ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
I malfunzionamenti dei sistemi informatici della Giustizia
Il presente contributo analizza il sistema delle deroghe al deposito telematico obbligatorio nel processo penale, disciplinato dagli artt. 111-bis e 175-bis c.p.p., introdotti dalla riforma Cartabia (D.Lgs. 150/2022). L'analisi si concentra sulle eccezioni al principio generale, distinguendo tra deroghe strutturali previste dall'art. 111-bis c.p.p. e deroghe funzionali disciplinate dall'art. 175-bis c.p.p., con l'obiettivo di delineare un quadro sistematico della materia anche alla luce delle recenti innovazioni normative, evidenziandone l'impatto operativo e le implicazioni per il sistema giustizia. La digitalizzazione del processo penale, introdotta dalla riforma Cartabia (D.Lgs. 150/2022), ha segnato un'importante innovazione nel sistema giudiziario italiano. Tuttavia, l'implementazione di questa rivoluzione normativa ha incontrato numerosi malfunzionamenti applicativi e sfide infrastrutturali.
Sommario: 1. Introduzione – 2. Il Principio Generale del Deposito Telematico - 3. Le Deroghe Strutturali Ex Art. 111-bis c.p.p. – 3.1. Atti Non Digitalizzabili (comma 3) - 3.2. Atti Personali (comma 4) - 3.3. Profili operativi delle deroghe strutturali - 4. Le Deroghe Funzionali Ex Art. 175-bis c.p.p. - 4.1. Malfunzionamenti Tecnici (comma 1) - 4.2. Impossibilità di Funzionamento (comma 4) – 5. Profili procedurali comuni alle deroghe funzionali - 6. Profili Operativi delle Deroghe – 7. La giurisprudenza di legittimità: il rigore nell'accertamento dei presupposti derogatori. I principi della Cassazione in tema di deroghe al deposito telematico [i] - 8. Considerazioni Conclusive
1. Introduzione
La digitalizzazione del processo penale ha ricevuto un decisivo impulso con la riforma Cartabia (D.Lgs. 150/2022), che ha sancito l’obbligo di deposito telematico per atti, documenti e richieste. Tale rivoluzione normativa, prevista dall’art. 111-bis c.p.p., ha lo scopo di rendere il sistema giudiziario più efficiente e trasparente.
La disciplina è stata successivamente integrata dal D.M. 206/2024 e dal D.Lgs. 31/2024 che hanno delineato un'implementazione graduale del principio: dal 1° gennaio 2025 l'obbligo si applica agli uffici di primo grado (GIP, tribunale ordinario, procura) mentre dal 2027 si estenderà agli altri uffici giudiziari.
Il sistema delineato dalla riforma si fonda su alcuni requisiti essenziali: la certezza, anche temporale, dell'avvenuta trasmissione e ricezione degli atti; l'identificazione certa di mittente e destinatario; il rispetto della normativa sulla firma digitale e sulla gestione dei documenti informatici.
Tuttavia, la complessità tecnologica e le sfide infrastrutturali hanno richiesto l’adozione di deroghe specifiche per garantire la continuità del servizio giudiziario e tutelare i diritti delle parti coinvolte. Tali deroghe sono disciplinate dagli artt. 111-bis e 175-bis c.p.p., che definiscono rispettivamente deroghe strutturali e funzionali al principio generale del deposito telematico.
2. Il Principio Generale del Deposito Telematico
L’art. 111-bis c.p.p., introdotto dalla riforma Cartabia, stabilisce che il deposito di atti e documenti nel processo penale debba avvenire esclusivamente per via telematica, salvo quanto previsto dall’art. 175-bis c.p.p. La norma mira a garantire certezza, trasparenza e celerità nella gestione documentale, imponendo standard di sicurezza elevati, come la firma digitale e l’identificazione sicura di mittente e destinatario.
Nonostante il potenziale miglioramento nell’efficienza del sistema giudiziario, la transizione digitale ha incontrato diverse difficoltà tecniche e organizzative, tra cui malfunzionamenti informatici, carenze infrastrutturali e resistenze culturali. Per affrontare tali sfide, il legislatore ha previsto deroghe specifiche che consentono il deposito in formato cartaceo in casi particolari.
3. Le Deroghe Strutturali Ex Art. 111-bis c.p.p.
Le deroghe strutturali previste dall’art. 111-bis c.p.p. sono connesse alla natura degli atti o alla qualità dei soggetti coinvolti nel processo. Esse si articolano in due principali categorie: atti non digitalizzabili e atti personali.
3.1. Atti Non Digitalizzabili (comma 3)
La prima deroga riguarda gli atti e i documenti che, per loro natura o per specifiche esigenze processuali, non possono essere acquisiti in copia informatica. La Relazione illustrativa al D.Lgs. 150/2022 fornisce alcuni esempi significativi di questa categoria:
La necessità di preservare il valore probatorio di tali documenti impone la loro acquisizione in formato originale, con successiva digitalizzazione tramite procedure dedicate[2].
3.2. Atti Personali (comma 4)
La seconda deroga, recentemente modificata dal D.Lgs. 31/2024, concerne gli atti che le parti e la persona offesa dal reato compiono personalmente. Questa previsione risponde a una duplice ratio:
Gli uffici giudiziari devono quindi predisporre procedure per l’acquisizione cartacea di tali atti, assicurando la loro successiva digitalizzazione e inserimento nel fascicolo telematico[3].
3.3. Profili operativi delle deroghe strutturali
L'applicazione pratica delle deroghe ex art. 111-bis c.p.p. è stata dettagliata dal D.M. 206/2024 che ha previsto specifiche modalità operative per la gestione degli atti non telematici. In particolare, l'applicativo PPT (APP) prevede apposite funzionalità per l'acquisizione al fascicolo informatico degli atti depositati in formato cartaceo.
Per gli atti non digitalizzabili, la valutazione sulla necessità di acquisizione in formato analogico spetta al magistrato, che deve darne atto a verbale e disporre contestualmente la loro acquisizione in formato digitale mediante l'apposita funzione a cura dell'ausiliario. Questo meccanismo garantisce la coesistenza tra esigenze di digitalizzazione e necessità di preservare l'originalità di determinati documenti.
Per gli atti personali delle parti, gli uffici giudiziari devono predisporre adeguate procedure per l'acquisizione e la gestione dei depositi cartacei, garantendo la loro successiva digitalizzazione e inserimento nel fascicolo informatico, secondo le specifiche tecniche fornite dalla circolare ministeriale.
4. Le Deroghe Funzionali Ex Art. 175-bis c.p.p.
L'art. 175-bis c.p.p. introduce ulteriori deroghe all'obbligo di deposito telematico, che possiamo definire "funzionali" in quanto legate a impedimenti tecnici o cause di forza maggiore che rendono temporaneamente impossibile l'utilizzo del sistema informatico. Le deroghe funzionali disciplinate dall’art. 175-bis c.p.p. si applicano in presenza di impedimenti tecnici o cause di forza maggiore che rendono temporaneamente impossibile l’utilizzo del sistema informatico. Queste deroghe si suddividono in due principali categorie: malfunzionamenti tecnici e impossibilità di funzionamento.
4.1. Malfunzionamenti Tecnici (comma 1)
La prima ipotesi derogatoria opera quando si verifica un malfunzionamento dei sistemi informatici certificato dal Direttore generale per i sistemi informativi automatizzati (DGSIA). Il comma 1 dell’art. 175-bis c.p.p. prevede che, in caso di malfunzionamento dei sistemi informatici, il deposito possa avvenire in formato cartaceo. Il malfunzionamento deve essere certificato dal Direttore Generale per i Sistemi Informativi Automatizzati (DGSIA) e pubblicato sul Portale dei Servizi Telematici). L'attestazione del malfunzionamento deve essere pubblicata sul Portale dei Servizi Telematici secondo le procedure stabilite dal D.M. 206/2024.
Tra le principali tipologie di malfunzionamento rientrano:
Il Tribunale di Milano, nel suo Protocollo PCT, ha elaborato una classificazione dei malfunzionamenti basata sulla loro gravità e durata:
4.2. Impossibilità di Funzionamento (comma 4)
Il comma 4 dell’art. 175-bis c.p.p. disciplina i casi in cui cause di forza maggiore, come black-out elettrici, disastri naturali o incendi, impediscono il funzionamento dei sistemi informatici. Questa fattispecie si distingue dal malfunzionamento tecnico per la sua natura emergenziale e imprevedibile. In tali situazioni, l’impossibilità deve essere attestata dal dirigente dell’ufficio giudiziario[5].
Le cause di forza maggiore tipicamente includono:
In questi casi, l'impossibilità deve essere attestata dal dirigente dell'ufficio giudiziario, secondo le modalità specificate dal D.M. 206/2024.
5. Profili procedurali comuni alle deroghe funzionali
Per entrambe le ipotesi di deroga funzionale (malfunzionamento e impossibilità), il D.M. 206/2024 prevede:
Il sistema delle deroghe delineato dagli artt. 111-bis e 175-bis c.p.p. rappresenta un equilibrato compromesso tra diverse esigenze:
6. Profili Operativi delle Deroghe
Le deroghe disciplinate dagli artt. 111-bis e 175-bis c.p.p. sono accompagnate da procedure operative specifiche per la gestione del cosiddetto “doppio binario”. In particolare, il D.M. 206/2024 prevede:
Queste misure assicurano la continuità del servizio giudiziario e riducono l’impatto dei malfunzionamenti sullo svolgimento delle attività processuali[6].
7. La giurisprudenza di legittimità: il rigore nell'accertamento dei presupposti derogatori. I principi della Cassazione in tema di deroghe al deposito telematico[ii]
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 42873/24 della Seconda Sezione Penale, ha fornito rilevanti precisazioni interpretative in materia di deroghe al deposito telematico ex art. 175-bis c.p.p., con particolare riferimento ai presupposti di legittimità delle attestazioni di malfunzionamento.
La Suprema Corte con la sentenza indicata ha chiarito che il presupposto per l’operatività della deroga agli obblighi di redigere l’atto o il documento in formato digitale e di depositarlo con modalità telematiche è costituito esclusivamente, nel caso di malfunzionamento “certificato”, dalla certificazione del direttore generale per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia, e, nel caso del malfunzionamento “non certificato”, dall’attestazione del dirigente dell’ufficio giudiziario. Anche qualora la certificazione o l’attestazione fossero adottate in assenza dei presupposti, cioè in assenza di un effettivo malfunzionamento dei sistemi o del sistema, tale da non consentirne l’efficace utilizzo, non risulterebbe comunque compromessa, alla luce del disposto del comma 3 dell’art. 175 bis c.p.p., la validità (e/o l’ammissibilità e/o la ricevibilità) dell’atto che, sulla base delle suddette certificazione o attestazione, è stato redatto in forma di documento analogico e depositato con modalità non telematica.
La pronuncia trae origine da una peculiare fattispecie: il GIP del Tribunale di L'Aquila aveva dichiarato inammissibile una richiesta di archiviazione depositata in forma cartacea, nonostante il Procuratore della Repubblica avesse previamente attestato il malfunzionamento del sistema informatico per i procedimenti relativi a "ignoti seriali", disponendo il deposito analogico fino al 31 maggio 2024.
La Suprema Corte ha rilevato la duplice abnormità del provvedimento di inammissibilità:
a) Sul piano strutturale, per l'esercizio di un potere non attribuito dall'ordinamento processuale, essendo l'accertamento del malfunzionamento riservato al dirigente dell'ufficio giudiziario ex art. 175-bis comma 4 c.p.p.;
b) Sul piano funzionale, per aver determinato una stasi irrimediabile del procedimento, precludendo sia il deposito telematico (stante il malfunzionamento attestato) sia quello cartaceo (per effetto dell'inammissibilità dichiarata).
Di particolare rilievo appare il principio secondo cui il sindacato giurisdizionale non può estendersi alla valutazione dei presupposti del malfunzionamento, qualora questo sia stato formalmente attestato dall'autorità competente secondo la normativa regolamentare.
La pronuncia evidenzia come il sistema delle deroghe ex art. 175-bis c.p.p. si fondi su un delicato equilibrio tra:
Questo pronunciato fornisce preziose indicazioni operative per l'applicazione delle deroghe, consentendo di enucleare precise direttive operative per l'applicazione delle deroghe al deposito telematico:
a) L'attestazione del malfunzionamento costituisce atto amministrativo riservato, sottratto al sindacato del giudice;
b) Il provvedimento derogatorio deve indicare con precisione:
c) Durante la vigenza della deroga, il deposito con modalità alternative costituisce diritto per l'utente e non può essere fonte di inammissibilità o altra sanzione processuale;
d) Il sistema delle deroghe deve sempre garantire la prosecuzione dell'attività processuale, evitando situazioni di stasi procedimentale.
La pronuncia della Corte di Cassazione n. 42873/2024 si pone quale baluardo interpretativo nel contesto delle deroghe disciplinate dagli articoli 111-bis e 175-bis c.p.p.
Gli Ermellini hanno evidenziato, con dovizia argomentativa l'assoluta imprescindibilità del rispetto dei presupposti applicativi per l'emanazione di provvedimenti attestanti il malfunzionamento, ribadendo che:
La Corte ha altresì chiarito che, pur in presenza di certificazioni o attestazioni adottate in assenza di effettivi presupposti, la validità degli atti depositati in formato analogico non viene compromessa. Tale conclusione si fonda sull'interpretazione sistematica del comma 3 dell'art. 175-bis c.p.p., che tutela l'affidamento delle parti sulla regolarità dei provvedimenti amministrativi emessi.
L'importanza della pronuncia, per quanto qui di interesse, risiede nell'equilibrio che essa traccia tra il rigore richiesto per l'emanazione di provvedimenti ex artt. 111-bis e 175-bis c.p.p. e la necessità di salvaguardare la validità degli atti processuali. La Corte sottolinea che il rispetto dei presupposti applicativi non solo garantisce la trasparenza e l'efficacia del sistema telematico, ma rafforza altresì la certezza del diritto processuale.
Gli Ermellini invitano alla scrupolosa osservanza di protocolli condivisi e alla tempestiva formazione degli operatori giudiziari, affinché le deroghe non si traducano in prassi discrezionali o arbitrarie. Questo approccio mira a consolidare la fiducia delle parti nel sistema e a promuovere un'applicazione uniforme delle disposizioni normative.
Il sistema delle deroghe introdotto dagli artt. 111-bis e 175-bis c.p.p. è un esempio emblematico di bilanciamento tra modernizzazione tecnologica e tutela delle garanzie processuali. Sebbene la digitalizzazione rappresenti una necessità ineludibile, è fondamentale preservare i principi fondamentali del giusto processo, garantendo che le deroghe siano applicate con rigore e trasparenza.
Le future evoluzioni normative e giurisprudenziali dovranno continuare a rafforzare questo equilibrio, promuovendo soluzioni innovative e sostenibili per affrontare le sfide della transizione digitale nel sistema giustizia.
8. Considerazioni Conclusive
Il sistema delineato dagli artt. 111-bis e 175-bis c.p.p. rappresenta un approccio equilibrato alla transizione digitale del processo penale. Le deroghe strutturali e funzionali garantiscono flessibilità, consentendo di affrontare le sfide tecnologiche e infrastrutturali senza compromettere i diritti delle parti.
La riforma Cartabia segna un passo significativo verso la modernizzazione del sistema giustizia, ma richiede un impegno continuo per migliorare l’affidabilità dei sistemi informatici e promuovere la formazione del personale. Solo attraverso un’implementazione efficace e sostenibile si potranno cogliere pienamente i benefici della digitalizzazione, assicurando un equilibrio tra efficienza tecnologica e tutela dei diritti processuali[7].
[1]: Relazioni DGSIA (Direzione Generale per i Sistemi Informativi Automatizzati)
[2]: Relazione illustrativa al D.Lgs. 150/2022
[3]: Decreto Legislativo n. 31/2024
[4]: Protocollo PCT del Tribunale di Milano
[5]: Decreto Ministeriale n. 206/2024
[6]: Circolari operative del Ministero della Giustizia
[7]: Relazioni illustrative al D.Lgs. 150/2022
[i] Cass. pen., Sez. II, 6 novembre 2024, n. 42873
[ii]Cass. pen., Sez. II, 6 novembre 2024, n. 42873
Bibliografia
1. D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, art. 6, comma 1. : Codice di procedura penale, art. 111-bis, comma 2. : Codice di procedura penale, art. 111-bis, comma 3. : Codice di procedura penale, art. 111-bis, comma 4. : D.Lgs. 19 marzo 2024, n. 31, art. 2, comma 1, lettera a). : Codice di procedura penale, art. 175-bis, comma 1. : Codice di procedura penale, art. 175-bis, comma 4. : D.M. 206/2024, art. 1. : Circolare ministeriale sull'applicativo PPT (APP).
2. https://servicematica.com/anm-numerosi-malfunzionamenti-app-penale-mancano-assistenza-e-doppio-binario / Anm: “Troppi malfunzionamenti, l’app penale è un fallimento”
4. Processo penale telematico: il Ministero della Giustizia ... - Altalex https://www.altalex.com/documents/news/2024/12/12/processo-penale-telematico-ministero-giustizia-difende-app
5. I pilastri del sistema giudiziario Italiano: struttura e funzionamento, https://www.venturassociati.com/il-sistema-giudiziario-italiano/
6. Portale europeo della giustizia elettronica - Sistemi giudiziari nazionali; https://e-justice.europa.eu/16/IT/national_justice_systems?ITALY
7. Riforma della Giustizia, https://www.italiadomani.gov.it/it/Interventi/riforme/riforme-orizzontali/riforma-della-giustizia.html
Utilizzo di sistemi automatizzati in assenza di sorveglianza umana. AGCOM e Meta: la storia infinita (nota a TAR Lazio, sez. IV, 24 gennaio 2024, n. 1393)
di Lorenza Tomassi
Sommario: 1. Premessa; 2. I fatti controversi; 3. La ricostruzione del quadro normativo: la distinzione tra hosting provider attivo e passivo; 4. La configurazione come hosting provider passivo in virtù dell’utilizzo di sistemi automatici di verifica; 5. Considerazioni critiche: i punti deboli dell’attuale inquadramento giuridico; 6. Riflessioni di carattere generale: i rischi connessi all’assenza di sorveglianza umana rispetto all’uso di sistemi automatici anche alla luce dell’IA ACT.
1. Premessa
Nella infinita querelle tra Agcom e le c.d. Big Tech (i.e. Meta Platforms e Google)[i], interviene una nuova pronuncia del giudice amministrativo che, oltre a confermare orientamenti già espressi, consente, almeno a parere di chi scrive, di spostare la riflessione sotto un profilo diverso, legato all'uso di sistemi automatizzati, in sostituzione dell'uomo, ai fini della verifica dei contenuti pubblicati sulle loro piattaforme.
Come si avrà modo di approfondire in questa sede, infatti, sembrerebbe che la sostituzione dell'uomo con la “macchina” nell’assolvimento delle funzioni di vigilanza rispetto ai contenuti immessi[ii], giustificherebbe l'assenza di responsabilità da parte della società che ospita il contenuto, anche qualora sia accertata, in una fase successiva, la natura illecita dello stesso.
Lungi dal voler affrontare la questione in chiave civilistica[iii], tale assunto rappresenta lo spunto per riflettere, ancora una volta, in che termini l’uso di sistemi automatizzati, capaci di sostituire l'uomo nell’assolvimento delle sue funzioni, possa essere consentito senza correre il rischio di generare dei coni d'ombra in cui venga meno la riferibilità dell'operato della macchina all'uomo[iv].
Da qui, la questione se l’intelligenza artificiale sia davvero strumentale all'uomo e, come tale, trasferisce su quest’ultimo sempre la responsabilità del suo operato o, diversamente, se non sia da considerarsi sostitutiva, generando zone franche rispetto al regime della titolarità delle azioni o delle operazioni da essa compiute.
2. I fatti controversi
A seguito di una attività di monitoraggio avviata d’ufficio, l’AGCOM rilevava come, in più occasioni, nel periodo di maggio 2022, Facebook aveva ospitato contenuti “sponsorizzati” e, dunque, a pagamento, idonei a promuovere e pubblicizzare attività di gioco e scommesse online con vincite in denaro[v].
Ne conseguiva, da parte dell’Autorità, un atto di contestazione (n. 6/22/DSDI - Proc 8/FDG) nei confronti di Meta Platforms per la violazione dell’art. 9, rubricato “Divieto di pubblicità giochi e scommesse”, del d.l. n. 87 del 2018 (c.d. Decreto Dignità), in base al quale è disposto il divieto di qualsiasi forma di pubblicità, anche indiretta, relativa a giochi o scommesse con vincite di denaro nonché al gioco d’azzardo, comunque effettuata e su qualunque mezzo, compresi i social media.
La stessa disposizione, al comma successivo, dispone che sono responsabili dell’illecito il “committente”, il “proprietario del mezzo o del sito di diffusione”, il “proprietario del mezzo o del sito di destinazione” e “l’organizzatore della manifestazione, evento o attività”. Si tratta quindi di un divieto generale che introduce per l’ordinamento italiano una responsabilità oggettiva in capo ad una pluralità di soggetti tutti egualmente responsabili.
Meta procedeva, di conseguenza, a rimuovere i contenuti contestati, riconoscendo la violazione delle normative del Servizio Facebook e, altresì, manifestava la propria disponibilità ad instaurare un dialogo con l’autorità stessa affinché quest’ultima potesse segnalare in modo più agevole eventuali e presunte violazioni della disposizione sopra richiamata.
Ciononostante, la società rilevava che l’atto di contestazione si poneva manifestamente in contrasto con le previsioni della Direttiva 2000/31/EC, cd. Direttiva E-Commerce, recepita nell’ordinamento nazionale con il D. Lgs. n. 70/2003, c.d. Decreto E- Commerce. In particolare, evidenziava la società che, ai sensi degli artt. 14 e 15 della Direttiva, trasposti, rispettivamente, negli artt. 16 e 17 del Decreto E-Commerce, gli hosting providers, come Facebook, “(i) non possano essere ritenuti responsabili della correttezza delle informazioni caricate sulla piattaforma e (ii) non possano essere soggetti ad un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che gli utenti trasmettono o memorizzano, né ad un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite”.
Ulteriormente, la società sosteneva che, nonostante in capo ad essa ricorresse un onere di rimozione dei contenuti vietati, una volta portati a sua conoscenza, ciò non determina un onere di verifica e ispezione rispetto a tutti i contenuti pubblicati sulla piattaforma di cui è gestore. Proprio l’assenza di tale obbligo, qualificherebbe Meta come Hosting provider passivo che lo esonera dalla responsabilità dei contenuti, anche quelli lesivi, diffusi per il suo tramite.
Emerge così che le parti in causa ritengono sussistere l’applicazione di due disposizioni differenti.
Secondo Meta, infatti, nel caso controverso non dovrebbe trovare applicazione la disciplina recata dall’art 9 del Decreto Dignità, ma piuttosto, quella espressa nella Direttiva 2000/31/CE, c.d. Direttiva E- commerce, recepita nel nostro ordinamento attraverso il D.lgs. n. 70/2003, c.d. Decreto E-commerce, che esclude proprio la responsabilità degli hosting provider per i contenuti caricati da terzi sulle loro piattaforme[vi].
Di parere contrario, invero, si pone l’Agcom che, richiamando il Decreto Dignità, ritiene sussistere una responsabilità oggettiva scaturita dal divieto assoluto di diffusione su qualunque mezzo, anche i social media, di “qualsiasi forma di pubblicità, anche indiretta” relativa al gioco di azzardo.
Non troverebbe applicazione, poi, secondo l’autorità il decreto E- commerce dal momento che lo stesso esclude il suo campo di applicazione ai giochi d'azzardo, che implicano una posta pecuniaria, i giochi di fortuna, compresi il lotto, le lotterie, le scommesse i concorsi pronostici e gli altri giochi come definiti dalla normativa vigente, nonché quelli nei quali l'elemento aleatorio è prevalente” (art. 1, comma 2, lett. g), d.lgs. n. 70/03)[vii].
In particolare, da parte dell’Autorità vi sarebbero due considerazioni ulteriori che confermano la colpevolezza della società: in primo luogo i contenuti contestati erano “sponsorizzati”, vale a dire delle inserzioni pubblicizzate da Meta previo pagamento di utenti business. In secondo luogo, poi, rispetto a queste inserzioni pubblicitarie, il caricamento sulla piattaforma non è immediato ma, al contrario, sono necessarie ventiquattro ore affinché la società intermediaria possa verificare se il contenuto rispetti le norme pubblicitarie della piattaforma[viii]. Tale controllo avviene generalmente attraverso tecnologie automatizzate ma, in alcuni casi non specificati, è richiesto il controllo da parte di persone fisiche.
La combinazione di tali considerazioni ha, quindi, indotto ulteriormente l’autorità a ritenere che Meta fosse a conoscenza del contenuto ospitato e, pertanto, con delibera n. 422/22/CONS, ha sanzionato la società al pagamento di 750 mila euro, cui ha fatto seguito l’impugnazione del provvedimento da parte della società sanzionata.
Da qui, il giudizio in commento.
3. La ricostruzione del quadro normativo: la distinzione tra hosting provider attivo e passivo
Nell’accogliere il ricorso presentato da Meta Platforms, annullando la sanzione comminata da AGCOM, il giudice amministrativo si è principalmente soffermato sul regime della responsabilità degli hosting provider secondo quanto stabilito dalla direttiva 2000/31/CE, c.d. direttiva e-commerce e dalle successive modifiche.
In questa sede, pare opportuno dare conto dell’evoluzione del quadro normativo di riferimento al fine di comprendere quali sono state le logiche che hanno ispirato il legislatore nel corso degli anni.
La direttiva sull’ e-commerce risale al 2000, vale a dire un’epoca in cui la rete non aveva ancora assunto quella posizione così centrale che riveste oggi. Per queste ragioni, la ratio del legislatore europeo era stata, sin dall’inizio, volta a configurare un quadro giuridico entro il quale favorire lo sviluppo della libera circolazione dei servizi elettronici[ix]nonché le misure ivi previste si limitavano, evocando il principio di proporzionalità, “al minimo necessario” per raggiungere l’obiettivo del buon funzionamento del mercato interno[x].
All’interno della direttiva, i prestatori di servizi vengono distinti a seconda che l’attività svolta sia di semplice trasporto (c.d. mere conduit)[xi], di memorizzazione temporanea delle informazioni (c.d. caching)[xii] o di hosting[xiii], intesa come memorizzazione permanente delle informazioni[xiv]. Meta, nella fattispecie incriminata, svolge una attività di hosting dal momento che la propria piattaforma prevede la memorizzazione definitiva delle informazioni caricate.
Sulla base di queste condizioni, la direttiva prevedeva una generale disciplina di esonero della responsabilità in capo ai prestatori di servizi in qualità di hosting provider, la cui attività era di ordine meramente tecnico, automatico e passivo, e che si limitava, così, alla memorizzazione delle informazioni trasmesse[xv]. Rispetto a tale tipologia di servizio, l’art. 14 escludeva la responsabilità nei casi in cui i fornitori di servizi non fossero stati a conoscenza delle attività illecite che avvengono tramite i propri servizi ed a condizione che, avutane conoscenza, agivano immediatamente per rimuovere i contenuti illeciti. Tale regime si combinava, poi, con quanto disposto dal successivo articolo 15, in cui era sancita l’assenza di un obbligo generale di sorveglianza.
Nei medesimi termini si poneva, a livello nazionale, il D.lgs. n. 70/2003, adottato in attuazione della direttiva, negli artt. 16 e 17, oggi definitivamente abrogati dal D.lgs. n. 50/2024.
La scelta di sottrarre l’hosting provider a un generale dovere di controllo preventivo, a cui facesse seguito l’attribuzione di un regime di responsabilità per i contenuti illeciti ospitati, ha ben presto evidenziato i suoi limiti, in ragione principalmente dal repentino sviluppo tecnologico che ha mutato profondamente il rapporto tra utenti e piattaforme[xvi]. Anche la letteratura sul tema ha, a più riprese, riconosciuto l’obsolescenza dalla disciplina recata nella direttiva e-commerce, ritenendo necessario un ripensamento della stessa[xvii]. In particolare, è emersa l’esigenza di fornire adeguate forme di tutela rispetto ai diritti degli utenti che “navigano” in rete ma che, più propriamente, sapesse cogliere i rischi specifici, connessi a questa nuova realtà virtuale, in cui le piattaforme offrono innumerevoli servizi[xviii].
Su questi presupposti è stato adottato, nel 2022, il Digital Service Act, vale a dire il nuovo regolamento sui servizi digitali, UE 2022/2065[xix], nel quale si evidenzia che un comportamento responsabile e diligente da parte dei prestatori di servizi intermediari è essenziale per un ambiente online sicuro, prevedibile e affidabile, in cui i diritti fondamentali sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea siano efficacemente tutelati e l'innovazione sia agevolata, contrastando la diffusione di contenuti illegali online e i rischi per la società che la diffusione della disinformazione o di altri contenuti può generare[xx].
Nonostante i buoni propositi, la normativa prevista al suo interno, pur introducendo nuovi obblighi in materia di trasparenza[xxi], è stata strutturata sulla falsa riga della precedente, sollevando, in dottrina, le medesime criticità osservate in precedenza. Permane, infatti, all’art. 6, un generale esonero dalla responsabilità degli hosting per i contenuti “caricati” dai terzi, e altresì, si estende tale esenzione nelle ipotesi in cui i providers svolgano di propria iniziativa attività volte a individuare e a rimuovere contenuti illegali memorizzati dagli utenti[xxii].
All’interno di questo quadro normativo si colloca la sentenza in esame che, aderendo a consolidati orientamenti europei e nazionali[xxiii], si è soffermata sulla distinzione tra hosting provider attivo e hosting provider passivo, ricavata principalmente in via interpretativa del dato normativo di cui si è appena dato conto[xxiv].
Secondo i giudici, si configura come hosting provider passivo, il prestatore di servizi che svolge una mera attività di prestazioni di servizi di ordine principalmente tecnico e automatico che non si traduce in una attività di controllo delle informazioni trasmesse né tantomeno questo determina la conoscenza delle informazioni stesse. Rispetto, quindi, ai contenuti immessi, il prestatore rimane pressoché neutrale[xxv], con la conseguenza che l’attività svolta non gli consente di sapere se si sia in presenza di attività illecite o meno.
Ne consegue, quindi, che l’hosting provider passivo può essere considerato responsabile dei contenuti illeciti ospitati nei soli casi in cui non li abbia rimossi una volta che ne sia venuto a conoscenza.
Al contrario, l’hosting provider attivo manipola le informazioni che sono inserite sulla propria piattaforma e, come tale, esercita una funzione di controllo in piena conoscenza dei contenuti memorizzati. Il controllo e la conoscenza determinano, conseguentemente, la sussistenza della responsabilità dell’hosting in ordine alle informazioni immesse.
I giudici riconoscono che il fine perseguito da tale legislazione è quello di evitare che il provider venga considerato attivo per il solo fatto di promuovere di propria iniziativa delle forme di controllo dei contenuti memorizzati dagli utenti e che possa, conseguentemente, essere indotto a non adottare alcun sistema diretto a prevenire l’immissione di contenuti illegali nella rete, stante la responsabilità che gli verrebbe imputata in virtù di tale condotta.
4. La configurazione come hosting provider passivo in virtù dell’utilizzo di sistemi automatici di verifica
Poste queste premesse, il giudice si è, quindi, domandato se il sistema di controllo di cui Meta disponesse sia tale da conferirgli la natura di hosting provider attivo, attribuendogli la responsabilità dei contenuti immessi o, al contrario, aderendo a consolidata giurisprudenza[xxvi], la natura tecnica ed automatica dei suoi meccanismi sia tale da conferirgli un ruolo neutrale rispetto a tali informazioni.
Su tali aspetti, i giudici hanno in primo luogo osservato nella sentenza de qua che i sistemi utilizzati dalla società sanzionata sono principalmente automatici, con la conseguenza che il controllo manuale, da parte di una persona fisica, da cui dipende il riconoscimento della responsabilità, avviene solo in ipotesi residuali rispetto, peraltro, a un numero di contenuti certamente esiguo se si considera la mole di inserzioni che Facebook ospita ogni giorno.
L’intervento umano, secondo quanto sostenuto da Meta, verrebbe richiesto proprio dal software, seppur non chiarendo in base a quali meccanismi e presupposti, tanto nei casi di verifica manuale delle inserzioni quanto ai fini del miglioramento e dell’addestramento del sistema automatizzato utilizzato per le predette finalità.
Sulla base di questi presupposti, perciò, i giudici hanno negato la natura di hosting provider attivo alla società ricorrente, giacché l’attività svolta dal gestore è avvenuta in via del tutto automatizzata tale da non consentire alla stessa la manipolazione e, quindi, la conoscenza dei dati memorizzati sulla propria piattaforma.
Deve essere osservato, poi, che secondo i giudici una manipolazione dalle informazioni si avrebbe, oltre all’ipotesi dell’intervento della persona fisica, anche nei casi in cui il sistema automatizzato procedesse a rifiutare la condivisione del contenuto, perché contrario agli Standard della community. In questo modo, il prestatore verrebbe declinato in termini di hosting provider attivo dal momento che la sua attività sarebbe funzionale ad impedire la condivisione di contenuti illeciti e, quindi, la fruizione di questi agli utenti.
Qualora, al contrario, l’attività svolta dal software sia volta nel senso di accogliere una inserzione, non essendoci alcuna manipolazione, verrebbe a mancare il ruolo attivo su cui fondare la responsabilità del gestore. Trattandosi di un accertamento tecnico ed automatico, il gestore, come nel caso de qua, non può venire a conoscenza del contenuto illegale creato dall’utente e, di conseguenza, non ha la possibilità di attivarsi per rimuoverlo.
Nelle considerazioni dei giudici, tale interpretazione troverebbe conferma nel fatto ulteriore che AGCOM non sarebbe stata in grado di provare che il caso controverso riguarderebbe una di quelle limitate ipotesi in cui al controllo automatizzato abbia fatto seguito l’intervento manuale della persona fisica, c.d. revisione umana, tale da giustificare il passaggio da passivo ad attivo dell’hosting provider.
In definitiva, dunque, non essendo stato provato da parte dell’autorità l’intervento del funzionario umano da cui dipende la conoscenza effettiva da parte di Meta dei contenuti illeciti ospitati, i giudici hanno accolto il ricorso, annullando, di conseguenza, la sanzione di Agcom imposta nei confronti della società ricorrente[xxvii].
5. Considerazioni critiche: i punti deboli dell’attuale inquadramento giuridico.
La sentenza in commento, pur aderendo a precedenti ormai consolidati nel nostro ordinamento, rappresenta il presupposto, come si anticipava in premessa, per riflettere sulla opportunità e sulla adeguatezza del quadro normativo in riferimento all’utilizzo di sistemi automatizzati per l’esercizio di attività di controllo dei contenuti immessi nella rete ma, più in generale, per indagare sul rapporto che intercorre tra l’uomo e la macchina qualora quest’ultima svolga funzioni prima esercitate dall’uomo.
Deve essere osservato in primo luogo, che, a parere di chi scrive, sebbene l’orientamento espresso dai giudici sia coerente con il quadro normativo di riferimento, quest’ultimo risulta essere ancora non del tutto aderente ai mutamenti e al consolidamento che ha assunto l’intelligenza artificiale, ormai, a livello globale, negli ambiti più disparati.
Come visto, l’esenzione della responsabilità del soggetto che utilizza i sistemi automatizzati di controllo può essere invocata ogniqualvolta questo non sia a conoscenza degli illeciti ammessi per il tramite di tali sistemi.
Ciononostante, non può farsi a meno di notare che la disciplina recata in tale contesto presenti alcune debolezze. Come è emerso, il prestatore del servizio rimane passivo nei casi in cui l’inserzione, pur dal contenuto illecito, venga pubblicata a seguito del controllo automatico; al contrario, qualora dallo stesso controllo automatico emerga il rifiuto del caricamento dell’inserzione sulla piattaforma, allora il prestatore assume le vesti di hosting provider attivo. Ciò troverebbe giustificazione nel fatto che, secondo costante orientamento dai giudici, in questo secondo caso si è verificata una manipolazione del contenuto da parte dell’internet service provider.
Tale assunto, a parere di chi scrive, presenta alcune criticità. Deve essere evidenziato, infatti, che tanto nei casi in cui il contenuto sia ammesso, quanto in quelli in cui ne sia disposto il divieto, il prestatore non opera alcuna attività di manipolazione del dato. In entrambi i casi, il dato resta immutato dal momento che l’attività svolta non “arricchisce” la fruizione dei contenuti[xxviii]. A mutare, invero, è la capacità del sistema automatizzato di controllo di rilevare un potenziale illecito. L’attività posta in essere dal sistema, sia in caso di ammissione che di diniego di condivisione dell’inserzione, è la medesima, sostanziandosi in un meccanismo automatico e passivo di controllo. In entrambe le attività, di fatto, non si è verificata nessuna revisione da parte della persona fisica che, come visto, per espressa previsione legislativa e costante orientamento dei giudici, rappresenta il presupposto per qualificare l’hosting provider come attivo e a cui faccia seguito l’applicazione del regime della responsabilità.
A fronte di questo, la scelta di distinguere la natura dell’hosting provider a seconda se il contenuto sia stato ammesso o vietato, trova la sua ragion d’essere, almeno a parere di chi scrive, nella volontà legislativa di prevedere un regime di favore nei casi in cui il prestatore di servizi non sia stato in grado, attraverso l’uso di un sistema automatizzato, di riconoscere un illecito.
E questo mette in luce due questioni ulteriori: l’una, relativa alla capacità dei sistemi di autoapprendimento di riconoscere la violazione delle norme e, l’altra, relativa alla riferibilità dell’attività realizzata da tale modello all’uomo, che, in questo specifico caso, coincide con la società di intermediazione.
Rispetto alla prima, deve osservarsi che nel dibattito scientifico, i modelli di autoapprendimento, c.d. machine learning, vengono esaltati per la loro capacità intrinseca di auto apprendere dalla loro esperienza. Detto diversamente, tali sistemi dovrebbero essere in grado, allenandosi sulla elevata quantità di dati immessi, di generare degli output che non scaturiscono da comandi precedentemente prescritti dal data scientist ma che, al contrario, sono generati da una autonoma capacità del modello di combinare le variabili al suo interno. Questo, operando secondo regole statistiche, dovrebbe rendere una determinazione che dovrebbe essere, tra quelle possibili, quella più probabile.
In questi termini si colloca anche il recente Regolamento sull’Intelligenza Artificiale secondo cui i sistemi di intelligenza artificiale si distinguono dai tradizionali software per la loro capacità inferenziale, intesa come abilità di generare output, quali previsioni o decisioni, che possono influenzare gli ambienti fisici e virtuali[xxix].
Questa caratteristica propria del sistema dovrebbe consentirgli una costante capacità di adattamento ai mutamenti del dato normativo e alla sua successiva applicazione sul piano pratico. Ciò vuol dire, dunque, che un sistema di autoapprendimento adeguatamente allenato dovrebbe essere capace di riconoscere quando una fattispecie soddisfi le caratteristiche di una violazione disciplinata a livello normativo[xxx].
Ciononostante, non sono pochi i casi in cui l’AGCOM sanzioni gli internet service provider perché i sistemi di controllo e monitoraggio di cui dispongono non sono in grado di riconoscere una violazione commessa dagli utenti[xxxi]. Il che solleva non poche perplessità da un lato, circa la capacità di questi modelli di saper interpretare il dato normativo applicato alle esperienze pratiche e, dall’altro lato, con riguardo alla capacità degli utilizzatori di addestrare tali modelli.
Nel caso in commento, infatti, la fattispecie incriminata conteneva evidenti elementi (quali, ad esempio, il richiamo di vincite di ingenti somme di denaro) sulla pubblicità relativa al gioco d’azzardo che un modello adeguatamente addestrato, si ritiene, avrebbe dovuto riconoscere.
Evidenza, tra l’altro, confermata dal fatto che, una volta intervenuto il funzionario fisico, si è provveduto a rimuovere immediatamente l’inserzione, stante il suo contenuto chiaramente illecito.
Una volta in più sembrerebbe, quindi, che l’apporto umano, nell’interpretazione delle norme, sia ancora essenziale e questo induce a indagare con cautela l’impianto normativo attualmente in vigore, in cui, di fatto, non si imputano a nessuno i costanti errori commessi dai modelli automatici di controllo.
È chiaro che rispetto all’elevato numero di contenuti che la rete e le singole piattaforme ospitano ogni giorno diventa arduo, se non impossibile, garantire un controllo efficiente, specie se questo fosse delegato ad una persona fisica; ciononostante, tali condizioni non possono rappresentare il presupposto per giustificare l’assenza di forme adeguate di controllo e, altresì, per non ricondurre la riferibilità delle azioni esperite per il tramite di modelli automatizzati all’uomo. Se così fosse, il rischio è che, come correttamente osservato in dottrina, la rete diventi un “far web”, dal momento che la difficoltà di “controllare” dia luogo ad una zona d’ombra, il c.d. cyberspazio, in cui la violazione delle norme e dei diritti fondamentali sarebbe difficilmente accertabile per le ragioni sinora esposte[xxxii].
Da qui se ne può trarre una ulteriore riflessione, vale a dire valutare l’opportunità di rendere responsabile il soggetto che utilizza tali modelli, non tanto per le violazioni commesse da parte di terzi quanto piuttosto per l’evidente incapacità o obsolescenza dei sistemi utilizzati di comprendere e prevenire eventuali violazioni. Di fatto, lo stato di sviluppo di questi sistemi automatizzati dipende non solo dalla capacità stessa del modello di auto apprendere dalla propria “esperienza” ma, principalmente, dipende dalla tipologia del modello utilizzato, da come questo viene programmato dal data scientist e dalla quantità e dalla qualità dei dati immessi[xxxiii]; operazioni queste che discendono da scelte organizzative umane e, come tali, a questi imputabili.
Se nel vigente quadro normativo, l’orientamento è quello di non caricare eccessivamente di responsabilità gli hosting provider per violazioni commesse da terzi, si ritiene che l’attribuzione, invero, della titolarità degli errori commessi da un sistema automatizzato di monitoraggio può rappresentare un giusto compromesso. In questo modo di operare, infatti, il soggetto utilizzatore di sistemi di autoapprendimento sarebbe continuamente sollecitato ad aggiornare e a migliorare i sistemi di cui fa utilizzo, nonché ricondurrebbe la titolarità delle operazioni commesse dal modello artificiale a chi ne fa uso, riducendo i rischi di generare potenziali zone franche, sottratte al rispetto del diritto[xxxiv].
6. Riflessioni di carattere generale: i rischi connessi all’assenza di sorveglianza umana rispetto all’uso di sistemi automatici anche alla luce dell’AI Act
La disciplina appena analizzata consente, altresì, di inquadrare le riflessioni sin qui esposte in una prospettiva di sistema, specie con riferimento all’utilizzo di modelli di autoapprendimento per l’assolvimento di determinate funzioni in sostituzione dell’uomo.
Deve essere messo in evidenza che, non solo i più recenti interventi dello stesso giudice amministrativo[xxxv], ma anche quelli legislativi[xxxvi], sono orientati a riferire l’utilizzo dell’intelligenza artificiale alla persona fisica.
Applicata al potere pubblico, infatti, l’intelligenza artificiale è stata interpretata in funzione principalmente servente e strumentale alla attività realizzata dal funzionario umano[xxxvii].
In questo senso, i giudici amministrativi hanno configurato le tecnologie, nell’esercizio dell’attività amministrativa, alla stregua “di modulo organizzativo, di strumento procedimentale ed istruttorio, soggetto alle verifiche tipiche di ogni procedimento amministrativo, il quale resta il modus operandi della scelta autoritativa, da svolgersi sulla scorta delle legislazione attributiva del potere e delle finalità dalla stessa attribuite all’organo pubblico, titolare del potere”[xxxviii]. Da questi presupposti ne consegue che l’utilizzo delle tecnologie “impone un controllo umano del procedimento, in funzione di garanzia (cd. human in the loop), in modo che il funzionario possa in qualsiasi momento intervenire per compiere interlocuzioni con il privato, per verificare a monte l’esattezza dei dati da elaborare, mantenendo il costante controllo del procedimento”[xxxix].
Da questi richiami emerge che la tutela dell’interesse pubblico, bilanciato con altri interessi individuali, non può essere “spersonalizzata”; vuol dire, al contrario, che l’amministrazione rimane sempre il soggetto titolare del potere conferito dal legislatore e, come tale, l’attività istruttoria o decisoria condotta da un modello automatizzato, sarà sempre ad essa riferita, salvaguardando così le pretese di chiunque entri in contatto con l’amministrazione “artificiale”[xl].
In questo modo di operare, il risultato computazionale non coincide mai con il risultato finale ma, piuttosto, rappresenta il presupposto istruttorio su cui fondare la determinazione finale assunta dal funzionario persona fisica. Quest’ultimo potrà decidere di aderire alle risultanze rese dal sistema automatico e, quindi, di fatto, sovrapponendo il risultato computazionale con quello finale o, al contrario, potrà discostarsene, giungendo ad una determinazione nuova. In entrambi i casi si tratta, come evidente, di scelte volitive umane e, come tali, imputabili alla persona fisica che le avrà rese.
Questo impianto trova conferma nella stessa legge sul procedimento amministrativo, la l. n. 241/1990, laddove, all’art. 6, attribuisce al responsabile del procedimento, persona fisica, diversi compiti volti principalmente ad assicurare un corretto e partecipato svolgimento della attività istruttoria e decisionale. Tra questi rileva, in particolare, il divieto, per chi assume la decisione finale, di discostarsi dalle risultanze dell'istruttoria se non indicandone la motivazione nel provvedimento finale.
In questi termini si colloca, più in generale, anche l’articolo 22 del Regolamento generale sulla protezione dei dati, che riconosce un limite intrinseco all’uso di modelli automatizzati, laddove si impone che l'interessato ha il diritto di non essere sottoposto a una decisione basata unicamente sul trattamento automatizzato che produca effetti giuridici che lo riguardano o che incida in modo analogo significativamente sulla sua persona[xli].
Ma tutto ciò sembra trovare definitiva conferma nel più recente Regolamento europeo sull’intelligenza artificiale che prevede, per i sistemi classificati ad alto rischio[xlii], un obbligo di sorveglianza umana[xliii].
Tale obbligo impone che i sistemi di IA siano sviluppati e utilizzati come strumenti al servizio delle persone, nel rispetto della dignità umana e dell'autonomia personale, e funzionano in modo da poter essere adeguatamente controllati e sorvegliati dagli esseri umani[xliv]. A tale principio il regolamento dedica una apposita disposizione, l’art. 14, in cui è stabilito che tali sistemi sono progettati e sviluppati, anche con strumenti di interfaccia uomo-macchina adeguati, in modo tale da poter essere efficacemente supervisionati da persone fisiche durante il periodo in cui sono in uso.
Nello specifico, la disposizione prevede alcune accortezze nei confronti della persona fisica a cui è affidata la sorveglianza umana. In questo senso, l’articolo dispone in primo luogo che la persona in questione deve essere messa nella condizione di poter comprendere correttamente le capacità e i limiti pertinenti del sistema di IA ad alto rischio ed essere in grado di monitorarne debitamente il funzionamento[xlv], al fine principale di evitare che si faccia un eccessivo affidamento sull'output prodotto dal sistema di (c.d. distorsione dell'automazione)[xlvi]. Con la ulteriore conseguenza, quindi, che la persona che sorveglia il sistema deve poter essere in grado di interpretare correttamente l'output del sistema di IA ad alto rischio[xlvii]. Questo vuol dire che, non solo, il sorvegliante umano deve ignorare, annullare o ribaltare l’output quando secondo proprie valutazioni ciò si rende opportuno[xlviii] ma, altresì, che deve intervenire sul sistema, anche arrestandolo, quando ragioni di funzionamento lo richiedono[xlix].
Da questi richiami normativi, seppur sommari, emerge con tutta evidenza che i modelli di intelligenza artificiale, pur nella consapevolezza legislativa di essere capaci di funzionare in via del tutto autonoma, devono essere affiancati e monitorati sempre dalla persona fisica che resta il titolare del potere attribuito dal legislatore e, come tale, titolare anche dell’attività svolta per il tramite di tali modelli.
Se è vero, infatti, che la tecnologia e l’automatizzazione possono apportare notevoli benefici in termini di riduzione dei tempi istruttori e decisionali, rispetto soprattutto a procedure seriali, come lo è potenzialmente la fattispecie in esame, è altrettanto vero che va verificato se, a tale modo di operare, non faccia seguito una potenziale compressione dei diritti fondamentali.
In altri termini, va verificato se questi modelli intelligenti siano capaci di rilevare eventuali violazioni di legge.
Allo stato attuale sembra che le tecnologie, dalle più semplici alle più evolute, abbiano, in più occasioni, dimostrato una scarsa capacità di tutelare gli interessi coinvolti. Questo si è verificato, ad esempio, nelle procedure di reclutamento del personale docente, ove l’algoritmo utilizzato non è stato in grado di combinare correttamente i punteggi dei candidati, unitamente alle preferenze espresse[l]; è avvenuto nelle ipotesi di concessione del mutuo bancario, ove sistemi predittivi hanno generato, per il richiedente, un punteggio negativo (c.d. scoring) sulla capacità di ripagarlo, senza indicare sulla base di quali elementi tale punteggio fosse stato ottenuto e l’incisività di ogni variabile[li]; così come nelle ipotesi delle prenotazioni dei c.d. “riders” nel caso Deliveroo, in cui l’algoritmo Frank ha favorito le prenotazioni per i riders con un punteggio più elevato, a discapito di riders con un punteggio più basso[lii]; o nei casi in cui sulle piattaforme digitali non siano stati rimossi contenuti chiaramente discriminatori[liii].
Negli esempi richiamati, occorre osservare, l’errore del sistema è dipeso tanto da un errore “umano”, inteso come incapacità di programmare il sistema e di monitorarne l’utilizzo, quanto dalla c.d. “black box” del modello che non permette di risalire al procedimento istruttorio al fine di verificare come le variabili inserite al suo interno siano state combinate tra loro.
Queste condizioni evidenziano come la tecnologia, semplice o evoluta che sia, per poter trovare un suo positivo spazio, ha bisogno in primo luogo di persone capaci di programmarla correttamente e successivamente di intervenire sul modello quando ciò si rende opportuno.
L’intervento umano, infatti, dovrebbe essere previsto in ogni fase di utilizzo e, quindi, dal momento di costruzione del modello sino all’adozione della determinazione finale, al fine quantomeno di ridurre gli errori e correggere il sistema quando questo lo renda possibile.
Non sembra, pertanto, essere coerente con tale quadro la disciplina prevista per gli hosting provider.
Seppur novellata di recente, infatti, permane una grave lacuna sul regime della responsabilità delle decisioni assunte per il tramite di sistemi automatici di apprendimento[liv]. La disciplina ricostruita con la sentenza in commento, infatti, sembra favorire uno spazio entro il quale le azioni commesse per il tramite di strumenti di intelligenza artificiale non siano riconducibili a nessuno, collocando lo strumento non in via strumentale all’uomo, ma in una funzione ad esso sostitutiva. Con la naturale conseguenza che, eventuali violazioni normative, come di fatto si verifica, non sono imputabili a nessuno e restano, perciò, non sanzionabili.
[i] Per una ampia e aggiornata ricostruzione sul tema v., per tutti, A. ZURZOLO, La nuova frontiera della regolazione delle piattaforme digitali: le sanzioni contro Google e Meta, in Dir. Mer. Tecn., 22 febbraio 2023.
[ii] Il dibattito è particolarmente accesso in ambito amministrativo. In argomento sia consentito rinviare a L. TOMASSI, M. INTERLANDI, La decisione amministrativa algoritmica, in A. Contieri (a cura di), Approfondimenti di diritto amministrativo, ES, Napoli, 2022. V., ex multis, G. GALLONE. Riserve di umanità e funzioni amministrative, Milano, Cedam, 2023; G. AVANZINI, Decisioni amministrative e algoritmi informatici, ES, Napoli, 2019, A. DI MARTINO, Tecnica e potere nell’amministrazione per algoritmi, ES, Napoli, 2023; M.C. CAVALLARO, G. SMORTO, Decisione pubblica e responsabilità dell’amministrazione nella società̀ dell’algoritmo, in Federalismi.it, n.1/2019; M. D’ANGELOSANTE, La consistenza del modello dell’amministrazione ‘invisibile’ nell’età della tecnificazione: dalla formazione delle decisioni alla responsabilità per le decisioni, in S. Civitarese Matteucci, L. Torchia (a cura di), La Tecnificazione, Firenze, 2016.
[iii] In tal senso si rimanda, ex multis, a G.M. RICCIO, La responsabilità civile degli internet providers, Giappichelli, Torino 2002.
[iv] M. OLIVETTI, Diritti fondamentali e nuove tecnologie, in Journal of institutional studies, n.2/2020, 396 ss., mette in evidenza che internet e il diritto non sono, tra loro, due entità mutuamente estranee e malgrado l’autonomia del cyberspazio o del mondo «virtuale», che è certamente portatore di codici di comportamento da esso stesso generati (ed intrinsecamente connessi con la sua dimensione tecnica), la pretesa estrema, avanzata da alcuni operatori di tale mondo, secondo la quale esso sarebbe portatore di una normatività autonoma (una sorta di lex informatica, che richiamerebbe la ben nota lex mercatoria), o addirittura di una rivendicazione (anarchica) di esenzione dalla normatività generata dalle istituzioni del mondo «reale», si rivela insostenibile, proprio in quanto lo stesso fenomeno di Internet presuppone una serie di meccanismi regolativi, che rendono possibili le attività svolte mediante esso.
[v] Su questa vicenda v. anche A. ZURZOLO, La nuova frontiera della regolazione delle piattaforme digitali: le sanzioni contro Google e Meta,op. cit., 41 ss.
[vi] Su questi argomenti v. F. DI IORIO, La responsabilità dell’hosting provider nella vendita on line di biglietti sui mercati secondari (nota a Sentenza Consiglio di Stato, Sez. VI, 05/12/2023, n. 10510), in questa rivista, 28 marzo 2024.
[vii] La sanzione comminata da Agcom, inoltre, faceva leva su una precedente pronuncia del giudice amministrativo, in cui si osservava che non esiste una puntuale normativa comunitaria sul gioco d’azzardo online e sulla relativa pubblicità, con la conseguenza che gli Stati membri hanno il diritto di determinare le modalità di organizzazione e regolamentazione a livello nazionale dell'offerta di servizi di gioco d'azzardo online, nonché il diritto di applicare tutte le misure che considerano necessarie contro i servizi di gioco d'azzardo illegali. Cfr. Tar Lazio, sez. III ter, 28 ottobre 2021, n. 11036, par. 8.3.1.
[viii] Ciò trova conferma anche negli Standard della community resi pubblici al seguente link: https://transparency.meta.com/it-it/policies/community-standards.
[ix] Cfr. Considerando 8 Direttiva 2000/31/CE.
[x] Cfr. Considerando 10 Direttiva 2000/31/CE.
[xi] Cfr. art. 12.
[xii] Cfr. art. 13.
[xiii] Cfr. art. 14.
[xiv] Sulla disciplina della responsabilità civile e delle diverse figure v., ex multis, G.M. RICCIO, La responsabilità civile degli internet service providers, op.cit.; G. PONZANELLI, Verso un diritto uniforme per la responsabilità degli internet service providers, in Danno e resp., 2002, p. 5 ss.; V. ZENO ZENKOVICH, Profili attivi e passivi della responsabilità dell’utente in Internet, in A. PALAZZO, U. RUFFOLO (a cura di), La tutela del navigatore, Milano, 2002; F. DI CIOMMO, Evoluzione tecnologica e Regole di responsabilità civile, Napoli, 2003; M. GAMBINI, La responsabilità civile dell’internet service provider, Napoli, 2006;
[xv] M. GAMBINI, Gli hosting providers tra doveri di diligenza professionale e assenza di un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni memorizzate, in www.costituzionalismo.it, n.2/2011, 2 ss., riconduce l’assenza di una generale responsabilità degli Internet service providers al fatto che, diversamente, ciò condurrebbe ad un aumento eccessivo dei costi dei servizi offerti e di selezione degli operatori, con la conseguenza che solo quelli economicamente più forti potrebbero continuare ad operare. Senza considerare che il riconoscimento della responsabilità degli intermediari avrebbe conseguenze negative anche rispetto all’esercizio dei diritti e delle libertà fondamentali degli utenti e, in primo luogo, della libertà di manifestazione del pensiero.
[xvi] Sulla centralità della rete v., in particolare, L. FLORIDI, The online manifesto, Being human in a hyperconnected era, Springer, Londra, 2014. Sulla evoluzione che ha interessato la rete negli ultimi anni v. G. CORASANITI, Regolazione, autoregolazione, sovraregolazione della rete: dal “far” web al “fair” web, in Diritto di Internet, Gli atti digitali di “gli stati generali del diritto di internet”, luiss 16, 17, 18 dicembre 2021, il quale osserva che la rete ha perso gran parte delle sue caratteristiche originarie “trasformandosi da luogo di sperimentazione a luogo della speculazione, da laboratorio globale a vero e proprio mercato globale”.
[xvii] O. POLLICINO, Tutela del pluralismo nell’era digitale: ruolo e responsabilità degli Internet service provider, in Consulta Online, 2014,mette in evidenza che la disciplina recata dalla direttiva del 2000 ha evidenziato i suoi limiti nel momento in cui la dimensione partecipativa della rete si è sempre più estesa, al punto da mettere in discussione la tenuta dell’inquadramento degli internet service provider così come previsto nella direttiva e- commerce. L’A. osserva che la rete, nella sua dimensione attuale, sfuma i confini tra produzione di contenuti e prestazioni di servizi e ciò conduce a interrogarsi sulla presunta estraneità degli ISP rispetto ai contenuti ospitati, su cui si basa principalmente la disciplina europea. F. DONATI, Verso una nuova regolazione delle piattaforme digitali, in Rivista della Regolazione dei mercati, n. 2/2021, 238 ss., osserva che la crescente rilevanza assunta dalle piattaforme online le identifica come grandi centri di potere che esercitano una crescente influenza su aspetti importanti della vita di milioni di persone. Ciò impone, pertanto, una regolazione chiara e precisa e che faccia fronte ai rischi a cui gli utenti vengono esposti. A. PIROZZOLI, La responsabilità dell’internet service provider. il nuovo orientamento giurisprudenziale nell’ultimo caso Google, in Rivista AIC, n. 3/2012, 7, sostiene che la disciplina recata dalla direttiva sia incompleta e impreca, specie laddove l’intenzione del legislatore sia quella di sottrarre agli hosting provider una responsabilità troppo gravosa che avrebbe potuto provocare sgradite conseguenze sulle scelte economiche e sugli investimenti dei gestori di servizi, oltre che indirizzarli verso un’indiscriminata selezione di contenuti all’ombra del timore che potessero rivelarsi lesivi dei diritti degli utenti. Nei medesimi termini v. anche G. D’ALSONSO, Verso una maggiore responsabilizzazione dell’hosting provider tra interpretazione evolutiva della disciplina vigente, innovazioni legislative e prospettive de jure condendo, in Federalismi.it, n. 2/2020, 115 ss., il quale rileva che “la disciplina europea si caratterizza per l’assenza di chiarezza di certe regole, derivante dalla necessità di contemperare interessi contrapposti, quali: da un lato, la salvaguardia dell’indipendenza della rete, comunemente definita come «marketplace of ideas» – dal momento che, caratterizzandosi per l’assenza di limiti, l’immediatezza e l’economicità, assurge a luogo quanto più libero di circolazione di idee ed informazioni-, e dunque la libertà di espressione e la protezione della privacy dei cibernauti; dall’altro lato, l’interesse a non rinunciare del tutto al controllo sui contenuti pubblicati sulle piattaforme digitali e a proteggere i soggetti che potrebbero essere danneggiati da contenuti illeciti”. Lo stesso mette in dubbio, inoltre, la circostanza entro la quale un hosting provider sia effettivamente al corrente di un fatto illecito, verificatosi nello spazio che intermedia.
[xviii] La stessa Commissione europea, ad esempio, già a partire dalla COM (2017) 555 (Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni “Lotta ai contenuti illeciti online. Verso una maggiore responsabilizzazione delle piattaforme online” stabiliva una serie di orientamenti e principi affinché le piattaforme online intensifichino la lotta contro i contenuti illegali online in cooperazione con le autorità nazionali, gli Stati membri e i portatori d'interessi pertinenti. Su questi presupposti, la commissione sollecitava l'attuazione di buone pratiche per prevenire, individuare, rimuovere e disabilitare l'accesso a contenuti illegali al fine di garantire l'efficace rimozione di contenuti illegali, una maggiore trasparenza e la tutela dei diritti fondamentali online. In altri termini, tale misura sollecitava l’azione di misure proattive volte a individuare, rimuovere o disabilitare l'accesso a contenuti illegali.
[xix] Tale Regolamento fa parte, assieme al Digital Market Act (Regolamento (UE) 2022/1925), del Digital Services Package che si pone due principali obiettivi: 1) creare uno spazio digitale più sicuro in cui siano tutelati i diritti fondamentali di tutti gli utenti dei servizi digitali; 2) creare condizioni di parità per promuovere l'innovazione, la crescita e la competitività, sia nel Mercato unico europeo che a livello globale.
[xx] Considerando 3, Regolamento UE 2022/2065.
[xxi] Ad esempio, già con l’adozione del Regolamento 2019/1150/UE, che promuove equità e trasparenza per gli utenti commerciali dei servizi di intermediazione online, l’art. 3, rubricato “Termini e Condizioni” indica in modo puntuale le misure a cui tali soggetti sono tenuti a conformarsi al fine di assicurare trasparenza in ogni fase della contrattazione con gli utenti che si interfacciano nel portale. Ugualmente, il Regolamento UE 2022/2065, al considerando 48 i fornitori di piattaforme online di dimensioni molto grandi e di motori di ricerca online di dimensioni molto grandi dovrebbero fornire le loro condizioni generali nelle lingue ufficiali di tutti gli Stati membri in cui offrono i loro servizi e dovrebbero altresì fornire ai destinatari dei servizi una sintesi concisa e facilmente leggibile dei principali elementi delle condizioni generali. Tali sintesi dovrebbero individuare gli elementi principali dei requisiti in materia di informazione, compresa la possibilità di derogare facilmente alle clausole opzionali. Nel considerando successivo, si impone ai prestatori di servizi intermediari di rendere pubblica una relazione annuale in un formato leggibile elettronicamente, in merito alla moderazione dei contenuti da loro intrapresa, comprese le misure adottate a seguito dell'applicazione e dell'esecuzione delle loro condizioni generali. Nel considerando 66, invero si statuisce che la Commissione dovrebbe mantenere e pubblicare una banca dati contenente le decisioni e le motivazioni dei fornitori di piattaforme online quando rimuovono le informazioni o limitano in altro modo la loro disponibilità e l'accesso alle stesse.
[xxii] Cfr. Art. 6, Regolamento UE 2022/2065: “I prestatori di servizi intermediari non sono considerati inammissibili all’esenzione dalla responsabilità prevista agli articoli 3, 4 e 5 per il solo fatto di svolgere indagini volontarie o altre attività di propria iniziativa volte ad individuare, identificare e rimuovere contenuti illegali o a disabilitare l’accesso agli stessi, o di adottare le misure necessarie per conformarsi alle prescrizioni del diritto dell’Unione, comprese quelle stabilite nel presente regolamento”.
[xxiii] In Corte di giustizia UE, 12 luglio 2011, C-324/09, L'Orèal c. eBay International, par. 114, la Corte ha precisato che, affinché il prestatore di un servizio su Internet possa rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 14 della direttiva 2000/31, è necessario che egli sia un «prestatore intermediario» nel senso che questo si limita ad una fornitura neutra del servizio, mediante un trattamento puramente tecnico e automatico dei dati forniti dai suoi clienti. Tale impostazione conferisce al prestatore un ruolo passivo tale per cui non è a conoscenza dei dati che ospita. Nei medesimi termini si esprime la corte nella pronuncia Corte di Giustizia UE 23 marzo 2010, da C-236/08 a C-238/08, Google c. Luis Vuitton, par. 114 secondo cui al fine di verificare se la responsabilità del prestatore del servizio di posizionamento possa essere limitata ai sensi dell’art. 14 della direttiva 2000/31, occorre esaminare se il ruolo svolto da detto prestatore sia neutro, in quanto il suo comportamento è meramente tecnico, automatico e passivo, comportante una mancanza di conoscenza o di controllo dei dati che esso memorizza. Nei medesimi termini v. anche Corte di Giustizia UE, 7 agosto 2018, Cooperatieve Vereniging SNBREACT U.A. c. Deepak Mehta, C-521/17, par. 47; Corte di Giustizia UE, 23 marzo 2010, Google France e Google, da C-236/08 a C-238/08, par. 113 e Corte di Giustizia UE, del 15 settembre 2016, Mc Fadden, C-484/14, par. 62. Nel nostro ordinamento, sulla falsariga di quella europea, si segnala Cass. Civ., Sez. I civ., Ord. 13 dicembre 2021 n. 39763, in cui i giudici hanno accolto la nozione di hosting provider attivo, così come declinata in sede di giustizia europea, riferendola a tutti quei casi che esulano da un’attività di ordine meramente tecnico, automatico e passivo, in cui l'internet service provider (ISP) non conosce, né controlla, le informazioni trasmesse o memorizzate dalle persone alle quali fornisce i suoi servizi, e ha affermato che tali limitazioni di responsabilità non sono applicabili nel caso in cui un prestatore di servizi della società dell'informazione svolge un ruolo attivo. Si può quindi parlare di hosting provider attivo, sottratto al regime privilegiato, quando sia ravvisabile una condotta di azione, nel senso ora richiamato; gli elementi idonei a delineare la figura o indici di interferenza, da accertare in concreto ad opera del giudice del merito, sono le attività di filtro, selezione, indicizzazione, organizzazione, catalogazione, aggregazione, valutazione, uso, modifica, estrazione o promozione dei contenuti, operate mediante una gestione imprenditoriale del servizio, come pure l'adozione di una tecnica di valutazione comportamentale degli utenti per aumentarne la fidelizzazione: condotte che abbiano, in sostanza, l'effetto di completare e arricchire in modo non passivo la fruizione dei contenuti da parte di utenti indeterminati. Così anche Cass. civ., Sez. I, 19 marzo 2019, n. 7708. In sede di giustizia amministrativa, altresì, si segnala la pronuncia del Consiglio di Stato, sez. VI, 13 settembre 2022 n. 7949, che ha aderito a quanto sinora ricostruito, riconoscendo due tipi di hosting provider: a) l’hosting provider “passivo”, il quale pone in essere un'attività di prestazione di servizi di ordine meramente tecnico e automatico, con la conseguenza che detti prestatori non conoscono né controllano le informazioni trasmesse o memorizzate dalle persone alle quali forniscono i loro servizi; b) l’hosting provider “attivo”, che si ha quando, tra l'altro, l'attività non è limitata a quanto sopra indicato ma ha ad oggetto anche i contenuti della prestazione resa.
[xxiv] Il regime delle limitazioni della responsabilità è escluso dalla giurisprudenza sulla base del Considerando 42 della Direttiva E-commerce, il quale dispone che “le deroghe alla responsabilità stabilita nella presente direttiva riguardano esclusivamente il caso in cui l'attività di prestatore di servizi della società dell'informazione si limiti al processo tecnico di attivare e fornire accesso ad una rete di comunicazione sulla quale sono trasmesse o temporaneamente memorizzate le informazioni messe a disposizione da terzi al solo scopo di rendere più efficiente la trasmissione. Siffatta attività è di ordine meramente tecnico, automatico e passivo, il che implica che il prestatore di servizi della società dell'informazione non conosce né controlla le informazioni trasmesse o memorizzate”
[xxv] Vi è chi ha messo in dubbio la natura neutrale degli Internet Service Provider, così come riscostruita dai giudici. In T. SCANNICCHIO, N.A. VECCHIO, I limiti della neutralità: la Corte di giustizia e l’eterno ritorno dell’hosting attivo, in MediaLaws, n.1/2019, 256 ss., si osserva che “la figura dell’hosting c.d. “attivo” è frutto di uno sviluppo giurisprudenziale praeter legem, senza alcun dato positivo che riesca a chiarire i termini del discrimen rispetto al suo omologo “passivo”, con il rischio concreto di dar luogo a un’interpretatio abrogans della normativa vigente, essendo (quasi) sempre possibile rinvenire, nell’attuale modello di provider, quel quid pluris che neutralizzerebbe l’esonero di responsabilità”.
[xxvi] Vedi nota 23.
[xxvii] Per questioni di completezza va precisato che, al momento in cui si scrive, la sentenza de qua è stata appellata da Agcom e, su impulso di questa, il Consiglio di Stato ha emesso una ordinanza cautelare che sospende l’efficacia della sentenza di primo grado. Cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, ord. 23 agosto 2024, n. 1974.
[xxviii] Come si evince nella già citata Corte di Cassazione, 19 Marzo 2019, n. 7708 si può parlare di hosting provider attivo, sottratto al regime privilegiato, quando sia ravvisabile una condotta di azione, che abbia, in sostanza, l'effetto di completare ed arricchire in modo non passivo la fruizione dei contenuti da parte di utenti indeterminati.
[xxix] Cfr. considerando 12, Regolamento (UE) 2024/1689.
[xxx] Su questi argomenti, indagati in una prospettiva tecnica, v. C. D’URSO, I profili informatici nella valutazione della responsabilità̀ dell’Hosting Provider, in Riv. It. Inf. Dir., n.1/2021, in part. 84 ss. V. anche S. LAVAGNINI, La responsabilità degli Internet Service Provider e la nuova figura dei prestatori di servizi di condivisione online (art. 17), in Id (a cura di) Il diritto d’autore nel mercato unico digitale, Giappichelli, 2022, 228, che mette in evidenza come i principali hosting provider abbiano adottato sistemi tecnologici di riconoscimento dei contenuti (quantomeno quelli di tipo musicale o audiovisivi), definiti come sistemi di c.d. content id recognition. Questi strumenti rendono possibile l’identificazione dei contenuti postati dagli utenti, in modo tale che sia possibile per il sistema, ad ogni istanza di ricarica da parte degli utenti stessi, riconoscere il contenuto ed impedirne il successivo ricaricamento. In pratica, i titolari dei diritti forniscono al provider o a terzi fornitori dei servizi tecnologici di riconoscimento dei file di riferimento delle opere di loro titolarità, i metadati che descrivono il contenuto e l’azione che essi desiderano attuare nel momento in cui il sistema di Content ID trova una corrispondenza appropriata. Queste azioni possono essere il blocco del contenuto, che quindi non viene messo a disposizione del pubblico, la sua monetizzazione, che avviene generalmente associando il contenuto ad un contenuto pubblicitario, ovvero il semplice tracciamento statistico (con il quale il contenuto viene mantenuto a disposizione a titolo gratuito, ma raccogliendo i dati relativi alle sue utilizzazioni).
[xxxi] Vedi nota 23.
[xxxii] L’espressione è di G. CORASANITI, Regolazione, autoregolazione, sovraregolazione della rete: dal “far” web al “fair“web, op. cit.
[xxxiii] Sulla funzione dei dati v. G D’ACQUISTO, Qualità dei dati e intelligenza Artificiale: intelligenza dai dati e intelligenza dei dati, in F. Pizzetti (a cura di), Intelligenza Artificiale, protezione dei dati personali e regolazione, Torino, 2018; V. BERLINGÒ, Il fenomeno della datafication e la sua giuridicizzazione, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., n.3/2017; G. CARULLO, Gestione, fruizione e diffusione dei dati dell'amministrazione digitale e funzione amministrativa, Milano, Giappichelli, 2018; M. FALCONE, La funzione conoscitiva nella rivoluzione dei dati, in R. CAVALLO PERIN (a cura di), L’amministrazione pubblica con i big data: da Torino un dibattito sull’intelligenza artificiale, Torino, 2021.
[xxxiv] Del resto, in questi termini, si era espressa anche la Commissione europea nella già richiamata COM (2017) 555 (Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni “Lotta ai contenuti illeciti online. Verso una maggiore responsabilizzazione delle piattaforme online”, in cui osservava che le piattaforme online dovrebbero inoltre garantire il continuo aggiornamento dei loro strumenti, al fine di assicurare la individuazione di tutti i contenuti illegali, in linea con le tattiche e il comportamento mutevoli dei criminali e degli altri soggetti coinvolti nelle attività illecite online.
[xxxv] Tar Lazio, sez. III bis,10 settembre 2018 n. 9230; Tar Lazio, sez. III bis, 10-13 settembre 2019, n. 10964; Consiglio di Stato, sez. VI, 8 aprile 2019, n. 2270; Consiglio di Stato, sez. VI, del 4 febbraio 2020, n. 881; Tar Campania, sez. III, del 14 novembre 2022, n. 7003.
[xxxvi] Cfr. Regolamento (UE) 2024/1689 e, a titolo esemplificativo, a livello nazionale, il D. lgs. n. 36/2023, Codice dei contratti pubblici, che all’art. 30, c.3, lett. c) rubricato “Uso di procedure automatizzate nel ciclo di vita dei contratti pubblici” cristallizza il principio di non esclusività della decisione algoritmica, per cui nel processo decisionale è necessario un contributo umano capace di controllare, validare ovvero smentire la decisione automatizzata.
[xxxvii] M.C. CAVALLARO, Imputazione e responsabilità̀ delle decisioni automatizzate, in Erdal, n. 1-2/2020,70 ss., secondo cui “spetta quindi all’amministrazione, e in particolare al responsabile del procedimento ovvero all’organo competente all’adozione dell’atto finale, il dovere di verificare l’attendibilità del risultato fornito dal software per scongiurare il rischio di un errore della macchina ed eventualmente correggere la soluzione. Il responsabile del procedimento deve quindi monitorare la procedura automatizzata, per assicurare la trasparenza, la conoscibilità e la partecipazione da parte del privato: al termine della procedura, l’organo competente alla decisione può conformarsi alle risultanze dell’istruttoria che si sostanzia in un algoritmo, e in tal caso ne assumerà la relativa responsabilità”.
[xxxviii] Consiglio di Stato, sez. VI, del 4 febbraio 2020, n. 881.
[xxxix] Cfr. Tar Campania, sez. III, del 14 novembre 2022, n. 7003.
[xl] In tal senso sia consentito rinviare a L. TOMASSI, M. INTERLANDI, La decisione amministrativa algoritmica, op. cit. In questi termini v. S. CIVITARESE MATTEUCCI, «Umano troppo umano». Decisioni amministrative automatizzate e principio di legalità, in Dir. Pubb. n.1/2019,22, che enuclea il principio antropomorfico in base al quale il potere decisionale è sempre riferito ad un atto intenzionale umano; R. ROLLI. F. D’AMBORSIO, La necessaria lettura antropocentrica della rivoluzione 4.0, in Pa persona e amministrazione, n.1/2021, 587 ss., secondo cui non solo “il controllo umano diviene così garanzia del fondamentale principio di «autonomia umana»” ma, ulteriormente, riconosce che l’imputabilità giuridica della decisione e la eventuale e connessa responsabilità amministrativa devono essere necessariamente attribuiti al titolare del potere decisorio. In tal senso v. anche G. GALLONE, Riserve di umanità e funzione amministrativa, op. cit., 65 ss., che pur riconoscendo l’assenza di una formale consacrazione della “riserve di umanità” nello svolgimento delle funzioni amministrative, sostiene sia una prospettiva implicitamente accolta e consacrata all’interno del nostro ordinamento. Tra le varie argomentazioni a sostegno di tale prospettiva l’autore richiama il binomio “imputazione – organo” in base al quale l’attività amministrativa ha sempre coinciso con l’attività umana dal momento che l’ente pubblico esercita le sue funzioni per il tramite un funzionario persona fisica che assume la posizione di organo.
[xli] Cfr. art 22, Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016. In argomento v. F. PIZZETTI, Intelligenza artificiale, protezione dei dati e regolazione, Torino, Giappichelli, 2018.
[xlii] All’interno del considerando 48, Regolamento (UE) 2024/1689, sono considerati ad alto rischio, tutti quei sistemi di Intelligenza artificiale che possono produrre effetti negativi sui diritti fondamentali protetti dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Tali diritti comprendono il diritto alla dignità umana, il rispetto della vita privata e della vita familiare, la protezione dei dati personali, la libertà di espressione e di informazione, la libertà di riunione e di associazione e il diritto alla non discriminazione, il diritto all'istruzione, la protezione dei consumatori, i diritti dei lavoratori, i diritti delle persone con disabilità, l'uguaglianza di genere, i diritti di proprietà intellettuale, il diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale, i diritti della difesa e la presunzione di innocenza e il diritto a una buona amministrazione.
[xliii] Art 14, Regolamento (UE) 2024/1689.
[xliv] Cfr. considerando 27, Regolamento (UE) 2024/1689.
[xlv] Cfr. art 14. c.4, lett. a).
[xlvi] Cfr. art 14. c.4, lett. b).
[xlvii] Cfr. art 14. c.4, lett. c).
[xlviii] Cfr. art 14. c.4, lett. d).
[xlix] Cfr. art 14. c.4, lett. e).
[l] Cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 8 aprile 2019, n. 2270.
[li] Cfr. Corte di Giustizia Ue, sentenza C-634/21 Schufa Holding, 7 dicembre 2022.
[lii] Cfr. Trib. Ord. Bologna, sez Lavoro, ord. Del 31 dicembre 2020, in cui è stato rilevato che alcuni rider hanno visto penalizzate le loro statistiche indipendentemente dalla giustificazione della loro condotta e ciò per la semplice motivazione, espressamente riconosciuta da Deliveroo, che la piattaforma non conosce e non vuole conoscere i motivi per cui il rider cancella la sua prenotazione, realizzando una discriminazione indiretta che pone “una determinata categoria di lavoratori (in questo caso quelli che prendono parte ad iniziative sindacali di astensione dal lavoro) in una posizione di potenziale svantaggio”.
[liii] Cfr. Corte di Cassazione pen., Sez. III, 17 dicembre 2013, n. 5107.
[liv] Sulla esigenza di riforma v. T. SCANNICCHIO, N.A. VECCHIO, I limiti della neutralità: la Corte di giustizia e l’eterno ritorno dell’hosting attivo, op.cit., 258 ss., in cui si riflette se l’esenzione di tali intermediari, fondata sulla loro asserita “neutralità” – dopo numerose e contraddittorie sentenze in materia - costituisca ancora la soluzione regolatoria ottimale ovvero se sia opportuno prendere atto del suo superamento, modulando di conseguenza anche la relativa disciplina. In questo senso gli autori ribadiscono un ruolo degli Internet service provider assolutamente non neutro, così mai neutre sono anche le scelte di policy: la costruzione normativa compiuta con la direttiva 2000/31, infatti, non rappresentava la constatazione di una realtà tecnologica, bensì l’espressione di un preciso favor per gli ISP, scegliendo di coniugare il generale esonero di responsabilità ex ante con un (minimale) meccanismo di notice-and-take-down, oggi probabilmente meritevole di venire riformato.
Brevi note sul rinvio pregiudiziale ex art.363 bis c.p.c. e su limiti e controlimiti giurisprudenziali alla definizione normativa di paese sicuro
I paragrafi 1 e 7 sono opera di Roberto Giovanni Conti, quelli da 2 a 6 di Mario Serio ma l’intero commento è frutto di piena e ragionata condivisione delle riflessioni ivi svolte.
La prima sezione civile della Corte di Cassazione, interpellata sulla base di un rinvio pregiudiziale effettuato ai sensi dell'art.363 bis c.p.c. dal Tribunale di Roma, ha chiarito con l'articolata sentenza n.33398 del 19 dicembre 2024 quali poteri residuino al Giudice chiamato a pronunciarsi sull'impugnazione del rigetto in via amministrativa della domanda di protezione internazionale relativamente alla conferma o alla smentita nel caso di specie della designazione attraverso uno strumento normativo di un paese come sicuro. Là pronuncia scorre lungo i binari del rigore argomentativo, saggiamente alimentato dalla necessaria affezione a principi fondativi del nostro ordinamento giuridico, già risalenti alla legge abolitiva del contenzioso amministrativa del 1865, e collega la questione ad un versante di rilevanza costituzionale, quale quello della protezione internazionale in funzione sia di garanzia del diritto d'asilo sia in relazione alle insopprimibili garanzie di tutela di diritti fondamentali della persona. Le conclusioni di carattere generale, nitidamente rivolte anche in direzione applicativa concreta, cui la Cassazione è pervenuta corroborano la diffusa linea interpretativa dei giudici di merito che non hanno inteso cedere alla tentazione di risolvere le questioni afferenti alla protezione internazionale riparandosi dietro l'acritica adesione alla designazione di “paese sicuro” ratione temporis affidata ad un atto amministrativo ed hanno, pertanto, rinverdito poteri cognitori incisivi e diretti a scopi di “enforcement” costituzionale. In ultima e rasserenante analisi il tratto della centralità dei diritti e della dignità umani ha il benefico sopravvento su linee ed indirizzi, non giurisprudenziali, che, anche sull'impeto di onde emotive, adottano scale di valori ed obiettivi molto differenti ed altrettanto eterogenei. La stessa sentenza offre un illuminante esempio della proficuità degli esiti del rinvio pregiudiziale di cui all'art.363 bis c.p.c., così contribuendo al consolidamento del proficuo dialogo tra giudici di merito e giudici di legittimità, ancor più fruttuoso se condotto, come in questo caso, sotto l'egida del diritto eurounitario e dei principi costituzionali.
Sommario: 1. La genesi di Cass.n.33398/2024 - 2. Inquadramento dell'oggetto dell’indagine - 3. L’occasione generatrice del rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art.363 bis c.p.c. - 4. Il contesto normativo sovranazionale e domestico della nozione di paese sicuro in funzione della protezione internazionale - 5. Le linee argomentative della sentenza 33398/2024 della Corte di cassazione nel conflitto tra le possibili interpretazioni dei poteri cognitori del giudice di merito in sede di impugnazione delle decisioni amministrative in materia di protezione internazionale adottate in via accelerata ed i loro effetti applicativi - 6. Il senso ampio delle conclusioni decisorie - 7. Il dialogo come motore pulsante dei rapporti fra giudice di merito e Cassazione nell’era dell’art.363 bis c.p.c.
1. La genesi di Cass.n.33398/2024
La sentenza impugnata si inserisce in un panorama giurisprudenziale che aveva espresso indirizzi non uniformi in ordine al potere disapplicativo da parte del giudice ordinario della designazione di paesi sicuri contemplata, in attuazione dall’art. 2 bis d.lgs. n. 25 del 2008, dal d.m. 4 ottobre 2019, poi modificato con d.m. 17/03/2023 e dal d.m.7 maggio 2024, salvo a lasciare il campo al d.l.n.145/2024, convertito con modificazioni dalla l.n187/2024.
Quanto al piano UE, la nozione di Paese sicuro, dapprima introdotta dalla direttiva 2005/85/CE del Consiglio del 1° dicembre 2005 con gli artt. 29 - disposizione invalidata da Corte giust. UE, 6 maggio 2008, causa C-133/06, Parlamento europeo c. Consiglio dell’Unione europea – 30 e 31, è stata regolata dalla direttiva 2013/32/UE del 26 giugno 2013 (cd. direttiva procedure) con gli artt.36 e 37, individuando la cornice entro la quale può inserirsi la nozione di Paese di origine sicuro e le conseguenze di tale nozione sulle procedure di valutazione delle domande.
Proprio in forza dell’allegato 1, richiamato dall’art.37 ult. cit., gli Stati membri possono mantenere in vigore o introdurre una normativa che consenta di designare Paesi di origine sicuri, stabilendo che «Un Paese è considerato Paese di origine sicuro se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni quali definite nell’articolo 9 della direttiva 2011/95/UE, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. Per effettuare tale valutazione si tiene conto, tra l’altro, della misura in cui viene offerta protezione contro le persecuzioni ed i maltrattamenti mediante: a) le pertinenti disposizioni legislative e regolamentari del Paese ed il modo in cui sono applicate; b) il rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e/o nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e/o nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, in particolare i diritti ai quali non si può derogare a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, di detta Convenzione europea; c) il rispetto del principio di “non-refoulement” conformemente alla convenzione di Ginevra; d) un sistema di ricorsi effettivi contro le violazioni di tali diritti e libertà.»
Cass. n.33398/2024 interviene, sollecitata dal Tribunale di Roma, in sede di rinvio pregiudiziale ex art.363 bis, c.p.c., per dare risposta al quesito sollevato dal Tribunale di Roma all’interno di un ricorso per l’ottenimento della protezione internazionale presentato da un cittadino di un paese terzo (Tunisia) inserito nell’elenco dei paesi di origine sicuri.
Il giudice di merito chiedeva alla Corte di cassazione di chiarire se il giudice ordinario avesse titolo per disattendere il decreto ministeriale nella parte in cui stabiliva la designazione di paese sicuro e dunque valutare, anche in ragione del dovere di cooperazione istruttoria ed eventualmente anche in caso di mancanza di contestazione, sulla base di informazioni sui paesi di origine (COI) aggiornate al momento della decisione, se il paese incluso nell'elenco sia effettivamente tale alla luce della normativa europea e nazionale vigente in materia.
Il dubbio interpretativo rivolto alla Corte di cassazione nasceva dalla constatazione, esternata dal giudice del rinvio, che il complesso contesto normativo, eurounitario e nazionale, era stato oggetto di controversa interpretazione, non solo all’interno del giudizio, ma più in generale anche fra le diverse sezioni distrettuali specializzate e di diversi collegi delle stesse sezioni specializzate.
In questa prospettiva, il Tribunale capitolino evidenziava che l’incertezza appena rappresentata aveva trovato ulteriore implicita conferma in alcuni passaggi motivazionali espressi dalle Sezioni unite della Cassazione con la sentenza n. 11399/24, anch’essa resa in sede di procedura di rinvio pregiudiziale sollevato dal Tribunale di Bologna, ove si era ritenuto che le «condizioni che legittimano la procedura accelerata e consentono, quale conseguenza, la deroga al principio (generale) della sospensione del provvedimento della Commissione territoriale» devono essere oggetto di «stretta osservanza della possibilità di azione delle deroghe». Specificava, ancora, il giudice del rinvio che “in tale contesto la Suprema Corte, pur ritenendo di non poter «compiutamente affrontare» la complessa questione aveva dato spazio alla possibilità che il giudice, quando il richiedente contesti la natura “sicura” del paese di origine, o anche d’ufficio, debba, «anche in ragione del dovere di cooperazione istruttoria, comunque valutare detta natura, anche in presenza di inserimento del paese negli elenchi contenuti nei decreti ministeriali a ciò destinati (si tratta peraltro di decreti necessitanti di continuo aggiornamento) ».
Da qui le ragioni poste a sostegno della richiesta di rinvio pregiudiziale correlate, dunque, alla diversità di indirizzi interpretativi sulla questione della sindacabilità del d.m. in ordine alla natura “sicura” dei paesi ed alla pluralità di ricorsi sottesi alla medesima questione oggetto del rinvio. Alla necessità di dare risposta ai dubbi di natura tecnico-giuridica si aggiungevano, secondo il giudice remittente, ragioni «anche di opportunità, del rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione, che appare nella specie estremamente utile al fine di dare indicazioni alle Sezioni specializzate dei Tribunali distrettuali su una questione controversa e relativa ad un numero assai ampio di cause, anche in ordine alla definizione del giudizio interlocutorio avente ad oggetto l’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato, quando non siano stati invocati motivi personali che permetterebbero di superare, per il singolo richiedente, la presunzione (juris tantum) di sicurezza del paese ai sensi del comma 5 dell’art 2 bis D.lvo n. 25/2008. »
2. Inquadramento dell'oggetto dell'indagine.
La sentenza cui è dedicato il presente scritto esibisce più di uno spunto di interesse per i giuristi sia perché fornisce una chiara individuazione dei presupposti giustificativi del ricorso all'innovativo strumento del rinvio pregiudiziale alla stessa corte di legittimità previsto dall'art.363 bis c.p.c., nonché dei conseguenti esiti applicativi in termini di posizione del principio di diritto applicabile ai fini della risoluzione del giudizio d'origine, sia perché l'oggetto della controversia che ha innescato il rinvio puntava verso una materia dibattuta, divisiva, manipolata anche a fini estranei ad una disamina da svolgersi esclusivamente in confini tecnici. Del primo aspetto, centrale nella ridefinizione del ruolo della nomofilachia e nella attribuzione di mezzi indiretti per la definizione di giudizi di merito ragionevolmente preclusivi della necessità e dell'utilità di ulteriori ricorsi alla sede di legittimità dirà appresso Roberto Conti; pertanto, l’attenzione delle considerazioni che seguono sarà devoluta alla questione centrale dei rapporti tra definizione in via normativa (prima amministrativa e dal 23 ottobre 2024 legislativa) di un antecedente logico-giuridico (la designazione del paese d'origine come sicuro) per la risoluzione di questioni attinenti al riconoscimento del diritto alla protezione internazionale del richiedente e poteri istruttori, valutativi e decisori del giudice di merito competente. Del resto, la circostanza che lo stesso giudice di merito rinviante abbia avvertito l'apprezzabile scrupolo di acquisire un criterio vincolante per la decisione della causa testimonia la rilevanza, e l'incertezza, del tema. E proprio l'incertezza, seppur declinata sotto il profilo della concorrenza di più linee interpretative difformi, sta alla base della fruizione dello strumento di recente offerto dall'art.363 bis c.p.c. la cui plausibilità è stata attestata dal provvedimento della prima presidente della corte di cassazione che, nel ritenere soddisfatti i requisiti stabiliti dalla norma da ultimo citata, ha al contempo sottolineata l'assenza di precedenti orientamenti di legittimità e la gravità e complessità interpretativa della questione di cui si sta per dire. Aspetti, questi, di cui ha mostrato piena consapevolezza la Procura Generale presso la stessa corte attraverso una esauriente memoria scritta depositata dalla Avvocata Generale cui ripetutamente ha fatto adesivo riferimento la sentenza in esame.
3.L'occasione generatrice del rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 363 bis c.p.c.
Il procedimento principale da cui ha preso le mosse il rinvio pregiudiziale verteva su una materia di frequente ricorrenza e come tale bisognosa di quell'indirizzo chiaro che la corte di cassazione ha finito con l'imprimere. In particolare, il Tribunale di Roma è stato investito dell'impugnazione, da parte di un cittadino proveniente dalla Tunisia, paese definito sicuro dalla normativa vigente al tempo processualmente rilevante, della decisione reiettiva della domanda di protezione internazionale da parte della Commissione territoriale competente. Il provvedimento di rigetto è stato, a propria volta, emesso nell'ambito di un procedimento instaurato ai sensi dell'art.28 ter del d.lgs.25 del 2008 sotto il profilo della manifesta infondatezza della domanda in quanto proposta da persona proveniente da un paese designato come sicuro dal decreto interministeriale del 7 maggio 2024 e priva dell'allegazione di fondati motivi atti a contraddire tale definizione. Anche nell'impugnazione, accompagnata dalla richiesta in via cautelare della sospensione dell'efficacia del provvedimento della commissione territoriale, non erano state profilate specifiche ragioni relative alla compromissione della posizione individuale del richiedente, essendosi, piuttosto, fatto riferimento alla generale situazione del paese d'origine, quale desumibile da circostanze obiettivamente sintomatiche di un'involuzione in senso autoritario delle istituzioni, con conseguente estensione dei loro effetti pregiudizievoli alla generalità dei cittadini.
Il Tribunale di Roma articola il proprio percorso in direzione del rinvio pregiudiziale assumendo come premessa logico-giustificativa il contesto genetico del giudizio, ossia quel particolare procedimento che, in virtù della previsione degli effetti derivanti dall'avvenuta inclusione del paese d'origine del richiedente tra quelli sicuri alla stregua dell'art.2 bis del citato d.lgs.25 del 2008, implica l'utilizzazione di una forma cosiddetta accelerata di definizione dell'istanza. Ora, proprio in questa contrazione procedurale il Tribunale identifica motivatamente una significativa compressione del diritto di difesa: la spiegabile prospettiva, sembra potersi ragionevolmente desumere, è quella dell'aggravamento dell'onere probatorio incombente sul richiedente, solo da assolvere attraverso il superamento della presunzione (seppur relativa) di sicurezza implicata dall'atto normativo. Così impostato lo scenario del giudizio, si rivela del tutto congruo il successivo sviluppo logico della premessa del Tribunale: se l'ostacolo all'accoglimento della domanda va ravvisato nel decreto interministeriale di designazione dei paesi sicuri ed al tempo stesso tale fonte costituisce il parametro decisorio del caso di specie, al giudice va attribuito il compito di intervenire ermeneuticamente sulla stessa, onde coglierne il significato e determinarne il livello di incidenza. In altri termini ciò che occorre è una verifica frontale dell'ambito di efficacia della fonte stessa ed i limiti della sua vincolatività nei confronti del giudice stesso. Lo stesso Tribunale mostra piena conoscenza della fenditura riscontrabile nella stessa giurisprudenza di merito circa i poteri esercitabili in siffatto contesto dal giudice dell'impugnazione, che potrebbe vedersi stretto nella morsa alternativa della sindacabilità, o meno, del testo che designa i paesi sicuri.
Alla luce di questi dilemma il quesito rimesso alla soluzione della corte di cassazione va così riassunto: se, in ogni caso in cui rilevi, ai fini della pronuncia sulla domanda di protezione internazionale sulla quale sia intervenuta una decisione amministrativa di rigetto in esito ad una procedura accelerata per manifesta infondatezza ai sensi dell'art.28 ter del d.lgs. 25Del 2008,la designazione per decreto ministeriale come paese sicuro di quello d'origine del richiedente, il giudice ordinario sia vincolato a tale designazione ovvero gli spetti di esercitare il proprio ordinario potere istruttorio, affiancato dal dovere delle parti di cooperazione istruttoria e dall'accesso ad informazioni sul paese d'origine aggiornato al momento della decisione. E ciò al fine di valutare se il paese incluso nell'elenco sia effettivamente sicuro alla luce della normativa europea e nazionale vigente in materia, che sussista o meno specifica contestazione sul punto da parte del richiedente.
Sull'ammissibilità del sindacato valutativo si è espressa positivamente l’Avvocata Generale.
L'amministrazione dell'Interno ha rilevato in via generale che l'autorità giudiziaria non può sostituirsi alle valutazioni amministrative, tranne che emergano elementi capaci di denunciare l'irragionevolezza della designazione in quanto contraria al diritto comunitario ovvero siano evidenti ragioni di insicurezza del paese d'origine connesse alla situazione personale del richiedente. Si aggiunge, quanto ai profili di insicurezza per così dire di carattere generale, che il sindacato giurisdizionale trova un limite nell'attendibilità delle scelte amministrative, mentre pieno sarebbe il potere cognitorio del Giudice in ordine alla condizione personale del richiedente.
L'esposizione precedente dovrebbe dar sufficientemente conto della drammaticità istituzionale del quesito-accentuata dal contorno ambientale, spesso venato da interferenze polemiche, nel quale ogni vicenda afferente alla regolamentazione dei flussi migratori finisce con il collocarsi-che inevitabilmente si spinge sul territorio della separazione dei poteri dello stato: più esattamente, e giudicando ex post, si sarebbe potuto spingere se, al contrario di quanto per fortuna accaduto in ragione del lungimirante equilibrio della sentenza, la materia fosse stata contaminata da astratti furori ideologici o da rivendicazioni di supremazia, entrambi nemici delle rigorose caratteristiche del giudizio di legittimità.
Tuttavia, il momento stesso della formulazione del quesito comportava una sua così spiccata attrazione nell'alveo di principi sovranazionali e di schietto contrassegno costituzionale che la sua trattazione non poteva sottrarsi al riferimento ad una ben delineata tavola di valori dai quali era impensabile esulassero sentimenti di genuina solidarietà umana, tutti chiaramente ricompresi nella protettiva capsula della Costituzione stessa. Di questo si ha, come si vedrà, irrefutabile conferma nell'ordito della pronuncia.
4. Il contesto normativo sovranazionale e domestico della nozione normativa di paese sicuro in funzione della protezione internazionale.
La prima preoccupazione da cui è stata avvinta la corte di cassazione è stata quella di reperire il fondamento normativo multilivello cui ancorare il proprio modello decisorio. Operazione immancabile non solo per rendere tecnicamente solida la soluzione del quesito, in adempimento della propria funzione di garanzia dell'uniforme applicazione del diritto oggettivo nazionale e, per diretta ricaduta, del sommo principio di eguaglianza tra i cittadini, ma parimenti necessaria per cogliere e disciplinare i nessi interordinamentali suggeriti dalla materia e necessitanti scelte conformi e compatibili con la prospettiva eurounitaria e con gli obblighi internazionalmente assunti dall'Italia.
A dar risposta a tale preoccupazione la sentenza ha atteso traendo il primo passo dalla dichiarazione dell'inglobamento all'interno della Costituzione (il cui disegno non per caso è acutamente definito “personalista” per la rilevanza assegnata al valore del cittadino in quanto persona) dei diritti dello straniero la cui dignità gli dà titolo a trattamenti solidali ed all'accoglienza, costituenti in via diretta suoi diritti fondamentali. Tra di essi si staglia naturalmente il diritto d'asilo nel territorio della Repubblica allorquando a tale cittadino sia impedito l'effettivo esercizio nel suo paese delle medesime libertà democratiche garantite in Italia dalla Costituzione.
Lo snodo è brillante e determinante nell'intera economia della sentenza: esso, infatti, crea il raccordo logico preliminare tra la posizione soggettiva dello straniero (del tutto eguagliabile, quanto alla tutela dei diritti fondamentali, a quella del cittadino italiano, secondo l'insegnamento della Corte costituzionale) e le varie fonti che possano frapporsi alla relativa, piena realizzazione: e naturalmente tra esse, vanno annoverate quelle, sovranazionali o interne, che classificano i paesi d'origine in rapporto alla sicurezza. In particolare, del diritto d'asilo viene rintracciato la sicura sponda internazionale (Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati del 1951) e comunitaria (Direttiva 95 del 2011) ed anche la nozione interna strutturata in termini di protezione sussidiaria e temporanea per chi, pur sprovvisto dei requisiti per essere definito rifugiato, corra rischi di subire gravi danni nel proprio paese. D’altra parte, l'elasticità dell'area di inveramento della protezione internazionale viene felicemente confermata dalla direttiva europea 115 del 2008 che estende le forme tipiche ad ipotesi che gli stati membri ritengano meritevoli per motivi caritatevoli, umanitari o di altra natura.
Ancora una volta la sentenza procede secondo un andamento sillogistico poiché, in perfetta simmetria rispetto alla così delineata condizione giuridica dello straniero, fa discendere una direttamente proporzionale competenza incrementale del giudice nazionale, promosso al ruolo di garante dell'effettività nel singolo caso dei diritti del richiedente asilo che fugge dal proprio paese e cerca legittima protezione nell'ambito dell'Unione europea. Il richiamo all'effettività dei diritti, come contrapposta, per mutuare dall'immaginifica espressione di Rodolfo Sacco, ad un vuoto carattere solamente declamatorio, è argomento finalistico che imbeve di sé l'intera sentenza e ne consolida l'assetto dispositivo finale, dotandolo di un puntello non sradicabile. Non può sembrare antitetica a questa tensione verso la pienezza di tutela degli stranieri che versano nelle condizioni appena descritte l'affermazione secondo cui “Alle istituzioni democratiche e rappresentative, attraverso le quali si esprime la sovranità popolare, spetta il compito di gestire il fenomeno migratorio, disciplinando i flussi anche nei riflessi sulla sicurezza della comunità nazionale, in un quadro di libertà, di giustizia e di cooperazione internazionale fondata sul riconoscimento di valori comuni, assicurando l'efficienza del sistema nazionale di accoglienza e realizzando condizioni materiali di effettiva integrazione di chi ha titolo per restarvi”.
Il passaggio merita di ricevere una particolare riflessione. Per due ragioni principali, entrambe cospiranti verso il risultato di accreditare alla sentenza l'attitudine a soddisfare complessivamente le insistenti aspettative di chiarezza ed autorevolezza che da più e non coincidenti parti attorno ad essa si nutrivano. La prima e preminente consiste nella riaffermazione che la cooperazione internazionale, da attuarsi nel quadro dei valori di libertà e giustizia, fondativi della civiltà di un'esperienza giuridica, debba fondarsi sui cardini dell'efficienza del sistema di accoglienza e sulla conseguente, immancabile aspirazione al risultato della effettiva, vale a dire piena, integrazione delle persone che vi sono ammesse. Viene così spazzato ogni possibile dubbio su consistenza e portata dell'obiettivo fondamentale dell'integrazione intesa quale epilogo dell'accoglienza e non come semplice, stentata eventualità destinata alla perdurante sminuizione della persona e della personalità dello straniero titolare della protezione internazionale. La seconda ragione ha a che vedere con il leale, e davvero mai dubitato, riconoscimento in capo alle istituzioni democratiche e rappresentative della sovranità popolare del compito gestorio del fenomeno migratorio. Va da sé che a determinare la connessione tra le due ragioni non può che ergersi la concreta affermazione, sotto il profilo dell'effettività e pienezza della tutela del richiedente, della dignità della sua posizione, a propria volta frutto dell'applicazione degli indirizzi in materia di immigrazione.
La sequenza razionale della sentenza si dipana attraverso l'approccio alla individuazione della nozione giuridica di paese sicuro alla stregua del diritto europeo e recepita dal legislatore nazionale. Viene così in rilievo l'allegato I alla direttiva europea 2013/32 la quale considera sicuro un paese “se, sulla base dello status giuridico, dell'applicazione della legge all'interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni quali definite nell'articolo 9 della direttiva 2011/95/UE, né tortura o altre forme di pena o trattamento inumano e degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”. Il medesimo allegato illustra anche i criteri corroborativi di tale definizione, attribuendo rilievo alla misura in cui viene offerta la protezione contro le persecuzioni ed i maltrattamenti con riguardo alle pertinenti disposizioni legislative e regolamentari, al rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e, infine, all'osservanza del principio del “non refoulment”. A propria volta gli articoli 36 e 37 della direttiva in parola istituiscono il regime cui deve ispirarsi l'esame delle domande di protezione internazionale, fondato sulla presunzione relativa di protezione sufficiente nel paese d'origine. Essa può essere efficacemente confutata dal richiedente che adduca gravi motivi attinenti alla sua situazione particolare. La ricaduta di tali disposizioni aventi funzioni di cornice negli ordinamenti interni degli stati-membri è nel senso che su di essi grava il dovere di riesaminare periodicamente la situazione nei paesi designati come sicuri e di consultare, in sede di esame delle singole domande di protezione internazionale, fonti di informazione affidabili, comprese quelle fornite da altri stati-membri e da altre competenti e qualificate istituzioni internazionali (EASO,UNHCR,Consiglio d'Europa,etc.).Nell'adempiere i propri obblighi comunitari l'Italia si avvale, sin dal 2018 della facoltà riconosciutale dalla direttiva 2013/32 citata di designare i paesi sicuri attraverso un decreto del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, di concerto con i Ministri dell'Interno e della Giustizia. In sede di conversione nella legge 132 del 2018 del decreto legge 113 dello stesso anno è stata inserita la previsione di cui all'art.2 bis (facente parte della generale previsione dell'art.7 bis) che precisa la nozione di paese sicuro non appartenente all'Unione Europea come quello che, secondo il proprio ordinamento interno, ed in virtù dell'applicazione della legge all'interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, possa dimostrarsi in linea generale e costante estraneo ad atti di persecuzione, di trattamenti inumani o degradanti, pericoli di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto interno o internazionale. Valgono anche per il diritto italiano, che li ha espressamente recepiti, i tre indici prima trascritti dall'allegato I della direttiva 2013/32.
L'atto implementativo delle disposizioni generali prima riportate, applicabile in ragione del tempo della sua emanazione alla fattispecie, è il decreto ministeriale del 7 maggio 2024 che comprende la designazione dei paesi in quel momento sicuri: sfugge al perimetro normativo di rilevanza per la sentenza (e, di conseguenza, del presente saggio) il diritto sopravvenuto costituito in particolare dalla legge 9 dicembre 2024 n.187 che ha convertito con modificazioni il decreto legge 11 ottobre 2024 n.145 recante disposizioni urgenti in materia di ingresso in Italia di lavoratori stranieri, di tutela ed assistenza alle vittime di caporalato, di gestione dei flussi migratori e di protezione internazionale, nonché dei relativi procedimenti giurisdizionali.
Con questo retroterra normativo, che attinge ad una concezione eurounitaria del diritto, la Corte di Cassazione si è misurata nell'assolvimento della propria funzione dirimente il rinvio pregiudiziale.
5. Le linee argomentative della sentenza 33398/20224 della corte di cassazione nel conflitto tra espansione e compressione nel conflitto tra possibili interpretazioni dei poteri cognitori del giudice di merito in sede di impugnazione delle decisioni amministrative in materia di protezione internazionale adottate con procedura accelerata ed i loro effetti applicativi.
L'incalzare della forza dei vari segmenti integranti la linea di pensiero seguita dalla sentenza non poteva che portare la corte di cassazione a porsi l'interrogativo della rilevanza, nello stretto recinto processuale del caso concreto da cui ha tratto origine il rinvio pregiudiziale, della designazione di un paese come sicuro nell'ottica della delibazione della domanda di protezione internazionale. È del tutto intuitivo, infatti, che a maggiori conseguenze sul piano dell'assetto della generale posizione soggettiva del richiedente derivanti da tale qualificazione debba corrispondere una crescente accuratezza del sindacato giurisdizionale e, ancor prima, un dovizioso soppesamento delle ragioni legittimanti tale attività.
Il più immediato e consistente effetto che ne discende è quello, cui si è prima fatto cenno, dell'abdicazione al rito ordinario proprio del procedimento amministrativo in favore di quello accelerato che, poggiando su una presunzione di affidabilità dell'elenco ministeriale, contamina di un pregiudiziale alone di manifesta infondatezza la domanda di protezione internazionale: questo si risolve in una indiscutibile compromissione delle facoltà difensive del richiedente, esposto, tra gli altri, all'ulteriore rischio dello svolgimento del procedimento addirittura alla frontiera, al dimidiamento dei termini per l'impugnazione del provvedimento di rigetto (che può essere motivato col semplice riferimento alla provenienza dello straniero da un paese sicuro),alla perdurante efficacia dello stesso pur a fronte dell'impugnazione in sede giurisdizionale (fatta salva la concessione dell'inibitoria in quella sede). È allora evidente che, malgrado l'effetto decongestionante degli adempimenti da adottare nella regolamentazione dei flussi migratori cui tende la normativa interna, essa, da un lato causa la compressione delle posizioni soggettive prima delineate, e, d'altro lato, viene promossa al rango di elemento discriminante ai fini dell'accoglimento della domanda in quanto se il giudice dell'impugnazione fosse dispensato o impedito di effettuare una verifica di congruità della designazione non potrebbe che pervenire in forma acritica e meccanica alla conferma della decisione amministrativa. Già questa conformazione in forma automatica e di pura conseguenzialità materiale (censurata di recente dalla Corte Costituzionale in tema di effetti espulsivi dall'ordine giudiziario di magistrati condannati penalmente per delitti non colposi alla pena della reclusione superiore a due anni) renderebbe sostanzialmente apparente la tutela giurisdizionale e di conseguente spoglierebbe del fondamentale attributo dell'effettività dei diritti assicuratigli la condizione giuridica del richiedente la protezione internazionale in Italia. Si tratta di un argomento efficientista e contemporaneamente finalistico che avrebbe potuto dar luogo, in omaggio all'insopprimibile essenzialità del diritto alla tutela giurisdizionale delle posizioni soggettive sancito dall'art.113 della Costituzione, ad una risposta affermativa al quesito sottoposto in funzione pregiudiziale dal Tribunale di Roma. Ed è difficile dubitare della forza intrinseca dell'argomento di salda radice eurounitaria e costituzionale al tempo stesso. Altrettanto difficile sarebbe immaginare che alla Cassazione possa essere rimasta nascosta una simile via d'uscita. Ma è anche vero che a molti non solo sarebbe potuta sembrare una sorta di scorciatoia argomentativa povera di quelle considerevoli implicazioni istituzionali, in larga parte influenzate da un dibattito fin troppo effervescente svoltosi fuori dalle aule di giustizia ed all'interno di altre, e sistematiche che la gravità della questione a viva voce suggeriva.
Ed in questa consapevolezza la Cassazione non si è sottratta al quesito di cui in questa sede, abbandonando il vellutato linguaggio curiale della sentenza, si vuole riportare con crudezza l'intima dimensione così condensabile: la lista dei paesi sicuri racchiusa nel DM 7 maggio 2024 (in quanto atto logicamente e cronologicamente antecedente alla domanda di protezione internazionale) è verità intangibile che fuoriesce dall'ordinario circuito proprio della delibazione giurisdizionale, sì da ritagliarsi una nicchia di assertività avalutativa che preclude al giudice qualunque forma di controllo critico in sede di cognizione? Ovvero pienezza dell'attività delibativa e critica del giudice e pienezza ed effettività della posizione del richiedente la protezione internazionale costituiscono un'unità logica e sistematica inscindibile la cui preservazione soltanto può garantire il pieno rispetto della normativa sovranazionale ed interna di rango costituzionale? I corollari conseguenti alla speculare adesione all'una o all'altra delle opzioni ricognitive del compito del giudice dell'impugnazione del diniego di protezione internazionale non hanno bisogno di un'analitica esposizione perché a renderne vivida l'importanza basterebbe far ricorso al dilemma se il pieno esercizio dell'attività giurisdizionale in funzione di sindacato in via incidentale della legittimità dell'azione amministrativa le cui radici risalgono alla legge abolitiva del contenzioso amministrativo del 1865 (che, come opportunamente ricordato dalla sentenza, le stesse sezioni unite ritengono estensibile anche alle liti tra privati e pubblica amministrazione, oltre che a quelle interindividuali) possa soffrire un così sensibile depauperamento con le deteriori conseguenze di sistema prima indicate.
La Cassazione non ha volto il proprio sguardo altrove e, attraverso un serie di concatenati ed ordinati passaggi motivazionali, ha saputo pervenire ad una soluzione che, senza in alcun modo mortificare, anzi sublimando, la pienezza della funzione di baluardo garantista della giurisdizione, non ha scosso alle fondamenta il sistema di stabilità e tenuta del sistema democratico fondato sulla separazione dei poteri che una non altrettanto meditata scelta avrebbe potuto-anche contro le intenzioni dell'autore-determinare.
La continuità logica della serrata “ratio decidendi” è tale che anche un'esposizione sommaria non è in grado di farle torto.
Il primo dato, già ragionevolmente valorizzato in tutt'altro che sparute e fragili pronunce di merito, va ravvisato nella sentenza del 4 ottobre 2024 in c 406/2022 con cui la Corte Europea di Giustizia, nello statuire che l'art.37 della direttiva 2013/32 va interpretato nel senso che un paese terzo non cessa di soddisfare i criteri che gli consentono di essere designato come paese di origine sicuro per il solo motivo che si avvale del diritto di derogare agli obblighi previsti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'Uomo, fa, tuttavia, salva la possibilità per lo stato-membro di valutare se le condizioni induttive di tale designazione interna in concreto accertate siano atte a mettere in discussione tale indicazione. In particolare, secondo la Corte di Lussemburgo, il diritto dell'Unione osta a che un paese terzo possa essere designato come paese di origine sicuro ove talune parti del suo territorio non soddisfino le condizioni sostanziali della designazione enunciate nell'allegato I qui ripetutamente richiamato. La sentenza della Corte ha cospicuamente lambito il terreno processuale-e lo spunto è stato a piene mani colto dalla Cassazione-quando ha affermato che il giudice dello stato membro, adito per l'impugnazione di un provvedimento di rigetto della domanda di protezione internazionale, è tenuto a porre a base della propria decisione tutti gli elementi acquisiti agli atti nonché portati a sua diretta conoscenza al fine di accertare se sia occorsa una violazione delle condizioni sostanziali della designazione di un paese come sicuro, benché la violazione stessa non sia stata espressamente fatta valere a sostegno del gravame.
Quest'ultima statuizione ha autorizzato la Cassazione ad indirizzarsi verso la precisa affermazione del potere-dovere del giudice della protezione internazionale di acquisire con ogni mezzo tutti gli elementi atti a indagare sulla sussistenza dei presupposti della protezione internazionale, non solo secondo le allegate condizioni personali del ricorrente, ma anche in base alla situazione generale del paese d'origine considerata rilevante. E quella che la stessa in una precedente pronuncia (25311 del 2020) aveva appropriatamente “doverosa potestà” non cessa di essere attiva per il solo fatto che l'inclusione di un paese tra quelli designati come sicuri sia il mero prodotto di informazioni unicamente vagliate in sede governativa.
Del resto, osserva la sentenza oggetto di commento, il DM del 7 maggio 2024 non gode dell'immunità dal sindacato giurisdizionale perché atto politico: tale carattere, proprio dei soli atti posti in essere da un organo costituzionale nell'esercizio della funzione di governo e, quindi, nell'attuazione dell'indirizzo politico, difetta nel provvedimento amministrativo ricognitivo dei paesi sicuri ed adottato in virtù dell'applicazione dei criteri individuati nella citata direttiva comunitaria del 2013.La disconosciuta natura di atto politico del decreto ministeriale ed il suo riconosciuto carattere di atto amministrativo disapplicabile ne consente la giustiziabilità con il connesso corteo di valutazioni giurisdizionali in ordine ai fatti posti a fondamento della designazione di un paese come sicuro. Là Cassazione lucidamente ricusa di cadere nella trappola che esegeti malevoli avrebbero potuto tenderle chiarendo che in ogni caso il giudice non sostituisce le proprie valutazioni soggettive a quelle espresse nel decreto ministeriale ed orienta il proprio accertamento all'esigenza di verificare che il potere risoltosi nella designazione non sia stato esercitato arbitrariamente o in modo incoerente rispetto ai criteri legittimanti l'inclusione di un paese nella lista di cui ci si occupa. Tale controllo rinviene la propria profonda radice giustificativa nel carattere pregiudiziale che ai fini della decisione dell'impugnazione del rigetto della domanda di protezione internazionale riveste la legittimità del decreto ministeriale, qualificato come antecedente logico-giuridico della domanda stessa. Che l'elusione di tale operazione non possa in alcun modo rientrare nella disponibilità del giudice è conclamato dalla circostanza che al suo cospetto viene il diritto costituzionalmente garantito d'asilo. La costruzione della motivazione della sentenza della Cassazione è congegnata secondo il sistema dei cerchi concentrici e della conseguenzialità argomentativa la cui ulteriore espressione sta nella proposizione secondo la quale la designazione di un paese sicuro non soltanto non è, per le ragioni appena esposte, vincolante per il giudice ma non può costituire una garanzia assoluta di sicurezza per i cittadini di quel paese, sicché la fondamentale indagine giudiziale deve proprio dirigersi verso il territorio delle condizioni che potrebbero attualmente sorreggere la designazione. Il precipitato logico del percorso decisorio del giudice la cui esplorazione istruttoria abbia deluso le aspettative di conferma della designazione come sicuro del paese d'origine del richiedente è, a giudizio della Cassazione, l'esercizio del potere, di stretto carattere processuale, di disapplicazione nel caso concreto del decreto ministeriale nella parte in cui ha incluso lo specifico paese della cui sicurezza si discute nella lista. La diretta conseguenza della disapplicazione dell’atto si riverbera sui suoi effetti dedotti in giudizio, ossia il diniego di protezione internazionale e, in via di priorità logica, la stessa ammissibilità della procedura accelerata, il cui presupposto-la provenienza del ricorrente da un paese sicuro- viene, in seguito alla penetrante indagine giudiziale, caducato. La sentenza ha cura di precisare che per stimolare tale attività di cooperazione istruttoria non può mancare l'onere di allegazione del ricorrente, specialmente adempiuto mediante la presentazione di una domanda oggettivamente qualificabile come di protezione internazionale. In tal caso, il giudice è chiamato ad accertare in concreto la pericolosità anche di solo una zona circoscritta del paese d'origine nonché la ricorrenza di condizioni afferenti al richiedente che, adeguatamente dedotte e dimostrate, circoscrivano alla sua persona la situazione di insicurezza del suo paese d'origine. Nella diretta misura nella quale il giudice pervenga a tale conclusione alla stregua del materiale probatorio comunque acquisito la sua non sarà attività di disapplicazione della fonte normativa ma dichiarativa della completa fondatezza, e del conseguente accoglimento, della domanda del richiedente, come si conviene ad un ordinario processo di cognizione piena.
A conclusione di questo compatto itinerario motivazionale così suona il principio di diritto formulato ai sensi dell'art.363 bis c.p.c.:” Nell'ambiente normativo anteriore al decreto-legge 23 ottobre 2024 n.158,e alla legge 9 dicembre 2024 n.187,se è investito di un ricorso avverso una decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale di richiedente proveniente da paese designato come sicuro, il giudice ordinario, nell'ambito dell'esame completo ed ex nunc, può valutare, sulla base delle fonti istituzionali e qualificate di cui all'art.37 della direttiva 2013/32/UE, la sussistenza dei presupposti di legittimità di tale designazione, ed eventualmente disapplicare in parte qua, il decreto ministeriale recante la lista dei paesi di origine sicuri (secondo la disciplina ratione temporis), allorché la designazione operata dall'autorità governativa contrasti in modo manifesto con i criteri di qualificazione stabiliti dalla normativa europea o nazionale. Inoltre, a garanzia dell'effettività del ricorso e della tutela, il giudice conserva l'istituzionale potere cognitorio, ispirato al principio di cooperazione istruttoria, là dove il richiedente abbia adeguatamente dedotto l'insicurezza nelle circostanze specifiche in cui egli si trova. In quest'ultimo caso, pertanto, la valutazione governativa circa la natura sicura del paese di origine non è decisiva, sicché non si pone un problema di disapplicazione del decreto ministeriale”.
6.Il senso ampio delle conclusioni decisorie.
Lo scandaglio gettato nelle profondità tecniche della sentenza ne ha lasciato affiorare un discreto numero di aspetti che ne esaltano l'idoneità a proporsi come stella di orientamento in un orizzonte prima denso di caligine ed impalpabile. Un conciso riassunto ne consente l’enumerazione quanto ai vuoti riempiti ed alle lacune interpretative colmate. Nell'ordine si segnala la necessità della lettura giudiziale della lista dei paesi sicuri in senso dinamico, vale a dire non ossificato al momento della sua emanazione e, pertanto, necessitante la rivalutazione alla luce della situazione in concreto registrabile al momento della decisione sulla richiesta di protezione internazionale nel paese d'origine del ricorrente in ordine alle garanzie di rispetto dell'assetto democratico e di correlata tutela dei diritti fondamentali dei suoi cittadini. Egualmente è da dirsi con riguardo alla chiaramente affermata esigenza dell'esame da parte del Giudice di tutte circostanze che possano provocare un negativo impatto sulla persona, la sua sicurezza, le sue libertà essenziali. Ora, questa rasserenante prospettiva è, a propria volta, il diretto risultato di una duplice ricostruzione del sistema della protezione internazionale in chiave comunitaria e domestica lodevolmente effettuata dalla Cassazione. In primo luogo, infatti, si è escluso il carattere vincolante dell'elenco dei paesi sicuri per il Giudice dell'impugnazione del provvedimento di diniego della protezione chiesta dal cittadino straniero e si è, di conseguenza, riespanso un autonomo potere valutativo indirizzato verificare se le risultanze istruttorie largamente acquisibili in una diffusa logica di cooperazione istruttoria valgano a sostenere la plausibilità e la permanente legittimità della scelta originaria di inclusione di un paese terzo tra quelli sicuri. Il riconoscimento del potere rivalutativo in sede giurisdizionale si prefigge l'obiettivo di garantire al richiedente la piena effettività della tutela di quegli stessi diritti fondamentali che la nostra Costituzione-in questo assolutamente assecondata dal diritto eurounitario-attribuisce ai cittadini italiani e, collateralmente, a conseguire l’ottenimento dell’asilo. Ed infatti, la l'esercizio del potere sindacatorio mira all'esito della caducazione nel caso concreto del provvedimento amministrativo del quale sia stato dimostrato il disallineamento rispetto alle specifiche condizioni oggettive la cui ricorrenza rende legittima la designazione di paese sicuro. La tecnica della disapplicazione in via incidentale del provvedimento, fedele ad una tradizione ottocentesca mai tramontata, che la Cassazione ha senza indugi sposato, si rivela il mezzo più felice dal punto di vista sistematico. In secondo luogo, la sentenza compie una provvida incursione nel campo processuale consentendo al Giudice, in un certo senso costringendolo, ad allargare non soltanto il materiale probatorio utilizzabile ma anche le modalità di acquisizione. Esse, infatti, possono prescindere dall'allegazione da parte del ricorrente delle circostanze utili al conseguimento dell'ambito bene della vita, ossia la protezione internazionale (ferma, comunque, restando l'esigenza che tale aspirazione venga chiaramente rappresentata). Si assiste, così, ad una rimodulazione costituzionalmente orientata dei poteri istruttori del Giudice, ispirandoli alla finalità di concretizzazione di diritti fondamentali che una concezione asfittica della fase giudiziale dei procedimenti di protezione internazionale allontanerebbe dalla meta. La specialità della materia si riflette, pertanto, secondo il disegno della Cassazione, nella specializzazione delle linee portanti del relativo giudizio: né ostacoli sarebbe stato possibile opporre a questa ariosa prospettiva in considerazione della premessa dichiarata dell'operazione: la garanzia della piena effettività dei diritti riconosciuti in ambito eurounitario al migrante.
Per concludere questa sintetica analisi retrospettiva della sentenza va ricordato che l'intero telaio che attorno ad essa è stato concepito non ha mai disdegnato di perseguire il fine della armonia del sistema, in maniera plateale individuata nella ribadita inalienabilità del potere amministrativo di designazione dei paesi sicuri e nella riaffermata insostituibilità del suo esercizio. Perché il Giudice, nel procedere alla doverosa verifica di legittimità sugli esiti della valutazione effettuata dall'amministrazione, non si surroga ad essa né le usurpa attribuzioni, ma si limita-né potrebbe ometterlo-al controllo dell'esercizio non arbitrario né capriccioso di tale potere.
Ora, proprio quest'ultima osservazione aiuta a formulare un giudizio completo su significato, portata, effetti della sentenza. Per giungere a tale risultato occorre in primo luogo prendere le mosse dal clima e dalle aspettative che circondavano la pronuncia, cui veniva impropriamente affidato il compito di arbitrare una contesa tra poteri dello Stato. Contesa, in effetti, mai nemmeno adombrata per l'intuitiva ragione che l'intima ragion d'essere della giurisdizione è quella di dirimere, con i mezzi propri dell'ordinamento giuridico, controversie, giammai di provocarle, tanto meno in funzione antagonista di altri poteri. È evidente la distorsione prospettica che si annida nel pensiero secondo cui l'affermazione del momento giurisdizionale espresso attraverso un provvedimento del Giudice corrisponda nelle intenzioni o negli effetti ad un attentato alle altrui sfere di attribuzioni (e, ove anche in concreto si desse luogo ad una siffatta, temuta ipotesi sarebbe risolutivamente proponibile il conflitto di attribuzioni davanti la Corte Costituzionale). Di questo pericolo di dannoso fraintendimento ha mostrato di essere responsabilmente conscia la Cassazione nella propria ponderata sentenza. Essa non sembra destinata ad esser relegata negli angusti spazi propri dei giudizi esclusivamente tecnici, magari spogli di un intento animatore. Ed invero, la pronuncia assolve una funzione che nelle sue più elevate manifestazioni è immanente nelle giurisdizioni di vertice dei sistemi di common law, quella di additare con chiarezza un orientamento rappresentativo di una “policy”, ossia di un modo di intendere l'ordinamento giuridico nel suo complesso e nelle sue molteplici sfaccettature alla luce dei principi socialmente accettati e secondo lo spirito del tempo. E non di abusiva interpretazione del proprio ruolo si tratta, ma di un modo di ravvivare il diritto accostandolo alla realizzazione dei valori alla cui tutela esso è preposto, a partire da quelli di matrice costituzionale. E dato che la materia cui sono dedicate queste riflessioni è quella dei diritti umani, val la pena rievocare il pensiero del compianto Lord Bingham of Cornhill, autentico paladino del liberalismo giudiziario inglese, che nella sua opera finale dedicata alla Rule of law enfaticamente proclamava la necessità che gli ordinamenti giuridici (non solo quelli della famiglia anglo-americana) dovessero assicurare adeguata tutela ai diritti umani fondamentali. La chiosa sgorga con naturalezza: a tale ambizioso traguardo non possono che cospirare operazioni di “policy” quale quella meritoriamente compiuta dalla sentenza esaminata che si propone come utile antidoto alle degenerazioni di un dibattito talvolta esondato dagli argini della sana dialettica istituzionale.
7. Il dialogo come motore pulsante dei rapporti fra giudice di merito e Cassazione nell’era dell’art.363 bis c.p.c.
La sentenza che si commenta ha fra gli altri pregi quello di avere ancora una volta dissipato i possibili dubbi che aleggiano attorno all’istituto del rinvio pregiudiziale “interno” ed alla sua a volte ventilata vocazione alla sterilizzazione del ruolo del giudice di merito in favore di una prospettiva “cassaziocentrica”, tutta ricamata attorno ad un’immagine verticistica del giudice di ultima istanza che tutto domina in maniera asfissiante all’interno della giurisdizione a scapito del giudice di merito, confinato nell’alveo di un comprimario della giurisdizione, tutto proteso a trovare il bandolo delle matasse, spesso complesse, allo stesso demandate, con un comodo “r-invio” alla Corte della soluzione da adottare.
Già altre volte abbiamo provato ad evidenziare la centralità dello strumento introdotto con la riforma Cartabia nel processo civile sulla via dell’effettività della tutela giurisdizionale e della riconquistata centralità del dialogo fra merito e legittimità, altresì cogliendo i profili di collegamento con il rinvio pregiudiziale “esterno” alla Corte di Giustizia (V., volendo, R. Conti, I rapporti tra rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione e rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, in Il diritto tributario nella stagione delle riforme Dalla legge 130/2022 alla legge 111/2023, a cura di E. Manzon e G. Melis, Pisa, 2024, 97 ss).
Quel che preme in questa prima riflessione alla sentenza n.33398/2024 sottolineare è la circostanza che il giudice di legittimità, oltre a darsi carico di fornire l'interpretazione del dato normativo interno alla luce dei canoni anche fissati dalla Corte di giustizia dell'Unione europea, indossa i panni di un interprete particolarmente qualificato nel panorama della giurisdizione nazionale chiamata ad occuparsi delle controversie in tema di immigrazione. Questo fa valorizzando il senso ed il significato della sentenza della Grande sezione della Corte di giustizia dell'Unione europea resa il 4 ottobre 2024 che, come noto, ha costituito uno dei punti di forte contrapposizione fra politica e magistratura in ordine alla rilevanza delle eccezioni personali ai fini della esclusione della natura sicura del paese di origine. E lo fa riportando i termini del confronto ermeneutico nell’unico campo suo proprio, appunto costituito dall’agorà giurisdizionale, ormai stabilmente popolata da attori che, pur svolgendo diverse funzioni, sono tutti consapevoli del ruolo di ciascuno di essi.
Primo fra tutti il giudice di merito che ha sollevato il rinvio pregiudiziale. Un giudice fortemente responsabile, consapevole allo stesso modo della centralità della sua posizione rispetto al governo della lite innanzi allo stesso pendente, ma altresì conscio delle ricadute che la decisione del singolo caso poteva riprodursi concentricamente tanto sul carico di contenzioso omogeneo pendente nel medesimo plesso giurisdizionale quanto su quello di altre sezioni specializzate sparsi nel territorio nazionale.
Un giudice di merito che, dunque, “decide di non decidere” non già in una defatigante prospettiva, ma al contrario si colloca consapevolmente in un anfiteatro al cui interno potersi confrontare a viso aperto ed in modo diretto che la Corte di cassazione, vista non come austero ed implacabile controllore della correttezza del suo dire, ma come compagno di viaggio “insieme” al quale percorrere un cammino, tracciare una linea, offrire chiarezza, stimolare ragionamenti. Al punto che la soluzione finale scolpita nel principio di diritto è realmente frutto condiviso ed equi ordinato, originato del cooperante sforzo ermeneutico di remittente e decisore finale al quale spetta, per funzione, il compito di mettere a frutto i dubbi, raccogliere gli stimoli del remittente e riportarli a sistema in modo che esso torni utile ad una giustizia capace di mostrarsi tanto efficiente ed efficace quanto “giusta”, a tutti i livelli nei quali viene quotidianamente amministrata.
Tutto questo in un incedere nel quale ragionare secondo i canoni della contrapposizione piramidale nel senso che ci ha consegnato la storia – e che pure viene perpetuato in tempi recenti dal titolo di apertura che compare aprendo il sito internet della Corte di cassazione, indicata come “Il vertice italiano della giurisdizione ordinaria” - deve fare i conti con un tempo presente profondamente modificato, nel quale i nessi di collegamento fra i vari protagonisti della giustizia si avvertono anch’essi soggetti a processi di notevole trasformazione, governati da logiche diverse.
Se si condivide questa prospettiva si ha ragione di comprendere quanto la dimensione verticistica che spesso viene, non sempre in buona fede, rappresentata quando si delinea il ruolo del giudice di legittimità sia destinata inesorabilmente a cedere il passo verso un’altra più realista concezione del ruolo della legittimità, al centro di un crocevia di rapporti istituzionali interni alle giurisdizioni nazionali e sovranazionali che la stessa mostra di governare offrendo un volto tanto cooperante e discorsivo quanto autorevolmente pacificatore, in piena coerenza con una prospettiva pienamente condivisa (a pena di autoreferenzialità sia consentito il rinvio a Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I "volti" delle Corte di Cassazione a confronto, 4 marzo 2021; La funzione nomofilattica delle Sezioni Unite civili vista dall’interno (con uno sguardo all’esterno), 11 gennaio 2024, apparsi su questa Rivista).
Il provvedimento in rassegna, certo, avvantaggia notevolmente chi predilige la prospettiva qui caldeggiata in ordine alle relazioni fra le Corti, forte di una trama argomentativa sulla quale nulla di più va e può essere aggiunto a quanto rappresentato da Mario Serio.
Ma non può non collegarsi, e non solo per ragioni di ordine temporale, a quel fil-rouge di provvedimenti interlocutori, inaugurato da Cass.n.34898/2024, che lo stesso Collegio della prima sezione civile ha esitato alla vigilia del nuovo anno, questa volta sulla non meno martoriata e limitrofa questione della designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro essere effettuata, attraverso un decreto ministeriale, con eccezioni di carattere personale.
Provvedimenti sui quali non è qui il caso di soffermarsi, se non per coglierne la naturale continuità di senso, l’unicità della prospettiva, l’orizzonte comune al cui interno si collocano, ancorché scolpito da una “non decisione motivata” della Corte di cassazione.
L’apparente ossimoro dell’espressione appena utilizzata, se riferita ad un provvedimento di un giudice di ultima istanza è, infatti, ancora una volta conferma tangibile di quanto il ruolo della Corte di cassazione si dispieghi in triangolazioni sempre più complicate che tendono, anzi, spesso a suggerire figure geometriche ancora più complesse, nelle quali il giudice di legittimità si confronta con diritti viventi interni – provenienti tanto dal giudice di merito quanto dalla Corte costituzionale - e sovranazionali, sempre più animati e vivificati dalla giurisprudenza delle Corti di Lussemburgo e Strasburgo, in un incedere che tende a superare gli angoli e si propone come naturalmente circolare.
Un orizzonte nel quale il “non decidere” della Cassazione in quella vicenda, nell’attesa della pronunzia della Corte di Giustizia UE, collegato però all’ipotesi di lavoro sulle questioni controversie idealmente consegnata alla Corte di Lussemburgo, si pone in parallelo alla richiesta di rinvio pregiudiziale “interno” del Tribunale di Roma qui commentata e si colloca come momento alto della giurisdizione nazionale non meno di quello espresso con il principio di diritto scolpito da Cass.n.33398/24. Pronunzie che appaiono animate da un profondo senso di “rispetto” verso i compagni di viaggio- le parti del procedimento, il giudice di merito dei provvedimenti impugnati, la Corte di Giustizia UE investita in procedimenti limitrofi di alcune delle questioni controverse – conducendo il giudice di legittimità a mostrare, anche in tale occasione, il suo volto cooperante, tanto dialogante quanto fermo nel voler ribadire il circuito giuridico nel quale i profili controversi devono muoversi.
Un volto che si mostra, dunque, in parallelo con quello del Tribunale capitolino che aveva attivato il rinvio pregiudiziale “interno” nella questione sulla disapplicazione e sui poteri del g.o., tanto quanto quello degli altri giudici di merito che, a loro volta, avevano proposto in autonomia altri rinvii pregiudiziali “esterni”, rivolti alla Corte di Giustizia UE sul tema designazione paesi sicuri- eccezioni personali. Posizioni, queste ultime, di dichiarato ascolto, attento verso gli altri attori della giustizia, tanto quanto di costruttivo apporto di ragionamenti, riflessioni offerte in una prospettiva non decisoria ma, per l’appunto, cooperante.
Tornando dunque al provvedimento qui esaminato emerge la encomiabile “responsabilità” del tribunale remittente, tutt’affatto improntata ad esigenze di placido e deferente ossequio al dictum della Cassazione, qualunque esso sia, ma al contrario consapevole di essere motore propulsivo di una decisione della Cassazione che, fondata sulle questioni messe sul tappeto, avrebbe potuto e dovuto porsi come chiarificatrice di una questione estremamente controversa e divisiva, tanto in ambito giurisdizionale che in agoni sempre più interessati dalla “parola” del giudice su tali temi anche se a fini che qui non interessa indagare.
Orbene, la ricostruzione logico giuridica operata dalla Corte di Cassazione, finemente rappresentata da Mario Serio nei paragrafi precedenti, fissa dei paletti in tema di disapplicazione e di poteri del giudice in tema di protezione del richiedente asilo anche in caso di mancata contestazione della designazione di paese sicuro contemplata dal decreto ministeriale- di questo occupandosi il quesito pregiudiziale- e si inscrive come esempio virtuoso di cooperazione fra giudice di merito, di legittimità e Corte di giustizia UE che dà il senso di quanto sia diventato complesso, articolato e partecipato il diritto vivente del tempo presente.
La Cassazione, pur consapevole dell’interferenza del rinvio pregiudiziale “interno” sollevato dal Tribunale di Roma rispetto all’interpretazione del diritto eurounitario alla quale era indubitabilmente chiamata, con piena consapevolezza esclude la necessità di rinviare a sua volta la questione alla Corte di giustizia, ravvisando nel quadro del diritto vivente del giudice di Lussemburgo elementi di chiarezza tali da giustificare i risultati interpretativi poi espressi nel principio di diritto.
E ciò fa ricavando dal diritto vivente della Corte di giustizia alimento importante al suo ragionamento, al cui interno si fa egli stesso interprete parlante e voce della Corte di giustizia UE. Un lavorio ermeneutico, quello della Cassazione, al quale l’operatore del diritto attento, sia esso o meno giudice dell’immigrazione, non può dedicare un’attenzione epidermica.
Viene in tal modo scritta una pagina importante sulla strada del dialogo costruttivo fra merito e legittimità, capace di dimostrare le potenzialità e la ricchezza del dialogo a distanza voluto dal legislatore della riforma processuale civile con l’introduzione del rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione da parte del giudice di merito (art.363 bis c.p.c.). Non già, dunque, per coltivare l’idea della sovra ordinazione piramidale della giustizia, quanto quella della fiducia reciproca e cooperazione che può rendere al meglio i suoi frutti se si approfondiscono in una chiave di crescita comune le conoscenze tanto delle tecnicalità giuridiche quanto dei rispettivi ruoli di sostanza svolti all’interno della giurisdizione.
In conclusione, lo strumento del rinvio pregiudiziale del giudice di merito alla Corte di cassazione si conferma costituire strumento di grande utilità per rafforzare il legame ed il dialogo fra merito e legittimità, facendolo forse definitivamente uscire dalle sacche aride di un suprematismo giudiziario della Cassazione sul merito che è ormai la storia ad avere definitivamente emarginato, ponendo il giudice di legittimità in un circuito a sua volta condensato da spinte interne e sovranazionali che possono essere messe a profitto solché tutti i protagonisti si orientino verso un esercizio della giurisdizione sempre più carico di contenuti, sempre più cooperante e collaborativo, al netto delle caratteristiche proprie di ciascun attore della giustizia che rimangono e devono rimanere inalterate.
Sul tema si vedano anche Corte di giustizia: l’Egitto non è un paese sicuro, Paesi sicuri e categorie di persone “insicure”: un binomio possibile? Il Tribunale di Firenze propone rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE di Cecilia Siccardi, Il Tribunale di Bologna chiede alla Corte di Giustizia di pronunciarsi sul DL paesi sicuri, La sentenza della Corte di Giustizia del 4 ottobre 2024, causa C-406/22, secondo una prospettiva “interna” e di diritto dell’Unione Europea di Marcella Cometti, Un giudice a Roma. Gli immigrati, il governo e la protezione dello stato di diritto di Cataldo Intrieri, Immigrazione, rimpatri e incolumità del richiedente asilo. Intervista a Rita Russo di Paola Filippi.
Brevi note sul rinvio pregiudiziale ex art.363 bis c.p.c. e su limiti e controlimiti giurisprudenziali alla definizione normativa di paese sicuro
I paragrafi 1 e 7 sono opera di Roberto Giovanni Conti, quelli da 2 a 6 di Mario Serio ma l’intero commento è frutto di piena e ragionata condivisione delle riflessioni ivi svolte.
La prima sezione civile della Corte di Cassazione, interpellata sulla base di un rinvio pregiudiziale effettuato ai sensi dell'art.363 bis c.p.c. dal Tribunale di Roma, ha chiarito con l'articolata sentenza n.33398 del 19 dicembre 2024 quali poteri residuino al Giudice chiamato a pronunciarsi sull'impugnazione del rigetto in via amministrativa della domanda di protezione internazionale relativamente alla conferma o alla smentita nel caso di specie della designazione attraverso uno strumento normativo di un paese come sicuro. Là pronuncia scorre lungo i binari del rigore argomentativo, saggiamente alimentato dalla necessaria affezione a principi fondativi del nostro ordinamento giuridico, già risalenti alla legge abolitiva del contenzioso amministrativa del 1865, e collega la questione ad un versante di rilevanza costituzionale, quale quello della protezione internazionale in funzione sia di garanzia del diritto d'asilo sia in relazione alle insopprimibili garanzie di tutela di diritti fondamentali della persona. Le conclusioni di carattere generale, nitidamente rivolte anche in direzione applicativa concreta, cui la Cassazione è pervenuta corroborano la diffusa linea interpretativa dei giudici di merito che non hanno inteso cedere alla tentazione di risolvere le questioni afferenti alla protezione internazionale riparandosi dietro l'acritica adesione alla designazione di “paese sicuro” ratione temporis affidata ad un atto amministrativo ed hanno, pertanto, rinverdito poteri cognitori incisivi e diretti a scopi di “enforcement” costituzionale. In ultima e rasserenante analisi il tratto della centralità dei diritti e della dignità umani ha il benefico sopravvento su linee ed indirizzi, non giurisprudenziali, che, anche sull'impeto di onde emotive, adottano scale di valori ed obiettivi molto differenti ed altrettanto eterogenei. La stessa sentenza offre un illuminante esempio della proficuità degli esiti del rinvio pregiudiziale di cui all'art.363 bis c.p.c., così contribuendo al consolidamento del proficuo dialogo tra giudici di merito e giudici di legittimità, ancor più fruttuoso se condotto, come in questo caso, sotto l'egida del diritto eurounitario e dei principi costituzionali.
Sommario: 1. La genesi di Cass.n.33398/2024 - 2. Inquadramento dell'oggetto dell’indagine - 3. L’occasione generatrice del rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art.363 bis c.p.c. - 4. Il contesto normativo sovranazionale e domestico della nozione di paese sicuro in funzione della protezione internazionale - 5. Le linee argomentative della sentenza 33398/2024 della Corte di cassazione nel conflitto tra le possibili interpretazioni dei poteri cognitori del giudice di merito in sede di impugnazione delle decisioni amministrative in materia di protezione internazionale adottate in via accelerata ed i loro effetti applicativi - 6. Il senso ampio delle conclusioni decisorie - 7. Il dialogo come motore pulsante dei rapporti fra giudice di merito e Cassazione nell’era dell’art.363 bis c.p.c.
1. La genesi di Cass.n.33398/2024
La sentenza impugnata si inserisce in un panorama giurisprudenziale che aveva espresso indirizzi non uniformi in ordine al potere disapplicativo da parte del giudice ordinario della designazione di paesi sicuri contemplata, in attuazione dall’art. 2 bis d.lgs. n. 25 del 2008, dal d.m. 4 ottobre 2019, poi modificato con d.m. 17/03/2023 e dal d.m.7 maggio 2024, salvo a lasciare il campo al d.l.n.145/2024, convertito con modificazioni dalla l.n187/2024.
Quanto al piano UE, la nozione di Paese sicuro, dapprima introdotta dalla direttiva 2005/85/CE del Consiglio del 1° dicembre 2005 con gli artt. 29 - disposizione invalidata da Corte giust. UE, 6 maggio 2008, causa C-133/06, Parlamento europeo c. Consiglio dell’Unione europea – 30 e 31, è stata regolata dalla direttiva 2013/32/UE del 26 giugno 2013 (cd. direttiva procedure) con gli artt.36 e 37, individuando la cornice entro la quale può inserirsi la nozione di Paese di origine sicuro e le conseguenze di tale nozione sulle procedure di valutazione delle domande.
Proprio in forza dell’allegato 1, richiamato dall’art.37 ult. cit., gli Stati membri possono mantenere in vigore o introdurre una normativa che consenta di designare Paesi di origine sicuri, stabilendo che «Un Paese è considerato Paese di origine sicuro se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni quali definite nell’articolo 9 della direttiva 2011/95/UE, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. Per effettuare tale valutazione si tiene conto, tra l’altro, della misura in cui viene offerta protezione contro le persecuzioni ed i maltrattamenti mediante: a) le pertinenti disposizioni legislative e regolamentari del Paese ed il modo in cui sono applicate; b) il rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e/o nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e/o nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, in particolare i diritti ai quali non si può derogare a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, di detta Convenzione europea; c) il rispetto del principio di “non-refoulement” conformemente alla convenzione di Ginevra; d) un sistema di ricorsi effettivi contro le violazioni di tali diritti e libertà.»
Cass. n.33398/2024 interviene, sollecitata dal Tribunale di Roma, in sede di rinvio pregiudiziale ex art.363 bis, c.p.c., per dare risposta al quesito sollevato dal Tribunale di Roma all’interno di un ricorso per l’ottenimento della protezione internazionale presentato da un cittadino di un paese terzo (Tunisia) inserito nell’elenco dei paesi di origine sicuri.
Il giudice di merito chiedeva alla Corte di cassazione di chiarire se il giudice ordinario avesse titolo per disattendere il decreto ministeriale nella parte in cui stabiliva la designazione di paese sicuro e dunque valutare, anche in ragione del dovere di cooperazione istruttoria ed eventualmente anche in caso di mancanza di contestazione, sulla base di informazioni sui paesi di origine (COI) aggiornate al momento della decisione, se il paese incluso nell'elenco sia effettivamente tale alla luce della normativa europea e nazionale vigente in materia.
Il dubbio interpretativo rivolto alla Corte di cassazione nasceva dalla constatazione, esternata dal giudice del rinvio, che il complesso contesto normativo, eurounitario e nazionale, era stato oggetto di controversa interpretazione, non solo all’interno del giudizio, ma più in generale anche fra le diverse sezioni distrettuali specializzate e di diversi collegi delle stesse sezioni specializzate.
In questa prospettiva, il Tribunale capitolino evidenziava che l’incertezza appena rappresentata aveva trovato ulteriore implicita conferma in alcuni passaggi motivazionali espressi dalle Sezioni unite della Cassazione con la sentenza n. 11399/24, anch’essa resa in sede di procedura di rinvio pregiudiziale sollevato dal Tribunale di Bologna, ove si era ritenuto che le «condizioni che legittimano la procedura accelerata e consentono, quale conseguenza, la deroga al principio (generale) della sospensione del provvedimento della Commissione territoriale» devono essere oggetto di «stretta osservanza della possibilità di azione delle deroghe». Specificava, ancora, il giudice del rinvio che “in tale contesto la Suprema Corte, pur ritenendo di non poter «compiutamente affrontare» la complessa questione aveva dato spazio alla possibilità che il giudice, quando il richiedente contesti la natura “sicura” del paese di origine, o anche d’ufficio, debba, «anche in ragione del dovere di cooperazione istruttoria, comunque valutare detta natura, anche in presenza di inserimento del paese negli elenchi contenuti nei decreti ministeriali a ciò destinati (si tratta peraltro di decreti necessitanti di continuo aggiornamento) ».
Da qui le ragioni poste a sostegno della richiesta di rinvio pregiudiziale correlate, dunque, alla diversità di indirizzi interpretativi sulla questione della sindacabilità del d.m. in ordine alla natura “sicura” dei paesi ed alla pluralità di ricorsi sottesi alla medesima questione oggetto del rinvio. Alla necessità di dare risposta ai dubbi di natura tecnico-giuridica si aggiungevano, secondo il giudice remittente, ragioni «anche di opportunità, del rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione, che appare nella specie estremamente utile al fine di dare indicazioni alle Sezioni specializzate dei Tribunali distrettuali su una questione controversa e relativa ad un numero assai ampio di cause, anche in ordine alla definizione del giudizio interlocutorio avente ad oggetto l’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato, quando non siano stati invocati motivi personali che permetterebbero di superare, per il singolo richiedente, la presunzione (juris tantum) di sicurezza del paese ai sensi del comma 5 dell’art 2 bis D.lvo n. 25/2008. »
2. Inquadramento dell'oggetto dell'indagine.
La sentenza cui è dedicato il presente scritto esibisce più di uno spunto di interesse per i giuristi sia perché fornisce una chiara individuazione dei presupposti giustificativi del ricorso all'innovativo strumento del rinvio pregiudiziale alla stessa corte di legittimità previsto dall'art.363 bis c.p.c., nonché dei conseguenti esiti applicativi in termini di posizione del principio di diritto applicabile ai fini della risoluzione del giudizio d'origine, sia perché l'oggetto della controversia che ha innescato il rinvio puntava verso una materia dibattuta, divisiva, manipolata anche a fini estranei ad una disamina da svolgersi esclusivamente in confini tecnici. Del primo aspetto, centrale nella ridefinizione del ruolo della nomofilachia e nella attribuzione di mezzi indiretti per la definizione di giudizi di merito ragionevolmente preclusivi della necessità e dell'utilità di ulteriori ricorsi alla sede di legittimità dirà appresso Roberto Conti; pertanto, l’attenzione delle considerazioni che seguono sarà devoluta alla questione centrale dei rapporti tra definizione in via normativa (prima amministrativa e dal 23 ottobre 2024 legislativa) di un antecedente logico-giuridico (la designazione del paese d'origine come sicuro) per la risoluzione di questioni attinenti al riconoscimento del diritto alla protezione internazionale del richiedente e poteri istruttori, valutativi e decisori del giudice di merito competente. Del resto, la circostanza che lo stesso giudice di merito rinviante abbia avvertito l'apprezzabile scrupolo di acquisire un criterio vincolante per la decisione della causa testimonia la rilevanza, e l'incertezza, del tema. E proprio l'incertezza, seppur declinata sotto il profilo della concorrenza di più linee interpretative difformi, sta alla base della fruizione dello strumento di recente offerto dall'art.363 bis c.p.c. la cui plausibilità è stata attestata dal provvedimento della prima presidente della corte di cassazione che, nel ritenere soddisfatti i requisiti stabiliti dalla norma da ultimo citata, ha al contempo sottolineata l'assenza di precedenti orientamenti di legittimità e la gravità e complessità interpretativa della questione di cui si sta per dire. Aspetti, questi, di cui ha mostrato piena consapevolezza la Procura Generale presso la stessa corte attraverso una esauriente memoria scritta depositata dalla Avvocata Generale cui ripetutamente ha fatto adesivo riferimento la sentenza in esame.
3.L'occasione generatrice del rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 363 bis c.p.c.
Il procedimento principale da cui ha preso le mosse il rinvio pregiudiziale verteva su una materia di frequente ricorrenza e come tale bisognosa di quell'indirizzo chiaro che la corte di cassazione ha finito con l'imprimere. In particolare, il Tribunale di Roma è stato investito dell'impugnazione, da parte di un cittadino proveniente dalla Tunisia, paese definito sicuro dalla normativa vigente al tempo processualmente rilevante, della decisione reiettiva della domanda di protezione internazionale da parte della Commissione territoriale competente. Il provvedimento di rigetto è stato, a propria volta, emesso nell'ambito di un procedimento instaurato ai sensi dell'art.28 ter del d.lgs.25 del 2008 sotto il profilo della manifesta infondatezza della domanda in quanto proposta da persona proveniente da un paese designato come sicuro dal decreto interministeriale del 7 maggio 2024 e priva dell'allegazione di fondati motivi atti a contraddire tale definizione. Anche nell'impugnazione, accompagnata dalla richiesta in via cautelare della sospensione dell'efficacia del provvedimento della commissione territoriale, non erano state profilate specifiche ragioni relative alla compromissione della posizione individuale del richiedente, essendosi, piuttosto, fatto riferimento alla generale situazione del paese d'origine, quale desumibile da circostanze obiettivamente sintomatiche di un'involuzione in senso autoritario delle istituzioni, con conseguente estensione dei loro effetti pregiudizievoli alla generalità dei cittadini.
Il Tribunale di Roma articola il proprio percorso in direzione del rinvio pregiudiziale assumendo come premessa logico-giustificativa il contesto genetico del giudizio, ossia quel particolare procedimento che, in virtù della previsione degli effetti derivanti dall'avvenuta inclusione del paese d'origine del richiedente tra quelli sicuri alla stregua dell'art.2 bis del citato d.lgs.25 del 2008, implica l'utilizzazione di una forma cosiddetta accelerata di definizione dell'istanza. Ora, proprio in questa contrazione procedurale il Tribunale identifica motivatamente una significativa compressione del diritto di difesa: la spiegabile prospettiva, sembra potersi ragionevolmente desumere, è quella dell'aggravamento dell'onere probatorio incombente sul richiedente, solo da assolvere attraverso il superamento della presunzione (seppur relativa) di sicurezza implicata dall'atto normativo. Così impostato lo scenario del giudizio, si rivela del tutto congruo il successivo sviluppo logico della premessa del Tribunale: se l'ostacolo all'accoglimento della domanda va ravvisato nel decreto interministeriale di designazione dei paesi sicuri ed al tempo stesso tale fonte costituisce il parametro decisorio del caso di specie, al giudice va attribuito il compito di intervenire ermeneuticamente sulla stessa, onde coglierne il significato e determinarne il livello di incidenza. In altri termini ciò che occorre è una verifica frontale dell'ambito di efficacia della fonte stessa ed i limiti della sua vincolatività nei confronti del giudice stesso. Lo stesso Tribunale mostra piena conoscenza della fenditura riscontrabile nella stessa giurisprudenza di merito circa i poteri esercitabili in siffatto contesto dal giudice dell'impugnazione, che potrebbe vedersi stretto nella morsa alternativa della sindacabilità, o meno, del testo che designa i paesi sicuri.
Alla luce di questi dilemma il quesito rimesso alla soluzione della corte di cassazione va così riassunto: se, in ogni caso in cui rilevi, ai fini della pronuncia sulla domanda di protezione internazionale sulla quale sia intervenuta una decisione amministrativa di rigetto in esito ad una procedura accelerata per manifesta infondatezza ai sensi dell'art.28 ter del d.lgs. 25Del 2008,la designazione per decreto ministeriale come paese sicuro di quello d'origine del richiedente, il giudice ordinario sia vincolato a tale designazione ovvero gli spetti di esercitare il proprio ordinario potere istruttorio, affiancato dal dovere delle parti di cooperazione istruttoria e dall'accesso ad informazioni sul paese d'origine aggiornato al momento della decisione. E ciò al fine di valutare se il paese incluso nell'elenco sia effettivamente sicuro alla luce della normativa europea e nazionale vigente in materia, che sussista o meno specifica contestazione sul punto da parte del richiedente.
Sull'ammissibilità del sindacato valutativo si è espressa positivamente l’Avvocata Generale.
L'amministrazione dell'Interno ha rilevato in via generale che l'autorità giudiziaria non può sostituirsi alle valutazioni amministrative, tranne che emergano elementi capaci di denunciare l'irragionevolezza della designazione in quanto contraria al diritto comunitario ovvero siano evidenti ragioni di insicurezza del paese d'origine connesse alla situazione personale del richiedente. Si aggiunge, quanto ai profili di insicurezza per così dire di carattere generale, che il sindacato giurisdizionale trova un limite nell'attendibilità delle scelte amministrative, mentre pieno sarebbe il potere cognitorio del Giudice in ordine alla condizione personale del richiedente.
L'esposizione precedente dovrebbe dar sufficientemente conto della drammaticità istituzionale del quesito-accentuata dal contorno ambientale, spesso venato da interferenze polemiche, nel quale ogni vicenda afferente alla regolamentazione dei flussi migratori finisce con il collocarsi-che inevitabilmente si spinge sul territorio della separazione dei poteri dello stato: più esattamente, e giudicando ex post, si sarebbe potuto spingere se, al contrario di quanto per fortuna accaduto in ragione del lungimirante equilibrio della sentenza, la materia fosse stata contaminata da astratti furori ideologici o da rivendicazioni di supremazia, entrambi nemici delle rigorose caratteristiche del giudizio di legittimità.
Tuttavia, il momento stesso della formulazione del quesito comportava una sua così spiccata attrazione nell'alveo di principi sovranazionali e di schietto contrassegno costituzionale che la sua trattazione non poteva sottrarsi al riferimento ad una ben delineata tavola di valori dai quali era impensabile esulassero sentimenti di genuina solidarietà umana, tutti chiaramente ricompresi nella protettiva capsula della Costituzione stessa. Di questo si ha, come si vedrà, irrefutabile conferma nell'ordito della pronuncia.
4. Il contesto normativo sovranazionale e domestico della nozione normativa di paese sicuro in funzione della protezione internazionale.
La prima preoccupazione da cui è stata avvinta la corte di cassazione è stata quella di reperire il fondamento normativo multilivello cui ancorare il proprio modello decisorio. Operazione immancabile non solo per rendere tecnicamente solida la soluzione del quesito, in adempimento della propria funzione di garanzia dell'uniforme applicazione del diritto oggettivo nazionale e, per diretta ricaduta, del sommo principio di eguaglianza tra i cittadini, ma parimenti necessaria per cogliere e disciplinare i nessi interordinamentali suggeriti dalla materia e necessitanti scelte conformi e compatibili con la prospettiva eurounitaria e con gli obblighi internazionalmente assunti dall'Italia.
A dar risposta a tale preoccupazione la sentenza ha atteso traendo il primo passo dalla dichiarazione dell'inglobamento all'interno della Costituzione (il cui disegno non per caso è acutamente definito “personalista” per la rilevanza assegnata al valore del cittadino in quanto persona) dei diritti dello straniero la cui dignità gli dà titolo a trattamenti solidali ed all'accoglienza, costituenti in via diretta suoi diritti fondamentali. Tra di essi si staglia naturalmente il diritto d'asilo nel territorio della Repubblica allorquando a tale cittadino sia impedito l'effettivo esercizio nel suo paese delle medesime libertà democratiche garantite in Italia dalla Costituzione.
Lo snodo è brillante e determinante nell'intera economia della sentenza: esso, infatti, crea il raccordo logico preliminare tra la posizione soggettiva dello straniero (del tutto eguagliabile, quanto alla tutela dei diritti fondamentali, a quella del cittadino italiano, secondo l'insegnamento della Corte costituzionale) e le varie fonti che possano frapporsi alla relativa, piena realizzazione: e naturalmente tra esse, vanno annoverate quelle, sovranazionali o interne, che classificano i paesi d'origine in rapporto alla sicurezza. In particolare, del diritto d'asilo viene rintracciato la sicura sponda internazionale (Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati del 1951) e comunitaria (Direttiva 95 del 2011) ed anche la nozione interna strutturata in termini di protezione sussidiaria e temporanea per chi, pur sprovvisto dei requisiti per essere definito rifugiato, corra rischi di subire gravi danni nel proprio paese. D’altra parte, l'elasticità dell'area di inveramento della protezione internazionale viene felicemente confermata dalla direttiva europea 115 del 2008 che estende le forme tipiche ad ipotesi che gli stati membri ritengano meritevoli per motivi caritatevoli, umanitari o di altra natura.
Ancora una volta la sentenza procede secondo un andamento sillogistico poiché, in perfetta simmetria rispetto alla così delineata condizione giuridica dello straniero, fa discendere una direttamente proporzionale competenza incrementale del giudice nazionale, promosso al ruolo di garante dell'effettività nel singolo caso dei diritti del richiedente asilo che fugge dal proprio paese e cerca legittima protezione nell'ambito dell'Unione europea. Il richiamo all'effettività dei diritti, come contrapposta, per mutuare dall'immaginifica espressione di Rodolfo Sacco, ad un vuoto carattere solamente declamatorio, è argomento finalistico che imbeve di sé l'intera sentenza e ne consolida l'assetto dispositivo finale, dotandolo di un puntello non sradicabile. Non può sembrare antitetica a questa tensione verso la pienezza di tutela degli stranieri che versano nelle condizioni appena descritte l'affermazione secondo cui “Alle istituzioni democratiche e rappresentative, attraverso le quali si esprime la sovranità popolare, spetta il compito di gestire il fenomeno migratorio, disciplinando i flussi anche nei riflessi sulla sicurezza della comunità nazionale, in un quadro di libertà, di giustizia e di cooperazione internazionale fondata sul riconoscimento di valori comuni, assicurando l'efficienza del sistema nazionale di accoglienza e realizzando condizioni materiali di effettiva integrazione di chi ha titolo per restarvi”.
Il passaggio merita di ricevere una particolare riflessione. Per due ragioni principali, entrambe cospiranti verso il risultato di accreditare alla sentenza l'attitudine a soddisfare complessivamente le insistenti aspettative di chiarezza ed autorevolezza che da più e non coincidenti parti attorno ad essa si nutrivano. La prima e preminente consiste nella riaffermazione che la cooperazione internazionale, da attuarsi nel quadro dei valori di libertà e giustizia, fondativi della civiltà di un'esperienza giuridica, debba fondarsi sui cardini dell'efficienza del sistema di accoglienza e sulla conseguente, immancabile aspirazione al risultato della effettiva, vale a dire piena, integrazione delle persone che vi sono ammesse. Viene così spazzato ogni possibile dubbio su consistenza e portata dell'obiettivo fondamentale dell'integrazione intesa quale epilogo dell'accoglienza e non come semplice, stentata eventualità destinata alla perdurante sminuizione della persona e della personalità dello straniero titolare della protezione internazionale. La seconda ragione ha a che vedere con il leale, e davvero mai dubitato, riconoscimento in capo alle istituzioni democratiche e rappresentative della sovranità popolare del compito gestorio del fenomeno migratorio. Va da sé che a determinare la connessione tra le due ragioni non può che ergersi la concreta affermazione, sotto il profilo dell'effettività e pienezza della tutela del richiedente, della dignità della sua posizione, a propria volta frutto dell'applicazione degli indirizzi in materia di immigrazione.
La sequenza razionale della sentenza si dipana attraverso l'approccio alla individuazione della nozione giuridica di paese sicuro alla stregua del diritto europeo e recepita dal legislatore nazionale. Viene così in rilievo l'allegato I alla direttiva europea 2013/32 la quale considera sicuro un paese “se, sulla base dello status giuridico, dell'applicazione della legge all'interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni quali definite nell'articolo 9 della direttiva 2011/95/UE, né tortura o altre forme di pena o trattamento inumano e degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”. Il medesimo allegato illustra anche i criteri corroborativi di tale definizione, attribuendo rilievo alla misura in cui viene offerta la protezione contro le persecuzioni ed i maltrattamenti con riguardo alle pertinenti disposizioni legislative e regolamentari, al rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e, infine, all'osservanza del principio del “non refoulment”. A propria volta gli articoli 36 e 37 della direttiva in parola istituiscono il regime cui deve ispirarsi l'esame delle domande di protezione internazionale, fondato sulla presunzione relativa di protezione sufficiente nel paese d'origine. Essa può essere efficacemente confutata dal richiedente che adduca gravi motivi attinenti alla sua situazione particolare. La ricaduta di tali disposizioni aventi funzioni di cornice negli ordinamenti interni degli stati-membri è nel senso che su di essi grava il dovere di riesaminare periodicamente la situazione nei paesi designati come sicuri e di consultare, in sede di esame delle singole domande di protezione internazionale, fonti di informazione affidabili, comprese quelle fornite da altri stati-membri e da altre competenti e qualificate istituzioni internazionali (EASO,UNHCR,Consiglio d'Europa,etc.).Nell'adempiere i propri obblighi comunitari l'Italia si avvale, sin dal 2018 della facoltà riconosciutale dalla direttiva 2013/32 citata di designare i paesi sicuri attraverso un decreto del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, di concerto con i Ministri dell'Interno e della Giustizia. In sede di conversione nella legge 132 del 2018 del decreto legge 113 dello stesso anno è stata inserita la previsione di cui all'art.2 bis (facente parte della generale previsione dell'art.7 bis) che precisa la nozione di paese sicuro non appartenente all'Unione Europea come quello che, secondo il proprio ordinamento interno, ed in virtù dell'applicazione della legge all'interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, possa dimostrarsi in linea generale e costante estraneo ad atti di persecuzione, di trattamenti inumani o degradanti, pericoli di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto interno o internazionale. Valgono anche per il diritto italiano, che li ha espressamente recepiti, i tre indici prima trascritti dall'allegato I della direttiva 2013/32.
L'atto implementativo delle disposizioni generali prima riportate, applicabile in ragione del tempo della sua emanazione alla fattispecie, è il decreto ministeriale del 7 maggio 2024 che comprende la designazione dei paesi in quel momento sicuri: sfugge al perimetro normativo di rilevanza per la sentenza (e, di conseguenza, del presente saggio) il diritto sopravvenuto costituito in particolare dalla legge 9 dicembre 2024 n.187 che ha convertito con modificazioni il decreto legge 11 ottobre 2024 n.145 recante disposizioni urgenti in materia di ingresso in Italia di lavoratori stranieri, di tutela ed assistenza alle vittime di caporalato, di gestione dei flussi migratori e di protezione internazionale, nonché dei relativi procedimenti giurisdizionali.
Con questo retroterra normativo, che attinge ad una concezione eurounitaria del diritto, la Corte di Cassazione si è misurata nell'assolvimento della propria funzione dirimente il rinvio pregiudiziale.
5. Le linee argomentative della sentenza 33398/20224 della corte di cassazione nel conflitto tra espansione e compressione nel conflitto tra possibili interpretazioni dei poteri cognitori del giudice di merito in sede di impugnazione delle decisioni amministrative in materia di protezione internazionale adottate con procedura accelerata ed i loro effetti applicativi.
L'incalzare della forza dei vari segmenti integranti la linea di pensiero seguita dalla sentenza non poteva che portare la corte di cassazione a porsi l'interrogativo della rilevanza, nello stretto recinto processuale del caso concreto da cui ha tratto origine il rinvio pregiudiziale, della designazione di un paese come sicuro nell'ottica della delibazione della domanda di protezione internazionale. È del tutto intuitivo, infatti, che a maggiori conseguenze sul piano dell'assetto della generale posizione soggettiva del richiedente derivanti da tale qualificazione debba corrispondere una crescente accuratezza del sindacato giurisdizionale e, ancor prima, un dovizioso soppesamento delle ragioni legittimanti tale attività.
Il più immediato e consistente effetto che ne discende è quello, cui si è prima fatto cenno, dell'abdicazione al rito ordinario proprio del procedimento amministrativo in favore di quello accelerato che, poggiando su una presunzione di affidabilità dell'elenco ministeriale, contamina di un pregiudiziale alone di manifesta infondatezza la domanda di protezione internazionale: questo si risolve in una indiscutibile compromissione delle facoltà difensive del richiedente, esposto, tra gli altri, all'ulteriore rischio dello svolgimento del procedimento addirittura alla frontiera, al dimidiamento dei termini per l'impugnazione del provvedimento di rigetto (che può essere motivato col semplice riferimento alla provenienza dello straniero da un paese sicuro),alla perdurante efficacia dello stesso pur a fronte dell'impugnazione in sede giurisdizionale (fatta salva la concessione dell'inibitoria in quella sede). È allora evidente che, malgrado l'effetto decongestionante degli adempimenti da adottare nella regolamentazione dei flussi migratori cui tende la normativa interna, essa, da un lato causa la compressione delle posizioni soggettive prima delineate, e, d'altro lato, viene promossa al rango di elemento discriminante ai fini dell'accoglimento della domanda in quanto se il giudice dell'impugnazione fosse dispensato o impedito di effettuare una verifica di congruità della designazione non potrebbe che pervenire in forma acritica e meccanica alla conferma della decisione amministrativa. Già questa conformazione in forma automatica e di pura conseguenzialità materiale (censurata di recente dalla Corte Costituzionale in tema di effetti espulsivi dall'ordine giudiziario di magistrati condannati penalmente per delitti non colposi alla pena della reclusione superiore a due anni) renderebbe sostanzialmente apparente la tutela giurisdizionale e di conseguente spoglierebbe del fondamentale attributo dell'effettività dei diritti assicuratigli la condizione giuridica del richiedente la protezione internazionale in Italia. Si tratta di un argomento efficientista e contemporaneamente finalistico che avrebbe potuto dar luogo, in omaggio all'insopprimibile essenzialità del diritto alla tutela giurisdizionale delle posizioni soggettive sancito dall'art.113 della Costituzione, ad una risposta affermativa al quesito sottoposto in funzione pregiudiziale dal Tribunale di Roma. Ed è difficile dubitare della forza intrinseca dell'argomento di salda radice eurounitaria e costituzionale al tempo stesso. Altrettanto difficile sarebbe immaginare che alla Cassazione possa essere rimasta nascosta una simile via d'uscita. Ma è anche vero che a molti non solo sarebbe potuta sembrare una sorta di scorciatoia argomentativa povera di quelle considerevoli implicazioni istituzionali, in larga parte influenzate da un dibattito fin troppo effervescente svoltosi fuori dalle aule di giustizia ed all'interno di altre, e sistematiche che la gravità della questione a viva voce suggeriva.
Ed in questa consapevolezza la Cassazione non si è sottratta al quesito di cui in questa sede, abbandonando il vellutato linguaggio curiale della sentenza, si vuole riportare con crudezza l'intima dimensione così condensabile: la lista dei paesi sicuri racchiusa nel DM 7 maggio 2024 (in quanto atto logicamente e cronologicamente antecedente alla domanda di protezione internazionale) è verità intangibile che fuoriesce dall'ordinario circuito proprio della delibazione giurisdizionale, sì da ritagliarsi una nicchia di assertività avalutativa che preclude al giudice qualunque forma di controllo critico in sede di cognizione? Ovvero pienezza dell'attività delibativa e critica del giudice e pienezza ed effettività della posizione del richiedente la protezione internazionale costituiscono un'unità logica e sistematica inscindibile la cui preservazione soltanto può garantire il pieno rispetto della normativa sovranazionale ed interna di rango costituzionale? I corollari conseguenti alla speculare adesione all'una o all'altra delle opzioni ricognitive del compito del giudice dell'impugnazione del diniego di protezione internazionale non hanno bisogno di un'analitica esposizione perché a renderne vivida l'importanza basterebbe far ricorso al dilemma se il pieno esercizio dell'attività giurisdizionale in funzione di sindacato in via incidentale della legittimità dell'azione amministrativa le cui radici risalgono alla legge abolitiva del contenzioso amministrativo del 1865 (che, come opportunamente ricordato dalla sentenza, le stesse sezioni unite ritengono estensibile anche alle liti tra privati e pubblica amministrazione, oltre che a quelle interindividuali) possa soffrire un così sensibile depauperamento con le deteriori conseguenze di sistema prima indicate.
La Cassazione non ha volto il proprio sguardo altrove e, attraverso un serie di concatenati ed ordinati passaggi motivazionali, ha saputo pervenire ad una soluzione che, senza in alcun modo mortificare, anzi sublimando, la pienezza della funzione di baluardo garantista della giurisdizione, non ha scosso alle fondamenta il sistema di stabilità e tenuta del sistema democratico fondato sulla separazione dei poteri che una non altrettanto meditata scelta avrebbe potuto-anche contro le intenzioni dell'autore-determinare.
La continuità logica della serrata “ratio decidendi” è tale che anche un'esposizione sommaria non è in grado di farle torto.
Il primo dato, già ragionevolmente valorizzato in tutt'altro che sparute e fragili pronunce di merito, va ravvisato nella sentenza del 4 ottobre 2024 in c 406/2022 con cui la Corte Europea di Giustizia, nello statuire che l'art.37 della direttiva 2013/32 va interpretato nel senso che un paese terzo non cessa di soddisfare i criteri che gli consentono di essere designato come paese di origine sicuro per il solo motivo che si avvale del diritto di derogare agli obblighi previsti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'Uomo, fa, tuttavia, salva la possibilità per lo stato-membro di valutare se le condizioni induttive di tale designazione interna in concreto accertate siano atte a mettere in discussione tale indicazione. In particolare, secondo la Corte di Lussemburgo, il diritto dell'Unione osta a che un paese terzo possa essere designato come paese di origine sicuro ove talune parti del suo territorio non soddisfino le condizioni sostanziali della designazione enunciate nell'allegato I qui ripetutamente richiamato. La sentenza della Corte ha cospicuamente lambito il terreno processuale-e lo spunto è stato a piene mani colto dalla Cassazione-quando ha affermato che il giudice dello stato membro, adito per l'impugnazione di un provvedimento di rigetto della domanda di protezione internazionale, è tenuto a porre a base della propria decisione tutti gli elementi acquisiti agli atti nonché portati a sua diretta conoscenza al fine di accertare se sia occorsa una violazione delle condizioni sostanziali della designazione di un paese come sicuro, benché la violazione stessa non sia stata espressamente fatta valere a sostegno del gravame.
Quest'ultima statuizione ha autorizzato la Cassazione ad indirizzarsi verso la precisa affermazione del potere-dovere del giudice della protezione internazionale di acquisire con ogni mezzo tutti gli elementi atti a indagare sulla sussistenza dei presupposti della protezione internazionale, non solo secondo le allegate condizioni personali del ricorrente, ma anche in base alla situazione generale del paese d'origine considerata rilevante. E quella che la stessa in una precedente pronuncia (25311 del 2020) aveva appropriatamente “doverosa potestà” non cessa di essere attiva per il solo fatto che l'inclusione di un paese tra quelli designati come sicuri sia il mero prodotto di informazioni unicamente vagliate in sede governativa.
Del resto, osserva la sentenza oggetto di commento, il DM del 7 maggio 2024 non gode dell'immunità dal sindacato giurisdizionale perché atto politico: tale carattere, proprio dei soli atti posti in essere da un organo costituzionale nell'esercizio della funzione di governo e, quindi, nell'attuazione dell'indirizzo politico, difetta nel provvedimento amministrativo ricognitivo dei paesi sicuri ed adottato in virtù dell'applicazione dei criteri individuati nella citata direttiva comunitaria del 2013.La disconosciuta natura di atto politico del decreto ministeriale ed il suo riconosciuto carattere di atto amministrativo disapplicabile ne consente la giustiziabilità con il connesso corteo di valutazioni giurisdizionali in ordine ai fatti posti a fondamento della designazione di un paese come sicuro. Là Cassazione lucidamente ricusa di cadere nella trappola che esegeti malevoli avrebbero potuto tenderle chiarendo che in ogni caso il giudice non sostituisce le proprie valutazioni soggettive a quelle espresse nel decreto ministeriale ed orienta il proprio accertamento all'esigenza di verificare che il potere risoltosi nella designazione non sia stato esercitato arbitrariamente o in modo incoerente rispetto ai criteri legittimanti l'inclusione di un paese nella lista di cui ci si occupa. Tale controllo rinviene la propria profonda radice giustificativa nel carattere pregiudiziale che ai fini della decisione dell'impugnazione del rigetto della domanda di protezione internazionale riveste la legittimità del decreto ministeriale, qualificato come antecedente logico-giuridico della domanda stessa. Che l'elusione di tale operazione non possa in alcun modo rientrare nella disponibilità del giudice è conclamato dalla circostanza che al suo cospetto viene il diritto costituzionalmente garantito d'asilo. La costruzione della motivazione della sentenza della Cassazione è congegnata secondo il sistema dei cerchi concentrici e della conseguenzialità argomentativa la cui ulteriore espressione sta nella proposizione secondo la quale la designazione di un paese sicuro non soltanto non è, per le ragioni appena esposte, vincolante per il giudice ma non può costituire una garanzia assoluta di sicurezza per i cittadini di quel paese, sicché la fondamentale indagine giudiziale deve proprio dirigersi verso il territorio delle condizioni che potrebbero attualmente sorreggere la designazione. Il precipitato logico del percorso decisorio del giudice la cui esplorazione istruttoria abbia deluso le aspettative di conferma della designazione come sicuro del paese d'origine del richiedente è, a giudizio della Cassazione, l'esercizio del potere, di stretto carattere processuale, di disapplicazione nel caso concreto del decreto ministeriale nella parte in cui ha incluso lo specifico paese della cui sicurezza si discute nella lista. La diretta conseguenza della disapplicazione dell’atto si riverbera sui suoi effetti dedotti in giudizio, ossia il diniego di protezione internazionale e, in via di priorità logica, la stessa ammissibilità della procedura accelerata, il cui presupposto-la provenienza del ricorrente da un paese sicuro- viene, in seguito alla penetrante indagine giudiziale, caducato. La sentenza ha cura di precisare che per stimolare tale attività di cooperazione istruttoria non può mancare l'onere di allegazione del ricorrente, specialmente adempiuto mediante la presentazione di una domanda oggettivamente qualificabile come di protezione internazionale. In tal caso, il giudice è chiamato ad accertare in concreto la pericolosità anche di solo una zona circoscritta del paese d'origine nonché la ricorrenza di condizioni afferenti al richiedente che, adeguatamente dedotte e dimostrate, circoscrivano alla sua persona la situazione di insicurezza del suo paese d'origine. Nella diretta misura nella quale il giudice pervenga a tale conclusione alla stregua del materiale probatorio comunque acquisito la sua non sarà attività di disapplicazione della fonte normativa ma dichiarativa della completa fondatezza, e del conseguente accoglimento, della domanda del richiedente, come si conviene ad un ordinario processo di cognizione piena.
A conclusione di questo compatto itinerario motivazionale così suona il principio di diritto formulato ai sensi dell'art.363 bis c.p.c.:” Nell'ambiente normativo anteriore al decreto-legge 23 ottobre 2024 n.158,e alla legge 9 dicembre 2024 n.187,se è investito di un ricorso avverso una decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale di richiedente proveniente da paese designato come sicuro, il giudice ordinario, nell'ambito dell'esame completo ed ex nunc, può valutare, sulla base delle fonti istituzionali e qualificate di cui all'art.37 della direttiva 2013/32/UE, la sussistenza dei presupposti di legittimità di tale designazione, ed eventualmente disapplicare in parte qua, il decreto ministeriale recante la lista dei paesi di origine sicuri (secondo la disciplina ratione temporis), allorché la designazione operata dall'autorità governativa contrasti in modo manifesto con i criteri di qualificazione stabiliti dalla normativa europea o nazionale. Inoltre, a garanzia dell'effettività del ricorso e della tutela, il giudice conserva l'istituzionale potere cognitorio, ispirato al principio di cooperazione istruttoria, là dove il richiedente abbia adeguatamente dedotto l'insicurezza nelle circostanze specifiche in cui egli si trova. In quest'ultimo caso, pertanto, la valutazione governativa circa la natura sicura del paese di origine non è decisiva, sicché non si pone un problema di disapplicazione del decreto ministeriale”.
6.Il senso ampio delle conclusioni decisorie.
Lo scandaglio gettato nelle profondità tecniche della sentenza ne ha lasciato affiorare un discreto numero di aspetti che ne esaltano l'idoneità a proporsi come stella di orientamento in un orizzonte prima denso di caligine ed impalpabile. Un conciso riassunto ne consente l’enumerazione quanto ai vuoti riempiti ed alle lacune interpretative colmate. Nell'ordine si segnala la necessità della lettura giudiziale della lista dei paesi sicuri in senso dinamico, vale a dire non ossificato al momento della sua emanazione e, pertanto, necessitante la rivalutazione alla luce della situazione in concreto registrabile al momento della decisione sulla richiesta di protezione internazionale nel paese d'origine del ricorrente in ordine alle garanzie di rispetto dell'assetto democratico e di correlata tutela dei diritti fondamentali dei suoi cittadini. Egualmente è da dirsi con riguardo alla chiaramente affermata esigenza dell'esame da parte del Giudice di tutte circostanze che possano provocare un negativo impatto sulla persona, la sua sicurezza, le sue libertà essenziali. Ora, questa rasserenante prospettiva è, a propria volta, il diretto risultato di una duplice ricostruzione del sistema della protezione internazionale in chiave comunitaria e domestica lodevolmente effettuata dalla Cassazione. In primo luogo, infatti, si è escluso il carattere vincolante dell'elenco dei paesi sicuri per il Giudice dell'impugnazione del provvedimento di diniego della protezione chiesta dal cittadino straniero e si è, di conseguenza, riespanso un autonomo potere valutativo indirizzato verificare se le risultanze istruttorie largamente acquisibili in una diffusa logica di cooperazione istruttoria valgano a sostenere la plausibilità e la permanente legittimità della scelta originaria di inclusione di un paese terzo tra quelli sicuri. Il riconoscimento del potere rivalutativo in sede giurisdizionale si prefigge l'obiettivo di garantire al richiedente la piena effettività della tutela di quegli stessi diritti fondamentali che la nostra Costituzione-in questo assolutamente assecondata dal diritto eurounitario-attribuisce ai cittadini italiani e, collateralmente, a conseguire l’ottenimento dell’asilo. Ed infatti, la l'esercizio del potere sindacatorio mira all'esito della caducazione nel caso concreto del provvedimento amministrativo del quale sia stato dimostrato il disallineamento rispetto alle specifiche condizioni oggettive la cui ricorrenza rende legittima la designazione di paese sicuro. La tecnica della disapplicazione in via incidentale del provvedimento, fedele ad una tradizione ottocentesca mai tramontata, che la Cassazione ha senza indugi sposato, si rivela il mezzo più felice dal punto di vista sistematico. In secondo luogo, la sentenza compie una provvida incursione nel campo processuale consentendo al Giudice, in un certo senso costringendolo, ad allargare non soltanto il materiale probatorio utilizzabile ma anche le modalità di acquisizione. Esse, infatti, possono prescindere dall'allegazione da parte del ricorrente delle circostanze utili al conseguimento dell'ambito bene della vita, ossia la protezione internazionale (ferma, comunque, restando l'esigenza che tale aspirazione venga chiaramente rappresentata). Si assiste, così, ad una rimodulazione costituzionalmente orientata dei poteri istruttori del Giudice, ispirandoli alla finalità di concretizzazione di diritti fondamentali che una concezione asfittica della fase giudiziale dei procedimenti di protezione internazionale allontanerebbe dalla meta. La specialità della materia si riflette, pertanto, secondo il disegno della Cassazione, nella specializzazione delle linee portanti del relativo giudizio: né ostacoli sarebbe stato possibile opporre a questa ariosa prospettiva in considerazione della premessa dichiarata dell'operazione: la garanzia della piena effettività dei diritti riconosciuti in ambito eurounitario al migrante.
Per concludere questa sintetica analisi retrospettiva della sentenza va ricordato che l'intero telaio che attorno ad essa è stato concepito non ha mai disdegnato di perseguire il fine della armonia del sistema, in maniera plateale individuata nella ribadita inalienabilità del potere amministrativo di designazione dei paesi sicuri e nella riaffermata insostituibilità del suo esercizio. Perché il Giudice, nel procedere alla doverosa verifica di legittimità sugli esiti della valutazione effettuata dall'amministrazione, non si surroga ad essa né le usurpa attribuzioni, ma si limita-né potrebbe ometterlo-al controllo dell'esercizio non arbitrario né capriccioso di tale potere.
Ora, proprio quest'ultima osservazione aiuta a formulare un giudizio completo su significato, portata, effetti della sentenza. Per giungere a tale risultato occorre in primo luogo prendere le mosse dal clima e dalle aspettative che circondavano la pronuncia, cui veniva impropriamente affidato il compito di arbitrare una contesa tra poteri dello Stato. Contesa, in effetti, mai nemmeno adombrata per l'intuitiva ragione che l'intima ragion d'essere della giurisdizione è quella di dirimere, con i mezzi propri dell'ordinamento giuridico, controversie, giammai di provocarle, tanto meno in funzione antagonista di altri poteri. È evidente la distorsione prospettica che si annida nel pensiero secondo cui l'affermazione del momento giurisdizionale espresso attraverso un provvedimento del Giudice corrisponda nelle intenzioni o negli effetti ad un attentato alle altrui sfere di attribuzioni (e, ove anche in concreto si desse luogo ad una siffatta, temuta ipotesi sarebbe risolutivamente proponibile il conflitto di attribuzioni davanti la Corte Costituzionale). Di questo pericolo di dannoso fraintendimento ha mostrato di essere responsabilmente conscia la Cassazione nella propria ponderata sentenza. Essa non sembra destinata ad esser relegata negli angusti spazi propri dei giudizi esclusivamente tecnici, magari spogli di un intento animatore. Ed invero, la pronuncia assolve una funzione che nelle sue più elevate manifestazioni è immanente nelle giurisdizioni di vertice dei sistemi di common law, quella di additare con chiarezza un orientamento rappresentativo di una “policy”, ossia di un modo di intendere l'ordinamento giuridico nel suo complesso e nelle sue molteplici sfaccettature alla luce dei principi socialmente accettati e secondo lo spirito del tempo. E non di abusiva interpretazione del proprio ruolo si tratta, ma di un modo di ravvivare il diritto accostandolo alla realizzazione dei valori alla cui tutela esso è preposto, a partire da quelli di matrice costituzionale. E dato che la materia cui sono dedicate queste riflessioni è quella dei diritti umani, val la pena rievocare il pensiero del compianto Lord Bingham of Cornhill, autentico paladino del liberalismo giudiziario inglese, che nella sua opera finale dedicata alla Rule of law enfaticamente proclamava la necessità che gli ordinamenti giuridici (non solo quelli della famiglia anglo-americana) dovessero assicurare adeguata tutela ai diritti umani fondamentali. La chiosa sgorga con naturalezza: a tale ambizioso traguardo non possono che cospirare operazioni di “policy” quale quella meritoriamente compiuta dalla sentenza esaminata che si propone come utile antidoto alle degenerazioni di un dibattito talvolta esondato dagli argini della sana dialettica istituzionale.
7. Il dialogo come motore pulsante dei rapporti fra giudice di merito e Cassazione nell’era dell’art.363 bis c.p.c.
La sentenza che si commenta ha fra gli altri pregi quello di avere ancora una volta dissipato i possibili dubbi che aleggiano attorno all’istituto del rinvio pregiudiziale “interno” ed alla sua a volte ventilata vocazione alla sterilizzazione del ruolo del giudice di merito in favore di una prospettiva “cassaziocentrica”, tutta ricamata attorno ad un’immagine verticistica del giudice di ultima istanza che tutto domina in maniera asfissiante all’interno della giurisdizione a scapito del giudice di merito, confinato nell’alveo di un comprimario della giurisdizione, tutto proteso a trovare il bandolo delle matasse, spesso complesse, allo stesso demandate, con un comodo “r-invio” alla Corte della soluzione da adottare.
Già altre volte abbiamo provato ad evidenziare la centralità dello strumento introdotto con la riforma Cartabia nel processo civile sulla via dell’effettività della tutela giurisdizionale e della riconquistata centralità del dialogo fra merito e legittimità, altresì cogliendo i profili di collegamento con il rinvio pregiudiziale “esterno” alla Corte di Giustizia (V., volendo, R. Conti, I rapporti tra rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione e rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, in Il diritto tributario nella stagione delle riforme Dalla legge 130/2022 alla legge 111/2023, a cura di E. Manzon e G. Melis, Pisa, 2024, 97 ss).
Quel che preme in questa prima riflessione alla sentenza n.33398/2024 sottolineare è la circostanza che il giudice di legittimità, oltre a darsi carico di fornire l'interpretazione del dato normativo interno alla luce dei canoni anche fissati dalla Corte di giustizia dell'Unione europea, indossa i panni di un interprete particolarmente qualificato nel panorama della giurisdizione nazionale chiamata ad occuparsi delle controversie in tema di immigrazione. Questo fa valorizzando il senso ed il significato della sentenza della Grande sezione della Corte di giustizia dell'Unione europea resa il 4 ottobre 2024 che, come noto, ha costituito uno dei punti di forte contrapposizione fra politica e magistratura in ordine alla rilevanza delle eccezioni personali ai fini della esclusione della natura sicura del paese di origine. E lo fa riportando i termini del confronto ermeneutico nell’unico campo suo proprio, appunto costituito dall’agorà giurisdizionale, ormai stabilmente popolata da attori che, pur svolgendo diverse funzioni, sono tutti consapevoli del ruolo di ciascuno di essi.
Primo fra tutti il giudice di merito che ha sollevato il rinvio pregiudiziale. Un giudice fortemente responsabile, consapevole allo stesso modo della centralità della sua posizione rispetto al governo della lite innanzi allo stesso pendente, ma altresì conscio delle ricadute che la decisione del singolo caso poteva riprodursi concentricamente tanto sul carico di contenzioso omogeneo pendente nel medesimo plesso giurisdizionale quanto su quello di altre sezioni specializzate sparsi nel territorio nazionale.
Un giudice di merito che, dunque, “decide di non decidere” non già in una defatigante prospettiva, ma al contrario si colloca consapevolmente in un anfiteatro al cui interno potersi confrontare a viso aperto ed in modo diretto che la Corte di cassazione, vista non come austero ed implacabile controllore della correttezza del suo dire, ma come compagno di viaggio “insieme” al quale percorrere un cammino, tracciare una linea, offrire chiarezza, stimolare ragionamenti. Al punto che la soluzione finale scolpita nel principio di diritto è realmente frutto condiviso ed equi ordinato, originato del cooperante sforzo ermeneutico di remittente e decisore finale al quale spetta, per funzione, il compito di mettere a frutto i dubbi, raccogliere gli stimoli del remittente e riportarli a sistema in modo che esso torni utile ad una giustizia capace di mostrarsi tanto efficiente ed efficace quanto “giusta”, a tutti i livelli nei quali viene quotidianamente amministrata.
Tutto questo in un incedere nel quale ragionare secondo i canoni della contrapposizione piramidale nel senso che ci ha consegnato la storia – e che pure viene perpetuato in tempi recenti dal titolo di apertura che compare aprendo il sito internet della Corte di cassazione, indicata come “Il vertice italiano della giurisdizione ordinaria” - deve fare i conti con un tempo presente profondamente modificato, nel quale i nessi di collegamento fra i vari protagonisti della giustizia si avvertono anch’essi soggetti a processi di notevole trasformazione, governati da logiche diverse.
Se si condivide questa prospettiva si ha ragione di comprendere quanto la dimensione verticistica che spesso viene, non sempre in buona fede, rappresentata quando si delinea il ruolo del giudice di legittimità sia destinata inesorabilmente a cedere il passo verso un’altra più realista concezione del ruolo della legittimità, al centro di un crocevia di rapporti istituzionali interni alle giurisdizioni nazionali e sovranazionali che la stessa mostra di governare offrendo un volto tanto cooperante e discorsivo quanto autorevolmente pacificatore, in piena coerenza con una prospettiva pienamente condivisa (a pena di autoreferenzialità sia consentito il rinvio a Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I "volti" delle Corte di Cassazione a confronto, 4 marzo 2021; La funzione nomofilattica delle Sezioni Unite civili vista dall’interno (con uno sguardo all’esterno), 11 gennaio 2024, apparsi su questa Rivista).
Il provvedimento in rassegna, certo, avvantaggia notevolmente chi predilige la prospettiva qui caldeggiata in ordine alle relazioni fra le Corti, forte di una trama argomentativa sulla quale nulla di più va e può essere aggiunto a quanto rappresentato da Mario Serio.
Ma non può non collegarsi, e non solo per ragioni di ordine temporale, a quel fil-rouge di provvedimenti interlocutori, inaugurato da Cass.n.34898/2024, che lo stesso Collegio della prima sezione civile ha esitato alla vigilia del nuovo anno, questa volta sulla non meno martoriata e limitrofa questione della designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro essere effettuata, attraverso un decreto ministeriale, con eccezioni di carattere personale.
Provvedimenti sui quali non è qui il caso di soffermarsi, se non per coglierne la naturale continuità di senso, l’unicità della prospettiva, l’orizzonte comune al cui interno si collocano, ancorché scolpito da una “non decisione motivata” della Corte di cassazione.
L’apparente ossimoro dell’espressione appena utilizzata, se riferita ad un provvedimento di un giudice di ultima istanza è, infatti, ancora una volta conferma tangibile di quanto il ruolo della Corte di cassazione si dispieghi in triangolazioni sempre più complicate che tendono, anzi, spesso a suggerire figure geometriche ancora più complesse, nelle quali il giudice di legittimità si confronta con diritti viventi interni – provenienti tanto dal giudice di merito quanto dalla Corte costituzionale - e sovranazionali, sempre più animati e vivificati dalla giurisprudenza delle Corti di Lussemburgo e Strasburgo, in un incedere che tende a superare gli angoli e si propone come naturalmente circolare.
Un orizzonte nel quale il “non decidere” della Cassazione in quella vicenda, nell’attesa della pronunzia della Corte di Giustizia UE, collegato però all’ipotesi di lavoro sulle questioni controversie idealmente consegnata alla Corte di Lussemburgo, si pone in parallelo alla richiesta di rinvio pregiudiziale “interno” del Tribunale di Roma qui commentata e si colloca come momento alto della giurisdizione nazionale non meno di quello espresso con il principio di diritto scolpito da Cass.n.33398/24. Pronunzie che appaiono animate da un profondo senso di “rispetto” verso i compagni di viaggio- le parti del procedimento, il giudice di merito dei provvedimenti impugnati, la Corte di Giustizia UE investita in procedimenti limitrofi di alcune delle questioni controverse – conducendo il giudice di legittimità a mostrare, anche in tale occasione, il suo volto cooperante, tanto dialogante quanto fermo nel voler ribadire il circuito giuridico nel quale i profili controversi devono muoversi.
Un volto che si mostra, dunque, in parallelo con quello del Tribunale capitolino che aveva attivato il rinvio pregiudiziale “interno” nella questione sulla disapplicazione e sui poteri del g.o., tanto quanto quello degli altri giudici di merito che, a loro volta, avevano proposto in autonomia altri rinvii pregiudiziali “esterni”, rivolti alla Corte di Giustizia UE sul tema designazione paesi sicuri- eccezioni personali. Posizioni, queste ultime, di dichiarato ascolto, attento verso gli altri attori della giustizia, tanto quanto di costruttivo apporto di ragionamenti, riflessioni offerte in una prospettiva non decisoria ma, per l’appunto, cooperante.
Tornando dunque al provvedimento qui esaminato emerge la encomiabile “responsabilità” del tribunale remittente, tutt’affatto improntata ad esigenze di placido e deferente ossequio al dictum della Cassazione, qualunque esso sia, ma al contrario consapevole di essere motore propulsivo di una decisione della Cassazione che, fondata sulle questioni messe sul tappeto, avrebbe potuto e dovuto porsi come chiarificatrice di una questione estremamente controversa e divisiva, tanto in ambito giurisdizionale che in agoni sempre più interessati dalla “parola” del giudice su tali temi anche se a fini che qui non interessa indagare.
Orbene, la ricostruzione logico giuridica operata dalla Corte di Cassazione, finemente rappresentata da Mario Serio nei paragrafi precedenti, fissa dei paletti in tema di disapplicazione e di poteri del giudice in tema di protezione del richiedente asilo anche in caso di mancata contestazione della designazione di paese sicuro contemplata dal decreto ministeriale- di questo occupandosi il quesito pregiudiziale- e si inscrive come esempio virtuoso di cooperazione fra giudice di merito, di legittimità e Corte di giustizia UE che dà il senso di quanto sia diventato complesso, articolato e partecipato il diritto vivente del tempo presente.
La Cassazione, pur consapevole dell’interferenza del rinvio pregiudiziale “interno” sollevato dal Tribunale di Roma rispetto all’interpretazione del diritto eurounitario alla quale era indubitabilmente chiamata, con piena consapevolezza esclude la necessità di rinviare a sua volta la questione alla Corte di giustizia, ravvisando nel quadro del diritto vivente del giudice di Lussemburgo elementi di chiarezza tali da giustificare i risultati interpretativi poi espressi nel principio di diritto.
E ciò fa ricavando dal diritto vivente della Corte di giustizia alimento importante al suo ragionamento, al cui interno si fa egli stesso interprete parlante e voce della Corte di giustizia UE. Un lavorio ermeneutico, quello della Cassazione, al quale l’operatore del diritto attento, sia esso o meno giudice dell’immigrazione, non può dedicare un’attenzione epidermica.
Viene in tal modo scritta una pagina importante sulla strada del dialogo costruttivo fra merito e legittimità, capace di dimostrare le potenzialità e la ricchezza del dialogo a distanza voluto dal legislatore della riforma processuale civile con l’introduzione del rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione da parte del giudice di merito (art.363 bis c.p.c.). Non già, dunque, per coltivare l’idea della sovra ordinazione piramidale della giustizia, quanto quella della fiducia reciproca e cooperazione che può rendere al meglio i suoi frutti se si approfondiscono in una chiave di crescita comune le conoscenze tanto delle tecnicalità giuridiche quanto dei rispettivi ruoli di sostanza svolti all’interno della giurisdizione.
In conclusione, lo strumento del rinvio pregiudiziale del giudice di merito alla Corte di cassazione si conferma costituire strumento di grande utilità per rafforzare il legame ed il dialogo fra merito e legittimità, facendolo forse definitivamente uscire dalle sacche aride di un suprematismo giudiziario della Cassazione sul merito che è ormai la storia ad avere definitivamente emarginato, ponendo il giudice di legittimità in un circuito a sua volta condensato da spinte interne e sovranazionali che possono essere messe a profitto solché tutti i protagonisti si orientino verso un esercizio della giurisdizione sempre più carico di contenuti, sempre più cooperante e collaborativo, al netto delle caratteristiche proprie di ciascun attore della giustizia che rimangono e devono rimanere inalterate.
Sul tema si vedano anche Corte di giustizia: l’Egitto non è un paese sicuro, Paesi sicuri e categorie di persone “insicure”: un binomio possibile? Il Tribunale di Firenze propone rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE di Cecilia Siccardi, Il Tribunale di Bologna chiede alla Corte di Giustizia di pronunciarsi sul DL paesi sicuri, La sentenza della Corte di Giustizia del 4 ottobre 2024, causa C-406/22, secondo una prospettiva “interna” e di diritto dell’Unione Europea di Marcella Cometti, Un giudice a Roma. Gli immigrati, il governo e la protezione dello stato di diritto di Cataldo Intrieri, Immigrazione, rimpatri e incolumità del richiedente asilo. Intervista a Rita Russo di Paola Filippi.
3 gennaio 1925. Un triste ricordo che deve illuminare il presente
di Enrico Manzon
Sommario: 1. Il fatto in questione - 2. Le sue premesse, le sue conseguenze - 3. La complicità della monarchia - 4. Il giudizio sul fascismo e su Mussolini - 5. Il dovere morale e civile di difendere la Costituzione.
1. Il fatto in questione
3 gennaio 1925, cento anni fa, discorso alla Camera dei Deputati di Benito Mussolini, Presidente del Consiglio dei ministri in esito a elezioni caratterizzate dalla violenza delle sue squadracce e dai brogli. Per averlo denunciato e quindi aver chiesto l’annullamento di esse, Giacomo Matteotti il 10 giugno dell’anno precedente da una di quelle bande era stato sequestrato nel pieno centro di Roma e quindi ucciso. Mussolini ne doveva rispondere davanti al ramo basso del Parlamento.
Come si era arrivati a questo “appuntamento”? Un giudice con la schiena dritta, fedele al proprio dovere istituzionale, aveva avviato l’indagine sull’omicidio del deputato socialista e, presto giungendo agli esecutori materiali, che faceva arrestare, era poi risalito ai complici di livello superiore; che, a loro volta arrestati, in due memoriali avevano indicato nel Capo del governo e leader del movimento fascista il mandante del delitto.
Quel giorno, alla Camera, Mussolini dapprima provoca i deputati chiedendo loro di procedere alla sua messa in stato di accusa avanti al Senato, in applicazione all’art. 47 dello Statuto del Regno; caduta nel vuoto la sua sfida, passa al contrattacco, assumendosi la «…responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto avvenuto…».
2. Le sue premesse, le sue conseguenze
Gli storici generalmente convengono che quel discorso sia stata la svolta definitiva verso la dittatura fascista, insomma che si tratti di una data epocale, come il 14 luglio 1789 o il 14 ottobre 1917. Ancora di più dunque del 28 ottobre 1922.
Anche se indubbiamente la Presa della Bastiglia ovvero del Palazzo d’inverno sono stati momenti “topici” nelle rispettive rivoluzioni, così come lo è stato questo intervento mussoliniano, vi è tuttavia da osservare che la storia delle nazioni è un fenomeno molto più complesso e non può certo essere ridotto alle azioni, materiali o, come in questo caso, verbali di un sol giorno.
Ed infatti il fascismo eruttava eversione e violenza, anche omicidiaria, ormai da anni, in coda alla Prima guerra mondiale e come suo drammatico postumo. Questi sono i prodromi di sedizione violenta che hanno consentito a Mussolini di sfidare il Parlamento il 3 gennaio 1925, al culmine delle polemiche sull’omicidio Matteotti e, secondo il suo tragicomico costume, di gonfiare il petto offrendolo agli strali di avversari che, ormai sconfitti, non ne avevano più nella faretra e che non volevano “fare la fine” di Matteotti. Il Presidente del Consiglio dei ministri, incipiente Duce, ne è quindi uscito indenne, anzi rafforzato ed è stato questo sicuramente il punto di rottura sostanziale dell’ordinamento statutario liberale, che però era ormai un “fantasma istituzionale”, poi rapidamente liquidato dalla dittatura.
3. La complicità della monarchia
Era forse possibile che il corso della storia della nazione italiana, allora di così recente consolidamento in uno Stato unitario, avesse uno sviluppo diverso? Che l’Italia venisse risparmiata dal dramma del fascismo istituzionalizzato e della sua tragica fine?
Non è insensato pensare che sì, forse, lo fosse ancora. Certo il fascismo era già molto forte, fortemente sostenuto dalle élites (industriali, agrari), in una società ancora largamente agricola e con il consistente “braccio armato” dei reduci dei campi di battaglia della Grande Guerra. È altrettanto indubbio che le opposizioni democratiche erano divise, soprattutto quelle di sinistra, secondo una triste tradizione di questo Paese. Quindi la situazione politica, economica e sociale, per certi versi culturale del Paese era certamente favorevole all’ascesa dell’Uomo della Provvidenza.
Tuttavia, nel 1922 ed ancora nel 1925, almeno in astratto, vi era un “potere dello Stato” che aveva la forza, non solo istituzionale, ma effettiva, reale, di cambiare il verso della storia nazionale: la Monarchia, il Re. Vittorio Emanuele III aveva infatti poteri – costituzionali – che gli avrebbero consentito di fermare con le armi la Marcia su Roma e poco più di due anni dopo, al culmine dello “scandalo Matteotti”, di provocare le dimissioni di Mussolini da Capo del Governo. Non solo perché aveva il controllo – saldo – dell’esercito e delle forze di polizia, ma anche perché l’Italia era un Paese profondamente monarchico, in virtù del capitale di consenso derivante alla Casa Savoia dalle Guerre d’indipendenza e dalla Prima guerra mondiale. Del resto tale era ancora, nonostante tutto, l’Italia del 2 giugno 1946.
Ma quando le speranze di una Nazione – sfortunatamente, inopinatamente – si aggrappano ad una sola persona, le chances, di per sé, si assottigliano. Con “quel re” erano semplicemente nulle. Egli era infatti un reazionario, che non credeva affatto al valore dello Statuto, ma soprattutto incline al tradimento della Nazione, come appunto nell’ottobre 1922 e poi, ancora più tragicamente, l’8 settembre 1943. Al fondo, era un pusillanime. Quindi che il monarca fermasse Mussolini ed il fascismo è soltanto una, forse non banale, ma tristissima, fantasia.
4. Il giudizio sul fascismo e su Mussolini
Quello che avvenne dopo il 3 gennaio di cento anni fa è noto. Una dittatura ferrea, le leggi razziali, una guerra che ha prodotto oltre 300 mila italiani morti e la distruzione del Paese.
Fu dunque il “male assoluto”? Assolutamente sì, non ci possono essere dubbi.
Per tale ragione è inconcepibile e deprimente constatare che rigurgiti del fascismo abbiano percorso la storia repubblicana, con i punti massimi delle stragi, e che tuttora ci siano personaggi politici e mezzi di informazione che si riferiscano favorevolmente, o quantomeno benevolmente, al fascismo e a Benito Mussolini, che in realtà meriterebbe la condanna della storia per il solo fatto dal quale si è “difeso” in quel discorso alla Camera dei Deputati. Purtroppo i morti che ha sulla coscienza sono stati tantissimi di più. Troppi. Per tale ragione è insostenibile che abbia fatto anche cose buone.
Con le mani sporche del sangue degli italiani e di altri popoli vigliaccamente aggrediti le “cose buone” sono sporcate di questo sangue, di queste, immani, sofferenze.
Un dittatore assassino non fa mai “cose buone”.
Perciò non fanno nemmeno sorridere le caricature odierne del ventennio. Sono cose serie, che vanno prese sul serio. È però anche vero che tutta “l’acqua che è passata sotto i ponti”, anzi, meglio, tutto quel sangue che è stato versato, sono sicuramente uno scudo democratico forte, un argine, interno ed europeo, che, purtroppo, negli anni Venti del Novecento non c’era. E poi oggi, fortunatamente, non c’è più un Capo di Stato che possa essere in qualsiasi modo complice di un’eversione autoritaria.
I pericoli però ci sono. I nemici della libertà non sono mai stati così forti in Italia, in Europa e negli Stati Uniti d’America, citando solo i Paesi nei quali la democrazia è consolidata. Quindi la “guardia” deve essere alzata. La storia deve insegnare e bisogna impedire che i suoi drammi si ripetano.
Nel nostro Paese, la prima linea di difesa democratica è la Costituzione, che va dunque protetta da ogni aggressione che ne stravolga il mirabile equilibrio. Non è un testo uscito da un istituto giuridico universitario, ma che – direttamente – proviene dalla guerra di Liberazione nazionale ed è scritto dai protagonisti della stessa; che è co-generato dalla dura esperienza della dittatura, affinché non si ripeta. Mai più.
5. Il dovere morale e civile di difendere la Costituzione
Questo equilibrio costituzionale dei rapporti tra i poteri dello Stato e tra funzioni pubbliche centrali e locali è tuttavia oggi investito da forti venti di cambiamento, che rischiano di alterarlo in profondità, stravolgendolo.
Iniziative governative di revisione costituzionale, per un verso, mettono nel centro del mirino la forma di governo parlamentare, con un largo spostamento di potere al Capo dell’Esecutivo, da eleggersi direttamente (unicum mondiale) con il correlativo, forte, inquietante, depotenziamento del Parlamento, del Capo dello Stato e financo della Corte costituzionale; per altro verso, stravolgono l’assetto della magistratura e del suo autogoverno, con un chiaro, evidente, dichiarato, intento di limitarne l’autonomia e l’indipendenza, quindi la funzione di garanzia che le è propria e che peraltro è il tratto distintivo dello Stato di diritto, secondo le Carte e la giurisprudenza eurounitarie.
È una deriva istituzionale pericolosa, che va contrastata. Senza se, senza ma.
Il ricordo dolente del fatto parlamentare del 3 gennaio 1925, dei suoi presupposti e delle sue conseguenze drammatiche, deve quindi motivare l’impegno civile odierno. Questo Paese ha già pagato un prezzo enorme alla mitica dell’Uomo forte. È bene non dimenticare ed ancora di più è bene non ripetere l’errore di “dare le chiavi” della civitas ad una persona sola, allo stesso tempo depotenziando le bilancianti garanzie costituzionali.
Questa “scorciatoia” porta – sempre – in un baratro, cadendo nel quale, se tutto va bene, ti fai – molto – male.
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