzati all’unico scopo di approntare rimedi urgenti per situazioni straordinarie venutesi a determinare».
Quanto alla possibile violazione dell’art. 42 della Costituzione, la Consulta ritiene infondata la censura perché non può dirsi sussistente un’espropriazione in senso sostanziale e senza indennizzo.
Anzitutto per la temporaneità della misura.
In secondo luogo perché, nella vigenza della sospensione, continuano comunque a maturare i canoni di locazione.
La Corte, del resto, ha costantemente ritenuto che l’ingerenza statale nel godimento dei beni sia ammissibile ove sussista un equilibrio tra il diritto sacrificato e l’interesse generale della collettività: nel caso di specie «l’emergenza pandemica, con la conseguente crisi economico-sociale, costituisce senz’altro un motivo imperativo di interesse generale idoneo a giustificare l’operatività della misura di sospensione».
Pure infondata è la censura dedotta in relazione all’articolo 24 della Costituzione (ma anche quelle sollevate in relazione agli articoli 11, 111, 117 Cost., e 6 CEDU).
Da un lato, in linea per così dire generale, il Legislatore gode di ampia discrezionalità nel conformare gli istituti processuali, col solo limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte compiute e conseguente compressione ingiustificabile del diritto di azione.
D’altro lato, nello specifico, la misura censurata è temporanea e non impedisce, quindi, in via definitiva, la promozione dell’azione esecutiva.
Veniamo, infine, alla censura fondata sulla possibile violazione dell’articolo 3 della Costituzione.
La normativa censurata sarebbe irrazionale perché, imponendo una sospensione generalizzata delle esecuzioni, senza alcuna valutazione della causa della morosità e non consentendo al giudice di operare un bilanciamento dei contrapposti interessi, finirebbe per sacrificare, in ogni caso, il diritto del locatore a beneficio di quello del conduttore.
Può dirsi, questo sacrificio, conforme al dettato costituzionale?
Secondo la Consulta si, ma soltanto a precise condizioni.
La Corte muove da una assai interessante ricostruzione delle esigenze che animarono i primi provvedimenti emergenziali, quelli che avevano disposto da un lato la sospensione di tutti i provvedimenti di rilascio di immobili, a prescindere, lo si ricorderà, dal titolo che ne aveva costituito il fondamento (art. 103, comma 6, del decreto legge n. 18 del 2020); dall’altro la sospensione di tutte procedure esecutive per pignoramento immobiliare aventi a oggetto l’abitazione principale del debitore (art. 54-ter del decreto legge n. 18 del 2020): il confronto tra l’evoluzione normativa di queste due discipline costituisce il tema portante della decisione annotata.
Analogo il punto di partenza, differenti gli sviluppi e, sia consentito, la sorte.
Il punto di partenza, comune, fu costituito dall’esplosione dell’emergenza pandemica, che colse impreparato l’intero ordinamento e, con esso, l’intera collettività: in un contesto quale quello vissuto nel marzo 2020, dominato dall’incertezza, anche scientifica, innanzi a ad un patogeno del tutto nuovo, appariva decisivo e urgente sospendere il più possibile ogni attività, ogni contatto, persino larga parte della macchina della giustizia.
Fu così, ad esempio, per la straordinaria sospensione di (quasi) tutti i termini processuali sull’intero territorio nazionale, originariamente prevista dall’art. 83 del decreto legge n. 18 del 2020 e poi prorogata, dall’art. 36 del decreto legge n. 23 del 2020, sino al giorno 11 maggio 2020.
La stasi di ampia parte del sistema giudiziario fu, peraltro, aspetto e non certo conseguenza di una più ampia sospensione delle attività che implicassero contatto fisico, con inevitabili ripercussioni sulle condizioni economiche di ampia fascia della popolazione italiana.
In questo contesto emerse, ancora più incisivamente, il dovere di solidarietà sociale previsto dall’art. 2 della Costituzione.
Emerse l’interesse dell’ordinamento ad evitare o quanto meno limitare tutte le attività che potessero creare pericolose occasioni diffusive del contagio; emerse, per quel che più specificamente riguarda la decisione annotata, l’esigenza di non privare anche piccola parte della popolazione del proprio alloggio (o della propria attività commerciale) nel perdurare di una situazione incerta e assai pericolosa per la salute pubblica.
E così, come si è accennato, i primi provvedimenti di sospensione ebbero carattere generale e assai ampio.
Due discipline corsero in parallelo: quella originariamente prevista dall’articolo 103, comma 6, del decreto legge n. 18 del 2020 (sospensione delle esecuzioni di tutti i provvedimenti di rilascio di immobili) e quella originariamente prevista dall’art. 54-ter del decreto legge n. 18 del 2020 (sospensione di tutte e esecuzioni per pignoramento immobiliare aventi a oggetto l’abitazione principale del debitore).
La seconda si arrestò, colpita dalla sentenza di illegittimità costituzionale n. 128 del 2021.
Perché?
Le due discipline, come visto, furono approvate nel medesimo periodo. Anzi: con lo stesso decreto legge.
La seconda, però, beneficiò di una proroga generalizzata, senza alcuna modifica del perimetro applicativo: una semplice proroga, in tal modo, di tutte le espropriazioni per pignoramento immobiliare aventi ad oggetto l’abitazione del debitore, proroga che non teneva in alcuna considerazione l’evoluzione del quadro pandemico e, con esso, della società italiana, lentamente (ma decisamente) ripresasi in seguito alla prima emergenza.
«Il bilanciamento sotteso alla temporanea sospensione delle procedure esecutive aventi ad oggetto l’abitazione principale è divenuto, nel tempo, irragionevole e sproporzionato, inficiando la tenuta costituzionale della seconda proroga» (così, nella sentenza 128 del 2021).
È vero, ragiona la Consulta nella decisione annotata, che in periodi emergenziali il dovere di solidarietà sociale consente al Legislatore un più ampio margine di discrezionalità nel disegnare misure di contrasto della pandemia, bilanciando la tutela di interessi e diritti in gioco.
Però il sacrificio per i locatori non poteva che essere temporaneo.
Così, all’inizio del par. 11.4 della sentenza annotata, manifestando anche graficamente il punto di svolta dell’argomentare e richiamando l’attenzione del lettore: in prima battuta quello del legislatore.
Le misure di contrasto alla pandemia, nello specifico quelle relative alla sospensione delle esecuzioni (espropriazioni o rilasci) devono rispettare i principi della eccezionalità, della temporaneità della gradualità: diversamente sono incostituzionali.
Eccezionalità è, nel periodare della Consulta, predicato della situazione che ha portato alla misura e non della misura medesima: questa è una riflessione importante, perché anche le emergenze si evolvono e, con esse, deve evolversi la disciplina che le fronteggia.
Di qui il ragionamento sulla gradualità e sulla temporaneità, caratteri, questi, riferiti alle misure.
Se si evolve l’emergenza, la disciplina da essa scaturita deve evolversi: ridimensionandosi o espandendosi, a seconda ovviamente dei casi: nel quadro pandemico italiano, a fronte di un progressivo miglioramento del quadro della crisi sanitaria (si pensi, ad esempio, alla mancanza persino di semplici mascherine o camici nel marzo 2020), le misure di contrasto vanno adeguate.
E dunque alleggerite.
Questa è la gradualità.
Il sacrificio di una parte della popolazione a vantaggio (anche indiretto) di un’altra, pur giustificato dai più volte richiamati doveri di cui all’art. 2 della Costituzione, non può comunque essere perpetuo: graduale la misura; temporaneo il sacrificio.
E sono queste le lenti con le quali la Corte analizza la normativa censurata.
Che ne esce indenne, a differenza di quella, semplicemente prorogata, in materia di espropriazioni immobiliari.
Si è visto: il quadro normativo si è evoluto. Dapprima una sospensione relativa a tutti i provvedimenti di rilascio, a prescindere dal titolo che li ordinasse; successivamente una limitazione del perimetro della misura escludendo dalla sospensione tutti i provvedimenti non relativi a sfratti per morosità o per finita locazione; poi la esclusione degli sfratti per finita locazione; infine la graduazione della permanenza della sospensione in ragione della data dell’ordinanza di convalida.
Condivisibile o meno questo ultimo parametro e, più in generale, il tratto della disciplina come graduata, non può revocarsi in dubbio che la normativa in questo specifico settore si sia evoluta. Come l’emergenza pandemica.
Ed è dunque rispettosa della Costituzione.
Per tornare alle parole della Consulta: «nel complesso, quindi, quanto alla proroga nel 2021 della sospensione dell’esecuzione dei provvedimenti di rilascio degli immobili, sono stati introdotti «adeguati criteri selettivi» (sentenza n. 128 del 2021), che invece sono mancati nella parallela previsione della proroga della sospensione delle esecuzioni aventi ad oggetto l’abitazione principale del debitore. Ciò rende non irragionevole la proroga, graduata nel tempo secondo le scadenze sopra indicate, della sospensione dell’esecuzione dei provvedimenti di rilascio per morosità».
Il sacrificio del locatore, siccome temporaneo, giustificato da una situazione emergenziale e imposto da una normativa che si è adeguata all’emergenza pandemica rispetta, dunque, la Costituzione.
Ma non può, si diceva, essere perpetuo.
Anzi, ed è questo il monito col quale si chiude la decisione annotata, «questa misura emergenziale è prevista fino al 31 dicembre 2021 e deve ritenersi senza possibilità di ulteriore proroga, avendo la compressione del diritto di proprietà raggiunto il limite massimo di tollerabilità, pur considerando la sua funzione sociale (art. 42, secondo comma, Cost.)».
5. Considerazioni conclusive
L’emergenza, in relazione ai doveri di solidarietà sociale di cui all’articolo 2 della Costituzione, giustifica dunque misure temporanee e graduali finalizzate al suo contenimento: è questo l’insegnamento più importante che può essere tratto dalla decisione annotata.
Se è la pandemia, dunque, la circostanza eccezionale che giustifica talune misure, le stesse devono però essere graduali e adeguante all’evoluzione della stessa.
Il sacrificio dei diritti individuali, inoltre, non può che essere temporaneo.
La decisione annotata, pur non riguardando né lo stato di emergenza né la generalità dei provvedimenti approvati per farvi fronte, offre pertanto utili spunti al Legislatore: lo stesso, chiamato a fronteggiare la pandemia, deve quindi sempre approvare e mantenere misure proporzionate e adeguate all’evoluzione della stessa.
[1] In Foro it. 2021, 9, I, 2620.
[2] Conclusosi con l’ordinanza n. 107 del 24 aprile 2021, consultabile in Rivista Giuridica dell’Edilizia 2021, 4, I, 1203 nonché sul sito internet della Gazzetta ufficiale al seguente collegamento: https://www.gazzettaufficiale.it/atto/corte_costituzionale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2021-07-14&atto.codiceRedazionale=21C00155
[3] Conclusosi con l’ordinanza n. 124 del 3 giugno 2021, consultabile sul sito internet della Gazzetta ufficiale al seguente collegamento:
https://www.gazzettaufficiale.it/atto/corte_costituzionale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2021-08-18&atto.codiceRedazionale=21C00185
[4] Come convertito nella legge n. 27 del 24 aprile 2020.
[5] Introdotto dalla legge di conversione n. 77 del 17 luglio 2020.
[6] C.d. decreto «mille proroghe», convertito nella legge n. 21 del 26 febbraio 2021.
[7] Introdotto dalla legge di conversione n. 69 del 21 maggio 2021.
[8] Si aggiunga che potrebbe verificarsi addirittura il contrario: nel caso di morosità verificatesi nel pieno dell’emergenza pandemica, ma accertate successivamente al 30 giugno 2021, infatti, l’esecuzione per il rilascio non è in ogni caso sospesa.
La giurisdizione sulla dismissione di quote azionarie pubbliche di una S.r.l. (Memoria del Procuratore generale Aggiunto della corte di Cassazione – sez. unite civili – causa r.g. 27289/2020 – udienza pubblica 23.11.2021)
Un ente locale propone ricorso per cassazione per motivi di giurisdizione avverso la sentenza del Consiglio di Stato che ha affermato la giurisdizione amministrativa nella causa avente ad oggetto l’impugnazione degli atti di un procedimento di gara indetto da altro comune per la dismissione di quote azionarie pubbliche di una s.r.l.
Più esattamente, la controversia ha ad oggetto l’impugnazione della scelta e delle modalità di vendita delle quote da parte del socio-ente pubblico che, secondo la sentenza amministrativa impugnata, «non è soggetta alle norme sull’evidenza pubblica e nemmeno a quelle sulla contabilità generale dello Stato, risolvendosi in un’operazione che l’ente pubblico pone in essere con modalità privatistiche, non rilevando in contrario il fatto che la società abbia utilizzato lo strumento della procedura aperta», atteso che «tale determinazione non è stata imposta dalle previsioni normative ma è il frutto di una libera scelta della società». Secondo il ricorrente è proprio da tali affermazioni che discenderebbe l’erronea affermazione della giurisdizione amministrativa.
La requisitoria del P.G. ritiene, invece, corretta la decisione del giudice amministrativo in punto di giurisdizione, in quanto l’indagine sul riparto deve accertare se la controversia abbia ad oggetto un atto posto in essere dall’ente pubblico uti socius ovvero iure imperii, poiché è soltanto nel primo caso che la relativa cognizione è attribuita alla giurisdizione ordinaria. Esemplificando, le conclusioni del P.G. richiamano le pronunce della Suprema Corte che attribuiscono alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto l’attività unilaterale prodromica alla vicenda societaria (così come quella avente ad oggetto la deliberazione costitutiva, modificativa o estintiva della società medesima), mentre riconoscono la giurisdizione ordinaria per quelle aventi ad oggetto gli atti societari adottati a valle della scelta di fondo relativa all’utilizzo del modello societario. Per le stesse ragioni, sono attribuite alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto gli atti della procedura di selezione del socio privato, mentre sussiste la giurisdizione del giudice ordinario per le questioni riguardanti la validità e l’efficacia della costituzione della società pubblica e dei suoi conseguenti atti negoziali.
Il ragionamento prosegue affermando che la scelta di dismettere la partecipazione ha una sicura “matrice pubblicistica” benché effettuata “a valle” della costituzione della società, con conseguente attribuzione della controversia alla giurisdizione amministrativa poiché viene in rilievo l’adozione di atti all’esito di un procedimento amministrativo, governati da regole e principi pubblicistici e che comportano l’obbligo di osservare i principi di pubblicità, trasparenza e non discriminazione, implicanti scelte che si collocano “a monte” poiché con essi il socio pubblico agisce prima come autorità e poi come socio. A tal proposito, richiamando la pronuncia del Consiglio di Stato, Sez. V, 23.01.2019, n. 578, la requisitoria osserva che l’amministrazione si comporta “come autorità” quando “determina”, mentre si atteggia come “socio” allorquando “delibera”. Nel caso di specie, trattandosi di atti diretti alla scelta delle modalità di vendita delle quote societarie pubbliche, l’amministrazione non sta esprimendo una privata autodeterminazione rimessa alla propria volontà, bensì una determinazione riconducibile alla supremazia di un potere in una vicenda che non si esaurisce nel contesto infra-societario, ma sorge in sede propriamente amministrativa ed involge un segmento pubblicistico dell’attività. Pertanto, avendo riguardo al criterio del petitum sostanziale – da identificarsi «anche e soprattutto in funzione della causa petendi» - la controversia in esame deve ritenersi attribuita alla giurisdizione amministrativa.
Più in generale, il P.G. afferma che il criterio di riparto c.d. “spaziale”, incentrato cioè sulla distinzione tra atti adottati “a monte” ed “a valle”, non sempre consente di dipanare con certezza la zona “grigia” di confine che sorge quando la vicenda sostanziale sia caratterizzata dalle interrelazioni tra diritto pubblico e diritto privato. Tuttavia, le requisitoria si conclude escludendo la razionalità di un criterio di riparto fondato automaticamente sulla distinzione tra an e quomodo dell’esercizio del potere pubblico, in quanto il quomodo potrebbe essere appositamente congegnato da parte dell’amministrazione in modo tale da escludere l’an (l’applicabilità stessa delle regole e dei principi dell’evidenza pubblica), così violando i principi pubblicistici che governano detta materia ed incidendo sull’individuazione dell’Autorità munita della giurisdizione. Un simile criterio di riparto, secondo il P.G., non si presterebbe a risolvere le difficoltà interpretative ma, al contrario, determinerebbe il rischio di duplicazione dei giudizi dinnanzi all’una e all’altra giurisdizione.
Nel concludere per il rigetto dell’impugnazione sulle questioni di giurisdizione, la stessa requisitoria ritiene fondato l’ulteriore motivo concernente l’ammissibilità della vendita congiunta per violazione dell’art. art. 2468 c.c., riconoscendo su tale punto la giurisdizione del giudice ordinario in quanto avente ad oggetto il novero delle facoltà spettanti al socio in quanto tale, ancorché pubblico. L’accoglimento del motivo non è precluso, infatti, dal rigetto espresso su restanti motivi tenuto conto del principio costantemente affermato in merito all’inderogabilità della giurisdizione stessa per ragioni di connessione (Cass., S.U. n. 9534 e n. 10305 del 2013, n. 32361 del 2018; n. 23904 del 2020).
C.G.
E’ stata la mano di Dio, recensione al film di Dino Petralia
I sogni sono porte del tempo semichiuse sull’immaginario e non hanno confini né scadenze; sono desideri ardenti, appetiti di vita armati di tensione, potenti e fascinosi. Il sogno appartiene a tutti e se è vero che il suo compimento risolve e completa, altrettanto vero è che ne azzera l’inebriamento dell’attesa, sicchè è privilegio dei soli artisti riprodurne l’ebbrezza originaria, ciascuno con il linguaggio di cui dispone.
Ebbene, col suo colorito e opulento "E’ stata la mano di Dio" Sorrentino regista ricostruisce il suo sogno adolescente e lo offre allo spettatore senza individualismi né vanità, affidando ad una napoletanità illesa e alle sue figure narranti il ruolo protagonista del film; una napoletanità intensa oltre la quale non è facile immaginare altro ed entro la quale muovono e si agitano i suoi miti di eterna potenza.
Nelle vesti di Fabietto Schisa, figlio diciassettenne di una coppia di scanzonati e fischiettanti genitori, a loro volta inseriti in un allegro parentado in salsa e costume popolare dalle taglie forti, Sorrentino riattraversa i sogni della sua adolescenza come fermate e ripartenze di un itinerario inizialmente senza meta, assegnando per ogni valico esistenziale un preciso compito didascalico a maschere sapientemente attinte da un campionario umano di chiara marca meridionale. E così, il sogno di avere a Napoli Maradona trova nello zio Alfredo - un sempre efficace Renato Carpentieri - il più convinto e accalorato teorizzatore della divinità del calciatore argentino, divenuto idolo cittadino ancor prima del suo reclutamento; il sogno (appena secondo nell’ideale graduatoria di Fabietto) di possedere sessualmente l’attraente zia Patrizia - una sfolgorante Luisa Ranieri - si acquieta nell’amplesso surrogatorio concessogli dall’anziana e sussiegosa baronessa del piano di sopra, simbolicamente espressiva di una decadente aristocrazia partenopea, siglando così per il giovane adolescente l’ambìto abbandono dell’illibatezza sessuale; la tentazione della seducente trasgressione giovanile ha forma e voce nel turbolento amico contrabbandiere, senza madre e con padre carcerato ma traboccante di generosa e spicciola umanità. E ancora, il suo sogno più ardito, quello di diventare regista dal nulla, parla nel film per bocca di Capuano, sfrontato cineasta napoletano, minaccioso e irriverente verso il giovane ma sincero assertore della triplice esigenza - vero e proprio proclama fondante dell’intero racconto autobiografico - che il buon regista resti unito con se stesso, che abbia qualcosa da raccontare, che rimanga saldo al suo territorio, esattore primario di un obbligo di rendiconto.
La dimensione cittadina che di tutto ci offre Sorrentino appare sulle prime limitante perchè confinata in argini culturali esclusivamente partenopei, ma così non è; la cifra napoletana, con i suoi miti, i riti e l’attraente urbanità, riassume i termini di una nobiltà del passato, che da individuale diventa universale, come universale è il genio calcistico di Maradona, la carnale bellezza di zia Patrizia e la valenza delle citazioni letterarie mobilitate da Sorrentino in mano ai suoi interpreti, "C’era una volta in America" e "Un uomo”, platealmente esibite come espressioni iconografiche di un’intera epoca.
Nella postura estatica di Fabietto al cinema - autentica maestria di un regista che ne incarna l’originale - quel frammento filmico solidifica infine tutti interi i suoi sogni, rappresentando il prodromo più convincente della scena finale, il viaggio in treno verso la Capitale, per afferrare il sogno che la mano di Dio gli sta donando.
La narrazione autobiografica è uno stile ma qui diventa un’occasione per tracciare e ancorare la propria arte a se stesso; non tanto il bisogno di spiegare quanto quello di spiegarsi unificando passato e presente in un diario perenne destinato a sancire il principio per il quale il cardine del furore di ogni talento sta nel dolore, nel distacco, nella solitudine con se stessi, nell’intimo dialogo sull’essere e sul divenire.
E il girotondo di scoppiettanti comparse ha solo il ruolo di animare questa solitudine, conducendo e aiutando il giovane Scotti/Sorrentino alla sua più intima verità.
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