ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Ragionevole previsione di condanna e giustizia predittiva: una modesta proposta per la riforma dell’art.425 c.p.p.
di Cataldo Intrieri e Luigi Viola
“È un dovere di trasparenza verso i cittadini
comunicare in maniera chiara i dati
che alimentano certe decisioni
e il loro impatto qualitativo e quantitativo;
è un dovere verso i cittadini
e un impegno di democrazia,
che nel tempo rinsalda
la fiducia reciproca
tra istituzioni e cittadinanza:
la fiducia, un bene
di cui c’è immenso bisogno.”
(Marta Cartabia)
Ridurre i tempi del processo penale, senza rinunciare a fondamentali garanzie, e alleggerirne il carico individuando possibili alternative al processo e alla pena carceraria. Queste, in estrema sintesi, le macro-direttrici di fondo dell’articolata riforma. Sin dal varo del nuovo codice di procedura l’introduzione dell’udienza preliminare ha costituito uno degli snodi fondamentali da cui sarebbe dipeso il funzionamento efficiente della nuova procedura. La presente riflessione vuole essere una prima sintesi sui possibili impieghi della giustizia predittiva proprio in funzione di un’utile riforma dell’udienza preliminare, giacché il senso di una “ragionevole previsione” porta con sé un criterio di valutazione necessariamente probabilistico, legato al criterio del “più probabile che non” come parametro di giudizio preliminare a fronte dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio” del giudizio propriamente definitivo del merito.
Sommario: 1. Introduzione - 2. La “nuova” udienza preliminare - 3. Ragionevolezza e logica - 4. Ragionamento e condanna - 5. Previsione - 6. Giustizia predittiva induttiva - 7. Giustizia predittiva deduttiva - 8. Esempi concreti - 9. Conclusioni.
1. Introduzione
Il filo rosso che attraversa i vari punti della riforma Cartabia sul processo penale è rappresentato dalla riduzione del tempi della giustizia; un obiettivo che la riforma persegue non solo incidendo sulle norme del processo penale, ma anche con interventi sul sistema penale – come quelli relativi alla non punibilità per particolare tenuità del fatto, alla sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato, e alle sanzioni (rectius, pene) sostitutive delle pene detentive brevi – capaci di produrre significativi effetti di deflazione processuale. Anche le previsioni in tema di giustizia riparativa condividono la medesima finalità, che accomuna anche le disposizioni civilistiche in tema di mediazione e modalità alternative di soluzione dei conflitti, oggetto del parallelo disegno di legge di riforma del processo civile.
Ridurre i tempi del processo penale, senza rinunciare a fondamentali garanzie, e alleggerirne il carico individuando possibili alternative al processo e alla pena carceraria. Queste, in estrema sintesi, le macro-direttrici di fondo dell’articolata riforma.
Sin dal varo del nuovo codice di procedura l’introduzione dell’udienza preliminare ha costituito uno degli snodi fondamentali da cui sarebbe dipesa il funzionamento efficiente della nuova procedura.
La realtà è stata ben diversa e tolti i casi di scelta da parte dell’imputato dei riti alternativi la funzione di filtro che il giudice dell’udienza preliminare avrebbe dovuto svolgere si è ridotta a ben poca cosa.
Ha impedito sino ad oggi una diversa e migliore destinazione il timore radicato della introduzione di una sorta di quarto grado di giudizio che tuttavia ha finito per deresponsabilizzare il Gup inducendo ad una gestione pigra e burocratica, quanto sostanzialmente inutile dell’istituto.
La legge delega sulla riforma del codice di procedura penale tra le molte ambizioni nutre anche quella di ridisegnare l’udienza preliminare, ancorando il rinvio a giudizio al concetto di “ragionevole previsione della condanna”.
La formula evoca uno dei grandi e più discussi temi della modernità: il modello algoritmico della giustizia predittiva.
Sino ad oggi il dibattito è rimasto confinato alla materia civilistica ma il diffondersi della “cultura del precedente” e dell’interpretazione come fonte del diritto impone una riflessione anche nel campo del diritto penale, superando vecchie preclusioni.
Lo impone essenzialmente un concetto che è entrato a far parte del lessico giuridico negli ultimi anni come essenza di un nuovo principio di stretta legalità: la prevedibilità dell’interpretazione della norma.
La presente riflessione vuole essere una prima sintesi sui possibili impieghi della giustizia predittiva proprio in funzione di un utile riforma dell’udienza preliminare, giacché il senso di una “ragionevole previsione” porta con sé un criterio di valutazione necessariamente probabilistico, legato al criterio del “più probabile che non” come parametro di giudizio preliminare a fronte dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio” del giudizio propriamente definitivo del merito.
2. La “nuova” udienza preliminare
La riforma Cartabia prevede sul versante penale, all’art. 1 comma 9 lett. m) della legge delega, di modificare:
“la regola di giudizio di cui all’articolo 425, comma 3, del codice di procedura penale nel senso di prevedere che il giudice pronunci sentenza di non luogo a procedere quando gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna”.
Viene creato un sistema alternativo condizionato:
- se gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna, allora il giudice deve pronunciare sentenza di non luogo a procedere;
- se gli elementi acquisiti consentono una ragionevole previsione di condanna, allora il giudice deve pronunciare sentenza di luogo a procedere.
L’alternativa è condizionata dalla presenza di una “ragionevole previsione di condanna”.
Si pone, però, un problema interpretativo: come va intesa la ragionevole previsione di condanna? E soprattutto: come si può prevedere ragionevolmente una condanna?
La domanda è legittima visto che si tratta di prevedere ex ante quello che accadrà in futuro.
Invero va rilevato che l’inciso “ragionevole previsione di condanna” è similare all’inciso “ragionevole probabilità di essere accolta” di cui all’art. 348 bis c.p.c.; quest’ultima è stata letta dalla giurisprudenza[1] nel senso di non manifesta infondatezza.
Tuttavia, tale similitudine normativa non può implicare anche un significato equivalente per la ragione che le regole interpretative utilizzabili nel diritto civile di cui all’art. 12 preleggi non sono estensibili anche al diritto penale ex art. 14 preleggi.
3. Ragionevolezza e logica
La ragionevolezza riguarda l’obbligo di decidere in modo razionale; ciò che è razionale è logico e la logica obbedisce a tre principi:
- identità secondo cui[2] ogni cosa è uguale a sé stessa (A=A), id est una cosa non può essere nello stesso tempo A e non-A;
- non contraddizione secondo cui data una o più premessa, la conseguenza che ne deriva non può essere in contraddizione;
- tertium non datur secondo cui dato un sistema dicotomico la proprosizione è vera oppure falsa (p e ¬p) non essendo concepibili altre ipotesi.
La previsione di condanna, di cui al nuovo art. 425 comma 3, dovrebbe allinearsi a detti principi per essere razionale.
4. Ragionamento e condanna
Si può dire che il provvedimento giudiziario procede alla sussunzione del fatto nel diritto
PG : F ---> D (letto come il provvedimento giudiziario manda il fatto nel diritto[3]).
Eppure fatto e diritto sono semplificazioni perché:
- il primo rileva nel processo solo in quanto provato, per cui per fatto deve intendersi solo quello provato;
- il secondo esiste per come viene interpretato, per cui per diritto deve intendersi l’interpretazione
Poniamo il seguente esempio:
Tizio prende a schiaffi Caio, cagionandogli lesioni: questo è un fatto F.
Per farne derivare una condanna, tale fatto dovrà essere provato in sede giudiziaria, ottenendo in concreto un provvedimento (sentenza) verso Tizio di condanna per lesione ex art. 582 c.p.
Il giudice scriverà il provvedimento giudiziario PG con cui, accertato il fatto F, lo manderà nell’art. 582 c.p. che è il diritto D.
Quanto appena esposto è in linea con il sillogismo aritotelico, che anima la decisione del giudice: per ottenersi una sentenza PG, bisogna mandare la premessa minore, che è appunto il fatto F, nella premessa maggiore che è la legge D.
5. Previsione
Ciò precisato, il nuovo art. 425 comma 3 c.p.p. menziona la “previsione”; come è possibile prevedere una condanna?
La prevedibilità si basa solitamente sull’analisi delle serie storiche[4], sul presupposto che ciò che è accaduto in passato potrebbe accadere in futuro.
La materia oggi è ampiamente studiata con il nome di Giustizia predittiva: questa riguarda la possibilità di prevedere l’esito di sentenze[5], attraverso calcoli matematici e nuove tecnologie.
Diverse Corti di Appello se ne stanno occupando (Bari è stata la prima, a cui si sono aggiunte Brescia, Venezia, Genova ed altre).
Sono utilizzabili due modelli:
- uno induttivo, basato principalmente sulla giurisprudenza precedente;
- l’altro deduttivo, basato principalmente sull’applicazione della legge.
6. Giustizia predittiva induttiva
Il tema della giustizia predittiva viene oggi sviluppato, in misura prevalente, seguendo un’impostazione statistica-giurisprudenziale: si verificano i precedenti giurisprudenziali ed in base a questi si prevedono le decisioni future.
Esemplificativamente: se dieci sentenze su cento precedenti dicono che nel caso x si applica y, allora ci sarà il 10% di possibilità che in futuro il giudice a parità di fatto x si orienterà su y.
6.1. Criticità
L’impostazione di giustizia predittiva induttiva presenta alcune criticità:
- l’impostazione basata su meri calcoli statistici dei precedenti giurisprudenziali ha una portata limitata ai soli casi in cui ci siano numerosi precedenti, così da escludersi i casi più complessi relativi alle novità normative, non ancora oggetto di stratificati orientamenti giurisprudenziali;
-non è in linea con il nostro sistema che è di civil law e non common law, con la conseguenza che qualsiasi giudice può legittimamente discostarsi da un precedente;
- vi è un alto rischio di fallacia in quanto la ripetizione dell’errore non diviene correttezza, in ambito scientifico; se, esemplificativamente, un errore giurisprudenziale è ripetuto tante volte, non diviene, per ciò solo, non errore; dunque, se una sentenza è errata, allora vi è il rischio che venga seguita solo perché precedente[6] giurisprudenziale;
- altresì vi sarebbe il rischio di standardizzazione; difatti, se si ritiene che una causa abbia un basso livello di successo perché contraria a molti precedenti[7], allora nessuno proporrà tale causa, con la conseguenza di frustrare la spinta naturalistica all’evoluzione del diritto;
- la predizione di una sentenza fallisce se si basa sui precedenti per la semplice ragione che questi, sotto il profilo numerico[8], non vengono tenuti conto nella decisione finale; ad esempio, in sede di decisione collegiale a Sezioni Unite, non assume rilevanza il numero di precedenti a favore o contro una soluzione, ma unicamente la correttezza degli argomenti esposti pro e contro.
6.2. L’esempio di Russell
L’impostazione induttiva è stata in passato criticata, anche per il tramite dell’esempio che segue.
Russell[9], per esempio, avvertiva del rischio dei modelli induttivi e poneva il seguente esempio: immaginate di essere un tacchino, che ogni giorno viene alimentato dal proprietario; ebbene, il tacchino penserà che in futuro verrà ancora alimentato e che il proprietario è buono, ma arriva il giorno del Ringraziamento ed il tacchino viene ucciso; il fatto narrato dimostra che la previsione c.d. induttiva, basata solo sui precedenti, è fisiologicamente fallace.
7. Giustizia predittiva deduttiva
Un altro modello di giustizia predittiva è quello di tipo deduttivo; questo appare tecnicamente più corretto in quanto si basa sull’applicazione della legge, che vale erga omnes, e non sull’applicazione del precedente giudiziario che è avvinto dai limiti del giudicato.
Il giudice, in un sistema di civil law come il nostro, è tenuto ad applicare la legge ex art. 101 Cost. e non il precedente giurisprudenziale (fatte pochissime eccezioni).
Applicare il sistema di giustizia predittiva deduttiva vuol dire prevedere come il giudice applicherà la legge alla luce della legge stessa, per il tramite della valorizzazione delle regole interpretative ex artt. 12-14 preleggi.
La differenza tra sistema deduttivo ed induttivo è significativa; a dimostrazione di ciò si pongono alcuni esempi.
Facciamo un esempio basato sul c.d. sillogismo aristotelico:
a) tutti gli uomini sono mortali (premessa maggiore); b) Socrate è un uomo (premessa minore); c) Socrate è mortale (conclusione).
La conclusione appena esposta si basa sul metodo deduttivo[10]; è priva di vizi logici; è in linea con il nostro sistema di civil law (regola – fatto - effetto ovvero sentenza).
Ora, restando sullo stesso esempio, proviamo ad invertire l’ordine:
a) Socrate è mortale (conclusione); b) Socrate è un uomo (premessa minore); c) tutti gli uomini sono mortali (premessa maggiore).
Quanto appena esposto si basa sul metodo induttivo; presenta almeno un vizio logico (c.d. fallacia) perché generalizza (premessa maggiore) partendo da una conclusione ed, infatti, che Socrate sia mortale e sia un uomo non implica necessariamente che tutti gli uomini siano mortali; tuttavia, è in linea con il sistema di common law (effetto ovvero sentenza – fatto – regola).
Facciamo un altro esempio:
a. La legge è uguale per tutti i cittadini di cui all’art. 3 Cost. (premessa maggiore)
b. Tizio e Caia sono cittadini (premessa minore)
c. Tizio e Caia sono uguali di fronte alla legge (conclusione).
Anche in questo caso si è utilizzato il metodo deduttivo, che è privo di vizi logici: la conclusione è la diretta conseguenza delle premesse.
Ora, di nuovo, restando sullo stesso esempio, proviamo ad invertire l’ordine (metodo induttivo):
a. Tizio e Caia sono uguali di fronte alla legge (conclusione);
b. Tizio e Caia sono cittadini (premessa minore)
c. La legge è uguale per tutti i cittadini (premessa maggiore).
Quanto appena detto è viziato (c.d. fallacia) perché generalizza singoli casi; infatti: che Tizio e Caia siano uguali di fronte alla legge, non implica necessariamente che tutti siano uguali di fronte la legge.
8. Esempi concreti
Poniamo il caso che segue.
Tizia guidava l’auto Y, trasportando il convivente da diversi anni Tizio; purtroppo, Tizia causava un incidente, investendo il passante Caio, che subiva gravi ferite e la perdita della gamba destra. Tizia scappava subito, omettendo ogni soccorso. Sopraggiunti i carabinieri, Tizio si dichiarava alla guida dell’auto Y, al fine di favorire la posizione di Tizia che aveva guidato senza patente, perché revocata, e non aveva prestato i soccorsi.
Ai fini dell’art. 425, comma 3, c.p.p., si pone il problema di capire se Tizio ha una “ragionevole probabilità di condanna” per favoreggiamento personale ex art. 378 c.p., oppure se questa non sussista in ragione dell’estensione al convivente della causa di non punibilità dell’art. 384 c.p.
Sul punto è intervenuta una recente pronuncia delle SU che ha innovato un radicato indirizzo che tendeva ad escludere l’equiparazione tra convivente e coniuge.[11]
Ora proviamo ad usare i metodi, induttivo e deduttivo, esposti:
- se applichiamo quello induttivo, allora bisognerà verificare quante sentenze (almeno nomofilattiche) in percentuale hanno applicato l’art. 384 c.p. in un caso simile; ammettendo che queste saranno in netta maggioranza in ragione del rilievo della sentenza delle SU allora “gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna”, così da doversi pronunciare sentenza di non luogo a procedere[12];
- se applichiamo quello deduttivo, più legato alla lettera della legge, allora si tenderebbe a negare l’applicabilità dell’art. 384 c.p., in quanto riferito al “prossimo congiunto” diversamente dal caso de quo dove appare un convivente; con la conseguenza che gli elementi acquisiti consentirebbero una ragionevole previsione di condanna, così da dover disporre il rinvio a giudizio.
In tal senso va ricordato che la Corte Costituzionale con più sentenze ha escluso ogni lesione dei profili di uguaglianza e proporzionalità nel diverso trattamento delle due situazioni di legame.[13]
Il ragionamento che impone una previsione è necessariamente probabilistico, tendenzialmente ancorato al criterio del più probabile che non secondo la formula P(c) > 50% (probabilità P di condanna C maggiore del 50%).In un caso del genere il giudice dell’udienza preliminare, nello spirito della nuova riforma, si troverà di fronte al dilemma se applicare la soluzione che a lui sembra più convincente ( che può non coincidere con la soluzione offerta ) o a quella più probabile.
La lettera della legge gli impone questo tipo di valutazione per cui il ricorso a strumenti statistici ed algoritmi fornirebbe il responso più rispondente all’impostazione del legislatore.
9. Conclusioni
In definitiva, si ritiene che - per correttamente utilizzare l’art. 425 comma 3 c.p.p., come novellato - sarà necessario utilizzare modelli di giustizia predittiva, cercando una sintesi tra quello deduttivo e quello induttivo.
Il tentativo di applicare criteri di calcolo matematico-frequenziali ai processi penali è risalente ed ha trovato, specie in Italia una insuperabile opposizione eloquentemente sintetizzata nel caposaldo della nota sentenza delle SU Franzese[14] che quest’anno festeggia il ventennale di una assoluta irremovibilità.
Non sono mancati invero coraggiosi tentativi di innovazione e di introduzione di ciò che viene definito “neo-bayanesimo “ giuridico in omaggio al noto teorema statistico.[15]
Correttamente è stato evidenziato come l’adozione di tale modello non risolverebbe in chiave di maggior certezza il tema di una decisione fatalmente legata a criteri di elevata probabilità. [16]
Eppure forse è tempo di superare vecchie preclusioni: una opportuna sintesi tra diverse visioni può essere la chiave di volta di una non più rinviabile riforma dell’udienza preliminare.
Nella recente relazione al Parlamento il Guardasigilli ha dato notizia dell’istituzione del “Dipartimento per la transizione digitale e statistica” affiancato al nuovo e ben noto Ufficio del Processo cui “saranno affidati, tra l’altro, la gestione dei processi e delle risorse connessi alle tecnologie dell’informazione, della comunicazione e della innovazione; la gestione della raccolta, organizzazione e analisi dei dati relativi a tutti i servizi connessi all’amministrazione della giustizia”.
È significativo (e costituisce per chi scrive il miglior commento a questa riflessione) che il Ministro Cartabia sottolinei come “indispensabile, anche nel settore della giustizia, sviluppare politiche pubbliche fondate sul dato e sulla sua trasparenza e costantemente verificate sulla base dell’esperienza statisticamente elaborata. Partire dai dati è essenziale per scongiurare il rischio di interventi ad impronta emozionale, improvvisati e inadeguati ai bisogni e alla loro dimensione effettiva”.
[1] Si legge in Cassazione civile, sezioni unite, sentenza del 2.02.2016, n. 1914, in Giur. It., 2016, 6, 1371 con nota di CARRATTA che “Merita inoltre particolare attenzione l'art. 348 ter c.p.c., comma 1 laddove si precisa che l'ordinanza in questione non può essere pronunciata se non "fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l'inammissibilità o l'improcedibilità dell'appello" e quando l'impugnazione non ha "una ragionevole probabilità di essere accolta", cosi chiaramente limitando l'ambito applicativo dell'ordinanza medesima a quello dell'impugnazione manifestamente infondata nel merito”.
[2] In voce Principio di identità, in Enciclopedia del Diritto Treccani, in Treccani.it, 2009.
[3] Sia consentito il rinvio a VIOLA, Valutazione delle prove secondo prudente apprezzamento, Milano, 2021, 41.
[4] In voce Prevedibilità, in Enciclopedia del Diritto Treccani, in Treccani.it, 2012.
[5] In voce Giustizia predittiva, in Enciclopedia del Diritto Treccani, in Treccani.it, 2012.
[6] Sono molto interessanti le osservazioni di VALITUTTI, Il valore vincolante del precedente di legittimità. La Corte di Cassazione tra nomofilachia e nomopoietica, in La Nuova procedura Civile, 6, 2017, secondo cui “il ruolo della Cassazione è anche nopoietico, ossia creativo, in quanto produce il diritto concreto, con aderenza allo specifico contesto fattuale e seguendo il mutamento della società e delle esigenze di tutela che si muovono nel fondo di essa, un diritto che troverà applicazione in una molteplicità indeterminata di casi, ma sempre nei limiti della norma, sia pure nella sua massima potenzialità espressiva ed applicativa”.
[7] Si legge in CURZIO, Il giudice ed il precedente, in Questione Giustizia, 2018, 4, 43, che “gli sviluppi normativi dell’ultimo decennio appaiono orientati ad incrementare il peso del precedente in generale e dei precedenti delle sezioni unite in particolare. Questo spostamento non giunge mai ad intaccare il principio della soggezione del giudice solo alla legge. Non si prevedono meccanismi di caducazione del provvedimento giudiziario emesso in contrasto con un precedente, neanche nel caso in cui il precedente sia della sezioni unite. Vengono garantiti il dissenso e l’evoluzione della giurisprudenza, la correzione, il ripensamento o l’innovazione dei suoi orientamenti. Ma dissenso e cambiamento devono seguire percorsi predeterminati dall’ordinamento; devono essere motivati e fondati su elementi idonei a giustificare il mutamento di indirizzo: elementi così convincenti da far prevalere le ragioni del cambiamento rispetto alla tutela dell’affidamento ed al diritto dei cittadini ad essere uguali dinanzi all’interpretazione della legge, ad avere un uguale trattamento giurisdizionale. Il bilanciamento e il contemperamento di questi valori, è rimesso dal legislatore alla giurisprudenza, da intendersi, qui più che mai, come prudenza dei giudici”.
[8] Va rilevato che “non è il numero dei consensi dati o negati a fondare la giustezza o meno di una tesi”; così Tribunale di Roma, sentenza del 20.12.2018, in La Nuova procedura Civile, 3, 2019.
[9] Bertrand RUSSELL, The Problems of Philosophy, 1912.
[10] Per approfondimenti sulle inferenze, si veda BELLOMO, Nuovo sistema del diritto civile, Bari, 2021, 41.
[11] S.U. Sent. 16 Marzo 21 n. 10381/21 dep. 20 Luglio 21
[12] Ragionamento analogo si potrebbe fare menzionando Cass. SS.UU. 10381/2021, con la precisazione che in tal caso la previsione non sarebbe “quantitativa pura” nel senso di basata solo sul numero di precedenti, ma “quantitativa ponderata” pesando in modo diverso una pronuncia a Sezioni Unite in quanto maggiormente persuasiva.
[13] Corte Cost., n. 237 del 1986; n. 352 del 1989; n. 8 del 1996; n. 121 del 2004, n. 140 del 2009, «le due situazioni non differiscono soltanto in ragione del dato estrinseco della sanzione formale del vincolo, poichè, fermi in ogni caso i diritti e i doveri che ne derivano verso i figli e i terzi, nella dimensione della convivenza di fatto si tende a riconoscere spazio alla soggettività individuale, mentre in quella del rapporto di coniugio si attribuisce maggior rilievo alle esigenze obiettive della famiglia come tale, intesa cioè come stabile comunità di persone legate da vincoli di solidarietà, di fedeltà e di condivisione su base paritaria».
[14] Sezioni Unite 10 luglio 2002 nn.30328
[15] Trib. Milano sent.18 giugno 2015 Gip Gennari ,in J. Della Torre “Il teorema di Bayes fa capolino al tribunale di Milano”, Diritto Penale Contemporaneo.
[16] la principale e più nota obiezione prende le mosse dalla determinazione del grado di convincimento razionale sulla base della frequenza di un certo fenomeno all’interno di un sistema dato e preesistente. Questi dati frequenziali, anche detti prior probabilities (o base rate informations), costituiscono il fondamento imprescindibile del calcolo bayesiano. Ebbene, il teorema di Bayes offre rare applicazioni al di fuori delle «esercitazioni accademiche», in cui, ammessa e non concessa un’ideale completezza probatoria, le prior probabilities risultino determinabili efficacemente. La serie di domande per ricavare dati statistici potrebbero essere poi sostanzialmente “infinite” per cercare di affinare un dato statistico via via in condizioni più simili al caso concreto. Per altro, rimanendo entro le rare ipotesi in cui siano determinabili le prior probabilities, rimane comunque rischioso tentare di estrarre da un dato frequenziale informazioni che potrebbero facilmente risultare non rilevanti nel caso concreto o canalizzare il ragionamento probatorio entro pericolosi tunnel (anti)cognitivi. Si pensi al celebre caso giudiziario del «Blue Bus» (Smith v. Rapid Transit, Inc.)presentato da Tribe per screditare il ricorso alla cd. naked statistic evidence basata su prior probabilities irrilevanti al caso concreto. Anzitutto, conoscere che in una determinata città l’85% dei bus di colore blu è gestito dalla società A e che solo il restante 15% è gestito dalla società B, non consente ex se di individuare a quale compagnia appartenga il bus blu coinvolto in un incidente notturno. Al più, si può affermare che la frequenza con cui è possibile osservare un autobus blu appartenente ad A è tendenzialmente di 0,85, ma null’altro. Inoltre non è possibile trarre dal dato statistico conferme o smentite sull’attendibilità del testimone che dichiari di aver visto un autobus blu della compagnia B, perché senza ulteriori elementi non è possibile escludere ragionevolmente che abbia visto ciò che è meno frequente” C.Costanzi “La matematica del processo: oltre le colonne d’Ercole della giustizia penale” in Questione Giustizia vol.4/18
La giustizia, il potere e il senso di ingiustizia nell’opera verghiana. Riflessioni nel centenario della morte di Giovanni Verga
di Alessandro Centonze
Sommario: 1. Il fatalismo verghiano e la sfiducia verso le leggi di natura e degli uomini. – 2. Le Novelle rusticane: la condizione irreversibile degli umili e il senso di inesorabilità della giustizia nei personaggi verghiani. – 3. Il Ciclo dei vinti: l’impotenza degli esseri umani di fronte alla giustizia e l’accentuazione del fatalismo verghiano. – 4. L’ultimo Giovanni Verga: il prematuro silenzio narrativo e la riscoperta tardiva di uno dei padri del romanzo italiano.
1. Il fatalismo verghiano e la sfiducia verso le leggi di natura e degli uomini
Il 27 gennaio 2022 ricorre il centenario della morte di Giovanni Verga e queste mie brevi riflessioni[1] vogliono essere un piccolo contributo all’approfondimento dei temi della giustizia e del potere, tanto cari all’Autore etneo e non sempre approfonditi dai molti, pur esemplari, esegeti della sua opera.
Mi preme sottolineare che sono consapevole del fatto che confrontarsi coi testi verghiani, soprattutto per chi come me non ha una formazione squisitamente letteraria, è un atto di vanità di cui mi scuso sin d’ora; la ricorrenza del centenario tuttavia è stata per me – cresciuto nelle terre di Vita dei campi e delle Novelle rusticane, che dal Simeto si spingono sino all’area montana iblea, attraverso le province di Catania, Siracusa e Ragusa – una tentazione inesausta di perlustrare parte dei territori verghiani ancora vergini. Il cimento, dunque, è diretto verso àmbiti ignoti ma, proprio per questo, anche d’incerto approdo.
Compiute queste doverose premesse mi sembra opportuno evidenziare che le due tematiche della giustizia e del potere si presentano, nella concezione verghiana, intimamente connesse[2]. L’autore le indaga e le sviluppa in una cornice di crescente pessimismo esistenziale, impregnato di dolore e sostanzialmente diffidente innanzi ai meccanismi di sviluppo della società moderna. Le istituzioni statali sono intese come un gravame che schiaccia l’individuo e alimenta la competizione, soprattutto nei ceti più umili, determinando un mondo di Vinti, di cui le tragiche vicende de I Malavoglia e della famiglia Toscano sono una rappresentazione esemplare[3].
La stessa vita di Giovanni Verga[4], a ben vedere, è un’esemplare rappresentazione di questo senso di sfiducia verso il progresso e le istituzioni, tanto è vero che gli ultimi ventisette-ventotto anni della sua lunga esistenza fluirono in una sorta di consapevole e forzato isolamento. In questi, lunghi, anni, Verga si mosse nel piccolo spazio cittadino compreso tra il suo palazzo etneo di Via Sant’Anna e la sede del locale Circolo Unione, ubicata nella centralissima Via Etnea, essenzialmente impegnato nell’amministrazione delle sue proprietà terriere, che lo tennero lontano – complice anche una certa crisi vocazionale e alcuni assilli finanziari, pur risolti sul finire del diciannovesimo secolo – dal mondo letterario, anche quando le sue opere conobbero una meritata diffusione editoriale[5].
Quello che comunque è certo è che le realtà sociali descritte nelle opere di impronta verista sono governate da regole e da poteri, umani e naturali, ispirati a una sorta di cinico antagonismo. I soccombenti, ovviamente, peggiorano la loro condizione economica ed esistenziale, donde la loro sfiducia verso il progresso sociale dei ceti inferiori, inesorabilmente composti da soggetti vinti dalla «fiumana del progresso»[6].
I protagonisti di questa narrazione, invero, cercano di ribellarsi alla loro dolorosa condizione economica, ma non sempre vincono, perché l’esistenza umana e le leggi che la governano pongono gli individui in una condizione fatalisticamente di sfiducia verso il mondo e verso se stessi. E’ per questo che l’autore si sente costretto a parlare di “ciclo dei vinti”.
In quest’àmbito i personaggi verghiani diventano preda di un atteggiamento rinunciatario, che è, al contempo, esistenziale e istituzionale, oltre a essere il frutto della convinzione filosofica che né le leggi di natura né quelle umane, o meglio della classe ricca, consentono ai ceti sociali più umili di uscire dalla loro condizione di disagio e di prostrazione.
Tutto questo, del resto, è il riflesso delle più intime convinzioni di Verga, che riteneva le leggi naturali difficilmente modificabili e, di conseguenza, reputava inutile ogni tentativo di mutarle attraverso il richiamo al progresso e alla giustizia, capisaldi del positivismo[7]. Qualsiasi intervento sul corso naturale dell’economia, per tanto, ritenuto immodificabile, è inutile, come superflui appaiono i richiami agli ideali positivistici, primo fra tutti quello anzidetto di giustizia. Tutto ciò viene descritto con una tecnica nuova e originale, incentrata sull’impersonalità del racconto[8].
Verga, per esser più chiari, osserva che a dominare i meccanismi economici non sono i valori della giustizia, dell’uguaglianza e del progresso, ma i disvalori della prevaricazione, dell’interesse individuale e, in ultima analisi, del profitto. Ne deriva che il dominio di questi disvalori, di matrice sostanzialmente hobbesiana[9], si ripercuote sui meccanismi della giustizia che è patita, dai personaggi verghiani, come un male necessario. Si sottolinea che i disvalori sono ritenuti immutabili perché legati alla stessa natura umana. L’uomo, in altre parole, contiene l’impulso antagonistico, la tendenza alla sopraffazione e la tendenza al profitto, che condizionano gli uomini di potere e, di conseguenza, le leggi. L’intervento giudiziario, in questo contesto, non può non presentare due caratteri: quelli della permanenza e della stabilità e, allo stesso tempo, dell’inutilità[10].
I personaggi verghiani, invero, cercano di ribellarsi e di ricorrere alle istituzioni per essere tutelati, ma, in questo modo, peggiorano la loro condizione e precipitano nel degrado e nell’emarginazione. Questo è il mondo in cui si muovono i personaggi sfiduciati di Verga, che sono destinati alla sconfitta e che, nonostante tutto, mantengono una loro dignità, quasi eroica, che trae origine dalla loro forza d’animo che, a sua volta, è la conseguenza di una non totale rassegnazione con cui sopportano le avversità quotidiane, spesso senza inutili ribellioni e senza aiuti esterni.
La concezione verghiana dell’esistenza umana, quindi, è tragica, perché tragica è la vita degli uomini sottoposti a un destino impietoso e crudele, che li condanna, non solo all’infelicità, ma anche all’immobilismo sociale ed economico, da cui scaturisce il senso immanente di ingiustizia patito dai suoi indimenticabili protagonisti.
2. Le Novelle rusticane: la condizione irreversibile degli umili e il senso di inesorabilità della giustizia dei personaggi verghiani
Rispetto alle precedenti opere narrative le Novelle rusticane[11] si caratterizzano per una puntuale attenzione ai problemi sociali ed economici della Sicilia dell’Ottocento, con accentuazione pessimistica sui rapporti umani e l’assunzione di un ruolo centrale di quel senso immanente di ingiustizia proprio dei personaggi verghiani, su cui sono incentrate queste brevi riflessioni.
A dire il vero, Giovanni Verga si era già cimentato con la forma del racconto di impronta verista con la raccolta Vita dei campi[12], di ambientazione geo-sociale analoga alle successive Novelle rusticane, a cui si attribuisce tradizionalmente la sua svolta narrativa; tuttavia è indubbio che è solo con la pubblicazione de I Malavoglia e delle Novelle rusticane – che sono due opere sostanzialmente coeve, essendo pubblicate a distanza di un anno – che giunge a compimento quel percorso letterario che portò il nostro Autore alla piena maturità artistica e, per quello che ci interessa, fece esprimere quell’atteggiamento di ingiustizia immanente dei suoi personaggi, che è una delle cifre stilistiche verghiane più significative.
Com’è noto, le Novelle rusticane sono una raccolta di dodici racconti, ambientati nella vasta area della Piana di Catania – che, come si è detto, dal fiume Simeto si diparte fino ad arrivare alla zona montana iblea, attraversando le province di Catania, Siracusa e Ragusa –, pubblicati a distanza di un anno da I Malavoglia. Si tratta, in particolare, delle novelle intitolate Il Reverendo; Cos'è il Re; Don Licciu Papa; Il Mistero; Malaria; Gli orfani; La roba; Storia dell'asino di San Giuseppe; Pane nero; I galantuomini; Libertà; Di là del mare.
Il nucleo narrativo essenziale attorno al quale ruotano le Novelle è quello della “roba” ovvero del possesso materiale dei beni, che viene visto dai protagonisti dei racconti verghiani come l’unica possibilità di contrastare la miseria della condizione umana, che si caratterizza per una lotta di sopravvivenza, che rende inesausti gli individui, che – in linea con quanto Giovanni Verga aveva affermato ne I Malavoglia – vede solo vinti e nessun vincitore. Queste tematiche, però, sono affrontate con un approccio narrativo diverso sia rispetto a Vita dei campi sia rispetto a I malavoglia, caratterizzandosi i racconti verghiani “rusticani” per una particolare attenzione alle problematiche socio-economiche della Sicilia dell’epoca post-unitaria e da toni descrittivi decisamente più cupi, che, a ben vedere, sono quelli che caratterizzano il marcato pessimismo esistenziale di Mastro-don Gesualdo[13].
Nelle Novelle rusticane, inoltre, trovano prepotentemente spazio i temi della giustizia e del potere, che alimentano l’approccio pessimistico verghiano e ci fanno comprendere quale fosse il punto di vista del Maestro etneo rispetto a queste complesse tematiche, al contempo, istituzionali e socio-economiche.
Questi temi, in particolare, assumono una connotazione narrativa centrale nelle novelle intitolate Il reverendo, Don Licciu Papa e Libertà, alle quali vorrei dedicare qualche breve riflessione.
Il primo di questi racconti, Il reverendo, si incentra sulle descrizioni della resistenza ai cambiamenti istituzionali in corso nella Sicilia post-unitaria e dell’esercizio prevaricatore del potere da parte del ceto ecclesiastico. Il protagonista, in breve, attraverso complessi percorsi giudiziari, persegue la tutela dei propri interessi materiali che coincidono con la protezione della “roba” accumulata nel corso della vita.
La novella mette in evidenza l’ascesa sociale del protagonista – il reverendo appunto – che, partito da origini modeste, con un’abile strategia, si impone sui compaesani e, abusando del potere conquistato, accresce le proprie ricchezze. La scalata del reverendo, tra l’altro, viene consentita non solo dall’utilizzo degli strumenti giudiziari, ma anche dai suoi poteri sacramentali, di cui la confessione è lo strumento principe. Per moltiplicare il patrimonio il reverendo si avvale dei suoi rapporti collusivi con le autorità del posto. In particolare, afferma Verga, «egli era tutt’uno col giudice e col capitano d’armi e il re Bomba gli mandava i capponi a Pasqua e a Natale per disobbligarsi […]»[14].
Il secondo di questi racconti è intitolato Don Licciu Papa ed è una novella in cui, ancora una volta, campeggia il tema della giustizia, strumentale alla tutela “roba”. Vi si descrive la vicenda giudiziaria che coinvolge un pecoraio, Arcangelo, che si pone contro il protagonista, ancora una volta un parroco, finendo per essere schiacciato dal suo antagonista che – come nel caso de Il reverendo – è, al contempo, ecclesiastico e giudiziario.
In questo caso contro l’umile protagonista perseguitato dall’avido parroco si schierano non solo le leggi umane ma anche quelle divine, perché ad Arcangelo, a conferma della sua empietà e della sua, intrinseca, ingiustizia, andava male anche l’allevamento, perché chi si mette contro la volontà espressa del ministro di Dio, si mette contro Dio e dev’essere castigato. In un passaggio esemplare del racconto, Verga notava che ad Arcangelo «le pecore gli morivano come le mosche, ai primi freddi d’inverno, ché il Signore lo castigava perché se la pigliava con la Chiesa» […]»[15].
Il terzo e più famoso dei racconti sulla giustizia delle Novelle rusticane è certamente Libertà, che è la storia di una rivolta contadina realmente avvenuta a Bronte nel 1860, nell’immediatezza dell’annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno di Sardegna, sedata con efferatezza da Nino Bixio. Introduce il tema dell’immobilismo politico-istituzionale del mondo isolano, sul quale, in epoche diverse, si sarebbero confrontati con esiti narrativi mirabili Federico De Roberto[16] e Giuseppe Tomasi di Lampedusa[17].
La storia di questa novella verghiana è nota e non occorre tornarci; quello che, invece, è indispensabile comprendere è che, anche in questo caso, la giustizia viene utilizzata per asservire gli interessi dei potenti e stroncare, secondo il loro volere, le iniziative popolari per non inquietare la borghesia italiana nel momento dell’unificazione nazionale.
In questa cornice, la parola “libertà” che dà il titolo alla novella è legata al fraintendimento del termine “giustizia” – inteso nella sua accezione di uguaglianza sociale – e fa trasparire la visione irrimediabilmente pessimistica del mondo di Verga, sullo sfondo dell’idea, anch’essa pessimistica, del funzionamento delle istituzioni giudiziarie. Esemplare, da questo punto di vista, è uno dei passaggi conclusivi della novella, in cui, con toni tragicomici, il Maestro etneo afferma: «Gli avvocati armeggiavano fra le chiacchiere, coi larghi maniconi pendenti, e si scalmanavano, facevano la schiuma alla bocca, asciugandosela subito col fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco. I giudici sonnecchiavano, dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore [...]. Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: «Dove mi conducete? In galera? O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà! [...]»[18].
Da queste brevi ma spontanee espressioni che si formano, quasi con torpore, sulle labbra di una persona che sembra si stia appena svegliando da un lungo e profondo sonno, si ricava la visione sfiduciata che Giovanni Verga aveva della giustizia e dei suoi distratti rappresentanti[19], vissuta non solo come la critica tradizionale osserva, con rassegnazione, ma anche, che è ben più importante, con torpida meraviglia sotto la quale, forse, potrebbe riposare, giacere assopito, il démone della ribellione.
Gli ultimi della scala sociale si approcciano alle istituzioni giudiziarie con un atteggiamento fatalistico e sconsolato, avvertendo il mondo giurisdizionale come un destino inesorabile che sovrasta la popolazione, la quale, di fatto, non ne comprende i meccanismi di funzionamento né il significato più intimo. Ma più in là nel tempo, non sappiamo che potrebbe accadere. Di solito queste domande hanno una risposta dopo che una reazione è avvenuta. Diciamo che la rassegnazione la annota Verga, ma quel che si cela sotto di essa o quel che essa è capace di determinare quando l’uomo rassegnato avvampa non può saperlo né il vinto né tanto meno Verga. Il lettore non può andare oltre quel che vede.
Nella prospettiva delle Novelle rusticane, dunque, il diritto è sostanzialmente uno strumento di prevaricazione istituzionale, utilizzato dai ceti dominanti per difendersi dalle rivendicazioni sociali ed economiche degli umili verghiani, le cui pretese – giuste o ingiuste che siano, non è questo il problema – sono stroncate con le armi del potere, tra le quali ruolo principale viene assunto dalla giustizia e dai suoi disinteressati esponenti.
Per questo, ogni discorso ideale o morale sulla giustizia, nella dimensione verghiana – che, a ben vedere, non è dissimile da quella degli imputati inconsapevoli descritti, quasi un secolo dopo, da Dante Troisi con grande incisività[20] –, è inevitabilmente una mistificazione culturale, strumentale all’esercizio di un potere di prevaricazione utilizzato dai ceti dominanti ai danni degli umili verghiani, che sono i vinti magnificati dalle sue narrazioni, rassegnati di fronte ai tempi e agli esiti della giurisdizione, che li vede inesorabilmente Vinti.
3. Il Ciclo dei Vinti: l’impotenza degli esseri umani di fronte alla giustizia e l’accentuazione del fatalismo verghiano
Com’è noto, con l’espressione Ciclo dei Vinti si indica il complesso dei romanzi che avrebbe dovuto realizzare un impegnativo progetto letterario verghiano, articolato in cinque opere narrative.
Di questo progetto soni stati realizzati solo i primi due romanzi: I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo. I Malavoglia, pubblicato nel 1881, rappresenta le vicende di una famiglia di pescatori siciliani di Aci Trezza, che lotta per la propria sopravvivenza; Mastro-don Gesualdo, pubblicato nel 1889, rappresenta le vicende di un operaio edile che riesce a scalare la gerarchia sociale di Vizzini, un paese della provincia etnea, crocevia delle tre province di Catania, Siracusa e Ragusa.
Il terzo di questi romanzi, intitolato La Duchessa di Leyra, mira a descrivere le ambizioni aristocratiche della piccola nobiltà terriera isolana. L’opera fu iniziata ma non fu completata. Federico De Roberto ne ha ricostruito e pubblicato i primi due capitoli.
Avrebbero dovuto completare il Ciclo dei vinti altri due romanzi: L’onorevole Scipioni e L’uomo di lusso, progettati per rappresentare le ambizioni dell’alta società isolana, in una sorta di percorso sociale, che partiva dalla condizione di emarginazione de I Malavoglia e si concludeva con la condizione alto-borghese, sostanzialmente parassitaria, de L’uomo di lusso.
Le ragioni per cui il progetto verghiano del Ciclo dei Vinti non andò in porto non sono rilevanti ai presenti fini, anche se su alcune delle possibili cause, che ne impedirono la realizzazione torneremo più avanti. Quello che, invece, ci interessa evidenziare è che l’idea di giustizia che pervade I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo costituisce la prosecuzione ideale delle tematiche relative ai rapporti tra le istituzioni giudiziarie e i Vinti.
Giovanni Verga, dunque, porta a ulteriore compimento le sue riflessioni sull’uomo e le istituzioni giudiziarie attraverso un percorso che conduce il lettore a valutare il rapporto che gli esseri umani sviluppano con il contesto sociale in cui vivono, che può essere compreso solo mediante un’analisi scrupolosa e impersonale dei protagonisti. Ne I Malavoglia questo rapporto si manifesta in un modo elementare, primordiale, essendo espressione di una lotta per il soddisfacimento dei bisogni materiali dei componenti della famiglia Toscano; soddisfatti questi bisogni, però, il rapporto tra l’individuo e il contesto sociale diventa più complesso, si stratifica, rendendo più vivido il tessuto narrativo verghiano e facendoci comprendere come nessun essere umano può vivere in modo svincolato dal milieu nel quale opera e del quale è espressione[21].
In questa cornice, il Ciclo dei Vinti esprime la visione fortemente pessimistica dei rapporti sociali secondo Giovanni Verga. Si ammette la possibilità di elevazione esistenziale dell’individuo appartenente ai ceti più modesti, ma si riconoscono pure le difficoltà di miglioramento economiche e sociali, che rendono sostanzialmente inutile la funzione di intermediazione svolta dalle istituzioni giudiziarie, inadatte ad aiutare gli strati più poveri della società e a tutelarne le legittime istanze[22].
Esemplare, da questo punto di vista, è il ruolo svolto dall’avvocato Scipioni[23] nella vendita della Casa del Nespolo dei Malavoglia, che convince la famiglia Toscano a cedere alle istanze dei creditori, fattisi avanti prepotentemente dopo il tragico naufragio della “Provvidenza”. Lo stesso avvocato Scipioni è protagonista di un altro episodio cruciale del racconto, atteso che dopo avere accoltellato Don Michele Cipolla, ‘Ntoni Toscano riesce a evitare una pesante condanna penale a causa del fatto che il difensore dell’aggressore lascia intendere che la rissa era scoppiata perché l’imputato voleva difendere la reputazione della sorella Lia – che nel corso della narrazione si darà alla prostituzione –, della quale la vittima si era invaghita, gettando ulteriore discredito sulla già martoriata famiglia Toscano.
Considerazioni analoghe valgono per la vicenda delle tensioni per l’affitto delle terre comunali di Vizzini, descritta nel primo capitolo della seconda parte di Mastro-don Gesualdo, dove il protagonista utilizza le leggi del tempo per avere la meglio sugli altri contendenti, allo scopo di prevaricare gli avversari e accaparrarsi le terre comunali.
Gesualdo Motta, del resto, arriva addirittura a entrare nella carboneria isolana pur di raggiungere i suoi obiettivi, nei quali si intrecciano scopi sentimentali – collegati al matrimonio fallimentare con Bianca Trao – e scopi più squisitamente verghiani, come l’attaccamento alla “roba” faticosamente accumulata con il duro lavoro[24], di cui il protagonista è un rappresentante esemplare.
In altri termini, in una società dominata da meccanismi di sopravvivenza tipicamente antagonistici, accentuati dall’affermazione prepotente del mondo capitalistico, il mondo del diritto e le istituzioni giudiziarie non possono svolgere alcun ruolo effettivo di tutela degli umili, operando con una funzione esclusivamente rappresentativa dei ceti dominanti, rispetto alla quale gli umili non possono che trasformarsi, inesorabilmente, in Vinti. L’esistenza umana, del resto, è reputata da Giovanni Verga come una dura lotta per la sopravvivenza destinata alla sopraffazione delle persone, con un meccanismo crudele che distrugge gli individui più deboli a vantaggio di quelli più forti; quest’ultimi riescono a dominare gli avversari, anche attraverso le leggi istituzionali, che sono espressione del ceto dominante.
Giovanni Verga, pertanto, vede la società umana come un consesso di individui antagonisti, in cui ognuno tende a prevaricare l’altro per non essere sopraffatto.
Appare utile, in proposito, il richiamo alla teorica dell’individualismo possessivo, tipicamente capitalistica, ma anche allo stato di natura prefigurato da Thomas Hobbes[25], secondo cui l’uomo è il principale nemico degli altri uomini (homo hominis lupus est), vivendo una condizione che, secondo il Maestro etneo, non è superata dall’apparato legislativo espresso dallo Stato. Le istituzioni pubbliche, infatti, soprattutto tra le classi sociali più umili, non sono viste come strumento di tutela delle istanze individuali, ma come ente indifferente o, peggio ancora, come un nemico, in linea con quanto affermato dallo stesso Verga in alcune delle Novelle rusticane, (Il reverendo, Don Licciu Papa e Libertà)[26].
Lo stesso Mastro-don Gesualdo, del resto, costituisce la concretizzazione della visione della società di Giovanni Verga, antagonistica e alienante, atteso che, da semplice muratore diventa imprenditore edile, proprietario terriero e, infine, marito di una nobildonna, Bianca Trao. La scalata sociale, però, non gli comporta alcun riconoscimento nella sua amata-odiata Vizzini, la cui popolazione, al contrario, lo isola, essendo Gesualdo Motta detestato sia dagli strati popolari del paese, invidiosi della sua inarrestabile scalata sociale, sia dal ceto nobiliare locale, che lo considera solo un parvenu, inadeguato a interloquire con loro e incapace di condividerne abitudini e rituali.
4. L’ultimo Giovanni Verga: il prematuro silenzio narrativo e la riscoperta tardiva di uno dei padri del romanzo italiano
La parte conclusiva della vita di Giovanni Verga, trascorsa nel palazzo di famiglia, ubicato in Via Sant’Anna a Catania, ancorché poco conosciuta, è uno degli aspetti di maggiore fascino dello scrittore. Le modalità con cui il Maestro etneo trascorse questi anni ci forniscono anche alcune indicazioni sull’atteggiamento che lo scrittore teneva verso le “cose della giustizia”, che possono farci comprendere il senso con cui i suoi personaggi si avvicinano alle istituzioni giudiziarie.
Le ragioni di interesse di questa lunga fase della vita di Verga, durata dal 1893, quando lo scrittore lascia definitivamente Milano, alla sua morte, avvenuta il 27 gennaio 1922 per ictus cerebrale, sono molteplici.
Una di esse è certamente quella della lunghezza di questa fase, durata ben ventotto anni, durante i quali la vena narrativa di Verga si attenua. Basti, in proposito, considerare che le ultime opere di finzione narrativa sono due raccolte di racconti – intitolate Il capitano D’Arce e Don Candeloro e C. – pubblicate dai Fratelli Treves di Milano nel 1891 e nel 1894, oltre un ventennio anni prima della sua morte, rendendo evidente l’allontanamento dalle precedenti opere.
Un’altra delle ragioni di interesse è data dal fatto che i motivi dell’allontanamento di Verga dal mondo narrativo non sono mai stati del tutto chiariti, oscillando i pur attenti esegeti dell’opera verghiana tra cause collegate all’esaurimento della sua vis narrativa e cause collegate al pessimismo esistenziale che aveva caratterizzato la parte finale della sua vita; quest’ultimo profilo, a sua volta, si collegherebbe alle gravose incombenze familiari a cui lo scrittore si era dovuto dedicare dopo il suo ritorno a Catania.
L’attenuazione della vena narrativa, invero, è un dato di fatto incontroverso, reso evidente dall’abbandono del progetto legato alla stesura del Ciclo dei Vinti, che, come si è detto, si interruppe con l’incompiuto La Duchessa di Leyra, di cui conosciamo solo due capitoli, appena abbozzati[27].
Con la pubblicazione di Mastro-don Gesualdo, avvenuta nel 1889 presso i Fratelli Treves di Milano, l’attività di romanziere di Verga si interrompe, essendo I ricordi del capitano D’Arce[28] e Don Candeloro e C.[29] due raccolte di racconti. Queste raccolte costituiscono l’espressione di una fase ormai conclusiva dell’opera verghiana, che, del resto, con I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo – come verrà riconosciuto a partire dall’inizio del ventesimo secolo[30] – aveva raggiunto l’apice della letteratura del suo tempo.
Per altro verso, non può non rilevarsi che, considerando I ricordi del capitano D’Arce e Don Candeloro e C., l’attività letteraria di Giovanni Verga era proseguita per oltre un trentennio, essendo riconducibile il suo esordio letterario alla pubblicazione de I carbonari della montagna[31], avvenuta nel 1861.
Né può trascurarsi che l’attività di narratore di Giovanni Verga s’accompagnò a quella di autore teatrale, testimoniata da un nutrito numero di opere, una delle quali, Cavalleria rusticana – su cui si sviluppò un’aspra controversia giudiziaria[32] –, grazie alle musiche di Pietro Mascagni e al libretto di Giovanni Targioni Tozzetti e Guido Menasci, diventò una delle opere liriche di maggiore successo della sua epoca, venendo, tra l’altro, adattata per il cinema con sei differenti trasposizioni.
L’attività di autore teatrale di Giovanni Verga, inoltre, proseguì ben oltre la pubblicazione delle raccolte di racconti de I ricordi del capitano Arce e Don Candeloro e C., essendo l’ultima fatica teatrale di Giovanni Verga Dal mio al tuo[33], edita nel 1903 dai Fratelli Treves; opera che venne riadattata in forma di romanzo nel 1905.
Il prematuro silenzio letterario di Giovanni Verga, dunque, è storicamente assodato, ma deve essere confinato alla sola attività di narratore, che effettivamente si interruppe nel 1894, con la pubblicazione di Don Candeloro e C., a cui fecero séguito alcuni interventi confinati al mondo teatrale, dal quale lo scrittore etneo si allontanerà a partire dal primo decennio del ventesimo secolo; solo allora, con la pubblicazione di Dal mio al tuo, datata 1903, si può parlare di definitivo allontanamento dalla scena letteraria di Verga, che, ormai sessantatreenne, si dedicherà esclusivamente alle sue incombenze familiari, conducendo, a Catania, una vita ritirata, sviluppatasi tra il suo palazzo di Via Sant’Anna e la sede del Circolo Unione, in Via Etnea.
Rimangono da chiarire le ragioni del prematuro distacco dall’attività narrativa, per le quali non azzardo ipotesi, essendosi cimentati nella risoluzione di tale dilemma, umano e artistico, alcune tra le figure più importanti della critica letteraria italiana.
Certamente contribuì al distacco il suo definitivo rientro a Catania, intorno al 1893, a cui fecero séguito le pesanti incombenze di proprietario terriero di cui era gravato; incombenze che crebbero con la morte del fratello Pietro, avvenuta nel 1903, in conseguenza della quale si vide assegnare la tutela dei nipoti, Giovanni, Caterina e Marco, che successivamente adottò, facendoli diventare suoi figli legittimi.
A mio modesto avviso, questa lettura delle cause del progressivo allontanamento di Verga dalle scene letterarie italiane sembra essere avvalorata dallo stesso scrittore, che, nel corso di una conversazione con Giuseppe Villaroel[34], riportata in appendice alla più volte citata opera di Luigi Russo, a proposito del suo allontanamento dal mondo letterario, affermava: «Io, per esempio, sono stato distratto gravemente dalla morte di mio fratello. Prima vivevo fuori, conducevo la vita più spensierata del mondo, lavoravo quando volevo, come volevo. Libertà assoluta e piena»[35].
E ancora: «Dopo la morte di mio fratello, invece, piombai nel più bruto materialismo. Divenni un buon padre di famiglia. Sentii pesare su me tutte le preoccupazioni comuni: gli affari ordinari dell’esistenza, l’educazione dei miei nipoti di cui ero divenuto tutore, la cultura dell’ingranaggio oscuro e intimo della famiglia mi afferrò. E come poteva avvenire diversamente!?»[36].
Giovanni Verga così concludeva questo passaggio della conversazione con Giuseppe Villaroel: «Così ho dovuto interrompere il Ciclo»[37].
Nient’altro mi sembra di potere aggiungere alle parole dell’illustre romanziere, scusandomi conclusivamente con gli eventuali lettori per qualche approssimazione o per inevitabili omissioni. La conoscenza umanistica, d’altronde, va ritenuta ed è, inevitabilmente, in permanente evoluzione.
[1] Desidero ringraziare per i preziosi consigli che mi hanno fornito durante la stesura di questo intervento i professori Mario Grasso e Ugo Maltese – il primo noto poeta e il secondo bibliofilo di lungo corso – della cui amicizia mi onoro. Entrambi hanno costituito un punto di riferimento insostituibile per questa mia incursione su un terreno, quello verghiano, da me molto amato ma esplorato in modo quasi privato.
All’ineguagliabile cultura bibliografica di Mario Grasso e di Ugo Maltese devo anche alcuni fondamentali suggerimenti metodologici, che mi hanno consentito di acquisire notizie biografiche poco praticate dall’accademia ufficiale, con la sola eccezione di Luigi Russo, concernenti il periodo1893 - 1922. Proprio il 27 gennaio 1922 Verga moriva, ottantunenne, per ictus cerebrale.
[2] Ciclo narrativo che, com’è noto, trae origine da G. Verga, Vita dei campi, Fratelli Treves, Milano, 1880; in realtà l’approccio verista alla letteratura del Verga deve farsi risalire a diversi anni prima, tanto è vero che il Maestro etneo, nell’autunno del 1874, aveva cominciato a lavorare a un bozzetto di ispirazione marinaresca, intitolato Padron ‘Ntoni, diventato poi il nucleo narrativo de I Malavoglia.
[3] In questa direzione mi sembra utile richiamare un passaggio della prefazione, scritta dallo stesso Verga per la prima edizione de I malavoglia (Fratelli Treves, Milano, 1881), in cui si afferma: «Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola, vissuta sino allora relativamente felice, la vaga bramosia dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio».
[4] Per una ricognizione delle principali vicende biografiche di Verga mi permetto di rinviare a N. Cappellani, Vita di Giovanni Verga, Opere di Giovanni Verga, Le Monnier, Firenze 1940; G. Cattaneo, Giovanni Verga, UTET, Torino 1963; F. De Roberto, Casa Verga e altri saggi verghiani, a cura di C. Musumarra, Le Monnier, Firenze 1964.
[5] Occorre, in proposito, ricordare che il primo, grande, scopritore-riscopritore dell’opera di Giovanni Verga, sostanzialmente dimenticata a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo e soppiantata dai successi editoriali di Gabriele D’Annunzio e Antonio Fogazzaro, mal sopportati dal Maestro etneo, fu Benedetto Croce che, ne La Critica (Ricciardi, Napoli, 1904), espresse giudizi molto positivi nei confronti del nostro Autore, avviando una lettura più attenta della sua produzione.
Questa riscoperta, ulteriormente testimoniata dal fatto che nel 1918, quattro anni prima di morire per ictus cerebrale, Verga venne nominato senatore a vita, giunge a definitivo completamento con la pubblicazione dell’opera di L. Russo, Giovanni Verga, Ricciardi, Napoli, 1920, che determinò il vero rilancio dell’autore nel mondo letterario italiano.
[6] L’espressione «fiumana del progresso» venne utilizzata da Verga per descrivere la condizione socio-economica propria del Ciclo dei Vinti, che emargina coloro che non riescono a stare al passo con il progresso della società, travolgendo inesorabilmente e violentemente i ceti sociali inferiori e – potremmo dire con un’espressione oggi molto in voga – meno resilienti.
[7] Per l’influenza dell’ideologia positivista sul pensiero della seconda metà del diciannovesimo secolo si rinvia ad A. Comte, Corso di filosofia positiva, a cura di F. Ferrarotti, UTET, Torino, 1967.
[8] Si veda P.W.M. De Meijer, Costanti del mondo verghiano, edizioni Salvatore Sciascia, Roma 1969, pp. 27 ss.
[9] Vedi infra § 3.
[10] Si veda L. Russo, Giovanni Verga, cit., pp. 131 ss.
[11] Si veda G. Verga, Novelle rusticane, Torino, Casanova, 1882.
[12] Vedi supra nota numero 2.
[13] Si veda G. Verga, Mastro-don Gesualdo, Fratelli Treves, Milano, 1889.
[14] Si veda G. Verga, Tutte le novelle, Mondadori, Milano, 1990, p. 232.
[15] Si veda G. Verga, op. ult. cit., p. 251.
[16] Ci si riferisce a F. De Roberto, I Vicerè, Galli, Milano, 1894.
[17] Ci si riferisce a G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano, 25 ottobre 1958.
[18] Si veda G. Verga, Tutte le novelle, cit., p. 347.
[19] La sfiducia di Giovanni Verga nelle istituzioni giudiziarie traeva origine anche da alcune sue personali vicende giurisdizionali, di talune delle quali ci si occuperà nel paragrafo conclusivo, che, unitamente alla cura delle sue proprietà terriere, gli destarono grande preoccupazioni nell’ultima parte della sua vita.
[20] Si veda D. Troisi, Diario di un giudice, Einaudi, Torino, 1953; su questi temi, tra l’altro, mi sono soffermato in A. Centonze, Il Diario di un giudice e le riflessioni senza tempo di Dante Troisi, in Giustizia Insieme (www.giustiziainsieme.it), 7 dicembre 2020, pp. 1-12.
[21] Mi sembra utile richiamare un altro passaggio della prefazione, scritta dallo stesso Verga per la prima edizione de I Malavoglia, in cui, a proposito delle spinte emotive che animano gli esseri umani, si afferma: «Il movente dell'attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in quelle basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior precisione. Basta lasciare al quadro le sue tinte schiette e tranquille, e il suo disegno semplice. Man mano che cotesta ricerca del meglio di cui l'uomo è travagliato cresce e si dilata, tende anche ad elevarsi e segue il suo moto ascendente nelle classi sociali […]».
[22] Si veda P.W.M. De Meijer, Costanti del mondo verghiano, cit., pp. 35-38.
[23] Anche se non si ha alcuna certezza in proposito, alcuni autorevoli critici ritengono che l’avvocato Scipioni, citato nei capitoli VI e XIV de I Malavoglia, nelle originarie intenzioni di Verga potesse essere il protagonista de «L’onorevole Scipioni», quarta opera del Ciclo dei Vinti, che non superò mai la soglia meramente progettuale; si rinvia, in proposito, a L. Russo, Giovanni Verga, cit., pp. 192 ss.
[24] Vedi supra § 2.
[25] In questo contesto, si veda la ricostruzione storica di C.B. Macpherson, Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese. La teoria dell’individualismo possessivo da Hobbes a Locke (1962), trad. it., Isedi, Milano, 1973, dove si stabilisce un parallelismo tra sviluppo capitalistico e affermazione dello Stato borghese moderno, osservandosi che la sovranità nazionale è inseparabile dal mercato.
[26] Vedi supra § 2.
[27] Vedi supra § 2.
[28] Si veda G. Verga, I ricordi del capitano Arce, Fratelli Treves, Milano, 1891.
[29] Si veda G. Verga, Don Candeloro e C., Fratelli Treves, Milano, 1891.
[30] Vedi supra nota numero 5.
[31] Si veda G. Verga, I carbonari della montagna, Galatolo, Catania, 1861-1862.
[32] Occorre precisare che, dopo la messa in scena della Cavalleria rusticana da parte di Pietro Mascagni, Giovanni Verga accusò l’editore Sonzogno di plagio, intentando nei suoi confronti una lunga causa, che, tra alterne vicende, si concluse nel 1893 con una transazione, all’esito della quale venne corrisposta allo scrittore la somma, ragguardevole per l’epoca, di 143.000 lire, che, tra l’altro, comportò la cessazione degli assilli economici che avevano caratterizzato la sua vita dopo il ritorno a Catania.
[33] Si veda G. Verga, Dal mio al tuo, Fratelli Treves, Milano, 1906.
[34] Si tratta della conversazione tra Giovanni Verga e Giuseppe Villaroel pubblicata sul Messaggero della Domenica del 19 marzo 1919, riportata in L. Russo, Giovanni Verga cit., pp. 229 ss.
[35] Si veda L. Russo, Giovanni Verga cit., p. 230.
[36] Si veda L. Russo, op. ult. cit., p. 230.
[37] Si veda L. Russo, op. ult. cit., p. 230.
La Corte di Giustizia risponde alle S.U. sull’eccesso di potere giurisdizionale. Quali saranno i “seguiti” a Corte Giust., G. S., 21 dicembre 2021 - causa C-497/20, Randstad Italia? - 3) Paolo Biavati
Intervista di Roberto Conti a Paolo Biavati*
[Per l'introduzione al ciclo di interviste si rinvia all'Editoriale]
1. Il dispositivo reso dalla Corte di Giustizia a conclusione della fase del rinvio pregiudiziale non sembra lasciare margini di dubbio in ordine al “responso” del giudice di Lussemburgo. Chiamata a testare, sotto il profilo della compatibilità con il principio di effettività di matrice UE, l’istituto dell’eccesso di potere giurisdizionale come declinato dal diritto vivente interno, la Grande Sezione ha escluso che la violazione del diritto UE perpetuata dal supremo organo della giustizia amministrativa – nel caso concreto perpetrata per avere ritenuto irricevibile il ricorso contro l’aggiudicazione di un appalto presentato dalla ditta esclusa dalla gara non in via definitiva - possa vulnerare il principio di effettività laddove sia escluso dal sistema interno che gli offerenti partecipanti all’aggiudicazione possono contestare la conformità al diritto dell’Unione della sentenza del supremo organo della giustizia amministrativa nell’ambito di un ricorso dinanzi all’organo giurisdizionale supremo di detto Stato membro. Valuta questa conclusione appagante, soddisfacente o non condivisibile?
In primo luogo, ringrazio la redazione di Giustizia insieme per avermi voluto coinvolgere in questo confronto, a fianco di illustri studiosi. Mi auguro che le mie risposte non siano troppo superficiali, perché a me pare che l’intera questione sia piuttosto semplice.
Infatti, a me sembra che la conclusione a cui è pervenuta la Corte di giustizia sia assolutamente prevedibile e perfino scontata. Chi appena conosca la prudenza con cui si muovono i giudici del Kirchberg, non poteva dubitare su un esito destinato a non intaccare l’assetto costituzionale italiano del riparto della giurisdizione.
Certo, la Corte richiama il primato del diritto dell’Unione anche nei confronti di norme di rango costituzionale (punto 52) e, a mio avviso, non poteva evitare di farlo, nella prossimità della fin troppo nota vicenda polacca. Nel contempo, però, viene a riaffermare il principio di autonomia procedurale (punto 58) ed esclude che il sistema italiano, di cui agli artt. 111, comma 8°, cost. e 362 c.p.c., si ponga in collisione con i parametri dell’equivalenza della tutela dei diritti di derivazione europea rispetto a quelli garantiti dall’ordinamento interno e della non eccessiva difficoltà dell’esercizio del diritto di difesa (punti 61 e 63).
In realtà, secondo me, la Corte di Lussemburgo ha deciso correttamente, per la semplice ragione che il tema del rispetto del diritto dell’Unione, in questo caso, non è veramente quello centrale, ma è soltanto il terreno scelto dalle Sezioni unite nella loro pluriennale battaglia, tesa ad allargare i confini del controllo sulle pronunce del Consiglio di Stato. Detta in maniera brutale, l’osservanza del diritto europeo è poco più di un pretesto. Basterebbe chiedersi che cosa accade quando è la stessa Cassazione a violare il diritto dell’Unione (si rilegga il punto 26, che riporta la motivazione delle Sezioni unite nell’ordinanza di rinvio) e non è difficile ricordare alla suprema Corte che la prima condanna nei confronti dell’Italia per inadempimento ai trattati a causa della mancata applicazione del diritto europeo da parte di un giudice di ultima istanza fu pronunciata, quasi vent’anni fa, proprio a causa di scelte giurisprudenziali della Cassazione e non certo del Consiglio di Stato (sentenza Commissione c. Italia del 9 dicembre 2003). Ora, è vero che l’attenzione della Cassazione verso il diritto europeo è oggi molto più sensibile rispetto agli ultimi anni del secolo scorso, ma il “quis custodiet custodem” è un problema insolubile, perché vi sarà sempre un giudice contro le cui decisioni non si può ricorrere.
Posto che, piaccia o no, l’ordinamento europeo non ha (ancora) carattere federale, resta il fatto che i rimedi nei confronti dell’inosservanza del diritto dell’Unione da parte dei giudici nazionali di ultima istanza sono deboli e indiretti. La Commissione è cauta nel proporre ricorsi per inadempimento (punto 79) e, a quanto si vede, tende a muoversi quando l’inosservanza diventa sistemica e non per un dato caso singolo. L’azione di responsabilità verso lo Stato membro, a sua volta, è sottoposta a condizioni rigorose, senza dimenticare il tema della durata dei giudizi, che allontana il momento della realizzazione della tutela (punto 80).
Tutto questo, però, sul piano del diritto dell’Unione, non giustifica il tentativo delle Sezioni unite di allargare in modo “dinamico” gli spazi della giurisdizione ordinaria rispetto a quelli della giurisdizione amministrativa. Un tentativo di natura prettamente interna, rispetto al quale il Kirchberg si è ben guardato dall’intervenire.
Un’ultima notazione. Alla base dell’iniziativa delle Sezioni unite, sussistono ragioni, in senso lato politiche, che devono essere apprezzate. L’attuale riparto di giurisdizione assegna al giudice amministrativo un vasto controllo su tutto il contenzioso economico più rilevante: per dirla plasticamente, in Cassazione vanno le cause condominiali, mentre il Consiglio di Stato decide sui piani urbanistici. Il legislatore è molto lontano dall’avventurarsi su questo terreno infido e quindi si spiegano gli sforzi delle Sezioni unite per riequilibrare la situazione. Ciò non toglie, però, che il tema della conformità delle pronunce al diritto dell’Unione non sia la strada corretta da percorrere.
2. La Corte di giustizia ha sottolineato che per eliminare gli effetti dannosi connessi alla violazione del diritto UE perpetrata per effetto di una decisione resa in via definitiva dal giudice amministrativo costituiscono idonei strumenti per eliminare le conseguenze dannose tanto il ricorso per inadempimento da parte della Commissione o l’azione di responsabilità dello Stato per violazione del diritto UE, nella ricorrenza dei presupposti fissati dalla giurisprudenza della Corte stessa- pp.79 e 80 sent. cit.-. Pensa che la fase discendente susseguente alla decisione della Corte di Giustizia potrà avere un seguito diverso da quello che il dispositivo della sentenza della Corte UE sembra avere scolpito in maniera nitida? Pensa, in altri termini, che dopo la pronunzia della Corte di giustizia le Sezioni Unite possano giungere ad un revirement, questa volta sul piano interno e non più su quello del diritto UE, rispetto al diritto vivente formatosi dopo la sentenza della Corte costituzionale n.6/2018 sui confini dell’eccesso di potere giurisdizionale? E in ipotesi di risposta positiva a tale quesito, Lei reputa che sarebbe possibile ampliare l’ambito della figura dell’eccesso di potere giurisdizionale da parte delle Sezioni Unite o risulterebbe necessario sollevare nuovamente una questione di legittimità costituzionale per suscitare una rimeditazione delle conclusioni espresse nella sentenza n.6/2018?
Per le ragioni che ho indicato rispondendo alla domanda precedente, è del tutto probabile che le Sezioni unite cercheranno altri sbocchi, tesi ad accrescere il controllo sulle pronunce del Consiglio di Stato ed è altrettanto verosimile che si muovano sul piano del diritto interno.
Tuttavia, a me sembra che la via dell’eccesso di potere giurisdizionale non sia convincente. L’eccesso di potere significa che un giudice ha esercitato un potere che non ha e non, invece, che ha esercitato male un potere che ha. I giudici amministrativi di ultima istanza hanno il potere di decidere i casi loro sottoposti, applicando obbligatoriamente il diritto dell’Unione, al pari del diritto interno. Diversamente ragionando, ogni atto di impugnazione dovrebbe consistere in una censura di eccesso di potere del giudice inferiore.
L’assetto dato dalla Consulta con la sentenza n. 6 del 2018, per il momento, governa con chiarezza il tema. La struttura della giurisdizione ripartita può non convincere e, personalmente, nel migliore dei sistemi possibili, vedrei meglio una giurisdizione unica con segmenti fortemente specializzati. Tutto questo, però, ci allontana dal quadro costituzionale attuale, una cui revisione non è certo all’ordine del giorno. Come ripeto, sarebbe opportuno, piuttosto, riscrivere l’allocazione di alcune materie, riportandole al giudice ordinario.
3. Che effetti potrebbe avere sulle questioni qui esaminate la decisione del legislatore che, di recente, ha introdotto quale forma di revocazione delle sentenze rese dal giudice civile ed amministrativo una nuova causa di revocazione -art.1, c.10 l.n.206/2021- per le ipotesi di contrasto della sentenza passata in giudicato resa dal giudice nazionale e una decisione della Corte dei diritti dell’uomo che abbia accertato la violazione della normativa convenzionale?
L’art. 1, comma 10°, della l. n. 206 del 2021 ha introdotto una forma di revocazione straordinaria per contrasto fra una sentenza passata in giudicato e una decisione successiva della Corte Edu. Questa norma (rectius, principio di delega) è una sorta di masso erratico nel contesto di una riforma tesa a semplificare e ridurre i tempi del processo civile: la disposizione è stata introdotta, come noto, in sede parlamentare e non era contemplata né nelle proposte della Commissione Luiso, né negli emendamenti governativi.
Di per sé, la norma non mi pare tocchi direttamente il tema in oggetto, perché la violazione di un diritto fondamentale garantito dalla convenzione è cosa diversa dalla violazione di una norma di diritto dell’Unione. Certo, si potrebbe pensare ad un ricorso a Strasburgo, basato sulla violazione dell’art. 6 Cedu, in ragione di una presunta lesione del diritto di difesa per l’impossibilità di impugnare in Cassazione una sentenza del Consiglio di Stato (ma, se non mi inganno, a prescindere dal fatto che la violazione concerna il diritto europeo o solo quello interno).
Credo, però, che difficilmente la Corte Edu potrebbe catalogare come violazione dell’art. 6 Cedu qualsiasi errore in diritto commesso da un giudice di ultima istanza e si può discutere se una materia come quella degli appalti pubblici rientri fra i diritti fondamentali e le libertà della persona.
Detto questo, la nuova revocazione straordinaria è (ancora una volta, rectius, sarà) una significativa innovazione nella costruzione dei rapporti fra il giudice nazionale e il diritto europeo, sia pure qui nel prisma della convenzione di Roma. In definitiva, non si viene a censurare una situazione di fatto di eccezionale gravità, come nelle ipotesi attuali, ma un errore di diritto del giudice, che sarà quasi sempre la Cassazione come giudice di ultima istanza.
4. Dopo la sentenza resa dalla Corte di Giustizia il 21 dicembre scorso, residuano a suo giudizio, ragioni di dubbi in ordine alla possibilità di sperimentare innanzi alle Sezioni Unite il vizio di eccesso di potere giurisdizionale sotto il profilo della mancata sollevazione del rinvio pregiudiziale innanzi alla Corte di giustizia da parte del giudice speciale di ultima istanza?
Il tema della mancata sollevazione del rinvio pregiudiziale da parte del giudice di ultima istanza non è suscettibile di adeguata e piena soluzione allo stato attuale del sistema dell’Unione europea. Come annotavo rispondendo alla prima domanda, non vi è alcuna ragione per supporre che le Sezioni unite saranno sempre pronte a rivolgersi al Kirchberg, e il Consiglio di Stato no.
Guardando alla questione dal punto di vista dell’Unione, occorre stimolare una sempre più sensibile e attenta collaborazione dei giudici interni. Guardandola nell’ottica dell’ordinamento italiano, non vedo come una qualsiasi autorità esterna possa comprimere la libera (seppure responsabile) valutazione delle massime autorità giurisdizionali.
Per rispondere alla domanda, quindi, credo che non restino ragioni di dubbio.
5. In definitiva, a suo giudizio è stato utile il dialogo fra Corte di Cassazione a sezione Unite e Corte di giustizia sul tema suscitato dall’ordinanza n.19598/2020 o si è trattato di un tentativo di aggirare l’orientamento espresso dalla sentenza n.6/2018, peraltro non dotato di efficacia vincolante per il giudice comune in relazione alla natura della sentenza di rigetto della questione di legittimità costituzionale da parte della Consulta?
Credo di essermi già espresso.
*Professore ordinario di Diritto processuale civile presso l'Università Alma Mater Studiorum di Bologna.
La Presidenza del Parlamento UE di David Sassoli. L’Europa e i diritti
di Roberto Conti
David Sassoli. Un non politico a presiedere il Parlamento europeo che in più di un biennio ha orientato il suo impegno in modo costante, univoco, accorato, verso il ruolo dell’Europa come garante dei diritti umani, in Europa e nel mondo.
Innumerevoli gli interventi, i discorsi, i comunicati, i Tweets, nelle quali il tratto comune è stato sempre e solo quello della valorizzazione del ruolo "umano" dell'Europa, di sentinella dei diritti.
«I nostri valori sono sotto attacco: il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali è stato intaccato negli ultimi decenni. L’autoritarismo e la xenofobia hanno trovato molti sostenitori che non hanno esitato a usare anche la pandemia come pretesto per minare le fondamenta dei nostri sistemi democratici». Queste le parole espresse dal Presidente Sassoli in occasione della Conferenza di alto livello sullo stato globale dei diritti umani, organizzata dal Parlamento europeo e dal Global Campus of Human Rights il 27 luglio 2021 - v. C. Barbetta, Dobbiamo lottare per proteggere i diritti umani, valori fondanti dell'Unione europea.
Il 15 dicembre 2021, in occasione della consegna del Premio Sacharov, così concludeva il suo intervento: «In un mondo in cui i regimi autoritari e le forze populiste attaccano i diritti umani e compromettono le libertà fondamentali, tutti questi vincitori del premio Sacharov, e fra loro Aleksej Navalnyj, stanno dimostrando a tutti noi, con il loro esempio, cosa significa non rinunciare mai a lottare per i diritti e le libertà. Sono una fonte di ispirazione per tutti coloro che sognano una società migliore e più giusta, in Russia e non solo. Il Parlamento europeo non risparmierà gli sforzi per sostenere le loro battaglie e per proteggerli».
In Europa, uomini e donne non sono eguali, tuonava l’8 marzo 2021, ricordandoci che l'identikit della povertà in Europa oggi è donna e madre, che la diseguaglianza salariale è un fenomeno reale e non virtuale, che il confinamento ha portato l'incremento dei femminicidi e delle violenze senza che l’Europa dei 27 abbia ancora introdotto, come parametro per valutare il rispetto dello stato di diritto fra i Paesi aderenti, quello della ratifica e del rispetto della Convenzione di Istanbul.
Diceva Sassoli, questa Europa ha valori e risorse per “sostenere la dignità delle persone, rendere giustizia alle donne, costruire uno spazio europeo che sia punto di riferimento in un mondo in cui l'eguaglianza non trova cittadinanza”.
Innumerevoli gli inviti ad un’efficace difesa dei principi dello stato di diritto in Europa, alla solidarietà come metodo delle politiche comunitarie, alla sostenibilità ambientale, alla dignità della famiglia umana ed ai diritti che ruotano attorno ad essa, all'esigenza di guardare verso una dimensione cosmopolita dei diritti umani.
La responsabilità di non dimenticare il degrado morale delle società del passato, improntate al nazismo e al fascismo fu la cifra di molte delle sue riflessioni pubbliche - Intervento del Presidente Sassoli alla commemorazione dell’eccidio nazista di Cibeno a Fossoli, sotto riportato in link - nelle quali non mancava di porre l’attenzione verso gli occhi e gli sguardi, troppo spesso ignorati, di prigionieri, migranti, discriminati, senza diritti, libertà e giustizia.
Attento nel ricordare che l’orrore del passato nasceva dentro grandi culture democratiche ma incapaci di fiutare per tempo il pericolo del fascismo e del nazismo. Culture sicure, diceva, che non fosse possibile un capovolgimento dei valori fondamentali di civiltà, nelle quali le classi dirigenti erano convinte di potere posporre la giustizia, la pace e l’uguaglianza, predicando che a tutto questo dovesse pensarsi “dopo”.
Ostinato nel ricordare che quel passato si insinuava e si insinua nel tempo presente quando si guarda alle preoccupazioni ed alla cura dei migranti dicendo che si fa il gioco degli scafisti o quando la magistratura ed il giornalismo indipendente non sono garanti delle democrazie e dei diritti, ma espressioni di disordine.
Sicuro nell’affermare che l’Europa è la casa delle famiglie e delle persone che vogliono amarsi ed hanno il diritto di farlo non necessariamente all’interno della famiglia biologica, dovendo prevalere al legame di sangue quello verso una fraternità fondata sul rispetto della dignità delle persone, nella quale i diritti delle persone e dell’umanità sono la misura di tutte le cose.
Un’Europa in cui mamma è dunque “colei che ti nutre e ti porta all’amore” anche se non ti ha generato.
Le battaglie sulle vicende Regeni e Zaki, solo le più recenti.
La centralità dello Stato di diritto come elemento portante della nuova Europa, oggi più che mai impegnata nel sanzionare i Paesi che mostrano preoccupanti derive autoritarie e nella quale senza la tutela dei valori essa perderebbe la sua funzione, fondata sul legame indissolubile fra diritti individuali e liberà sociali.
L'Europa, quella che lui piaceva, delle picconate al muro di Berlino, della costruzione in divenire che non dovrà mai fermarsi, un cantiere nel quale l’impegno delle generazioni successive richiederà di ampliare l’Europa ai Balcani occidentali.
Un’Europa che non è dunque soltanto integrata dalle istituzioni centrali e tecnocatiche di Bruxelles, ma anche un’Europa dei governi nazionali, delle ragioni, dei suoi cittadini, tutti tasselli e tutti mattoni.
Nel suo discorso di insediamento al Parlamento europeo, sottolineò che “lo spirito di Ventotene e lo slancio pionieristico dei Padri fondatori, che seppero mettere da parte le ostilità della guerra, porre fine ai guasti del nazionalismo dandoci un progetto capace di coniugare pace, democrazia, diritti, sviluppo e uguaglianza”.
Quando concludeva dicendo che l’Europa è il nostro destino, sapeva che molti l’avrebbero apprezzato, molti avrebbero applaudito ma tanti lo avrebbero osteggiato, non considerato, dimenticato.
Alcuni di noi, invece, se lo ricorderanno orgogliosi, per una volta, di essere italiani, connazionali di un uomo delle Istituzioni umano e visceralmente europeo.
Grazie Presidente Sassoli.
La Corte di Giustizia risponde alle S.U. sull’eccesso di potere giurisdizionale. Quali saranno i “seguiti” a Corte Giust., G. S., 21 dicembre 2021 - causa C-497/20, Randstad Italia? - 4) Renato Rordorf
Intervista di Roberto Conti a Renato Rordorf*
[Per l'introduzione al ciclo di interviste si rinvia all'Editoriale]
1. Il dispositivo reso dalla Corte di Giustizia a conclusione della fase del rinvio pregiudiziale non sembra lasciare margini di dubbio in ordine al “responso” del giudice di Lussemburgo. Chiamata a testare, sotto il profilo della compatibilità con il principio di effettività di matrice UE, l’istituto dell’eccesso di potere giurisdizionale come declinato dal diritto vivente interno, la Grande Sezione ha escluso che la violazione del diritto UE perpetuata dal supremo organo della giustizia amministrativa – nel caso concreto perpetrata per avere ritenuto irricevibile il ricorso contro l’aggiudicazione di un appalto presentato dalla ditta esclusa dalla gara non in via definitiva - possa vulnerare il principio di effettività laddove sia escluso dal sistema interno che gli offerenti partecipanti all’aggiudicazione possono contestare la conformità al diritto dell’Unione della sentenza del supremo organo della giustizia amministrativa nell’ambito di un ricorso dinanzi all’organo giurisdizionale supremo di detto Stato membro. Valuta questa conclusione appagante, soddisfacente o non condivisibile?
La conclusione cui è pervenuta la Corte di Giustizia mi sembra, in linea di massima, senz’altro condivisibile, ed anzi direi che era prevedibile. Quanto però ad appagarsene o a trarne soddisfazione la risposta è assai più complessa.
La conclusione è condivisibile per la fondamentale ragione che nulla davvero consente di ancorare il principio di effettività delle tutele cui si ispira il diritto europeo alla possibilità di proporre ricorso per cassazione avverso una pronuncia emessa dal giudice amministrativo di ultima istanza (ed, ovviamente, il medesimo discorso potrebbe valere anche per le pronunce del giudice contabile di ultima istanza), quasi che soltanto ove un tale ricorso sia ammesso la tutela possa dirsi davvero effettiva. Certo, nessun giudice possiede il dono dell’infallibilità e, quindi, in via teorica è anche possibile sostenere che la tutela delle parti in giudizio sia tanto più efficace quanto più si consente loro di rivolgersi ad un giudice di grado ulteriore per far correggere gli eventuali errori del provvedimento impugnato. Ma un simile ragionamento sarebbe estensibile anche ai provvedimenti emessi dalla stessa Corte di cassazione, la quale neppure è infallibile, e finirebbe allora, per esigenze di coerenza logica, col metterebbe capo ad una catena infinita di impugnazioni: conclusione evidentemente inaccettabile, il che basta a dimostrare la non plausibilità della premessa.
Volta che l’ordinamento interno garantisca la possibilità di ricorrere al giudice per far valere i propri diritti e, come nella vicenda di cui la Corte di giustizia si è dovuta qui occupare, contempli altresì un doppio grado di giudizio, il prevedere o meno anche l’ulteriore sindacato della Corte di cassazione sulla pronuncia del giudice d’appello è una scelta che pienamente compete al legislatore nazionale, perché non può dirsi che con tale scelta sia posta in discussione l’effettività della tutela giurisdizionale richiesta dal diritto dell’Unione europea, la quale non dipende dal numero dei gradi di giudizio contemplati dal diritto processuale di ciascuno Stato membro ma solo dal fatto che vi sia la possibilità di adire un giudice e che questi sia tenuto a provvedere nel rispetto del contraddittorio e del diritto di difesa di tutte le parti.
Appagamento e soddisfazione non sono affatto, tuttavia, i sentimenti che ho provato leggendo la sentenza della Corte di Giustizia di cui stiamo discutendo. Tutt’altro: perché mi pare che da questa vicenda non esca bene nessuna delle nostre magistrature superiori e che i nodi riguardanti il ruolo assegnato alla Corte di cassazione nel decidere le questioni inerenti alla giurisdizione restino irrisolti.
Da molti anni ormai il tema dell’assoggettabilità a ricorso per cassazione delle decisioni del giudice amministrativo (e contabile) di ultima istanza costituisce il terreno di un’ennesima “guerra delle corti”, combattuta sull’interpretazione dell’ultimo comma dell’art. 111 della Costituzione, che quel ricorso ammette “per i soli motivi inerenti alla giurisdizione”. Non occorre che ripercorra qui i termini della contesa, sulla quale fin troppo è già stato scritto (confesso di avervi pure io indegnamente contribuito) e che sono d’altronde ben desumibili anche dalla puntuale ed esauriente Introduzione che precede. Basterà osservare che se, da un punto di vista strettamente semantico, l’espressione adoperata nella citata disposizione costituzionale potrebbe effettivamente prestarsi ad una lettura molto ampia, perché qualsiasi decisione giudiziaria integra un atto di giurisdizione e quindi ogni motivo di censura che la riguardi potrebbe dirsi “inerente alla giurisdizione”, l’uso dell’avverbio limitativo “soli” ed il raffronto con il precedente settimo comma del medesimo art. 111, nel quale invece si prevede l’indiscriminata possibilità di ricorrere in cassazione avverso le sentenze di qualsivoglia giudice ordinario o speciale, rendono evidente che quando si tratta di provvedimenti del Consiglio di Stato o della Corte dei conti il sindacato della Corte di cassazione incontra maggiori limiti. E’ appunto sulla corretta individuazione di tali limiti che si è accesa la disputa, ma – me lo si lasci dire con estrema franchezza – i pur talvolta raffinati argomenti giuridici con i quali quella disputa è stata alimentata non valgono a stemperare la sgradevole sensazione che si tratti pur sempre di una delle purtroppo assai frequenti contese tra corpi dello Stato, più gelosi della propria autonomia o desiderosi di affermare la propria supremazia che preoccupati di dare risposte chiare ed adeguate alle esigenze degli utenti della giustizia.
Credo si debba riconoscere che il tentativo della Corte di cassazione di ampliare la sfera del proprio sindacato di legittimità nei confronti dei provvedimenti di ultima istanza del giudice amministrativo, ricomprendendovi non solo le vertenze in cui si tratti di individuare i presupposti dell'attribuzione del potere giurisdizionale o il giudice al quale di volta in volta tale potere compete ma anche, almeno in certe situazioni, la verifica delle forme in cui la tutela giurisdizionale concretamente si esplica, trova una forte giustificazione nell’indiscriminata proliferazione dei casi di giurisdizione esclusiva contemplati dal legislatore, il quale ha man mano esteso la giurisdizione del giudice amministrativo a settori prima tradizionalmente riservati al giudice ordinario finendo così per porre le premesse di una nomofilachia non coordinata, ed almeno potenzialmente strabica, pur se riferita alle medesime questioni di diritto o a questioni tra loro analoghe. Ma mi pare altrettanto doveroso riconoscere che non appare rimedio adeguato a tali inconvenienti l’elaborazione di una non meglio definita nozione di giurisdizione c.d. "dinamica" (o "funzionale" o "evolutiva"), genericamente ancorata al principio costituzionale del giusto processo o alla primazia del diritto comunitario ma in realtà potenzialmente in grado di estendere il sindacato della Cassazione ad una gamma indefinita di errores in iudicando o in procedendo imputabili al Consiglio di Stato e perciò tale da rendere di fatto quasi impalpabile la limitazione di quel sindacato che invece, come s’è detto, l’ultimo comma dell’art. 111 Cost. pur sempre presuppone. Giacché allora neppure appariva – né ora appare – realistico tagliare il nodo gordiano intervenendo direttamente sulla Costituzione per ripristinare l’unità della giurisdizione (ciò che varrebbe a risolvere in radice il problema in esame e garantirebbe l’esercizio univoco della funzione nomofilattica della Suprema corte), la strada pragmaticamente da imboccare per cercare di superare le suaccennate difficoltà avrebbe dovuto essere – e spero torni ad essere – quella del dialogo tra le corti alla ricerca di soluzioni il più possibile condivise e capaci di dare al quadro giuridico di riferimento la maggiore stabilità consentita. E vorrei ricordare che in questo senso ci si era mossi quando, ad esempio, prima di una delle tante occasioni in cui le Sezioni unite della cassazione sono state chiamate a pronunciarsi su pretesi eccessi di potere giurisdizionale del Consiglio di Stato (fu poi pronunciata dalle Sezioni unite la sentenza n 31226 del 2017), sono stati sollecitati contributi di studio non solo all’Ufficio del Massimario della Suprema corte ma anche all’Ufficio studi dello stesso Consiglio di Stato, e si è dato vita ad un incontro seminariale alimentato da interventi dei magistrati di entrambi i plessi giurisdizionali. Pareva possibile trovare una soluzione condivisa, la quale, nel rifiutare le fughe in avanti insite nella già accennata nozione “dinamica” della giurisdizione e nel ribadire l’incensurabilità in cassazione di qualsiasi eventuale error in procedendo o in iudicando del giudice amministrativo, pur se implicante la violazione del diritto sovranazionale europeo o del principio del giusto processo, lasciava aperta la possibilità di denunciare in cassazione le decisioni con cui quel giudice si fosse rifiutato di decidere il merito della causa per effetto di un radicale stravolgimento dei principi a tal riguardo stabiliti dall’ordinamento; radicale stravolgimento del quale la palese violazione dei diritto dell’Unione europea, come interpretato dalla Corte di Giustizia, avrebbe potuto costituire un forte indizio. Insomma, nulla più di una valvola di sicurezza, che l’esperienza dimostrava essere stata già in passato adoperata di fatto dalla Corte di cassazione con grande senso della misura e che però appariva in grado di porre rimedio a situazioni estreme nelle quali risultasse evidente il rischio per lo Stato italiano di incorrere altrimenti in responsabilità per infrazione del diritto europeo. D’altronde, anche il Consiglio di Stato, per parte sua, nella decisione emessa dall’Adunanza plenaria n. 11 del 2016, aveva ricondotto nell’ambito delle violazioni di limiti esterni della giurisdizione (sui quali può dunque esercitarsi il sindacato della Cassazione) “l’interpretazione da parte del giudice amministrativo di una norma di diritto interno in termini contrastanti con il diritto dell’Unione europea, secondo quanto risultante da una pronuncia della Corte di Giustizia successivamente intervenuta”.
In questo contesto l’intervento della Corte costituzionale (sentenza n. 6 del 2018) non direi che abbia giovato. Negando radicalmente qualsiasi plausibilità alle ragioni che avevano ispirato la più recente evoluzione della giurisprudenza della Cassazione sul punto, la Consulta si è attenuta ad una lettura il più restrittiva possibile dell’ottavo comma del citato art. 111, riconducendo il sindacato delle Sezioni unite sulle decisioni del giudice amministrativo entro i limiti del mero riparto di giurisdizione o dello sconfinamento della giurisdizione in territori ad essa estranei senza ammettere eccezioni o aperture di sorta.
Si è spezzato così il filo del dialogo tra le corti nazionali e l’ordinanza con la quale le Sezioni unite hanno poi chiamato in causa la Corte di Giustizia è parsa quasi un tentativo di alzare la posta invocando l’intervento di un “papa straniero” al quale far risolvere d’autorità una contesa domestica. Una mossa rivelatasi però controproducente, e forse addirittura incauta, perché volta in sostanza a richiedere ai giudici di Lussemburgo la corretta interpretazione non tanto di una qualche norma di diritto europeo quanto piuttosto di una disposizione della Costituzione italiana, sulla quale la Corte costituzionale si era già pronunciata, col rischio di innescare un ulteriore conflitto, questa volta tra la Corte di Giustizia e la stessa Corte costituzionale. Sia chiaro: conflitti di tal fatta sono sempre ben possibili, come l’esperienza dimostra, e non debbono necessariamente suscitare scandalo, ma quella del rapporto tra giudici sovranazionali europei e corti costituzionali dei paesi membri dell’Unione è materia assai delicata, da maneggiare con molta cura, perché attiene al fondamento stesso dei singoli ordinamenti e della costruzione comunitaria.
Com’era prevedibile, adeguandosi alle conclusioni dell’Avvocato generale, la Corte di Giustizia non ha accettato di svolgere il singolare ruolo arbitrale che le veniva richiesto ed il suo verdetto mi sembra chiuda definitivamente la questione in ambito europeo. Non può certo rallegrarsene la Corte di cassazione, la cui iniziativa si è dimostrata alquanto velleitaria. Ma va detto che non ne esce bene neppure il Consiglio di Stato, giacché i giudici europei non hanno mancato di rilevare che effettivamente la decisione del supremo giudice amministrativo impugnata dinanzi alla Corte di cassazione si poneva in contrasto con il diritto dell’Unione europea (come interpretato dalla stessa Corte di Giustizia), non per questo imponendo di assoggettarla al sindacato della Corte di cassazione ma col risultato di esporre lo Stato italiano alla rischio di doverne rispondere.
Siamo dunque tornati al punto di partenza, ma, come anche l’esito della vicenda di cui si sta parlando chiaramente dimostra, non è affatto un punto soddisfacente.
2. La Corte di giustizia ha sottolineato che per eliminare gli effetti dannosi connessi alla violazione del diritto UE perpetrata per effetto di una decisione resa in via definitiva dal giudice amministrativo costituiscono idonei strumenti per eliminare le conseguenze dannose tanto il ricorso per inadempimento da parte della Commissione o l’azione di responsabilità dello Stato per violazione del diritto UE, nella ricorrenza dei presupposti fissati dalla giurisprudenza della Corte stessa- pp.79 e 80 sent. cit.-. Pensa che la fase discendente susseguente alla decisione della Corte di Giustizia potrà avere un seguito diverso da quello che il dispositivo della sentenza della Corte UE sembra avere scolpito in maniera nitida? Pensa, in altri termini, che dopo la pronunzia della Corte di giustizia le Sezioni Unite possano giungere ad un revirement, questa volta sul piano interno e non più su quello del diritto UE, rispetto al diritto vivente formatosi dopo la sentenza della Corte costituzionale n.6/2018 sui confini dell’eccesso di potere giurisdizionale? E in ipotesi di risposta positiva a tale quesito, Lei reputa che sarebbe possibile ampliare l’ambito della figura dell’eccesso di potere giurisdizionale da parte delle Sezioni Unite o risulterebbe necessario sollevare nuovamente una questione di legittimità costituzionale per suscitare una rimeditazione delle conclusioni espresse nella sentenza n.6/2018?
La Corte di Giustizia ha escluso che il diritto europeo imponga all’ordinamento interno degli Stati membri di prevedere la possibilità d’impugnazione dinanzi alla Corte di cassazione dei provvedimenti emessi dall’organo di vertice dalla giurisdizione amministrativa. Ovviamente non ha escluso, però, che una tale possibilità di impugnazione sia invece consentita. Il dibattito sul tema deve quindi necessariamente essere ripreso sul piano del diritto interno e riguarda le corti italiane.
Ciò premesso, a parte ogni considerazione di opportunità, non scorgo facilmente il modo di investire di nuovo la Corte costituzionale della questione. Ciò di cui qui si discute non è la conformità al dettato costituzionale di questa o quella disposizione di legge ordinaria, nell’applicare la quale si possa perciò sollevare un dubbio di costituzionalità. La discussione investe direttamente l’interpretazione di una norma costituzionale – il più volte citato ottavo comma dell’art. 111 – e delle conformi disposizioni contenute nel codice del processo amministrativo e nel codice del processo contabile. Giova infatti ricordare che, nel caso da cui è scaturita la citata sentenza n. 6/2018, della Corte costituzionale, il dubbio di costituzionalità (avente ad oggetto l'art. 69, 7° comma, del d.lgs. n. 165/2001, nella parte in cui prevede che le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore al 30 giugno 1998 restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo qualora siano state proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000) era stato sollevato dalla Corte di cassazione dinanzi alla quale era stata impugnata la decisione con cui il Consiglio di Stato aveva dichiarato la decadenza del ricorrente dal diritto ad ottenere la invocata tutela previdenziale. Alla Corte costituzionale era stato dunque chiesto di pronunciarsi su una questione che non riguardava direttamente i limiti del sindacato della Corte di cassazione sui provvedimenti del giudice amministrativo. Tuttavia la questione di costituzionalità prospettata dalla Cassazione (a differenza di un’analoga questione sollevata dal Tar Lazio, rigettata nel merito) è stata dichiarata priva di rilevanza, e perciò inammissibile, perché il giudice delle leggi ha ritenuto che la Cassazione non avesse titolo per sollevarla in quanto l’accertamento della dedotta violazione da parte del giudice amministrativo della norma sospettata d’incostituzionalità eccedeva i limiti posti dall’ultimo comma dell’art. 111 Cost.
Stando così le cose, si potrebbe ipotizzare che la Corte costituzionale sia chiamata a riesaminare l’orientamento espresso nella citata sentenza n. 6/2018 solo se la Cassazione sollevasse nuovamente una questione di costituzionalità inerente ad una disposizione in base alla quale sia stata emessa una sentenza del Consiglio di Stato (o della Corte dei conti) impugnata per eccesso di potere giurisdizionale dinanzi alla medesima Corte di cassazione, esponendosi però al rischio di vedere nuovamente dichiarata inammissibile la propria iniziativa senza che la dedotta questione di legittimità costituzionale venga neppure esaminata nel merito.
Resta teoricamente aperta la possibilità per la Cassazione di proseguire nello sviluppo della propria giurisprudenza in materia, cautamente individuando i casi eccezionali in cui una decisione del giudice amministrativo o contabile di ultima istanza appaia a tal punto abnorme da collocarsi obiettivamente al di fuori del perimetro della giurisdizione. Il contrario orientamento espresso in proposito della citata sentenza n. 6/2018 della Consulta non lo impedirebbe, almeno dal punto di vista formale, trattandosi – come già detto – di una mera pronuncia d’inammissibilità per difetto di rilevanza di una questione di legittimità avente uno specifico e diverso oggetto. Se è vero che, in materia d’interpretazione della Costituzione, la Corte costituzionale ha un’indubbia primazia, non per questo può negarsi che anche i giudici ordinari, ed in particolare la Corte di cassazione quale giudice della giurisdizione, specie quando si tratti di definire la propria sfera di competenza, conservi un margine di discrezionalità interpretativa.
In quest’ottica continua ad apparirmi convincente la soluzione, già dianzi richiamata, che lascia aperta la possibilità d’impugnare dinanzi alle Sezioni unite della cassazione, per motivi inerenti alla giurisdizione, una decisione del Consiglio di Stato o della Corte dei conti che appaia così radicalmente in contrasto con la normativa giuridica di riferimento (ed, in particolare, con quella del diritto europeo, come interpretato dai giudici sovranazionali europei) da potersi dire abnorme. La Corte costituzionale non ha condiviso questa impostazione, obiettando anzitutto che essa si fonda su un criterio di ordine essenzialmente quantitativo, come tale inidoneo a dare una diversa qualifica all’una o all’altra violazione di legge a seconda del grado della sua gravità, ed evidenziando poi il carattere vago dell’ipotizzata distinzione e la conseguente difficoltà di individuare con sufficiente precisione le situazioni riconducibili alla nozione di “radicale stravolgimento”. Mi sembra però si possa replicare che la maggiore o minor misura in cui un determinato atto giuridico si discosta dal parametro legale cui dovrebbe attenersi ben può riflettersi sulla natura e sulla qualificazione del vizio che affetta quel medesimo atto. Lo si riscontra, tra l’altro, proprio nell’elaborazione della nozione di atto abnorme, dovuta principalmente alla giurisprudenza penalistica ma che non è estranea neppure all’ambito del diritto civile. E val la pena di notare che lo stesso legislatore se ne è mostrato consapevole nel formulare l’illecito disciplinare previsto dall’art. 2, comma 1, lett. ff), del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109: illecito che consiste, appunto, nell’adozione da parte del giudice di provvedimenti al di fuori di ogni previsione processuale o che siano frutto di un errore macroscopico o di grave e inescusabile negligenza, sicché tali provvedimenti sono accostati a quelli che costituiscono esercizio di una potestà riservata dalla legge ad organi legislativi o amministrativi ovvero ad altri organi costituzionali. Un atto abnorme del giudice, quindi, può dirsi tale perché la sua difformità dal modello legale è così marcata e manifesta da implicare che esso sia stato emesso al di fuori di alcuna previsione normativa, e perciò in totale carenza di potere giurisdizionale. Quanto poi al margine di vaghezza innegabilmente insito in tale concetto, come del resto accade in presenza di tanti principi giuridici o di norme elastiche presenti nell’ordinamento, mi parrebbe un prezzo da pagare se si vuole evitare di ingessare eccessivamente il sistema e se si vuol consentire – come credo sarebbe opportuno – che almeno nei casi più macroscopici possa operare una valvola di sicurezza idonea ad impedire troppo gravi distorsioni. Ma è appena il caso di aggiungere che questa valvola dovrebbe sempre esser manovrata con senso di misura e riuscendo man mano a costruire una casistica in grado di accrescere la prevedibilità delle decisioni.
È su queste basi che, a mio sommesso avviso, la Suprema corte dovrebbe cercare di misurarsi con i rilievi della Corte costituzionale e sforzarsi di riannodare i fili di un dialogo costruttivo con le altre magistrature superiori, evitando di fomentare ulteriori guerre di territorio tra i giudici, che in ultima analisi si combattono sulla pelle dei cittadini e non fanno bene alla giustizia.
3. Che effetti potrebbe avere sulle questioni qui esaminate la decisione del legislatore che, di recente, ha introdotto quale forma di revocazione delle sentenze rese dal giudice civile ed amministrativo una nuova causa di revocazione -art.1, c.10 l.n.206/2021- per le ipotesi di contrasto della sentenza passata in giudicato resa dal giudice nazionale e una decisione della Corte dei diritti dell’uomo che abbia accertato la violazione della normativa convenzionale?
È difficile fare previsioni in proposito, anche perché la nuova causa di revocazione di cui si tratta è, per ora, contemplata ancora solo nella legge che delega il Governo ad apportare modifiche al codice di procedura civile e sarà quindi solo al momento dell’attuazione di tale delega che se ne potrà valutare a pieno la portata. Oltre a ciò, come per ogni novità normativa, occorrerà poi attenderla alla prova dei fatti, verificando il modo in cui essa sarà effettivamente recepita nel diritto vivente, e solo allora sarà possibile rendersi davvero conto dei possibili effetti di sistema e dei riflessi che ne possono risentire anche altri istituti direttamente o indirettamente interessati dalla novità.
Ciò premesso, non volendo comunque sfuggire alla domanda, azzardo l’ipotesi che la revocazione per contrasto con una sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo possa riguardare non solo i provvedimenti del giudice ordinario, secondo quanto che sarà previsto dal testo del futuro nuovo art. 395 c.p.c., ma anche quelli emessi dal giudice amministrativo e dal giudice contabile, dal momento che la revocabilità di tali provvedimenti è già oggi disciplinata sia dal codice del processo amministrativo sia dal codice del processo contabile sulla falsariga di quanto prevede il codice processuale civile. Poiché l’art. 1, comma 10, lett. f), della già menzionata legge di delega espressamente stabilisce che, a seguito dell’introduzione di tale nuova figura di revocazione, si debbano operare gli adattamenti non soltanto delle disposizioni del codice di procedura civile e del codice civile ma anche “delle altre disposizioni legislative che si rendano necessari”, credo sia ragionevole prevedere che sarà in futuro possibile impugnare per revocazione pure le decisioni degli organi di vertice della giustizia amministrativa o contabile, qualora contrastino con sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo. Questo non varrà certamente a risolvere la differente questione dei limiti entro cui è ammissibile il ricorso per cassazione avverso le anzidette decisioni, rimanendo i presupposti di tale ricorso comunque sempre ben diversi da quelli della revocazione, ma forse almeno in parte varrà a sdrammatizzarla perché farà venir meno la spinta a ricercare nel ricorso per cassazione una possibile valvola di sicurezza, se non per tutti, almeno per alcuni dei casi di possibile contrasto delle decisioni del giudice ammnistrativo o di quello contabile con regole o principi di diritto sovranazionale.
4. Dopo la sentenza resa dalla Corte di Giustizia il 21 dicembre scorso, residuano a suo giudizio, ragioni di dubbi in ordine alla possibilità di sperimentare innanzi alle Sezioni Unite il vizio di eccesso di potere giurisdizionale sotto il profilo della mancata sollevazione del rinvio pregiudiziale innanzi alla Corte di giustizia da parte del giudice speciale di ultima istanza?
Su tale questione i giudici di Lussemburgo non si sono pronunciati, perché non risultava che il mancato rinvio pregiudiziale innanzi alla Corte di giustizia da parte del giudice speciale di ultima istanza fosse stato addotto come motivo di ricorso per cassazione, donde l’irricevibilità del quesito interpretativo formulato a questo riguardo. Ciò nondimeno sono propenso a credere che le argomentazioni poste a base della risposta data al precedente quesito lascino davvero poco spazio per ipotizzare anche in questo caso un esito diverso. Il Consiglio di Stato e la Corte dei conti sono giudici di ultima istanza dei rispettivi plessi giurisdizionali e sono pertanto tenuti ad interpellare la Corte di Lussemburgo quando si ponga un problema d’interpretazione del diritto dell’Unione europea (con i noti limiti enunciati in proposito dalla stessa Corte). Il non farlo certamente comporta quindi una violazione di legge, qualificabile come error in procedendo, ma s’è appena visto che nessun principio di diritto europeo impone al legislatore nazionale di contemplare nel diritto processuale interno la possibilità di proporre ricorso per cassazione in caso di violazione di un precetto di legge sostanziale o processuale commessa dagli organi di vertice della giustizia amministrativa o di quella contabile.
Non mi pare che ad una conclusione diversa si possa pervenire sostenendo che, nell’arrogarsi indebitamente il potere d’interpretare il diritto europeo che spetta invece alla Corte di Giustizia dell’Unione, il giudice nazionale di ultima istanza esorbiterebbe dai limiti – questa volta dai cosiddetti limiti esterni – della propria giurisdizione, onde ciò comporterebbe l’insorgere di una questione inerente alla giurisdizione soggetta al vaglio della Cassazione. La giurisdizione si esercita nell’atto col quale il giudice decide sulla domanda, erogando o meno la tutela richiestagli dalla parte. Nel formulare un questo interpretativo rivolto alla Corte di giustizia egli non si spoglia affatto della propria potestà giurisdizionale, perché sarà comunque sempre lui a dover “dire il diritto” nel caso concreto sul quale è chiamato a decidere. Il quesito interpretativo resta un passaggio interno dell’iter processuale ed il fatto che, per il giudice di ultima istanza, possa trattarsi di un passaggio obbligato non ne muta la funzione né la natura, ma semplicemente ne fa uno dei tanti adempimenti processuali che il giudice è tenuto a rispettare nella conduzione della causa, ove ne ravvisi i presupposti. Non diversamente accade, d’altro canto, quando si profili un dubbio di legittimità costituzionale di una norma da applicare in giudizio ed il giudice della causa, valutata la non manifesta infondatezza e la rilevanza della questione, debba investirne la Corte costituzionale. La stessa Corte di cassazione non ha mai ritenuto che l’eventuale mancata rimessione di un’eccezione d’incostituzionalità da parte di un giudice amministrativo o contabile comporti una questione “inerente alla giurisdizione”, riconducibile alla previsione dell’ultimo comma dell’art. 111 Cost., né quindi che il relativo vizio possa dare adito ad un ricorso dinanzi alle Sezioni unite. Non diversamente mi sembra stiano le cose quando si tratti del vizio di mancato rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia.
5. In definitiva, a suo giudizio è stato utile il dialogo fra Corte di Cassazione a sezione Unite e Corte di giustizia sul tema suscitato dall’ordinanza n.19598/2020 o si è trattato di un tentativo di aggirare l’orientamento espresso dalla sentenza n.6/2018, peraltro non dotato di efficacia vincolante per il giudice comune in relazione alla natura della sentenza di rigetto della questione di legittimità costituzionale da parte della Consulta?
Mi sembra di avere in realtà già risposto prima a tale domanda.
Quello tra Corte di Cassazione a sezioni unite e Corte di giustizia, più che un dialogo costruttivo, mi pare sia stato un secco botta e risposta, che non ha fatto fare alcun concreto passo avanti nella risoluzione di un problema, quello dei limiti della sindacabilità in cassazione delle decisioni dei giudici speciali di ultima istanza, che però credo sia destinato a restare vivo nonostante la brusca battuta di chiusura fatta segnare dalla sentenza n. 6/2018 della Corte costituzionale.
Mi auguro si possa riprendere con spirito costruttivo la strada del dialogo tra le corti, non per disputarsi la giurisdizione ma per realizzare il più possibile una nomofilachia condivisa.
*Già Primo presidente aggiunto della Corte di Cassazione.
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