ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Accesso difensivo e tutela dei dati personali: il caso dei nominativi nelle segnalazioni alla p.a. (nota a TAR Emilia Romagna - Bologna, sez. II, 8 febbraio 2022, n. 136)
di Ippolito Piazza
Sommario: 1. L’accesso al nome del segnalante: una questione aperta. – 2. Le ragioni della trasparenza e quelle della riservatezza. – 3. La distinzione tra atto amministrativo e dato personale. – 4. Accesso difensivo e strumentalità: una soluzione ragionevole.
1. L'accesso al nome del segnalante: una questione aperta.
La recente sentenza del TAR Emilia Romagna, n. 136 del 8 febbraio 2022, merita di essere commentata perché affronta un problema che ancora non trova soluzioni consolidate nella giurisprudenza amministrativa e perché, nel farlo, offre un’interpretazione particolare delle regole sul diritto d’accesso.
Il problema è quello della conoscibilità, attraverso il diritto di accesso, del nome di chi abbia presentato una segnalazione o un esposto alla pubblica amministrazione: pur essendo un aspetto piuttosto specifico all’interno della tematica dell’accesso, è in realtà di grande interesse perché fa emergere la tensione tra le opposte esigenze di conoscenza e di riservatezza che sono sottese alla disciplina della legge n. 241/1990, investendo la questione dei limiti al c.d. accesso difensivo. Il TAR Emilia Romagna prospetta un’interpretazione che integra le disposizioni sull’accesso della l. n. 241/1990 con quelle del GDPR[1], andando così a distinguere ciò che costituisce “atto amministrativo”, oggetto della disciplina sull’accesso, da ciò che costituisce “dato personale”, oggetto della disciplina a tutela della riservatezza.
Per introdurre questi profili occorre riassumere la vicenda da cui nasce la pronuncia. Il ricorrente è un artista di strada, che è stato oggetto di numerosi controlli da parte della Polizia municipale, sollecitati da altrettante segnalazioni di ignoti che lamentavano il disturbo sonoro generato dalle sue esibizioni. L’artista, ritenutosi danneggiato dalle segnalazioni e dai successivi controlli della Polizia, presentava istanza di accesso alle segnalazioni per conoscerne il contenuto, inclusi i nomi dei segnalanti. L’amministrazione comunale rigettava le istanze, sul presupposto che non fosse possibile rilasciare i documenti richiesti comprensivi dei nominativi. Pertanto, l’interessato chiede l’annullamento dei provvedimenti di diniego parziale e l’accertamento del proprio diritto a conoscere i nomi dei segnalanti. Il TAR Emilia Romagna si trova, quindi, ad affrontare la questione circa la possibilità di ottenere, attraverso le norme sull’accesso difensivo della legge n. 241 del 1990, i dati personali del segnalante, allo scopo di tutelare gli interessi del “segnalato” a fronte di segnalazioni giudicate infondate o vessatorie.
Si tratta, come detto, di questione controversa nella giurisprudenza amministrativa: il TAR Emilia Romagna – sulla scia di una pronuncia del Consiglio di Stato dello scorso anno[2] ma portando argomenti ulteriori – aderisce alla tesi più favorevole alla riservatezza, ritenendo (i) che i nominativi del segnalante costituiscano un dato personale il cui trattamento richieda il rispetto di una delle finalità indicate dal GDPR e (ii) che tale finalità sia assente nel caso di specie perché l’ostensione dei nominativi non consentirebbe comunque alcuna forma di tutela al ricorrente.
Vedremo come la pronuncia sia convincente nella parte in cui argomenta riguardo all’assenza di un nesso tra il documento richiesto e la difesa del ricorrente, mentre più di un dubbio resta sulla necessità di richiamare il GDPR per la soluzione della controversia.
È utile però, anzitutto, dar conto del contrasto giurisprudenziale in materia e degli argomenti che sostengono le diverse tesi.
2. Le ragioni della trasparenza e quelle della riservatezza.
Il diritto d’accesso è riconosciuto nel nostro ordinamento in una molteplicità di forme: al tradizionale diritto di accesso documentale o procedimentale[3] si sono affiancati nell’ultimo decennio il diritto di accesso civico semplice[4]e quello generalizzato[5], senza considerare i diritti di accesso previsti da leggi di settore. Restando ai rapporti tra i diritti di accesso “a contenuto generale”[6], si è andata affermando nella giurisprudenza l’idea che questi – e, in particolare, il diritto di accesso documentale e il diritto di accesso civico generalizzato – non siano sovrapponibili e non corrispondano a un «unico diritto soggettivo globale di accesso» ma vadano piuttosto a costituire un insieme di garanzie differenziate per finalità e livelli soggettivi di pretesa alla trasparenza[7].
Più precisamente, in base a questa ricostruzione, vi è un rapporto inversamente proporzionale tra il numero di soggetti legittimati all’accesso e il numero di documenti accessibili[8]: così, il diritto di accesso civico, riconosciuto a “chiunque”, va incontro a limitazioni maggiori rispetto al diritto di accesso procedimentale di cui all’art. 22, l. n. 241/1990, riconosciuto solo a coloro che abbiano «un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso». Ancor meno limitazioni incontra il diritto d’accesso cosiddetto “difensivo”, di cui all’art. 24, c. 7, l. n. 241/1990, riconosciuto a coloro che non solo siano titolari di una situazione giuridica collegata al documento ma abbiano anche necessità di conoscere il documento per «curare o difendere i propri interessi giuridici»[9]. Depone in tal senso la formulazione letterale dell’art. 24, c. 7, secondo cui a tali richiedenti deve «comunque» essere garantito l’accesso ai documenti; ed è peraltro significativo che questa disposizione sia posta in chiusura dell’art. 24, dedicato ai casi di esclusione del diritto di accesso, disciplinati nei commi precedenti.
Una simile ampiezza del diritto di accesso difensivo comporta che i documenti debbano essere sempre rilasciati al richiedente che voglia servirsene per la cura dei propri interessi, con esiti potenzialmente negativi per gli interessi contrapposti, in primo luogo quello alla riservatezza[10]. Questo contrasto tra trasparenza e riservatezza si presenta in maniera evidente nel caso di istanze di accesso a segnalazioni, esposti o denunce presentate all’amministrazione e ha dato vita a due orientamenti giurisprudenziali confliggenti.
Secondo un primo orientamento, favorevole alle ragioni della trasparenza, chi sia stato oggetto di una segnalazione alla pubblica amministrazione ha diritto, ai sensi della legge n. 241/1990, di prenderne visione e di conoscere il nome dell’autore[11]. La tesi si fonda sull’idea che il diritto alla riservatezza dell’autore della segnalazione non abbia una «estensione tale da includere il diritto all’anonimato di colui che rende una dichiarazione a carico di terzi, tanto più che l’ordinamento non attribuisce valore giuridico positivo all’anonimato»[12]. Del resto, questa giurisprudenza ritiene che l’autore della segnalazione si “esponga” nei confronti della pubblica amministrazione e rinunci così, implicitamente, alla propria riservatezza[13]. Neppure è di ostacolo all’accesso il fatto che la segnalazione sia un atto di provenienza privata: l’atto privato, una volta giunto nella disponibilità della pubblica amministrazione, rientra infatti nell’ambito applicativo degli artt. 22 ss. della l. n. 241/1990 e ciò anche quando alla segnalazione non abbia fatto seguito l’apertura di un vero e proprio procedimento amministrativo[14].
Un secondo orientamento giurisprudenziale nega, invece, la sussistenza del diritto di accesso rispetto ai nomi dei segnalanti. La segnalazione sarebbe un semplice atto di impulso, che dà luogo a una attività ispettiva doverosa della pubblica amministrazione: è pertanto quest’ultima attività a essere soggetta al regime di trasparenza e sono gli atti in cui essa si esplica che costituiscono l’oggetto del diritto di accesso dell’interessato. Alla distinzione tra atto di impulso e attività amministrativa si lega una seconda, decisiva, considerazione: la difesa del soggetto segnalato non dipende dalla conoscenza della segnalazione, né tantomeno dal nome del segnalante; l’attività difensiva dell’interessato è rivolta, semmai, nei confronti dell’amministrazione e dei provvedimenti adottati in seguito alla segnalazione. Questa giurisprudenza esclude, quindi, la sussistenza di uno dei requisiti che legittimano l’accesso difensivo, vale a dire la strumentalità del documento richiesto rispetto alla cura dei propri interessi[15]. Oltretutto, se l’intento di conoscere il nominativo del segnalante non è mosso da esigenze difensive, esso può celare un intento ritorsivo, che certamente non è tutelato dall’ordinamento[16].
3. La distinzione tra atto amministrativo e dato personale.
La sentenza in commento aderisce a questo secondo orientamento ma introduce un argomento nuovo a favore della riservatezza. Il TAR ritiene, in particolare, che i nominativi dei segnalanti non possano essere rilasciati perché essi non sottostanno al regime giuridico previsto per l’accesso ai documenti amministrativi, bensì al regime previsto per l’accesso ai dati personali, disciplinato in primo luogo dal Regolamento europeo n. 679/2016 (GDPR).
Nella pronuncia si legge infatti che il nominativo dell’autore di una segnalazione «a rigore non costituisce un “atto amministrativo”», trattandosi invece di un dato personale, accessibile pertanto solo per colui al quale il dato si riferisce, oppure comunicabile a terzi ma solo entro gli «stretti limiti» stabiliti dal Codice in materia di protezione dei dati personali. Insomma, ad avviso del TAR, occorre distinguere tra l’accessibilità «al documento in quanto tale», disciplinata dagli artt. 22 ss. della l. n. 241/1990, e l’accessibilità ai dati personali in esso contenuti: per questi ultimi, «atteso il rango costituzionale della protezione agli stessi concessi dall’ordinamento», deve trovare applicazione la specifica disciplina europea e nazionale.
Del resto, prosegue la sentenza, il GDPR è entrato in vigore successivamente alla legge sul procedimento e, dunque, le disposizioni di quest’ultima debbono essere interpretate alla luce della nuova normativa sui dati personali. Così, anche se l’art. 24, c. 7, l. n. 240/1990[17] prevede che il diritto di accesso difensivo possa incontrare limiti solo di fronte a dati sensibili e giudiziari (per i quali la disposizione consente l’accesso unicamente se essi siano «strettamente indispensabili») o dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale (rispetto ai quali trova applicazione l’art. 60 del Codice sulla protezione dei dati personali e quindi l’accesso è consentito solo per tutelare un diritto almeno di pari rango del richiedente[18]), ad avviso del TAR non si può trarre la conclusione che il diritto d’accesso prevalga comunque sulla protezione dei dati personali “semplici”: occorre infatti tener sempre conto «del principio di liceità del trattamento di cui allo stesso art. 6 comma 1 del GDPR». In altre parole, l’accesso difensivo non può prevalere sulla tutela dei dati personali “semplici” solo sulla base dell’art. 24, c. 7, l. n. 241/1990, ma deve anche realizzarsi una delle condizioni previste dall’art. 6 del GDPR, condizioni che, come noto, rendono lecito il trattamento dei dati personali[19]. Così delineato il quadro normativo, il TAR esclude che si sia in presenza di una delle condizioni richieste dal GDPR, poiché ritiene che il trattamento non sia giustificato dalla necessità del ricorrente di ottenere il nominativo del segnalante per esperire azioni giudiziarie. La motivazione della pronuncia prosegue quindi con una esauriente argomentazione in merito all’irrilevanza del nominativo richiesto rispetto a eventuali iniziative giudiziarie: su questo punto si tornerà più avanti (§ 4). È opportuno invece qui sottolineare come la ricostruzione del TAR circa il rapporto tra le due discipline non appaia convincente.
In primo luogo, desta perplessità la distinzione tra il documento amministrativo e i dati personali in esso contenuto. Essa sembra artificiosa se si pone mente alla definizione ampia di «documento amministrativo» data dall’art. 22, c. 1, lett. d), l. n. 241/1990 («ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale»), che si riferisce genericamente al «contenuto» degli atti amministrativi, rendendolo oggetto del diritto di accesso: per cui non pare possibile distinguere tra “contenitore” accessibile (nel nostro caso, la segnalazione) e “contenuto” non accessibile (il nominativo del segnalante). In altri termini, è vero che i dati personali non sono un documento amministrativo, ma ne costituiscono il contenuto.
D’altra parte, è la stessa legge n. 241/1990 a prevedere specifiche regole (come quelle ricordate riguardanti i dati sensibili) per le ipotesi nelle quali i dati personali siano contenuti in un atto amministrativo: lo stesso art. 24, al comma 6, rinvia a un regolamento governativo per la previsione di casi di sottrazione all’accesso di documenti che riguardino, tra altro, «la vita privata o la riservatezza di persone fisiche». Così pure, il rapporto tra la tutela della riservatezza e il diritto di accesso è preso in considerazione nella normativa sui dati personali: in particolare, l’art. 86 del GDPR prevede che i dati personali «contenuti in documenti ufficiali in possesso di un’autorità pubblica o di un organismo pubblico o privato per l’esecuzione di un compito svolto nell’interesse pubblico possono essere comunicati da tale autorità o organismo conformemente al diritto dell’Unione o degli Stati membri cui l’autorità pubblica o l’organismo pubblico sono soggetti, al fine di conciliare l’accesso del pubblico ai documenti ufficiali e il diritto alla protezione dei dati personali ai sensi del presente regolamento». In sostanza, il GDPR rinvia alle normative nazionali, lasciando agli Stati ampia discrezionalità riguardo al bilanciamento tra accesso e tutela dei dati personali[20]. Il legislatore italiano ha peraltro già adeguato la normativa interna al GDPR, attraverso il d.lgs. 10 agosto 2018, n. 101[21], che – per quanto ci interessa – ha sostanzialmente confermato la previgente disciplina, contenuta nel Codice sulla protezione dei dati personali (d.lgs. n. 196/2003), riguardo al rapporto tra accesso e riservatezza. In particolare, l’art. 59 del Codice rinvia proprio alla l. n. 241/1990 riguardo alle «modalità» e ai «limiti» per l’esercizio del diritto di accesso a documenti amministrativi contenenti dati personali, fatto salvo il caso dei dati sensibili disciplinato dal già citato art. 60.
Si consideri comunque per ipotesi – a dispetto delle richiamate norme di raccordo tra le due discipline – che le disposizioni sull’accesso documentale debbano essere interpretate alla luce dell’art. 6 del GDPR, come sostenuto dal TAR, e che dunque un dato personale possa essere rilasciato dalla pubblica amministrazione solo ove ricorra una delle condizioni elencate in tale articolo. Ebbene, anche ammesso che questa ricostruzione sia corretta, non sembra potersi escludere in assoluto che qui ricorra una di esse. L’art. 6 prevede infatti, tra le condizioni che rendono lecito il trattamento dei dati, il caso in cui esso sia «necessario per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento» (art. 6, par. 1, lett. e)[22]. Questa condizione sembra offrire una base legale per il rilascio di dati personali ai fini dell’accesso ai documenti amministrativi: secondo l’art. 22, c. 2, l. n. 241/1990, l’accesso costituisce infatti, «attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse», un principio generale dell’attività amministrativa «al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza». Il TAR si limita invece a escludere la compatibilità del rilascio dei nominativi dei segnalanti con l’art. 6 del GDPR, poiché non ravvisa la necessità del trattamento nella asserita volontà del richiedente di esperire azioni giudiziarie.
4. Accesso difensivo e strumentalità: una soluzione ragionevole.
La necessaria conoscenza di un dato per esperire azioni giudiziarie non pare peraltro essere congruente con alcuna delle finalità indicate dall’art. 6 del GDPR[23]. Tale requisito è però decisivo ai fini dell’applicazione dell’art. 24, c. 7, l. n. 241/1990 e, sotto questa luce, si può analizzare la seconda parte della pronuncia.
In essa, il TAR specifica le ragioni che rendono ininfluente il dato richiesto per la tutela dei diritti del richiedente e, in particolare, per la proposizione di azioni giudiziarie. Anzitutto – rileva il giudice – se gli interventi della Polizia municipale e i conseguenti verbali sono considerati illegittimi o illegali, contro di essi è ben possibile reagire nelle sedi opportune, senza bisogno di conoscere per intero le segnalazioni che di tali attività costituiscono «atto di mero impulso». In secondo luogo, qualora il ricorrente proponga denuncia all’autorità giudiziaria e questa dovesse riscontrare fattispecie penalmente perseguibili (si pensi a un’ipotesi di calunnia), «sarebbe doveroso all’esito del procedimento formulare un’imputazione dandone avviso alla parte offesa». In terzo luogo, anche un’eventuale azione risarcitoria in sede civile dovrebbe essere esperita nei confronti della pubblica amministrazione, poiché, di nuovo, i danni lamentati dal ricorrente derivano dai controlli della Polizia e non dalle segnalazioni («di per sé stesse causalmente irrilevanti»). Aggiunge infine il TAR, richiamandosi all’orientamento giurisprudenziale sopra citato (§ 2), che a maggior ragione è da escludersi l’accesso quando la conoscenza del nominativo del segnalante, priva di rilievo a fini difensivi, costituisca «la mera soddisfazione di una curiosità, con pericolo di future ritorsioni».
In definitiva, il TAR respinge il ricorso perché il nome del segnalante non ha un’utilità a fini difensivi per il ricorrente: senza chiamare in causa il GDPR, ciò sarebbe stato sufficiente per negare l’esistenza del diritto di accesso difensivo ai sensi dell’art. 24, c. 7. La norma sull’accesso difensivo richiede infatti che vi sia un nesso di strumentalità tra la conoscenza del documento e la cura o difesa di un interesse giuridico. La spiegazione fornita in proposito dal TAR Emilia Romagna appare esauriente e in linea con le indicazioni che proprio in tema di strumentalità dell’accesso difensivo ha dato la recente Adunanza plenaria n. 4 del 18 marzo 2021[24]. Era emersa sul punto una difformità nella giurisprudenza delle sezioni del Consiglio di Stato, divise tra una posizione che riteneva sufficiente una generale “attinenza” della documentazione richiesta con la difesa dell’interessato e una posizione che valutava invece con più rigore i requisiti dell’istanza di accesso. Tra le pronunce di questo secondo tipo, se ne segnalavano peraltro alcune che, mosse dall’intento di “arginare” l’ampia portata dell’accesso difensivo ex art. 24, c. 7, finivano per esercitare un sindacato discutibile sul requisito della strumentalità: così, per esempio, il Consiglio di Stato aveva escluso l’esistenza di un interesse concreto e attuale all’accesso in capo al ricorrente perché aveva ritenuto che il documento richiesto non fosse pertinente con la strategia difensiva che lo stesso stava adoperando in altra sede processuale[25]. È evidente che quest’ultima giurisprudenza rischia di sindacare impropriamente le scelte processuali di un privato e di lederne il diritto di difesa sancito dall’art. 24 Cost.[26] La Plenaria era pertanto chiamata a specificare quali siano i poteri di valutazione dell’amministrazione (e poi del giudice) circa l’istanza di accesso difensivo[27].
Nella pronuncia n. 4/2021, il massimo giudice amministrativo riconosce che la legge non lascia margini di apprezzamento all’amministrazione riguardo al bilanciamento tra accesso e riservatezza, poiché si prevede la prevalenza del primo[28]: tuttavia, la stessa legge richiede un giudizio («sussunzione») riguardo all’interesse legittimante all’accesso, che deve presentare i parametri della “corrispondenza” a una situazione giuridica e del “collegamento” tra il documento e l’interesse giuridicamente rilevante che tramite la conoscenza del documento si intende tutelare. A dimostrazione della necessità di questo giudizio, la Plenaria ricorda che l’istanza di accesso deve essere motivata (art. 25, c. 2, l. n. 241/1990) e che proprio sulla motivazione deve fondarsi l’analisi della pubblica amministrazione in merito alla sussistenza dei parametri legittimanti l’accesso difensivo. Trattandosi di attività interpretativa, essa si presta naturalmente a una certa elasticità, motivo per cui la Plenaria non indica criteri stringenti per valutare la motivazione dell’istanza di accesso[29]: essa si limita a dire che sul nesso di strumentalità necessaria tra documento e interesse da tutelare occorre un vaglio «rigoroso» e «motivato» e che l’amministrazione e il giudice amministrativo «non devono invece svolgere ex ante alcuna ultronea valutazione sull’ammissibilità, sull’influenza o sulla decisività del documento richiesto nell’eventuale giudizio instaurato, […] salvo il caso di una evidente, assoluta, mancanza di collegamento tra il documento e le esigenze difensive».
La soluzione della Plenaria appare, se non risolutiva, quantomeno ragionevole: nel momento in cui la disciplina sull’accesso si fonda sui diversi requisiti di legittimazione di ciascun diritto (civico, procedimentale e difensivo)[30], facendovi corrispondere una diversa “forza” del diritto stesso, è normale che vi sia un controllo circa tali requisiti. Simile soluzione è altresì capace di offrire una strada per risolvere il problema del nominativo nelle segnalazioni: esso potrà essere reso noto soltanto quando il richiedente sia in grado di motivare la ragione per cui il nominativo sia necessario per la cura o difesa in giudizio di un proprio interesse giuridico. Qualora vi riesca, trova applicazione l’art. 24, c. 7; qualora invece non sia in grado di motivare in tal senso l’istanza, la tutela del diritto di accesso deve essere bilanciata con quella della riservatezza del segnalante, con la conseguenza che la segnalazione potrà essere rilasciata ma oscurando il nominativo dell’autore[31].
Pur non citando la Plenaria, il TAR Emilia Romagna sembra aver fatto corretta applicazione dei principi da essa enunciati, motivando adeguatamente le ragioni in base alle quali, nel caso di specie, il nominativo del segnalante non apparisse necessario per la tutela degli interessi del ricorrente. L’esito cui perviene la pronuncia è pertanto condivisibile ma sarebbe stato sufficiente, per raggiungerlo, far ricorso alle norme sul diritto d’accesso della l. n. 241/1990.
[1] Si tratta, come noto, del «Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati)».
[2] Cons. St., sez. III, 1 marzo 2021, n. 1717.
[3] Artt. 22 e ss., l. n. 241/1990.
[4] Art. 5, c. 1, d.lgs. n. 33/2013.
[5] Art. 5, c. 2. d.lgs. n. 33/2013.
[6] Per utilizzare l’espressione di A. Simonati, I diritti di accesso “a contenuto generale”: spunti per un’analisi in parallelo, in Dir. econ., 2022, 201 ss. La letteratura sui diversi diritti di accesso e sui loro rapporti è ormai molto consistente: ci si limita qui a rinviare ai recenti lavori monografici di M. Sinisi, I diritti di accesso e la discrezionalità amministrativa, Bari, 2020 e F. Lombardi, La trasparenza tradita, Napoli, 2022.
[7] Si vedano in giurisprudenza, tra altre, Tar Puglia, sez. III, 19 febbraio 2018, n. 231 e Cons. St., sez. IV, 12 agosto 2016, n. 3631; in dottrina, v. M. Sinisi, I diritti di accesso e la discrezionalità amministrativa, cit., spec. 87 ss. Tuttavia, una prospettiva almeno in parte diversa sembrava essere indicata dalla nota sentenza dell’Adunanza plenaria 2 aprile 2020, n. 10, nella quale si sosteneva che il rapporto tra l’accesso documentale e quello civico generalizzato non dovesse essere inteso secondo un criterio di esclusione reciproca «ma secondo un canone ermeneutico di completamento/inclusione»; sia consentito rinviare alle considerazioni svolte sul punto in I. Piazza, Strumentalità dell’accesso difensivo e sindacato giurisdizionale: osservazioni alla luce della normativa sulla trasparenza, in questa Rivista, 2021.
[8] In proposito, si veda V. Mirra, Accesso difensivo e riservatezza: due diritti in conflitto, in Foro it., 10/2021, 550 ss.
[9] Sulla distinzione tra l’accesso procedimentale in generale, disciplinato dall’art. 22, l. n. 241/1990, e quello difensivo di cui all’art. 24, c. 7, si vedano anche le pronunce della Plenaria nn. 19, 20, 21 del 25 settembre 2020, commentate da M. Ricciardo Calderaro, Diritto d’accesso e acquisizione probatoria processuale, in questa Rivista, 2021.
[10] Oltre al problema dei controinteressati, vi è anche quello del rapporto tra il diritto d’accesso e i metodi di acquisizione probatoria nel processo civile: il primo può essere infatti utilizzato per ottenere documenti da produrre in giudizio aggirando il rispetto della normativa processuale. Si è tuttavia pronunciata a favore della complementarietà e della indipendenza dell’accesso e degli istituti processuali la Adunanza plenaria nelle sentenze citate alla nota precedente e nella più recente Cons. St., Ad. plen., 18 marzo 2021, n. 4; sul tema, v. M. Sica, Diritto di accesso ai documenti amministrativi e processo civile. Una nuova sentenza dell’adunanza plenaria, in Riv. dir. proc., 2021, 1412 ss.
[11] Si veda, per esempio, Cons. St., sez. V, 28 settembre 2012, n. 5132, secondo cui «il soggetto che subisce un procedimento di controllo o ispettivo ha un interesse qualificato a conoscere integralmente tutti i documenti utilizzati dall’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza, compresi gli esposti e le denunce che hanno determinato l’attivazione di tale potere».
[12] Si veda, ancora, Cons. St., sez. V, 28 settembre 2012, n. 5132; più di recente, v. anche TAR Toscana, sez. I, 3 luglio 2017, n. 898.
[13] Si vedano TAR Toscana, sez. I, 3 luglio 2017, n. 898 e TAR Emilia Romagna - Bologna, sez. I, 3 agosto 2017, n. 584, dove si legge che l’«esposto, una volta pervenuto nella sfera di conoscenza dell’amministrazione, costituisce un documento che assume rilievo procedimentale come presupposto di un’attività ispettiva o di un intervento in autotutela, e di conseguenza il denunciante perde consapevolmente e scientemente il controllo e la disponibilità sulla propria segnalazione: quest’ultima, infatti, uscita dalla sfera volitiva del suo autore diventa un elemento del procedimento amministrativo, come tale nella disponibilità dell’amministrazione. La sua divulgazione, pertanto, non è preclusa da esigenze di tutela della riservatezza».
[14] In tal senso, v. TAR Emilia Romagna - Bologna, sez. I, 3 agosto 2017, n. 584: «Non può condividersi sul punto quanto affermato nella memoria della Regione circa la necessità che un documento possa considerarsi tale solamente se contenuto nell’ambito di un procedimento amministrativo: un documento è tale perché esistente tra gli atti dell’amministrazione regionale. L’atto di un privato inviato alla Regione ha fatto sì che una risposta ufficiale sia stata fornita, quindi una qualche attività amministrativa è stata generata a seguito della ricezione dell’esposto-mail».
[15] Si veda TAR Emilia Romagna - Bologna, sez. II, 17 ottobre 2018, n. 772: «[…] l’esposto presentato alla pubblica amministrazione, da cui trae origine una verifica, un’ispezione o altri procedimenti di accertamento di illeciti, non può essere oggetto di “accesso agli atti”, poiché non è dalla conoscenza del nome del denunciante che dipende la difesa del denunciato»; analogamente, v. anche TAR Veneto, sez. III, 20 marzo 2015, n. 321.
[16] Per esempio, v. Cons. St., sez. III, 1 marzo 2021, n. 1717: «Pertanto, anche a voler prescindere dalla riservatezza dell’autore della segnalazione (che spesso è un dipendente del soggetto sottoposto ad attività ispettiva, soggetto, quindi, a rischio di ritorsione) emerge la sostanziale carenza di interesse alla conoscenza dell’autore dell’esposto: l’identificazione dell’autore della segnalazione, infatti, non è funzionale all’esigenza difensiva della società appellata». In tema di tutela della riservatezza dei lavoratori che hanno reso dichiarazioni in sede ispettiva, v. anche Cons. St., sez. VI, 24 novembre 2014, n. 5779.
[17] Si riporta per chiarezza il testo dell’art. 24, c. 7, l. n. 241/1990: «Deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici. Nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l’accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini previsti dall’articolo 60 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale».
[18] Come noto, l’art. 60, d.lgs. n. 196/2003 stabilisce che «Quando il trattamento concerne dati genetici, relativi alla salute, alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona, il trattamento è consentito se la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare con la richiesta di accesso ai documenti amministrativi, è di rango almeno pari ai diritti dell’interessato, ovvero consiste in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale».
[19] Art. 6, par.1, Reg. (UE) 2016/679: «Il trattamento è lecito solo se e nella misura in cui ricorre almeno una delle seguenti condizioni: a) l’interessato ha espresso il consenso al trattamento dei propri dati personali per una o più specifiche finalità; b) il trattamento è necessario all’esecuzione di un contratto di cui l’interessato è parte o all’esecuzione di misure precontrattuali adottate su richiesta dello stesso; c) il trattamento è necessario per adempiere un obbligo legale al quale è soggetto il titolare del trattamento; d) il trattamento è necessario per la salvaguardia degli interessi vitali dell'interessato o di un’altra persona fisica; e) il trattamento è necessario per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento; f) il trattamento è necessario per il perseguimento del legittimo interesse del titolare del trattamento o di terzi, a condizione che non prevalgano gli interessi o i diritti e le libertà fondamentali dell’interessato che richiedono la protezione dei dati personali, in particolare se l’interessato è un minore. La lettera f) del primo comma non si applica al trattamento di dati effettuato dalle autorità pubbliche nell’esecuzione dei loro compiti».
[20] Si veda in proposito F. Midiri, GDPR e accesso ai documenti amministrativi, in Foro Amm., 12/2018, spec. 2229 («[…] il GDPR non fornisce indicazioni per determinare i limiti dell’accesso ai documenti amministrativi, neppure attraverso il riferimento alle prerogative del diritto di azione nella disciplina della data protection») e 2231 s. («[…] quando il trattamento dei dati personali contenuti in atti di rilievo pubblico avviene attraverso la funzione pubblica della garanzia dell’accesso ai documenti amministrativi – attraverso il quale l’amministrazione “comunica” i dati ed il privato li “consulta” – non soltanto può realizzarsi una graduazione nazionale della data protection europea, ma, addirittura, trova attuazione il rinvio integrale agli ordinamenti statali previsto dall’86 GDPR, a cui è rimessa la misura della protezione, salvo solo il principio di ragionevolezza nel contemperare opposte libertà fondamentali»). Analogamente, v. E. D’Alterio, Protezione dei dati personali e accesso amministrativo: alla ricerca dell’“ordine segreto”, in Giorn. dir. amm., 1/2019, 9 ss.
[21] Sulla nuova disciplina v., tra altri, F. Pizzetti (a cura di), Protezione dei dati personali in Italia tra GDPR e Codice novellato, Torino, 2021.
[22] Sui problemi posti all’attività delle pubbliche amministrazioni dall’interpretazione restrittiva di questa disposizione e sull’opportunità di intendere invece l’esecuzione di un compito di interesse pubblico come base giuridica di per sé valida per il trattamento di dati non sensibili, si vedano ampiamente i lavori di F. Francario, Protezione dei dati personali e pubblica amministrazione e Disposizioni “urgenti” in materia di protezione dei dati personali. Brevi note sul trattamento dati per finalità di pubblico interesse, entrambi in questa Rivista, 2021. In tema, v. anche F. Cardarelli, Commento all’art. 2-ter, D.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, in R. D’Orazio, G. Finocchiaro, O. Pollicino, G. Resta (a cura di), Codice della privacy e data protection, Milano, 2021, 1012 ss.
[23] Il TAR non esplicita quale sia la condizione mancante nel caso di specie ma il riferimento potrebbe essere alle ipotesi previste dalle lettere d) e f) dell’art. 6 del GDPR, che consentono il trattamento, rispettivamente, per la salvaguardia degli «interessi vitali» del titolare dei dati o di altra persona fisica e per il «perseguimento del legittimo interesse del titolare del trattamento o di terzi, a condizione che non prevalgano gli interessi o i diritti e le libertà fondamentali dell’interessato». Tuttavia, guardando ai “considerando” del Regolamento, la prima ipotesi è riferita a casi particolarmente gravi come il controllo delle epidemie o le emergenze umanitarie (considerando n. 46); la seconda attiene invece principalmente gli interessi del titolare del trattamento (considerando nn. 47 e 48) e, soprattutto, non si applica all’attività delle pubbliche amministrazioni (art. 6, par. 1, c. 2).
[24] Sulla quale v. M. Sica, Diritto di accesso ai documenti amministrativi e processo civile, cit., 1412 ss., che si occupa soprattutto dei rapporti tra diritto di accesso e strumenti di acquisizione probatoria nel processo civile; a commento della pronuncia, si vedano anche V. Mirra, Accesso difensivo e riservatezza: due diritti in conflitto, cit., 550 ss. e G. Delle Cave, L’accesso difensivo post Adunanza Plenaria n. 4/2021 tra potere valutativo della P.A. e apprezzamento del giudice, in questa Rivista, 2022.
[25] Cons. St., sez. III, 31 dicembre 2020, n. 8543, sulla quale v. I. Piazza, Strumentalità dell’accesso difensivo e sindacato giurisdizionale: osservazioni alla luce della normativa sulla trasparenza, cit.
[26] Questo rischio era già stato evidenziato da F. Francario, Il diritto di accesso deve essere una garanzia effettiva e non una mera declamazione retorica, in Federalismi.it, n. 10/2019, spec. 23.
[27] Nelle già richiamate (v. nota 9) pronunce dell’anno precedente nn. 19, 20, 21 del 2020, la Plenaria si era espressa sull’accesso difensivo e anche sul requisito della strumentalità, con rilievi però di carattere generale che hanno quindi giustificato una nuova rimessione.
[28] In proposito, v. F. Francario, Il diritto di accesso deve essere una garanzia effettiva e non una mera declamazione retorica, cit., 18 ss.
[29] Riguardo alle incertezze che permangono dopo la pronuncia della Plenaria, v. M. Sica, Diritto di accesso ai documenti amministrativi e processo civile, cit., 1418 ss.
[30] Per una diversa possibile ricostruzione, tuttavia minoritaria, che in presenza di una forma di accesso che prescinde dai requisiti di legittimazione (cioè l’accesso civico generalizzato garantito a “chiunque”) guardi soprattutto alla presenza di contro-limiti, sia consentito rinviare nuovamente a I. Piazza, Strumentalità dell’accesso difensivo e sindacato giurisdizionale: osservazioni alla luce della normativa sulla trasparenza, cit.
[31] In tal senso, v. la già citata sentenza Cons. St., sez. III, 1 marzo 2021, n. 1717, nonché la più risalente TAR Piemonte, 10 maggio 2012, n. 537
Ritorno alle vecchie regole per il concorso in magistratura. Ma anche pensando al futuro?
di Angelo Costanzo
1. Con il decreto “Aiuti-ter” approvato il 16 settembre è stata anticipata la scelta, contenuta nella legge-delega n.71/2022, di riformare l’ordinamento giudiziario riaprendo l’accesso al concorso per la magistratura ordinaria anche ai neolaureati.
Viene così eliminato l’obbligo di frequentare previamente tirocini o scuole di specializzazione per le professioni legali.
Le Scuole universitarie di specializzazione nelle professioni legali sono state frequentate per accedere al concorso, ma sempre meno. Invece, è cresciuta la partecipazione ai tirocini presso gli Uffici giudiziari che sono utili, se ben impostati, per concorrere a formare un buon magistrato ma che non forniscono una preparazione specifica per il concorso nella sua forma attuale. Inoltre, risulta che la gran parte dei vincitori del concorso si è preparata frequentando scuole private, spesso efficaci nel preparare a superare il concorso ma non per formare un buon magistrato.
In realtà, negli ultimi anni è accaduto che una massa di laureati ha impiegato anni, denaro e energie per approdare a un fallimento. Inoltre, i vari meccanismi di selezione hanno privilegiato coloro che beneficiano di migliori condizioni economiche e di maggiori risorse temporali. Né questo sistema ha affinato sensibilmente la preparazione giuridica degli aspiranti magistrati perché li ha condotti a munirsi soprattutto delle tecniche e delle nozioni utili per superare il concorso, che però non sono quelle specificamente necessarie per esercitare adeguatamente la giurisdizione.
In questo quadro, la scelta del Governo può essere salutata come un intelligente ritorno al passato e anche a una maggiore equità sociale.
2. Tuttavia, risulterà presto una scelta insoddisfacente e miope se non sarà seguita da una seria rielaborazione della formazione degli aspiranti magistrati.
In realtà, la causa prossima della scelta del Governo sta nell’obiettivo del Piano nazionale di ripresa e resilienza di ampliare e accelerare le procedure di reclutamento così da colmare i vuoti dell’organico per ridurre i tempi dei processi e per smaltire l’arretrato.
Pare evidente che permettere anche ai neolaureati di accedere al concorso amplierà ulteriormente la massa dei candidati, sicché deve auspicarsi che non si introducano meccanismi grossolani e fuorvianti di preselezione (ne esiste una vasta e a volte stramba congerie) fra i quali il più perverso è quello che, per ridurre il numero di coloro che consegnano gli elaborati, individua come temi delle prove questioni periferiche rispetto ai nuclei fondamentali della preparazione del giurista forense. Questa via, infatti, aumenta il rischio di scartare candidati dalla preparazione solida, ma spiazzati da un tema anomalo, e di favorire coloro che, in qualche modo, si sono trovati nella condizione di affrontarlo.
Invece, occorre valorizzare una preparazione ancorata alla solida conoscenza degli istituti giuridici e alla capacità di padroneggiare le argomentazioni. Questa impostazione potrebbe rivitalizzare il ruolo della dottrina giuridica e ridestarne le energie a volte rese latitanti dal mero ancorarsi agli andamenti della giurisprudenza. Dovrebbe anche ridurre la dipendenza degli aspiranti magistrati dalle scuole (private) di preparazione al concorso, dipendenza in gran misura correlata alla esigenza di supporti alla continua ricerca di aggiornamenti sulla giurisprudenza.
3. In generale, serve un sistema di preparazione alle professioni legali (magistratura e avvocatura) più evoluto, che configuri meccanismi di selezione non incentrati sulla ‘sfida/scommessa’ del concorso ma sullo sviluppo graduale di un percorso teorico-pratico pluriennale.
Varie idee possono svilupparsi al riguardo. Ma sembra ragionevole individuare qualche possibile punto considerando quanto potrebbe utilmente realizzarsi mediante le istituzioni già esistenti: le Università, le Scuole di Specializzazione nelle Professioni legali (SSPL) e la Scuola Superiore della Magistratura (SSM).
a) I piani di studio universitari dovrebbero delineare nel secondo biennio un percorso di formazione verso le professioni forensi, distinto da altri percorsi professionali, dato adeguato spazio, oltre alle materie tecniche specifiche, a discipline che offrono le basi metodologiche delle professioni forensi: l’ermeneutica giudiziaria (anche per padroneggiare le conseguenze di tecniche legislative fondate sulla normazione “per principi” che si giustappone a quella tradizionale “per regole”), la logica e l’argomentazione giuridica, l’epistemologia giudiziaria (per rendere più attenti a una corretta ricostruzione dei fatti oggetto dei processi) e lo studio del diritto comparato entro i confini dell’Unione Europea.
b) La successiva formazione dei magistrati e degli avvocati andrebbe mantenuta comune all’interno delle SSPL per poi diversificarsi attraverso distinti meccanismi di selezione conducenti i primi alla SSM e i secondi verso l’Avvocatura.
c) L’accesso alle SSPL dovrebbe avvenire mediante selezioni (su base nazionale) e con l’assegnazione, a ogni singola SSPL di un numero di corsisti ‘sostenibile’ che segua un percorso di formazione comune delineato secondo le direttive della SSM.
d) L’accesso alla SSM dovrebbe avvenire mediante una ulteriore selezione nazionale, dotando i corsisti di borse di studio e munendo coloro che non superano le prove finali di un titolo spendibile per i concorsi pubblici o per l’attività lavorativa privata.
Marìas
di Alessandro Clemente
All’inizio ero un po’ contrariato, forse anche scettico di approcciare ad uno scrittore di lingua spagnola, verso la quale nutrivo infondati pregiudizi.
Andai in libreria per acquistare un libro di un altro autore – non ricordo, forse Saramago, poco importa – ma, non trovandolo, decisi di ripiegare su questo spagnolo il cui nome niente mi diceva. Ero stato incuriosito dal titolo, effettivamente originale, e dal retro di copertina che riportava un entusiastico commento di Pietro Citati, in generale sempre piuttosto severo.
E così, tradendo i dogmatici dettami del Nanni Moretti di “La messa è finita” (“Ma lei, come li sceglie i libri? In base al numero di pagine? Al riassunto in copertina, eh?!”), comprai il mio primo dei tanti libri scritti da Marìas e tradotti in italiano. Anzi, di tutti, avendo negli anni accumulato una copia di tutto ciò che è stato pubblicato a suo nome.
Era, inutile dirlo, “Domani nella battaglia pensa a me”. Accadeva oltre vent’anni fa, c’era ancora la lira e non c’era l’11 settembre. Beh insomma, me lo portai a casa e lo tenni nello studio che condividevo – per studiare, appunto – con mio padre. In quel periodo ristagnavo senza molta convinzione dinanzi ai tre volumi dell’esame di diritto processuale civile, il primo dei quali rimase per alcune mattine – quattro o cinque, ricordo bene – vanamente aperto su una qualche pagina e su un qualche oscuro istituto processuale, essendo io stato rapito dal romanzo.
Trascorsi quelle mattine lasciandomi trasportare da una prosa digressiva, fatta di continui rimandi ai pensieri vorticosi del protagonista che si confondevano con quelli dell’autore, tanto che a un certo punto neanche ricordavo più quale fosse la trama. Che, a dirla tutta, può ridursi davvero a poche decine di pagine (e infatti gli uomini apprezzano Marìas ben poco rispetto alle donne, sue amate lettrici, che lo hanno sempre ripagato venerandolo).
E sarà stato forse un malcelato animo femminile a tradirmi, fatto sta che rimasi fin da subito affascinato da quella prosa rotonda, avvolgente, che accompagnava il lettore inducendolo in uno stato ipnotico ma sempre irrimediabilmente analitico e razionale, lucido e conseguenziale. E quando mi accorgevo che l’autore mi aveva portato un po’ troppo oltre quello che era il topos del romanzo, era ormai troppo tardi: ero caduto nel tranello, mi ero lasciato ammaliare da un incantatore.
Oggi quel libro è in ottime mani. Anche se non ne ho evidenza, ne sono sicuro. Negli anni a venire mi sono accontentato di una copia che ho ricomprato, ma sapete tutti che non è la stessa cosa. Ho compensato anni fa scovando, in un mercatino dell’usato a Barcellona, una copia in lingua originale, che conservo come una reliquia.
Ma insomma, al di là di quel primo libro – e non chiedetemi quale sia il suo libro migliore: quantomeno non fatelo oggi, per pietà – negli anni mi sono accorto che finivo per aspettare trepidante la pubblicazione dei suoi libri quasi come un bambino attende Babbo Natale con i suoi regali. E, senza rendermene conto – proprio come se fossi stato il protagonista di uno dei suoi romanzi – mi sono ritrovato uomo, forse anche un po’ diverso da come ero partito, di certo molto fuori tema rispetto alle premesse esistenziali di uno studente, per giunta anche fuori corso.
E poi, anni dopo, l’ho anche conosciuto. Cioè, non proprio, perché si trattò di assistere dal vivo alla presentazione di un suo romanzo. Ero a Roma per un corso, liquidai tutti i colleghi che mi aspettavano per la cena e mi tuffai nella metro per raggiungere, solo solo, l’Auditorium. Ero tra i primi della fila, c’erano – come detto – molte più donne che uomini. Io rimasi affascinato dall’uomo, cercando per quanto possibile di astrarlo dall’autore. Non era molto alto, ma aveva un portamento che riecheggiava i grandi cavalieri cinquecenteschi, quegli uomini all’antica ma mai fuori moda che sanno sempre come comportarsi, veloci di lingua non meno che di coltello. Indossava una camicia bianca sotto un abito nero, e per me era bellissimo.
Forse, a pensarci bene, io volevo essere Marìas. Meglio ancora, uno dei suoi personaggi, uno di quelli sempre risoluti, attento osservatore della realtà e delle inettitudini umane, fine interprete dell’animo femminile e delle più nefande pulsioni dell’uomo, dalle quali però sapeva sempre tenersi alla larga. Uno di quegli uomini con le idee chiare, sebbene rare volte passassero all’azione.
Non ci sono riuscito, lo ammetto. Parlo troppo, sono irascibile e volubile e soffro una facile cedevolezza sentimentale, oltre quanto si possa tollerare per ambire a rivestire degnamente la parte.
Ma, al di là di questo mio vezzo personale, ammetto che Marìas mi ha reso un uomo migliore di quanto pensassi. Col tempo, inizialmente per gioco fino a farne quasi una inclinazione naturale, ho acquisito una postura che ha cercato e trovato nei suoi personaggi – per quanto così distanti dalle mie ordinarie occupazioni pubbliche e private – un modello di immediata applicazione.
Nella mia mente hanno iniziato ad affollarsi, trovando sempre un ordine mentale in perpetuo movimento, i grandi temi dei suoi romanzi: ecco il segreto, la dissimulazione, l’inganno e il tradimento (quello verso sé stessi, non certo il convenzionale costume borghese del tradimento coniugale). Ecco il dubbio etico, il rimando shakespeariano, il dilemma dell’uomo perennemente in bilico tra l’inerzia e la bramosia di potere, incapace di riconoscere dove finisca la virtuosa prudenza e dove cominci la vergognosa viltà. Ecco la perenne incertezza – che spesso mi coglie di sorpresa nel mio lavoro – su quando bisogna intervenire e quando invece voltarsi dall’altra parte per un presunto interesse superiore, che non sempre è attuale e concreto ma spesso lontano nel tempo, e chissà se mai esisterà davvero. Ecco l’attitudine all’uso della parola digressiva, accompagnando l’interlocutore di turno laddove fin dall’inizio, talvolta con ostentata presunzione, lo si intendeva condurre.
Ora, tutto questo non sparirà, è ormai patrimonio della mia esistenza, invisibile ma non meno presente, e fermamente saldo nella mia vita. Come tutti i suoi libri, alcuni dalle pagine ingiallite, che da oggi conserverò con maggior cura nella mia libreria.
Mi sembrano tutti orfani, e un po’ forse lo sono anch’io.
Nei programmi elettorali sulla giustizia è sparito il PNRR e manca il futuro
di Claudio Castelli
Da una lettura dei programmi elettorali sul tema giustizia la prima inevitabile impressione che si trae è che la giustizia sia un tema del tutto secondario che in genere si può liquidare con pochi slogan o addirittura (come avviene in alcuni casi) ignorare. La seconda considerazione davvero sorprendente è che il PNRR per la giustizia con i suoi ambiziosi obiettivi ed i suoi cospicui investimenti (in primis l’ufficio per il processo) è sparito, cui ci si limita a qualche cenno.
È l’emblema di un atteggiamento sulla giustizia, settore estremamente complesso e che non si presta a semplificazioni, che viene affrontato più con slogan e parole magiche, che pretendono di avere la capacità taumaturgica di risolvere tutte le questioni esistenti, che con un’analisi seria della realtà specificando le azioni e gli interventi concreti che si vogliono porre in atto.
Continuiamo a sentir declamare la necessità di una “riforma della giustizia”, facendo finta di ignorare che di riforme della giustizia ne abbiamo già avute almeno 5 o 6 negli ultimi quindici anni, senza che nessuno si premuri di andare a vedere gli esiti che hanno avuto, se abbiano avuto risultati, se abbiano fallito e le ragioni di successi e insuccessi. Così si riparte sempre da zero con un’ottica fondamentalmente ideologica e propagandistica.
Si continua ad abusare della parola “riforma” che si continua a invocare, quasi mai spiegando in che direzione si vuole andare, non essendo di per sé il cambiamento foriero di miglioramenti e soprattutto senza mai confrontarsi con l’esito delle riforme precedenti che magari la stessa forza politica ha sponsorizzato e realizzato, senza evidentemente avere mai raggiunto gli obiettivi proposti.
Il problema è che è molto più facile lanciare slogan o parole magiche con la pretesa che di per sé risolvano i problemi, rispetto ad affrontarli in concreto con pazienza, umiltà e conoscenza della realtà degli uffici giudiziari e dell’avvocatura. Servono (anche) riforme normative, ma soprattutto un’analisi della realtà, delle forti differenze territoriali esistenti, per estendere le pratiche migliori e per finalizzare investimenti mirati, interventi organizzativi, formazione e accompagnamento allo change management. Nulla è di per sé risolutivo, bisogna operare su più canali con una visione complessiva ed una strategia condivisa. Anche se quest’opera, l’unica che può essere produttiva, è difficilmente riducibile a slogan e parole d’ordine appetibili.
Così continuiamo a passare da una riforma epocale a quella successiva senza l’elaborazione di una visione complessiva e senza la consapevolezza che gli interventi normativi devono essere accompagnati sul campo da misure organizzative e dalle necessarie risorse.
Inoltre è davvero singolare ed allarmante come gli ambiziosi progetti sulla giustizia contenuti nel PNRR e su cui si sta lavorando da oltre un anno siano praticamente ignorati, quasi che il complessivo disegno di assunzioni per l’Ufficio per il processo, di assunzioni di personale tecnico, di modifiche processuali e di coinvolgimento dell’Università sia irrilevante o vada abbandonato.
Ma vi è un ulteriore dato di fondo negativo: la giustizia è in genere vista più come un ostacolo o un impaccio che come una grande potenziale risorsa per il Paese. Quando l’idea di fondo con cui si doveva e poteva uscire dalla pandemia, anche grazie alla disponibilità di fondi per il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, mediante il pacchetto di misure europeo del Next Generation EU, era di far sì che il sistema della giustizia italiana si potesse trasformare da “zavorra” del sistema sociale ed economico del nostro Paese in volano e risorsa per il suo sviluppo e la sua trasformazione.
Ma questo vorrebbe dire farsi carico di due enormi problemi che si interconnettono e che in realtà sono le sfide dei prossimi anni ovvero l’impatto che potrà avere l’intelligenza artificiale nei nostri sistemi giuridici e la crisi delle professioni giuridiche. L’intelligenza artificiale e la digitalizzazione potranno essere il volano per un salto di qualità garantendo maggiore celerità e qualità, oppure significare la progressiva sostituzione degli esseri umani, professionisti o magistrati, con sistemi automatizzati facendo perdere ogni umanità della decisione e facendo esplodere la crisi che già oggi alcune professioni giuridiche vivono (a partire dagli avvocati e dagli ufficiali giudiziari) esportandola a tutte le professioni giuridiche.
Quello che manca da anni nel dibattito sulla giustizia è l’elaborazione di una visione prospettica complessiva, che ragioni in termini di mesi e di anni, e non di giorni, di una prospettiva di cambiamento che davvero tocchi gli elementi arcaici, di blocco ed anacronistici della cultura e dell’organizzazione della giurisdizione. Manca un piano che declinato su più dimensioni innovi la cultura, i comportamenti e le azioni dell’agire strategico e quotidiano della giustizia. Le soluzioni che vengono riproposte per l’ennesima volta (riforma dei riti, riforme ordinamentali, assunzioni meramente quantitative), oltre ad aver più volte evidenziato la loro insufficienza, rivelano anche una profonda sfiducia nella giustizia e nei suoi attori e sono probabilmente perfette per la propaganda, ma del tutto inadeguate.
Se poi vediamo nel concreto la proposta della coalizione che viene ritenuta probabilmente maggioritaria, si riduce a tre assunti tutti su ordinamento e processo, ci rendiamo conto come guardiamo ad un passato non commendevole e non ad un futuro di reale cambiamento.
- Riforma della giustizia e dell'ordinamento giudiziario: separazione delle carriere e riforma del CSM.
- Riforma del processo civile e penale: giusto processo e ragionevole durata, efficientamento delle procedure, stop ai processi mediatici e diritto alla buona fama.
- Riforma del diritto penale: razionalizzazione delle pene e garanzia della loro effettività, riforma del diritto penale dell'economia, interventi di efficientamento su precetti e sanzioni penali.
Ancora una volta tutto viene ridotto a intervenire sulla magistratura e sui codici, con proposte nel contempo estremamente generiche e che stravolgono gli attuali assetti costituzionali. Si parte sempre da luoghi comuni come se la giustizia fosse all’anno zero, senza tener conto dei forti, anche se ancora insufficienti, miglioramenti avuti in questi anni: tempi medi costantemente in calo sia nel settore civile che in quello penale, pendenze civili dimezzate negli ultimi dieci anni, una quota rilevante di uffici (circa un quarto) che ha performance europee.
Da qui occorrerebbe partire perché far funzionare la giustizia e garantire tempi ragionevoli. Un salto di qualità è possibile, ma questo non si può ottenere con un approccio ideologico e sostanzialmente ostile alla magistratura, ricominciando ogni volta daccapo, invece occorre partire dai risultati avuti, responsabilizzando e motivando tutti gli operatori, ottimizzando le risorse e poi investendo per darsi obiettivi ambiziosi per cambiare funzionamento e percezione della giustizia.
Si può ridare un futuro e una speranza di giustizia e per la giustizia, ma con un approccio radicalmente diverso.
La “prova da sforzo” dell’incidente di costituzionalità sul reddito di cittadinanza. La Consulta che cristallizza il c.d. requisito negativo per usufruirne: l’assenza di una misura cautelare personale
di Carlo Morselli
La Corte costituzionale si occupa della legge sul reddito di cittadinanza, sub iudice per contrasto plurimo con la Carta, dichiarando infondate le questioni della disposizione censurata ed impositiva della sospensione dell’erogazione del RdC per il soggetto che ha subito l’applicazione di una misura cautelare personale. Il contributo ricostruisce il dictum della Consulta, muovendo dai vizi individuati dall’organo territoriale, e mette in evidenza l’automatismo applicativo del “ritiro” della provvidenza (per l’incidenza del provvedimento de libertate ai sensi dell’art. 282-bis c.p.p., provvisorio e tipicamente risalente alla fase prodromica delle indagini preliminari), che può soddisfare esigenze anche vitali per il beneficiario. In ordine all’itinerario, al giudice della “sospensione” non è riconosciuto uno spazio di apprezzamento della fattispecie concreta (vaglio giurisdizionale), e all’interessato non è dato uno ius ad loquendum, in una procedura antidevolutiva e de plano, priva di una “procedimentalizzazione” e quindi del contraddittorio (previsto dalla norma sul c.d. giusto processo, a mente dell’art. 111 Cost.). Sullo sfondo si attesta la figura del legislatore-giudice.
The Constitutional Court deals with the law on citizenship income, sub iudice for plural conflict with the Charter, declaring unfounded the issues of the censored and taxable provision of the suspension of the provision of the RdC for the subject who has suffered the application of a precautionary measure personal. The contribution reconstructs the dictum of the Council, starting from the defects identified by the territorial body, and highlights the applicative automatism of the “withdrawal” of providence (due to the impact of the de libertate provision pursuant to art. 282-bis cpp , provisional and typically dating back to the prodromal phase of preliminary investigations), which can satisfy even vital needs for the beneficiary. With regard to the itinerary, the judge of the “suspension” is not granted an area ofappreciation of the specific case (judicial review), and the interested party is not given a ius ad loquendum, in an anti-revolutionary and de plano procedure, without a “Proceduralization” and therefore of the cross-examination (provided for by the law on the so-called due process, in accordance with Article 111 of the Constitution). In the background stands the figure of the legislator-judge.
Sommario: 1. L’“antefatto” del sindacato di costituzionalità promosso dal giudice a quo che censura la previsione dell’art. 7-ter, comma 1, del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 sulla sospensione del reddito di cittadinanza per chi è stata colpito da un provvedimento cautelare. - 2. Le ragioni del giudice a quo. I caratteri di uno “spoglio”. - 3. Il potere cautelare coinvolto è eccezionale. - 4. Carenza di uno spatium deliberandi per il giudice e omologazione di due previsione assai lontane per identità e per fasi processuali. - 5. Precedenti costituzionali e della Cassazione. Art. 282-bis c.p.p. e la corrispondente linea (securitaria) di interdizione. - 6. Ne procedat iudex ex officio: non rispettato il modello del c.d. processo di parti e mancante la previsione di uno ius ad loquendum. - 7. (All’orizzonte) “il legislatore-giudice”.
1. L’“antefatto” del sindacato di costituzionalità promosso dal giudice a quo che censura la previsione dell’art. 7-ter, comma 1, del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 sulla sospensione del reddito di cittadinanza per chi è stata colpito da un provvedimento cautelare
La Corte Costituzionale, quale giudice delle leggi e custode della Costituzione repubblicana improntata a «garantismo» [1], emette il suo “verdetto” sulla normativa relativa al reddito di cittadinanza sottoposta alla “prova da sforzo” dell’incidente di costituzionalità, promosso dall’organo a quo [2].
La Consulta ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 7-ter, comma 1, del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), sollevate in riferimento agli artt. 1, 2, 3, 4, 27, primo e secondo comma, 29, 30 e 31 della Costituzione e al principio di ragionevolezza (desumibile dall’art. 3 Cost., come reinterpretato), nonché all’art. 117, primo comma, Cost. – quest’ultimo correlato all’art. 6, paragrafo 2, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) – ,devolute dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Palermo, con ordinanza n. 86 del 2020.
L’“antefatto” del sindacato di costituzionalità si appunta sulla disposizione censurata, la quale sarebbe costituzionalmente illegittima nel tratto in cui impone di sospendere l’erogazione del reddito di cittadinanza nei confronti del destinatario (beneficiario o richiedente) a cui è applicata
una misura cautelare personale [3].
La Corte come un memorandum fissa la cornice tematica, ricordando, appunto, che il reddito di cittadinanza rappresenti un particolare beneficio economico, introdotto allo scopo di riordinare il sistema di assistenza sociale e razionalizzare dei servizi per l’impiego, in vista di una più efficace gestione delle politiche attive per il lavoro.
L’art. 2 del d.l. n. 4 del 2019 enumera i requisiti personali, reddituali e patrimoniali per accedere al reddito, che devono sussistere dum pendet: al tempo della presentazione della domanda, e continuativamente, per tutta la durata dell’erogazione.
La lettera c-bis) del comma 1 di tale articolo, in particolare, fissa un requisito c.d. negativo, passandone in rassegna l’arco degli elementi concorrenti: il richiedente il beneficio non deve essere gravato da un provvedimento cautelare personale, ancorché adottato a seguito di convalida dell’arresto o del fermo, o condannato in via definitiva, nei dieci anni precedenti la richiesta, per taluno dei delitti indicati dal successivo art. 7, comma 3.
Nell’ottica retrospettiva della sentenza n. 122 del 2020, la Corte ha anche precisato che il legislatore ha previsto un particolare requisito di onorabilità per la richiesta del reddito di cittadinanza – l’esclusione della soggezione a misure cautelari personali – che (unitamente agli altri requisiti) deve sussistere in una catena temporale, ininterrotta quindi: non solo al momento dell’inoltro della domanda, ma esteso per tutto l’orizzonte temporale dell’erogazione del beneficio economico. Il provvedimento di sospensione in caso di misure cautelari sopravvenute, quindi, «altro non è che la conseguenza del venir meno di un requisito necessario alla concessione del beneficio e rientra per ciò tra i casi in cui la giurisprudenza costituzionale riconosce la legittimità di sospensione, revoca o decadenza, anche attraverso meccanismi automatici».
Pertanto, la sospensione del beneficio non ha una ratio punitiva e sanzionatoria, ma entra in sinossi con gli obiettivi dell’intervento legislativo. Tra l’altro, la stessa sospensione del reddito di cittadinanza non comporta, di per sé, la necessaria privazione in capo al soggetto interessato dei mezzi di sussistenza.
2. Le ragioni del giudice a quo. I caratteri di uno “spoglio”
Il giudice a quo traccia le sequenze di un potere sdoppiato: se con l’adozione della misura coercitiva l’organo corrispondente “consuma” il suo potere cautelare, la sospensione del reddito di cittadinanza acquisito interverrebbe quale proiezione di un subprocedimento consecutivo. Siffatta sospensione, ancorché inquadrata quale sanzione amministrativa, risalirebbe allo ius dicere di un soggetto le cui condizioni di esercizio sono improntate a terzietà, imparzialità ed indipendenza.
Il nomen iuris non può essere vincolante e l’analisi divenire monotematica: la misura è obbligatoria perché non ammette un vaglio devoluto al giudice e potrebbe avere una veste formale amministrativa, contraddetta (o corretta), però, da un piano sostanziale che ne riporta i connotati penali, in linea, in questo processo ricostruttivo, con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha considerato le sanzioni amministrative di natura afflittiva equiparabili a quelle penali [4], con la conseguente vis attractiva dell’applicazione delle relative garanzie (v. la sentenza 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi Bassi).
Si attesterebbe la vistosa portata afflittiva della sospensione del reddito di cittadinanza: rispetto ad un beneficio di matrice assistenziale (distinto dal precedente “reddito di inclusione” [5]) - satisfattivo non solo delle esigenze elementari di sopravvivenza del destinatario lato sensu (perché ricomprende oltre il suo percettore diretto pure il nucleo familiare) ma anche di plurimi diritti fondamentali (“tavolari” per così dire: diritti alla vita, al lavoro, alla famiglia) - risulterebbe e risalterebbe (le due “r”) la finalità punitiva del provvedimento sospensivo, che manterrebbe il cordone ombelicale con l’applicazione della misura privativa in personam, essendone il primo un corollario.
In secondo luogo, il significato afflittivo mutua tale carattere dalla definitività e radicalità - che forse non sarebbe improprio appellare irreversibilità - dello “spoglio” iussu iudicis in quanto pur in seguito alla revoca dell’atto sospensivo gli arretrati non corrisposti non potrebbero essere oggetto
di recupero per sanare il vulnus subito dal beneficiario[6].
In tal modo si aprirebbe una forbice: come il masso di Tantalo, il soggetto attinto sarebbe gravato dal peso di una sanzione “penale in senso sostanziale” “quasi senza limiti”[7] e senza che sia stato aperta ed attivata la garanzia del contraddittorio al riguardo, neppure ex post. Opererebbero automatismi applicativi, per un provvedimento “non disputabile” cioè inoppugnabile, emesso de plano. Non sarebbe ammessa la fase dell’impugnazione, né avanti il giudice amministrativo - ostandovi la carenza di un atto formalmente amministrativo - né avanti il Tribunale del riesame, la cui cognizione può devolversi solo relativamente a doglianze concernenti la misura cautelare.
Al riguardo, si noti che un recente arresto giurisprudenziale di merito ha stabilito il principio di diritto secondo cui i regolamenti e gli atti amministrativi generali sono impugnabili ove contengano disposizioni in grado di ledere in via diretta ed immediata le posizioni giuridiche soggettive dei
destinatari[8].
Sul piano della rilevanza della questione di incostituzionalità, l’organo territoriale precisa che l’ordinanza che la riguarda deriva dall’applicazione, ai sensi dell’art. 282-bis c. p. p., della misura cautelare personale di divieto di avvicinamento alle aree frequentate dalla persona offesa dal reato per fatto di maltrattamento in famiglia, punito dall’art. 572 c. p.[9]
Nel corso dell’interrogatorio ex art. 294 c.p.p. la persona assoggettata ha dichiarato di essere titolare
del reddito di cittadinanza[10].
3. Il potere cautelare coinvolto è eccezionale
La norma colpisce il titolo, del beneficiario o del richiedente il reddito di cittadinanza[11] nei cui confronti è stata applicata una misura cautelare personale, pure subentrata a seguito di convalida
dell'arresto[12] o del fermo, o che risulti condannato con sentenza non definitiva per taluno dei delitti
indicati all'art. 7, comma 3. In tali casi, l'erogazione del beneficio di cui all'art. 1 deve essere sospesa. La norma che assume rilievo (nella fattispecie tratta nel giudizio di costituzionalità considerato) è l’art. 282-bis (Allontanamento dalla casa familiare) inserita nella classe delle misure coercitive (capo II del libro IV, Misure cautelari) e nella collana degli artt. 281 (Divieto di espatrio), 282 (Obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria), 282-bis, 282 ter (Divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa), 283 (Divieto e obbligo di dimora), 284 (Arresti domiciliari), 285 (Custodia cautelare in carcere), 285-bis (Custodia cautelare in istituto a custodia attenuata per detenute madri), 286 (Custodia cautelare in luogo di cura), 286-bis (Divieto di custodia cautelare)[13].
La vicenda cautelare è ricompresa, tipicamente, nella fase prodromica (e fluida) delle indagini preliminari condotte dal Pubblico Ministero, mentre l’emanazione della sentenza di condanna attiene all’epilogo del procedimento di primo grado e alla fase propriamente di merito (e stabile) del giudizio (sull’accusa formulata). La latitudine della norma è ad amplissimo raggio poiché l’intervento ablativo, denominato “sospensione”, come un compasso, segna l’intero excursus del primo grado dell’accertamento penale sulla imputazione.
Nella fase delle indagini preliminari, però, sussiste solo una protoaccusa, e vige sempre il principio della presunzione di non colpevolezza [14].
Sedes materiae: seguendo una ordinata proprietà distributiva, è il libro IV del codice di procedura penale riformato (che, appunto, soppianta il Codice Rocco del 1930) che ospita la disciplina dell’esercizio del potere limitativo delle libertà individuali, esteso alla disponibilità dei beni. Tale partizione interna, riunita sotto il paradigma della “cautelarità”, potrebbe riguardarsi come il “libro delle soggezioni”, il più nevralgico[15] perché tocca prerogative costituzionali (art. 13 Cost.), la libertà personale, storicamente intesa come “libertà dagli arresti”[16] o (alla Mortati) «inviolabilità dagli arresti», il diritto al writ of habeas corpus e innesta vicende detentive durante il procedimento penale. Siffatto innesto - si ribadisce - è inserito nella prima fase del rito, nel quadro di un disegno ternario (indagine preliminare, omonima udienza[17], giudizio nella cui sfera è prevista l’istruzione acquisitiva della prova, dialetticamente ed oralmente elaborata, nel contraddittorio garantito). In questo assetto spicca la salvaguardia del rispetto del «principio di “giurisdizionalizzazione” delle misure cautelari…della loro sottoponibilità a “riesame” anche nel merito, in contraddittorio fra e parti, davanti ad un organo collegiale»[18].
4. Carenza di uno spatium deliberandi per il giudice e omologazione di due previsione assai lontane per identità e per fasi processuali
Proprio la giurisdizionalità, in precedenza evocata, è la categoria che risulta intaccata nell’attento scrutinio di costituzionalità del giudice a quo, del Tribunale ordinario di Palermo, ancorché il codice riformato abbia fatto del giudice una figura di vertice e primaria, con la sua norma di apertura, all’art. 1, riservata alla “giurisdizione penale”[19].
Infatti, l’automatismo applicativo della sospensione della erogazione del reddito toglie terreno ad un possibile “sindacato” del giudice, che volesse ad esempio utilizzare elementi raccolti durante l’interrogatorio dall’indagato per non sospendere tale erogazione o semplicemente ridurla (in ipotesi, non dispensabile per l’interessato, che non gode di altri redditi, e per quello spirito di solidarietà che caratterizza ed anima la normativa sul reddito). Il divario appare rilevante: la sospensione risale all’esercizio di un potere solo dichiarativo che la legge attribuisce al giudice quale semplice longa manus del precetto di legge, privo di un proprio vaglio che la fattispecie concreta potrebbe richiedere di operare.
La misura cautelare e la somministrazione del reddito hanno rationes del tutto autonome e diverse, penale ed amministrativa, che però confluiscono su un unico soggetto, mentre ratione materie risalgono, soggettivamente, al giudice penale e all’ente amministrativo (l’INPS). Lo ius dicere è, così, vuoto, specialmente nella parte normalmente dedicata alla motivazione: esprimerlo senza un proprio potere di giudizio, però, non è tipico del giudice. Non c’è provvedimento del giudice senza decisione, senza vaglio (cioè, vaglio della fattispecie) e senza motivazione che impegna il magistrato a render conto del potere esercitato.
Né può dirsi che tale vaglio non occorra perché è già considerato alla fonte (vaglio “ritenuto” alla fonte, in ipotesi) cosicché è inutile ripeterlo alla foce, ciò perché alla prima è estranea, per definizione, la cognizione e il trattamento della fattispecie concreta. Questa, la sua analisi, è affidata per legge alla funzione del giudice, e non presunta, per non residuare la robotizzazione del giudice. Il suo ius dicere sarebbe un moto apparente, estensibile al limite massimo di ritenere il provvedimento caducatorio, sostanzialmente, come emesso a non iudice, quando residua l’astrattismo della giurisdizione penale, la cui «funzione è il ponte di passaggio dall’astratto al concreto, dalla legge penale all’esecuzione della legge penale»[20].
L’art. 7-ter. del D.L. 28 gennaio 2019, n. 4, commina la sanzione della “Sospensione del beneficio in caso di condanna o applicazione di misura cautelare personale” (in rubrica) [21]. Al comma 1 è previsto che la sospensione abbraccia, indifferentemente, sia il destinatario di una misura cautelare personale che il soggetto «condannato con sentenza non definitiva per taluno dei delitti indicati all'articolo 7, comma 3».
La norma si presta a due rilievi, riassuntivamente: a) nello stesso trattamento sospensivo, promiscuamente, confluiscono e finiscono sia l’indagato che il condannato, così accomunati, cui corrispondono, però, situazioni identitarie (notevolmente) distinte e distanti tra loro, per i due diversi titoli (procedimentale il primo, processuale il secondo, ciò per scandire le fasi) a cui fanno capo i due soggetti assai lontani nello spazio del rito penale; precisamente, in ordine alla persona sottoposta alle indagini preliminari del pubblico ministero, custodia per cautela in una fase preprocessuale ed endoprocedimentale[22] caratterizzata dalla scrittura e, relativamente all’imputato-accusato, condanna per accertamento in giudizio, esclusivamente nel cui ambito è prevista la sottofase della istruzione e all’interno del dibattimento garantito dai principi del pieno contraddittorio, dall’oralità, dalla pubblicità e dall’immediatezza (rapporto di identità tra l’organo dell’acquisizione della prova e della decisione), e a parte quello della concentrazione;
b) come il vecchio mandato di cattura (art. 253) del codice di rito inquisitorio del 1930 [23], la sospensione è automatica ed agganciata a predeterminati nomina criminis: «i reati di cui ai commi 1 e 2 e per quelli previsti dagli articoli 270-bis, 280, 289-bis, 416-bis, 416-ter, 422 e 640-bis del codice penale, nonché per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo».
5. Precedenti costituzionali e della Cassazione. Art. 282-bis c.p.p. e la corrispondente linea (securitaria) di interdizione
Prima della nota riforma Vassalli, l’art. 253 c. p. p 1930, in rubrica, prevedeva « Casi nei quali il mandato di cattura è obbligatorio », enumerandoli nel dettato normativo[24]. La Corte costituzionale veniva investita da una specifica questione proveniente dal giudice istruttore del Tribunale di Bologna[25] (notoriamente, il vecchio giudice istruttore[26] con la riforma del 1988 è stato sostituto dall’attuale giudice per le indagini preliminari[27] e l’istruzione “per la prova”[28], soppiantata dalle indagini preliminari del P.M., è stata spostata in avanti, inserita nel giudizio, l’ultima fase del procedimento di primo grado). Questi eccepiva il contrasto costituzionale dell’art. 253 del codice Rocco con gli artt. 3, primo comma, 13, primo e secondo comma, 25, terzo comma, 27, secondo comma, e 104, primo comma, della Costituzione, argomentando che il mandato di cattura se fosse stato facoltativo ne sarebbe stata preclusa l’emissione, per l’impossibilità di motivarlo con riferimento ad esigenze probatorie, alla consistenza criminosa del fatto di reato, all’allarme sociale, al pericolo di fuga. Venendo meno per il giudice l'apprezzamento calato sull’esigenza di evitare l’inquinamento del bagaglio probatorio, la sua indipendenza sarebbe stata minacciata (art. 104, primo comma, Cost.). Rilevava la gravità dell’imputazione, più che la gravità indiziaria, la prima indice di una presunzione assoluta di pericolosità[29].
Proprio sul dovere di rendere una motivazione ad hoc, con sentenza n. 64 del 1970, la Corte costituzionale (che richiama la sentenza della Corte n. 68 del 1967), ha dichiarata fondata la quaestio sull’art. 253 cod. proc. pen. 1930 nella parte in cui esclude l'obbligo della motivazione in ordine ai sufficienti indizi di colpevolezza (in applicazione dell'art. 111 Cost.). Scrive la Corte: « la Corte non dubita che dal sistema vigente, correttamente interpretato, sia da ricavarsi il principio generale in forza del quale tutte le volte in cui la legge affida al giudice il potere di valutare determinate circostanze, al fine della emissione di un provvedimento processuale, tale valutazione debba essere oggetto di motivazione»[30].
La Corte Costituzionale, con sentenza n. 253 del 18 luglio 2003, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 222 del Codice penale (Ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario), «nella parte in cui non consente al giudice, nei casi ivi previsti, di adottare, in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, una diversa misura di sicurezza, prevista dalla legge, idonea ad assicurare adeguate cure dell’infermo di mente e a far fronte alla sua pericolosità sociale». Il remittente aveva denunciato il rigido “automatismo” della regola legale che impone al giudice, in caso di proscioglimento per infermità mentale per un delitto che comporti una pena edittale superiore nel massimo a due anni, di ordinare il ricovero dell’imputato in ospedale psichiatrico giudiziario per un periodo minimo di due anni, o per un periodo più lungo in relazione all’entità della pena edittale prevista, senza attribuirgli uno “spazio” entro cui potesse disporre, alternativamente, misure diverse [31].
Del pari: nel caso, oggetto della presente analisi, dell’art. 7 ter cit. sul “RdC”, nel “pendolo” del binomio custodia cautelare-condanna in primo grado, quoad effectum, lo sbocco sarà, in blocco, un provvedimento totalmente ablativo (il nomen iuris è sospensione), senza possibilità, appunto, di declinarlo e regolarlo in dipendenza di casi che sarebbe proporzionato trattare con scelte non radicali. Per esempio, stante la illustrata ratio dell’art. 1 della legge, che si tratta di un strumento d’elezione per combattere la povertà, le stesse tavole della legge potrebbero prevedere un meccanismo flessibile, a fisarmonica, secondo cui sarebbe dato al giudice il potere (oltre che di annullare anche) di ridurre la misura del RdC o applicare il “contrappasso” di una misura (di natura totalmente extrasospensiva[32], improntata al primum vivere[33]) socialmente utile, sul piano dei servizi nel territorio. Sarebbe palese il riequilibrio dell’ordinamento, nel sottosistema cautelare il cui impianto è stato concepito secondo uno “statuto di proporzionalità” dettato all’art. 275, comma 2,c. p. p. (Criteri di scelta delle misure): «Ogni misura deve essere proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che sia stata o si ritiene possa essere irrogata»[34]. Nel solco di tale criterio, si renderebbe non irriducibile il divario tra revisione del beneficio del reddito di cittadinanza e conservazione di un presidio al depauperamento e all’emarginazione sociale.
Con la sentenza n. 253 del 2019, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975 (“Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”), «nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis del codice penale e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ordin. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti». Si era precisato da parte del giudice a quo che il Tribunale di sorveglianza aveva ritenuto non accessibile il beneficio domandato in quanto precluso dai titoli di reato, trattandosi di delitti tutti ricompresi nel protocollo dei reati ostativi ex art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. e non risultando condotte di collaborazione con la giustizia rilevanti ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit., richiamato dallo stesso art. 4-bis. Con ordinanza del 20 dicembre 2018, la Corte di cassazione aveva sollevato questioni di legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3 e 27 della Costituzione, dell’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 e aveva fatto un richiamo della giurisprudenza della Consulta sugli “automatismi” nell’applicazione delle misure cautelari personali[35] (con l’emanazione della l. 28 luglio 1984, n. 398, sulla diminuzione dei termini di carcerazione cautelare e la concessione della libertà provvisoria, e della l. 5 agosto 1988, n. 330, sulla nuova disciplina dei provvedimenti restrittivi della libertà personale nel processo penale, si andò, a tappe, sfaldandosi il dualismo cattura facoltativa/cattura obbligatoria e nella direzione dell’abbandono della politica degli automatismi applicativi, nel “cammino delle riforme”[36]).
Per quanto riguarda la Corte di cassazione, può citarsi una decisione del 2019[37] - successiva alla decisione della Consulta 2019 n.24 (nella doppia lettura con Cass., sent. 2021, n. 20156[38]) che ha estromesso dall’appartenenza alla classe della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e della confisca di prevenzione (artt. 4 e 16 cod. ant.) i soggetti abitualmente dediti a traffici delittuosi (art.
1, lett. a, cod. ant.) a causa della sua «radicale imprecisione» [39], e dopo la decisione c.d. De Tommaso della Corte europea[40] - secondo cui «deve concludersi che, a discapito del tenore del D.Lgs. n. 159 del 2011,art. 8, comma 4, e dell'apparente automatismo dell'applicazione delle prescrizioni che sembrerebbe discendere dalla littera legis, la lettura costituzionalmente e convenzionalmente orientata della norma non possa non condurre a subordinare l'adozione delle restrizioni a specifiche e verificate condizioni ». Per quanto d’interesse in questa sede nel richiamo dell’art. 282-ter c. p. p. (misura cautelare personale di divieto di avvicinamento alle aree frequentate dalla persona offesa al reato, nel tratto comune con l’art. 282-bis c. p. p.) la stessa Cassazione scrive che «analoghe considerazioni valgono anche con riguardo all'obbligo del proposto di permanenza nell'abitazione in orario notturno, non essendo revocabile in dubbio che esso si risolva in una compressione della libertà di circolazione dell'individuo. Ne discende che – al pari del divieto di partecipare a pubbliche riunioni – detto obbligo debba motivatamente correlarsi alle specificità della ritenuta pericolosità sociale del proposto… e si renda pertanto necessaria, nel singolo caso concreto, in funzione delle obbiettive esigenze di controllo del proposto»[41].
L’art. 282-bis c. p. p. trova posta per via dell’innesto introdotto dall’art. 1, comma 2, della l. 4 aprile 2001, n. 154, cosicché il compendio delle misure coercitive [42] ha acquisito nel suo seno la misura dell’allontanamento dalla casa familiare (removal from the marital home). In tal modo, «l’art. 282 bis c. p. p. prevede una misura coercitiva introdotta successivamente all’entrata in vigore del codice di rito (dalla l. 4 aprile 2001, n. 154), consistente nell’allontanamento dalla causa familiare imposto dal giudice con il provvedimento cautelare che contiene anche il divieto di farvi rientro o di accedervi senza autorizzazione»[43], precisandosi che «la misura è stata introdotta nel solco di un intervento legislativo comprendente un più ampio ventaglio di “misure contro la violenza nelle relazioni familiari”»[44], aggiungendosi una «nuova cautela»[45].
Si tratta di un obbligo di facere (misto a non facere [46]), nella forma di un atto di desistenza che si sdoppia nel dettato normativo: la prescrizione destinativa rivolta all’imputato ha ad oggetto il divieto di permanenza nella casa familiare e quindi il suo esodo o allontanamento iussu iudicis oppure quello di rientrarvi sine titulo, cioè in assenza di un nulla osta (autorizzazione, nel linguaggio del codice). Prescrizione (articolata al secondo comma della norma nella figura di “sbarramento ambientale” del divieto di avvicinamento in luoghi frequentati dalla persona offesa) ed autorizzazione sono di fonte giurisdizionale. Il giudice, infatti, dispone siffatte limitazioni, trattandosi di una specie di “foglio di via obbligatorio”[47], dato che, per assimilazione, si traducono in un atto ostativo alla libera circolazione individuale[48] (pericula libertatis), altrimenti pericolosa e di pregiudizio[49] alla pacifica convivenza[50]. Così la vittima del reato - esercitando il suo potere di “veto locativo” (primum non nocere) - riceve immediata tutela dall’ordinamento[51] mediante un visibile “scudo ambientale” o schermo protettivo[52], «in funzione di dissuasione dei componenti la collettività dalla commissione di azioni atti a ledere i diritti fondamentali»[53]. Si traccia, così, una linea securitaria di interdizione spaziale illico et immediate, che possiamo appellare distantia loci [54] (e abduttivo il corrispondente provvedimento), un argine “di prossimità” alla libertà di incontrollata locomozione (altrimenti irriducibile) quando sbocca in atti violenti[55] e “percussivi”[56], espressione di un’azione perturbatrice[57]. Tuttavia, «nulla è previsto, a differenza delle altre misure (cfr. art. 98 disp. att.) con riferimento alla cessazione della misura dell’allontanamento della casa familiare»[58].
Riassuntivamente, si è al cospetto di un atto bicefalo: “cautelare” nel tratto oblativo dell’ombrello protettivo aperto per la vittima-persona offesa, “privativo” o impositivo in quello ablativo del forzoso allontanamento domestico (l’abduzione ex lege).
6. Ne procedat iudex ex officio: non rispettato il modello del c.d. processo di parti e mancante la previsione di uno ius ad loquendum
Il tessuto dell’iter di Corte cost. sent. 23 giugno 2021, n. 126 è integrato dal richiamo dell’art. 7-ter cit. (Sospensione del beneficio in caso di condanna o applicazione di misura cautelare personale). Un richiamo sine glossa, per l’incidenza assorbente dell’intervenuta misura cautelare personale, senza interrogarsi la norma (regolativa di una fattispecie a più versanti) se il subprocedimento - dotato quindi di una relativa autonomia - rispetti il c.d. principio della domanda, o si concluda de plano[59].
Al riguardo, nel “palcoscenico” del nuovo processo penale le leve del rito appartengono alle parti e quindi sono rari i casi in cui il giudice si “autoinveste”, come avviene nella norma per eccellenza di tale potere officioso, dell’art. 507 c. p. p. Domina l’opposto principio dispositivo e devolutivo, già partendo dall’esercizio dell’azione penale assegnata al pubblico ministero (art. 112 Cost.). Tale disegno orizzontale “procedimentalizzato”[60] improntato alla «logica del processo di parti» [61], e non verticistico, non risulta, nello specchio dell’art. 7 cit., rispettato con la previsione della sospensione automatica, secca, a prescindere da una richiesta del P.M. Manca nel subprocedimento dell’art. 7 cit. il tratto dialettico (e quindi la trama dell’audiatur altera pars) e partecipativo, ellitticamente declinato in absentia [62].
Un iter così involuto o sincopato è il prodotto di una pianificazione in sommo grado, cioè al vertice legislativo, che non ha lasciato nessuno spazio di discrezionalità non solo all’organo tipico che la esprime ed esercita - qual è il giudice, che recita in tal modo una “giurisdizione senza cognizione”[63] - ma neppure alle parti, che tracciano ed incardinano con le loro iniziative un ordine geometrico, quello del c.d. processo di parti, in rapporto di filiazione con il modello accusatorio. Il deficit rilevante è lo ius ad loquendum, riconoscibile - una specie di “contraddittorio di base”[64] all’interessato anteriormente alla sospensione del reddito di cittadinanza. La Corte europea, in altra occasione, lo chiama “specifico onere di audizione”[65]. L’interrogativo, a questo punto, è se siano state rispettati i canoni che presiedono al c.d. giusto processo, ai sensi dell’art. 111 Cost., che esalta il valore del contraddittorio.
Manca, altresì, un rapporto di filiazione “materiale” (cioè ratione materiae) tra il provvedimento coercitivo applicato (prius) e il reddito di cittadinanza caducato in conseguenza del primo (posterius).
Vero è che «nessun modello aderisce perfettamente ai fatti»[66], ma in questo caso il divario e assai ampio.
Per esempio, nel Decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), è inserito l’art. 4 (Ingresso nel territorio dello Stato) che al comma 2 espressamente prevede: «La presentazione di documentazione falsa o contraffatta o di false attestazioni a sostegno della domanda di visto comporta automaticamente, oltre alle relative responsabilità penali, l’inammissibilità della domanda». Quindi è sanzionata con l’inammissibilità dell’istanza, quella fraudolenta.
Del pari, solo una mala gestio del reddito di cittadinanza, dei canali d’accesso e delle modalità di cui si avvale il percettore, potrà “dire” della congruenza rispetto all’atto di ritiro di cui è espressione la perdita del beneficio, ma non quale corollario dell’applicazione di una misura coercitiva extrareclusiva, come nel caso trattato da Corte Costituzionale, sent. 23 giugno 2021, n. 126 (relativo all’art. 282 bis c.p.p.). Tornando al diritto dell’immigrazione, si cita una norma che garantisce lo straniero maggiormente rispetto al cittadino italiano che perde il reddito di cittadinanza non solo in seguito ad un accertamento di merito dettato in sentenza, ma pure nell’ipotesi in cui questa manchi e ancor prima, in costanza di un provvedimento coercitivo, emesso quindi (per definizione) rebus sic stantibus. Invece, per lo straniero vale il D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394, Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, che all’art. 6 bis (Diniego del visto d`ingresso) stabilisce: «1. Qualora non sussistano i requisiti previsti nel testo unico e nel presente regolamento, l'autorità diplomatica o consolare comunica allo straniero, con provvedimento scritto, il diniego del visto di ingresso, contenente l'indicazione delle modalità di eventuale impugnazione. Il visto di ingresso è negato anche quando risultino accertate condanne in primo grado di cui all'articolo 4, comma 3, del testo unico»[67]. Dunque, stabili sentenze e non provvedimenti ante causam, provvisori, quelli coercitivi de libertate, eccezionali[68]. Appunto perché eccezionali dovrebbero essere di stretta interpretazione, insuscettibili di valicare il significato penale e libertario, all’origine di provvedimenti impositivi che “veicolano” un trattamento in peius, un sacrificio che - si ribadisce - non si pone in stretto contatto “materiale” con le regole che presiedono il campo cautelare.
Neanche è previsto un preavviso di ritiro del beneficio reddituale, in ambito endoprocedimentale e sul presupposto del carattere amministrativo dell’atto[69] (dovendo il ritiro essere comunicato all’INPS e questi farlo proprio).
7. (All’orizzonte) “il legislatore-giudice”
La disamina che precede, pone in luce, affacciandosi all’orizzonte, al figura di un legislatore-tuttofare, ad ampio raggio, promotore della regola e codificatore ed autore (o almeno coautore) di quella applicata, nessun spazio di apprezzamento della fattispecie concreta residuando e riconoscendosi al giudice così “spogliato” e confinato ad una operazione solo dichiarativa, nel cui ambito, al pari di un velo giuridico, si esaurisce il suo “dire” e che dovrebbe essere, invece, ius dicere[70], cioè regola concreta applicata dal giudice insieme al suo rigoroso ed autentico scrutinio. Infatti, l’art. 7-ter. del D.L. 28 gennaio 2019, n. 4, stabilisce la sanzione della “Sospensione del beneficio in caso di condanna o applicazione di misura cautelare personale” (in rubrica), quella “espulsiva”[71] . Al comma 1 è previsto che alla sospensione è assoggettato, invariabilmente, sia il destinatario di una misura cautelare personale che il soggetto «condannato con sentenza non definitiva per taluno dei delitti indicati all'articolo 7, comma 3»[72].
L’opus del legislatore è completamente esaustivo, di carattere antidevolutivo dell’esercizio del potere giurisdizionale: “a valle” il giudice è, si conseguenza, privo di un vaglio della stessa ratio della norma che getterebbe luce sulla regola applicabile. Recentemente, il giudice di merito ha riaffermato (il carattere di “provvidenza”) che «il Reddito di Cittadinanza, introdotto con decreto-legge 28 gennaio 2019 n. 4 come misura di contrasto alla povertà, è un sostegno economico finalizzato al reinserimento nel mondo del lavoro e all’inclusione sociale che viene riconosciuto ai nuclei familiari in possesso, cumulativamente, al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell’erogazione del beneficio, di requisiti di cittadinanza, reddito e patrimonio»[73]. Si è osservato e precisato, ad esempio, che «l’allontanamento è una misura cautelare predisposta con particolare riferimento ai reati in materia di violenza delle relazioni familiari, ma non vi è alcuna norma che la riservi a tale categoria criminologica»[74].
Si staglia, così, il ruolo operativo - che potrebbe forse anche appellarsi “bulimia regolativa” - della legge, attestandosi e fissandosi la figura del legislatore-giudice, non meno problematica di quella uguale e contraria di giudice-legislatore, per la forte spinta creativa che la caratterizza[75].
Nella “cruna” della Corte costituzionale - che un ruolo importante «ha avuto per la valorizzazione e per l’attuazione della Costituzione» [76] - è passato indenne un vistoso automatismo applicativo veteroinquisitorio (la sospensiva del RdC calata de plano per l’incidenza assoluta di un provvedimento provvisorio di natura coercitiva), che, in assenza di una specifica mediazione cognitiva (espressione della c.d. garanzia partecipativa), esclude le parti (l’iniziativa e l’apporto), trascurando di considerare che «la parte è una preziosa fonte di informazione di cui i funzionari hanno bisogno per giungere alla decisione giusta»[77] [78].
[1] Riprendendo C. Ghisalberti, Storia costituzionale 1848/1948, II, Roma-Bari, Laterza, 1977, 422: «Il garantismo della costituzione repubblicana appare…in tutta evidenza come il motivo determinante l’intera attività della Costituente». Rinviandosi a R. Bin-G.Pitruzzella, Diritto costituzionale, XII ed., Torino, Giappichelli, 2021, 447, «ricco è il complesso di garanzie attraverso il quale la Costituzione e le leggi cercano di assicurare la “neutralità” della Corte costituzionale e dei suoi giudici». T. Martines, Diritto costituzionale, XV ed., riveduta da G. Silvestri, Milano, Giuffrè, 2020, 486 il quale avverte che «una particolare posizione assume, in seno alla Corte, il suo Presidente».
[2] Corte Costituzionale, sent. 23 giugno 2021, n. 126, in dirittifondamentali.it., 2021. Sul c. d. incidente, v. Bin-Pitruzzella, Diritto costituzionale, cit., 480: «È detto giudizio in via incidentale in quanto la questione di legittimità costituzionale sorge nel corso di un procedimento giudiziario (che viene detto giudizio principale il giudizio a quo), come “incidente processuale”, che comporta la sospensione del giudizio». Proprio sul «procedimento in via incidentale: a) la proposizione della questione», v. Martines, Diritto costituzionale, cit. 497.
[3] L’impulso al giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 7-ter, comma 1, del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, in legge 28 marzo 2019, n. 26, appartiene al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Palermo nel procedimento penale a carico di F. M., con ordinanza 7 ottobre 2019, iscritta al n. 86 del registro ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 29, prima serie speciale, dell'anno 2020.
Lungo una ipotetica linea di displuvio, questa demarca, secondo categorie binarie, il tratto oblativo (il beneficio del reddito di cittadinanza) con quello ablativo (la misura privativa subita, nella forma della sospensione). Simul stabunt, simul cadent: ne beneficia (del reddito) solo chi (insieme ad altri requisiti) non è colpito da un provvedimento cautelare personale o da una sentenza di condanna ancorché non definitiva, per taluni reati.
Sul piano definitorio, v. P. Tonini-C.Conti, Manuale di procedura penale, Milano, Giuffrè, 2021, 439: «Le misure cautelari sono quei provvedimenti provvisori e immediatamente esecutivi, finalizzati ad evitare che il trascorrere del tempo possa provocare uno dei seguenti pericoli:1) pericolo per l’accertamento del fatto storico; 2) pericolo per l’esecuzione della sentenza; 3) pericolo che si aggravino le conseguenze del reato o che venga agevolata la commissione di ulteriori reati. Le misure cautelari…comportano la limitazione di alcune libertà fondamentali». Sul «contenuto dei diritti fondamentali», si rinvia a A. Balsamo, in Manuale di procedura penale europea, a cura di R. E. Kostoris, Milano, Giuffrè, 2019, 121 ss., mentre in materia di misure cautelari, v. G. Spangher, Inquadramento generale, in Aa. Vv., Manuale teorico-pratico di diritto processuale penale, Padova, Cedam, 2018, 670.
[4] V. Corte cost., 18 gennaio 2022, n. 8: «Le esigenze costituzionali di tutela non si esauriscono nella tutela penale, ben potendo essere soddisfatte con altri precetti e sanzioni: l’incriminazione costituisce anzi un’extrema ratio, cui il legislatore ricorre quando, nel suo discrezionale apprezzamento, lo ritenga necessario per l’assenza o l’inadeguatezza di altri mezzi di tutela (sentenza n. 447 del 1998; in senso analogo, con riferimento all’abrogazione del reato di ingiuria, sentenza n. 37 del 2019; si vedano pure la sentenza n. 273 del 2010 e l’ordinanza n. 317 del 1996)». Illogiche le discriminazioni per l’accesso al Reddito di cittadinanza e all’Assegno unico universale, Contrasto alle discriminazioni, in ASGI, 23 settembre 2021.
In dottrina, v. R. Affinito-M.M.Cellini, Il reddito di cittadinanza tra procedimento amministrativo e processo penale, in Sist. pen., 13 settembre 2021. Quando una sanzione extrapenale è troppo elevata somiglia ad una pena, su cui v., recentemente, E. Dolcini, La pena dell’ordinamento italiano, tra repressione e prevenzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2021, 383.
[5] Corte cost., sent. 25 gennaio 2022, n. 19, Pres. Coraggio – Red.: De Pretis, in Immigrazione.it., 15 febbraio 2022 (commento di C. Morselli, Prime note sul reddito di cittadinanza subordinato al possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo: la Consulta chiude la forbice del sollevato conflitto internormativo, lasciando aperta la porta agli interrogativi): «Rispetto al precedente istituto del reddito di inclusione, dunque, il reddito di cittadinanza si caratterizza per una spiccata finalizzazione all'inserimento lavorativo e per un più stringente meccanismo della condizionalità, cioè per un'accentuazione degli impegni assunti dai beneficiari. Inoltre, rispetto al reddito di inclusione il reddito di cittadinanza è destinato a una platea più ampia di beneficiari, in quanto è prevista una soglia economica d'accesso più alta (art. 2, comma 1, lettera b). Per altro verso, come visto, il d. l. n. 4 del 2019, come convertito, ha previsto un forte allungamento del periodo necessario di residenza in Italia (da due a dieci anni)».
[6] D’altra parte, invece, v., con altra direzione, Cass., sez. un., 19 dicembre 2006, n. 57, in C. E. D. Cass., n. 234955: «Il provvedimento di confisca deliberato ai sensi dell'art. 2-ter, comma terzo, L. 31 maggio 1975 n. 575 (disposizioni contro la mafia) è suscettibile di revoca “ex tunc” a norma dell'art. 7, comma secondo, L. 27 dicembre 1956 n. 1423 (misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), allorché sia affetto da invalidità genetica e debba, conseguentemente, essere rimosso per rendere effettivo il diritto, costituzionalmente garantito, alla riparazione dell'errore giudiziario, non ostando al relativo riconoscimento l'irreversibilità dell'ablazione determinatasi, che non esclude la possibilità della restituzione del bene confiscato all'avente diritto o forme comunque riparatorie della perdita patrimoniale da lui ingiustificatamente subita». V. Cass., sez. un., 29 maggio 2014, n. 42858, in Dir. pen. cont., 17 ottobre 2014 (commento di G. Romeo, Le sezioni unite sui poteri del giudice di fronte all’esecuzione di pena “incostituzionale”), secondo cui (per le conseguenze della sentenza di Corte cost., sent. n. 32 del 2014, in giurisprudenzapenale.it, 6 marzo 2014), sul bilanciamento tra il vincolo della intangibilità del giudicato e l'esecuzione di una decisione penale rivelatasi ex post illegittima, ha sancito il potere-dovere del giudice dell'esecuzione di incidere sul giudicato. Contra, Cass., sez. I, 1 aprile 2019, n. 27696, in C. E. D. Cass., n. 275888, che nega la competenza del giudice dell'esecuzione. V., sullo stesso tema, Cass., sez. II, 13 ottobre 2010, n. 33641, ivi, n. 279970.
[7] In tema di sequestro ai fini di confisca per equivalente, va assicurato al soggetto nei cui confronti è stato disposto il vincolo cautelare reale un limite, desumibile dai principi fondamentali di proporzionalità e di solidarietà (Cass., sez. III, 13 gennaio 2021, n.795, in Proc. pen. giust., 2022). Spetta sempre al giudice nazionale scegliere la misura secondo i criteri previsti dall’art. 275 c. p. p., facendo riferimento ai principi di proporzionalità e adeguatezza (Cass., sez. IV, 20 ottobre 2021, n. 37739, ivi).
[8] V. T. A. R. Campania – Napoli -, sez. I, sent. 30 settembre 2021, n. 6131, in Il Merito, febbraio 2022, n.2, 68. Analogamente, ma più restrittivamente, v. T. A. R. Campania – Napoli -, sent. 30 settembre 2021, n. 6079, ivi.
«Come fu detto con felice immagine da Calamandrei, il giudizio comune è “l’anticamera” della Corte e il giudice, davanti al quale esso pende, è il soggetto cui spetta di aprire o no il “portone” che dà accesso alla Corte costituzionale»: cfr. V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, vol. II, tomo 2 (L’ordinamento costituzionale italiano – la Corte costituzionale), Padova, Cedam,1984 (V ed.), 263. Si è pure detto che il giudice comune trova posto in una «posizione di intermediarietà tra la sfera politica e quella dei diritti individuali» (G. Zagrebelsky e V. Marcenò, Giustizia costituzionale, Bologna, Il Mulino, 2012, 269. Recentemente, v. Bin-Pitruzzella, Diritto costituzionale, cit., 481, sui requisiti oggettivo e soggettivo «ritenuti necessari dalla giurisprudenza costituzionale perché un organo possa considerarsi legittimato a sollevare la questione di costituzionalità»). In precedenza, v. P. Caretti-U. De Siervo, Diritto costituzionale e pubblico, IV ed.,Torino, Giappichelli, 2020, 446 sulla «iniziativa di un giudice comune».
Obietta A. Natale, Il giudice comune, servitore di più padroni, in Quest. giust., 2020: «Nel corso degli anni, le questioni di legittimità costituzionale sollevate dai giudici comuni (piccoli o grandi che fossero) sono state sempre più spesso bollate dalla Consulta con il marchio dell’inammissibilità… nel 2010, su 211 giudizi promossi in via incidentale, ben 113 sono stati decisi con ordinanza di manifesta inammissibilità o manifesta infondatezza; nel 2011, su 196 giudizi promossi in via incidentale, ben 129 sono stati decisi con ordinanza di manifesta inammissibilità o manifesta infondatezza; nel 2012, su 141 giudizi promossi in via incidentale, ben 85 sono stati decisi con ordinanza di manifesta inammissibilità o manifesta infondatezza». Il risultato è quello di una «complessiva perdita di effettività del controllo di costituzionalità» (V. Manes, L’evoluzione del rapporto tra Corte e giudici comuni nell’attuazione del volto costituzionale dell’illecito penale, in V. Manes e V. Napoleoni, La legge penale illegittima. Metodo, itinerari e limiti della questione di costituzionalità in materia penale, Torino, Giappichelli, 2019, 1 ss.). Anche nel settore della giustizia di legittimità l’accesso è piuttosto selettivo, ma, da ultimo, v. Corte di giustizia dell’Unione europea, Grande sezione, sent. 21 dicembre 2021 – Causa C/497/20, proc. Randstand Italia SpA contro Umana SpA e altri, in Guida dir., 29 gennaio 2022, n.3, 120, commento di M. Castellaneta, I limiti posti da norma interna al ricorso in Cassazione non contrastano con il diritto Ue (il riferimento è ai limiti posti dall’ordinamento nazionale ai ricorsi). Nel settore del rito penale, v. G. Spangher, Impugnazioni. Inammissibilità: l’inarrestabile erosione dei diritti delle parti, in Dir. pen. proc., 2022, n.1, 6 s. che mette in luce la «selezione delle inammissibilità per controllare i flussi processuali».
[9] Nella nozione di “maltrattamenti” rientrano i fatti lesivi dell’integrità fisica e dell’integrità del patrimonio morale del soggetto passivo, che rendono abitualmente dolorose le relazioni familiari (Trib. pen., Taranto, sez. I, sent.10 agosto 2021, n. 1036, in Il Merito, febbraio 2022, n.2, 41).
Altra forma di divieto è richiamata da Trib. Ferrara, sez. pen., sent. 12 ottobre 2021, n.1201, in Il Merito, febbraio 2022, n.2, 34: il provvedimento di foglio di via obbligatorio deve contenere non solo il divieto di far ritorno nel territorio del Comune di emissione del provvedimento, ma anche l’ordine di rimpatrio in un determinato luogo, prescrizioni che costituiscono condizioni imprescindibili ed inscindibili per la legittima emissione del foglio di via obbligatorio, con la conseguenza che la mancanza di una delle due prescrizioni determina l’illegittimità del suddetto provvedimento e la conseguente insussistenza del reato di cui all’art. 76 co. 3, D.Lgs. 6 settembre 2011, n.159. Infra, nota n. 41, sull’obbligo del proposto di permanenza nell'abitazione in orario notturno.
[10] Cfr. V. Gramuglia, Interrogatorio di garanzia e legislazione dell'emergenza Covid-19 (art. 83, co. 2 d.l. n. 18/2020): tra garanzie difensive e tutela della salute collettiva, in Sist. pen., 17 novembre 2020. In ordine agli «strumenti cautelari e precautelari» , v. A. De Caro, in Manuale di diritto processuale penale, III ed., AA. VV., Torino, Giappichelli, 2018, 335 ss. Sull’interrogatorio dell’indagato, da ultimo, v. Cass, sez. un., 24 marzo 2022 (ud. 16 dicembre 2021), n. 10728, Pres. Cassano, Rel. Andronio, in Giur. pen., 28 marzo 2022.
[11] Il reddito di cittadinanza nella pratica ha fatto emergere i suoi allarmanti limiti, per la facile possibilità di “lucrarlo” anche da parte di soggetti del tutto atipici (rispetto ai tratti del soggetto abilitato, al perimetro delimitato), aggirando le barriere selettive. “Truffa da 20 milioni di euro. Furbetti del reddito di cittadinanza incastrati dai carabinieri: dal nullatenente in Ferrari all’autonoleggiatore con 27 auto. Nella maxioperazione del comando interregionale Ogaden scovati proprietari di numerosi immobili. C’è persino chi ha millantato di avere sei figli. Rilevate 4.839 irregolarità. Nel 2021 più di 40 milioni indebitamente percepiti”, in Il Sole 24 Ore, 3 novembre 2021.
V. Torino, reddito di cittadinanza: truffa da 6 milioni, 960 indagati, in Corriere di Torino, 8 febbraio 2022; Reddito di cittadinanza, maxi truffa da 6 milioni a Torino: 960 indagati, 330 sono romeni. Dichiaravano dati falsi e residenze inesistenti, in Il Messaggero, 8 febbraio 2022. Altresì, v. La truffa da 21 milioni di euro sul reddito di cittadinanza. Sono state fatte migliaia di richieste a nome di cittadini rumeni mai stati in Italia, e ci sono decine di persone arrestate, in Post., 12 aprile 2022.
[12] Proprio la libertà personale è stata considerata come “libertà dagli arresti” (infra nota 16). Arresto e fermo ricevono la comune definizione di “misure precautelari”, e che diventano la «due subcautele» nella variante linguistica di F. Cordero, Sub art. 380, in Codice di procedura penale commentato, Torino, Utet, 1992, 449.
[13] Corte Cost., sent. 23 giugno 2021, n. 126, cit.: «1.2.- Ciò premesso, in punto di rilevanza il rimettente precisa che la vicenda alla base dell'ordinanza di rimessione origina dall'applicazione, nei confronti di F. M., della misura cautelare personale del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa ex art. 282-bis cod. proc. pen., in relazione a fatti riconducibili al reato di maltrattamenti in famiglia, di cui all'art. 572 del codice penale».
In dottrina, v. V. Grevi-M.Ceresa Gastaldo, Misure cautelari, in G. Conso-V.Grevi-M.Bargis, Compendio di procedura penale, Padova, Cedam, 2020, 353: «Circa la fisionomia delle diverse misure coercitive…esse appaiono tra loro ordinate in termini di progressiva afflittività…All’interno di questa ideale gerarchia, nella quale si concreata uno strumento evidentemente indispensabile per l’attuazione del principio di adeguatezza (art. 275), si collocano le misure del divieto di espatrio…dell’obbligo di presentazione periodica agli uffici di polizia giudiziaria (art. 282) e dell’allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis), nei casi e secondo le articolate modalità previste dai vari commi dello stesso art. 282-bis». Specificamente, v. C. Taormina, Procedura penale, Torino Giappichelli, 2015, 371, a cui si rinvia: «Adeguatezza. La scelta della misura cautelare…è legata al principio di adeguatezza (art. 275)».
Sulle «misure della permanenza in casa e del collocamento in comunità, previste dal rito minorile», v. Cass. pen., sez. II, 22 novembre 2021 (9 settembre 2021), n. 43899 -Pres. Diotallevi - Rel. Recchione P.G.(diff.) - Ric. M. P. S.r.l, in Dir. pen. proc., 2022, n. 2, 186.V., in dottrina, C. Pansini, Commento agli artt. 21-22 D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, in Aa.Vv.,Codice di procedura penale commentato, a cura di A. Giarda - G. Spangher, V ed., III,Milano, 2017, 1155 ss.
[14] Per uno spunto, da ultimo, v. T.A.R. Campania, sez.I, sent. 31 marzo 2022, n. 21 49, sull’incidenza della condanna non definitiva, in Guia dir., 30 aprile 2022, n.16, 87.
Presunzione di innocenza: v. lo schema di d.lgs. per il compiuto adeguamento alla Direttiva (UE) 2016/343, in Sist. pen., 12 agosto 2021. Il 5 agosto 2021 il Consiglio dei Ministri ha approvato uno schema di decreto legislativo recante “disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della direttiva (UE) 2016/343 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali”. Il provvedimento fa seguito alla legge di delegazione europea 2019-2020 (l. 22 aprile 2021, n. 53).
Cfr. V. Garofali, Presunzione d’innocenza e considerazione di non colpevolezza. La fungibilità delle due formulazioni, in Presunzione di on colpevolezza e disciplina delle impugnazioni, Atti del Convegno, Milano, Giuffrè, 2000, 63; da ultimo v. G. M. Baccari, Le nuove norme sul rafforzamento della presunzione di innocenza dell’imputato, in Dir. Pen. Proc., 2022, n.2, 160: «le nuove regole segnano un fondamentale passo in avanti, sul terreno giuridico e su quello culturale, perché esaltano il valore positivo dalla presunzione di innocenza consacrato in varie fonti normative (art. 48, par. 1, Carta dei diritti Fondamentali UE; art. 6, par. 2, CEDU; art. 27, comma 2, Cost.): un principio ancora oggi misconosciuto dall’opinione pubblica, anche a causa dell’atteggiamento “giustizialista” tenuto troppe volte dai media». V. Presunzione di innocenza: gli orientamenti in materia di “comunicazione istituzionale su procedimenti penali” della Procura Generale della Corte di cassazione, in Giur. pen., 14 aprile 2022.
Corte e.d.u., sez. I, Strasburgo, 18 novembre 2021, Marinoni c. Italia, in Proc. pen. giust., 19 novembre 2021, Foro it., 19 novembre 2021, commento di N. Paolucci, La correzione di tiro della Corte di Strasburgo sulla presunzione di innocenza.
In ordine al primo grado, v.. in dottrina M. Mazza, Contributo all’analisi del giudizio penale di primo grado, Milano, Giuffrè, 1964, 207; A. A. Dalia, Giudizio, in Il nuovo diritto processuale 2, Il giudizio di primo grado, a cura di A. A. Dalia, Napoli, Jovene, 1991, 385; G. Ubertis, Giudizio di primo grado (disciplina) nel diritto processuale penale, in Dig. pen., V, Torino, Utet, 1991, p. 521; G. Olivieri, Giudice unico di primo grado, in Enc. dir., Agg. V, Milano, Giuffrè, 2001, 483; nonché, più recentemente, A. Diddi, Giudizio, in Aa. Vv., Manuale teorico-pratico di diritto processuale penale, Padova, Cedam, 2018, 303.
[15] Tra i primi commentatori, è, specialmente, M. Chiavario, Una “Carta di libertà” espressione di impegno civile: con qualche sgualcitura (è qualche…patinatura di troppo), in Commento al nuovo Codice di procedura penale, coord. da M. Chavario, III, Torino, Utet, 1990, 3, che richiama E. Fassone, La coercizione personale, in Mag Dem, 1978, 14.
[16] Proprio la libertà personale è stata considerata come «libertà dagli arresti», da G. Aamato, Sub art. 13, Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Rapporti civili, Bologna-Roma, Zanichelli,1977, 4, che cita C. Mortati, Relazione alla Assemblea Costituente della Commissione per studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato, istituita presso il Ministero per la Costituente, Studi diritti pubblico subiettivi, ora in Raccolta di Scritti, I, 622, il quale parla di « inviolabilità dagli arresti ».
[17] Presidiati dai due uffici Gip e Gup, su cui v E. Maccora, La specializzazione per materia negli uffici gip-gup di grandi dimensioni, in Quest. giust.,10 febbraio 2022: «L’ufficio gip-gup diventerà quindi sempre di più un anello strategico dell’intero procedimento penale e sarà determinante per mantenere i canoni della ragionevole durata e rispettare le condizioni poste dal PNRR, che verranno valutati nel 2026 ».Cfr. G. Ruta, Verso una nuova istruzione formale? Il ruolo del pubblico ministero nella fase delle indagini preliminari, ivi, 20 gennaio 2022: «La “riforma Cartabia” investe profondamente la fase delle indagini preliminari, incidendo su snodi fondamentali, quali il momento “genetico” dell’iscrizione della notizia di reato e del nominativo della persona cui esso è da attribuire, e il momento “conclusivo” delle determinazioni sull’esercizio dell’azione penale».
Cfr. A. Leopizzi, Le indagini preliminari, Milano, Giuffrè, 2017 e, in giurisprudenza, Cass., sez. IV, 4 maggio 2021, n. 16819, in Proc. pen. giust., 4 maggio 2021.
[18] Così, Chiavario, Una “Carta di libertà” espressione di impegno civile: con qualche sgualcitura (è qualche…patinatura di troppo), in Commento al nuovo Codice di procedura penale, cit. 10.
[19] Art. 1, La giurisdizione penale è esercitata dai giudici previsti dalle leggi di ordinamento giudiziario secondo le norme di questo codice. Al riguardo, tra i primi commentari, in dottrina, coglie l’elemento di novità, rispetto alla passata esperienza codicistica, E. Amodio, Il modello accusatorio nel nuovo codice di procedura penale, in E. Amodio-O.Dominioni, Commentario del nuovo codice di procedura pena, I, Milano, Giuffrè, 1989, XXIX: «Il raffronto tra i due sistemi mette subito in evidenza come il codice del 1988 abbia abbandonato lo schema risalente alla tradizione francese, che collocando in testa al codice la normativa sull’azione penale, riconduce tutta la procedura penale a questo concetto». Altresì, v. V. Grevi, Funzioni di garanzia e funzioni di controllo del giudice nel corso delle indagini preliminari, in AA. VV., Il nuovo processo penale. Dalle indagini preliminari al dibattimento, Milano, Giuffrè, 1989,16, ancorché tautologicamente: «la figura del giudice risulta delineata secondo criteri di accentuata giurisdizionalizzazione». Cfr., recentemente, M. Menna, Soggetti e ruoli, in Manuale di diritto processuale penale, III ed., AA. VV., Giappichelli, Torino, 2018, 71 ss.: «Nel codice di procedura penale, a differenza del Codice Rocco, è centrale il riferimento alla giurisdizione».
[20] O. Vannini, Manuale di diritto processuale penale italiano, agg. da G. Cocciardi, Milano, Giuffrè, 1958, 43.
[21] Articolo inserito dalla legge di conversione 28 marzo 2019, n. 26. L’omessa comunicazione delle variazioni di reddito o del patrimonio, anche se provenienti da attività irregolari o da vincite al gioco, è idonea alla revoca o alla riduzione del reddito di cittadinanza (Cass., sez. III, sent. 15 febbraio 2022, n. 5309). Cfr. A. Preve, La Cassazione sulla disciplina penale in materia di reddito di cittadinanza: cause di riduzione del beneficio e sequestrabilità delle somme di denaro, in Sist. pen., 2 marzo 2022.
[22] P. L. Vigna, Le indagini preliminari, in AA. VV., Il nuovo processo penale, Dalle indagini preliminari al dibattimento, Milano, Giuffrè, 1989, 6 sulla finalità delle indagini « in senso endoprocedimentale…il che sta a significare che, normalmente, tutto ciò che viene raccolto nella fase delle indagini preliminari è utilizzabile solo all’interno di esse ».
[23] G. D. Pisapia, Prefazione, in AA. VV., Il nuovo processo penale, Dalle indagini preliminari al dibattimento, Milano, Giuffrè, 1989, VII, che segnala il passaggio «dall’applicazione di un sistema sostanzialmente inquisitorio, quale è quello al quale si ispira prevalentemente il codice Rocco, ad un processo a struttura accusatoria, come quello delineato dal codice del 1988». Recentemente, A. Scalfati, Obiettivi processuali e modelli giudiziari, in Manuale di diritto processuale penale, AA. VV., Torino, Giappichelli, 2018, 7, si sofferma sui «caratteri essenziali dei sistemi, rispettivamente, inquisitorio e accusatorio…Nei sistemi del secondo tipo, la magistratura…fa i conti con le garanzie individuali».
[24] «1° di delitto contro la personalita' dello Stato per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel minimo a due anni o nel massimo a dieci anni, o una pena piu' grave; 2° di omicidio volontario consumato o tentato, di lesioni personali volontarie gravi o gravissime, di rapina, di estorsione o di sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione; 3° di ogni altro delitto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione per un tempo non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci anni o una pena più grave». Un meccanismo estensivo coinvolgeva, per esempio, il «delinquente abituale, professionale o per tendenza». La relativa dichiarazione darà luogo ad altre conseguenze: «importa l’applicazione di misure di sicurezza», ai sensi dell’attuale art. 109 c.p. Osserva T. Padovani, Diritto penale, Milano, Giuffrè, 2017, 395: «In realtà, in base all’art. 31, L. 663/1986, anche l’applicazione di una misura di sicurezza personale ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza presuppone in ogni caso il previo accertamento giudiziale della pericolosità». Pure G.Marinucci-E.Dolcini-G.L.Gatta, Manuale di diritto penale, P.G., XII ed., Milano, Giuffrè, 2021, 97: «Secondo la disciplina attuale, la pericolosità sociale va sempre accertata in concreto dal giudice. La disciplina vigente non sembra peraltro compatibile con il principio di precisione che impone al legislatore di fare tutto quanto è in suo potere per ridurre al minimo l’arbitrio del giudice nella formulazione del giudizio di pericolosità».
[25] Corte cost., sent.30 gennaio 1974, n. 21, Pres. F. P. Bonifacio, proc. M. Cristalli.
[26] Si ricorda, del vecchio codice, con G. Leone, Manuale di diritto processuale penale, Napoli, Jovene, 1988, 393: «L’istruzione è sommaria o formale. La distinzione tra le due specie d’istruzione si riferisce alla sollecitudine o meno dell’indagine…Fino alla legge 7 novembre 1969, n. 780 la scelta della specie di istruzione era affidata discrezionalmente al procuratore della Repubblica…Con la predetta legge (provocata dalla sent. n. 117 del 1968 della Corte costituzionale) si è introdotto il potere dell’imputato di chiedere la trasformazione dell’istruzione in formale».
[27] E «con questo sistema si è inteso sopperire ad una situazione determinata dalla abolizione della istruzione, segreta e scritta, tipica dei sistemi inquisitori. Ed alla conseguente soppressione della figura del Giudice Istruttore» (G.D.Pisapia, Introduzione, in AA. VV., Lezioni sul nuovo processo penale, Milano Giuffrè, 1990, 9). Pure G. Riccio, Dal giudice istruttore al giudice dell’udienza preliminare: la fase anteriore al dibattimento nella legge-delega, nel progetto preliminare e nella nuova legge-delega, in Ideologie e modelli del processo penale, Scritti, Napoli, E.S.I., 1995, 106, in merito allo «sforzo di riforma sul giudice istruttore». Più recentemente, per un bilancio, v. F. Casibba, Udienza preliminare e controlli sull’enunciato d’accusa a trent’anni dal codice di procedura penale, in Arch. pen., Riv. Quadr., 2019, fac. 3, Pisa, Ius Pisa, 2019,843, che punta il dito sulla «invadenza della prassi…Il legislatore del 1988 aveva, in effetti, riposto un’eccessiva fiducia nella forza delle regole e nella loro capacità di orientare i comportamenti dei soggetti processuali ».
[28] Scrive P. Ferrua, La prova nel processo penale: profili generali, in AA., VV., La prova penale, a cura di P. Ferrua-E. Marzaduri-G.Spangher, Torino, Giappichelli, 2013, 1-2: «Prova è ogni dato che, legittimamente acquisito al processo, sia valutabile dal giudice in ordine a una determinata proposizione da provare» e G. Ubertis, La prova penale. Profili di studi giuridici ed espistemologici, Utet, Torino, 1995, 27 si concentra sull’«elemento di prova, rappresentato da ciò che, introdotto nel procedimento, può essere utilizzato dal giudice come fondamento della sua successiva attività inferenziale».
[29] Si levavano in dottrina forti dubbi di illegittimità, nel filtro ermeneutico della presunzione di non colpevolezza (ex multis, v. E. Amodio, La tutela della libertà personale dell’imputato nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. it. dir. proc. pen., 1967, 864; M. Pisani, La custodia preventiva: profili costituzionali, in Ind. pen., 1970, 192; nonché V. Grevi, Libertà personale dell’imputato e Costituzione, Milano 1976, 131 s.; G. Illuminati, La presunzione d’innocenza dell’imputato, Bologna, Zanichelli, 1979, 52).
[30]«Circa l'obbligo di motivazione imposto dall'art. 13 della Costituzione é da osservare che la dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale dell'art. 253 c.p.p. é sufficiente ad imporne l'osservanza in tutti i casi nei quali la legge - si tratti del codice processuale o di legge speciale - impone l'emissione del mandato di cattura… a prescindere dalla preferibilità di un sistema che demandi sempre al giudice il potere di valutare di volta in volta se il lasciare in libertà l'imputato determini un pericolo di entità tale da giustificarne la cattura e la detenzione» (sent. di Corte cost., n. 64 del 4 maggio 1970, in Giur. cost., 1970. 663; successivamente, sullo stesso tema, v.sentt. 21/74, cit; 19 giugno 1975, n. 146, «dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 148 del codice penale, nella parte in cui prevede che il giudice, nel disporre il ricovero in manicomio giudiziario del condannato caduto in stato d'infermità psichica durante l'esecuzione di pena restrittiva della libertà personale, ordini che la pena medesima sia sospesa»; 14 aprile 1976, n. 88, avvisa che «la detenzione preventiva non ha la funzione di anticipare la pena, applicabile solo dopo l'accertamento della colpevolezza»; 23 gennaio 1980, n. 1, allorché «risulta vulnerata la presunzione di non colpevolezza dell'imputato, la quale impedisce - fino alla sentenza definitiva - di considerare l'imputato come sicuramente responsabile dei reati a lui attribuiti»). In tema, da ultimo, v. Cass., sez. IV, 4 febbraio 2022, n. 3938 quando i ricorrenti con «il quarto motivo censurano il vizio di motivazione» e Cass., sez. V, sent. 10 febbraio 2022, n. 4930, in Norme & Trib., 10 febbraio 2022 allorché «la motivazione del provvedimento impugnato risulta esaustiva e priva di contraddizioni ed illogicità e che in essa si dà anche atto dei vari riscontri che assistono il racconto delle vittime».
[31] Avverte Padovani, Diritto penale, cit., 398: «In particolare, potrà trattasi dell’eventuale applicazione della libertà vigilata (art. 228 c..p., con prescrizioni corrispondenti alle esigenze terapeutiche del soggetto e sufficienti a impedire la commissione di nuovi reati»). Da ultimo, v. F. Gualtieri, L’applicazione delle misure di sicurezza detentive e il “malfunzionamento strutturale” del sistema delle REMS, secondo C. Cost., sentenza n. 22 del 2022: un punto di svolta nel percorso di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, in Giust. ins., 7 febbraio 2022. V., altresì, A. Massaro, Tutela della salute mentale e sistema penale: dalla possibile riforma del doppio binario alla necessaria diversificazione della risposta “esecutiva”, in Quest. giust., 13 maggio 2021.
[32] V., invece, Cass., sez. lav. n. 4154: negato il risarcimento dei danno, patrimoniale e non, al soggetto che è stato sospeso dall’insegnamento a seguito di una misura cautelare interdittiva (Cass., sez. lav., ord. 9 febbraio 2022, n. 4154, in Norme & Trib., 9 febbraio 2022).
[33] Con sent. 44366 del primo dicembre 2021, la Corte di Cassazione muta orientamento interpretativo: rilevanti effetti sulla vicenda degli stranieri che hanno percepito il reddito senza aver maturato il requisito di 10 anni di residenza. La falsa dichiarazione per ottenere il reddito di cittadinanza non integra il reato specifico se il RDC è comunque dovuto (in ASGI, 24 gennaio 2022). È stata depositata ieri la sentenza n. 19/2022 della Corte che dichiara in parte inammissibili e in parte infondate la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 co. 1 lett. a) num. 1) DL 4/19 conv. in L. 26/19, in ASGI, 16 gennaio 2022.
Quindi, la sentenza n. 44366 depositata il 1° dicembre 2021, in particolare, ha confermato il sequestro preventivo emesso a carico di una donna, indagata in ordine alla violazione di cui all’art. 7, comma 1, del Dl n. 4/2019, per aver omesso di fornire, in occasione della presentazione dell’istanza per accedere al reddito di cittadinanza, le complete informazioni concernenti la sussistenza dei requisiti per il godimento del beneficio. Reddito di cittadinanza: sequestro solo se le dichiarazioni omesse ostano al beneficio.
[34] V., ad esempio, E. Marzaduri, Sub art. 275, in Commento al Codice di procedura penale, coord. da M. Chiavario, Terzo Agg., Torino, Utet, 1998, 169 sulla «formulazione di un giudizio di proporzionalità idoneo a soddisfare le esigenze garantistiche che ne costituiscono la ratio».
Sull’accennata esigenza di riequilibrio dei rapporti, si tratterebbe della introduzione di uno strumento inteso come meccanismo di riequilibrio sociale, il cui funzionamento presuppone una leale collaborazione e cooperazione tra cittadino e amministrazione, ispirata alla trasparenza. Per il commento alle sentenze 5289 e 5290 del 2019 della Corte di Cassazione, si rinvia a. M. Carani, Una prima
lettura della disciplina penale in materia di reddito di cittadinanza, in Cass. pen., 2021, 1297 ss.
[35] V. G. Cirioli, Bertoldo e la presunzione assoluta di pericolosità sociale: entrambi impiccati a una pianta di fragole? Un breve commento alla sentenza n. 253/2019 della Corte Costituzionale, in A. I. C., f. 4, 4 agosto 2020. Appunto, v. Corte cost., sent. n. 253, 23 ottobre 2019 (dep. il 4 dicembre 2019), Pres. Lattanzi, Red. Zanon, in www.giurcost.org, con note di M. Ruotolo, Reati ostativi e permessi premio. Le conseguenze della sent. n. 253 del 2019 della Corte costituzionale, in Sist. pen., 12 dicembre 2019; A.Pugiotto, La sent. n. 253/2019 della Corte costituzionale: una breccia nel muro dell’ostatività penitenziaria, in Forum di Quaderni Costituzionali (web), fasc. 1/2020, 4 febbraio 2020, p. 160; M. Cerase, La Corte costituzionale sui reati ostativi: una sentenza, molte perplessità, in Forum di Quaderni Costituzionali (web), fasc. 1/2020, 5 febbraio 2020, 175; M. Chiavario, La sentenza sui permessi-premio: una pronuncia che non merita inquadramenti unilaterali, in Osservatorio AIC (web), fasc. 1/2020, 4 febbraio 2020, 211; A. Menghini, La Consulta apre una breccia nell’art. 4 bis o.p., Nota a Corte cost. n. 253/2019, in Osservatorio AIC (web), fasc. 2/2020, 3 marzo 2020, 307; S. Bernardi, Sull’incompatibilità con la Costituzione della presunzione assoluta di pericolosità dei condannati per reati ostativi che non collaborano con la giustizia: in margine a Corte cost., sentenza del 23 ottobre 2019 (dep. 4 dicembre 2019), n. 253, in Osservatorio AIC (web), fasc. 2/2020, 3 marzo 2020, 324; nonché G. Della Monica, La irragionevolezza delle presunzioni che connotano il modello differenziato di esecuzione della pena per i condannati pericolosi. Riflessioni a margine della sentenza n. 253/2019 della Corte costituzionale, in Dirittifondamentali.it, fasc. 1/2020, 4 aprile 2020, 986; J. Mazzacuva, Reati ostativi e benefici premiali: l’emergere di un nuovo paradigma ermeneutico (Commento a C. Cost. 23 Ottobre 2019, n. 253), in Federalismi.it, fasc. 3/2020, 5 febbraio 2020, 84.
[36] Per rendere plastico l’iter, si mutua il titolo, in precedenza, adottato da M. Chiavario, La custodia preventiva nel faticoso e tortuoso cammino delle riforme, in Riv. it. dir. proc. pen., 1982, 1314 ss.
Cfr. G. Lozzi, Sulle principali innovazioni apportate al codice di procedura penale del 1930 dalla legge 5 agosto 1988 n. 330, in Giust. pen., 1988, III, 630.
Non può non citarsi la legge 1995/332, su cui v. V. Grevi, Più ombre che luci nella l. 8 agosto 1995 n. 332 tra istanze garantistiche ed esigenze del processo, in Misure cautelari e diritto di difesa nella L. 8 agosto 1995 n. 332, a cura di V Grevi, Milano, Giuffrè, 1996, 4: «Luci ed ombre nella nuova legge. O meglio, per molti aspetti, più ombre che luci».
[37] Cass., sez. VI, sent. 29 maggio (dep. 11 giugno) 2019, n. 25771, Pres. Paoloni, rel. Bassi, ric. P. A., nel commento di E. Zuffada, La Cassazione scardina in via interpretativa l’automatismo applicativo delle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale: verso una questione di legittimità costituzionale?, in Dir. pen. cont., 23 settembre 2019.
[38] Cass., sez. I, sent. 22 aprile 2021 (dep. 20 maggio 2021), n. 20156, Pres. Boni, est. Magi, in Sist. pen., 27 settembre 2021 (con nota di M. Griffo, Una ante-prima della pronuncia delle Sezioni Unite in tema di rimedio esperibile per far valere gli effetti della pronuncia della Corte costituzionale n. 24 del 2019).
[39] Corte cost., sent. 24 gennaio-27 febbraio 2019, n. 24, in Arch. pen., 2019 e Dir. pen, cont., 4 marzo 2019. Sul punto, v. F. Basile, E. Mariani, La dichiarazione di incostituzionalità della fattispecie preventiva dei soggetti “abitualmente dediti a traffici delittuosi”: questioni aperte in tema di pericolosità, in DisCrimen, 10 giugno 2019; M. Cerfeda, La prevedibilità ai confini della materia penale: la sentenza n. 24/2019 della Corte costituzionale e la sorte delle “misure di polizia”, in Arch. pen., 2019, n. 2; S. Finocchiaro, Due pronunce della Corte costituzionale in tema di principio di legalità e misure di prevenzione a seguito della sentenza De Tommaso della Corte edu, in Dir. pen. cont., 4 marzo 2019; C. Forte, La Consulta espunge dal sistema le misure di prevenzione nei confronti dei soggetti “abitualmente dediti a traffici delittuosi”, in il Penalista.it, 28 marzo 2019; V. Maiello, La prevenzione ante delictum da pericolosità generica al bivio tra legalità costituzionale e interpretazione tassativizzante, in Giur. cost., 2019, 332.
[40] C. edu, Grande camera, 23 febbraio 2017 De Tommaso c. Italia, in Arch. pen., 2017, n.1, 1 ss., con commento di A. Dello Russo, La Corte EDU sulle misure di prevenzione. Altro caso di conflitto istituzionale?, e in Dir. pen. cont., 3 marzo 2017, e su cui v. F. Viganò, La Corte di Strasburgo assesta un duro colpo alla disciplina italiana delle misure di prevenzione personali, ivi, fasc. 3/2017, 370; S. Finocchiaro, Le misure di prevenzione italiane sul banco degli imputati a Strasburgo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2, 2017, 881; V. Maiello, De Tommaso c. Italia e la cattiva coscienza delle misure di prevenzione, in Dir. pen. proc., 2017, 1039; A. M. Maugeri, Misure di prevenzione e fattispecie a pericolosità generica: la Corte europea condanna l’Italia per la mancanza di qualità della “legge”, ma una rondine non fa primavera, in Dir. pen. cont., fasc. 3/2017, 15.
Sui presupposti applicativi della confisca di prevenzione, cfr. AA.VV., Le sanzioni patrimoniali come moderno strumento di lotta contro il crimine: reciproco riconoscimento e prospettive di armonizzazione, a cura di A. Maugeri, Milano, Giuffrè, 2007, 145 ss.; A. Aiello, La tutela civilistica dei terzi nel sistema della prevenzione patrimoniale antimafia, Milano, Giuffrè, 2005, 44 ss.; A. Balsamo, Le prospettive di riforma del sistema delle misure patrimoniali, in AA.VV., I costi dell’illegalità, Bologna, Il Mulino, 2008, 58 ss.; A. Balsamo, La prevenzione ante delictum, in AA.VV., Contrasto al terrorismo interno e internazionale, a cura di R. Kostoris – R. Orlandi, Torino, Giappichelli, 2006, 28 ss.
[41] Cass., sez. VI, sent. 29 maggio (dep. 11 giugno) 2019, n. 25771, in Dir. pen. cont. 2019. V., pure per uno spunto, Corte cost., sent 3 febbraio 2022, n.30. In tale ordine di idee, considerando il carattere residuale gli arresti domiciliari di carattere residuale e il c.d. allontanamento una misura di sicurezza, v. Cass., sez. VI, sent. 7 febbraio 2022, n. 4213, in Guida dir., 26 febbraio 2022, n. 7, 55: il convivente alcolista che ha commesso il reato di maltrattamento in famiglia contro la propria compagna può essere sottoposto a misure che ne limitano la libertà personale al fine di scongiurare il rischio di reiterazione della condotta criminosa. Tuttavia la gradazìone della limitazione della libertà personale deve essere approfonditamente valutata al momento dell’adozione della misura. A ricordarlo è la Cassazione che, nel confermare la misura cautelare degli arresti domiciliari, non aveva preso in considerazione alcune circostanze di fatto che potevano far propendere per l’applicazione di una misura di sicurezza come l’allontanamento della casa familiare, il divieto di avvicinamento alla persona offesa e ai luoghi da essa frequentati oppure il divieto di dimora nel medesimo Comune della vittima. Nel caso di specie vi era stata la fine della convivenza, il cambio di residenza e la presa di contatto con il Sert del luogo della nuova dimora, tutti elementi che non sono stati valorizzati in alcun modo dai giudici (v. C. D. Leotta, Ammissibile il concorso materiale tra maltrattamenti in famiglia e tortura privata, che commenta Cass., sez. III, 31 agosto 2021, n. 32380, in Giur. it., 2020, 194 ss.). Sull’obbligo di dimora, v. Cass., sez. V, 14 ottobre 2020, n. 28757, in Giur. it., 2020, 2598.
In dottrina, v. F. Cordero, Procedura penale, Milano, Giuffrè, 2012, 505: «Allontanamento dalla casa familiare. Dalla l. 4 aprile 2001 n.154 nascono un titolo IX-bis nel codice civile, recante “ordini di protezione contro gli abusi familiari”, e correlativamente, nell’art. 282 bis, una nuova misura prescrittiva: N lasci immediatamente la casa coniugale e non vi rientri né vi acceda senza permesso, secondo date modalità (comma 1)». Cfr. T. Padovani, Sicurezza pubblica: quel collasso dei codici “figlio della rincorsa” all’ultima emergenza, in Guida dir., 2013, n. 36, 10.
[42] In materia, v. E. Marzaduri, A trent’anni dall’entrata in vigore del c.p.p.:le disposizioni generali sulle misure cautelari personali, in Arch. pen., Riv. Quadr., 2019, fac. 3, Pisa, Ius Pisa, 2019,893 ss.
[43] v. A. De Cacro, Strumenti cautelari e precautelari, in Manuale di diritto processuale penale, AA. VV., Torino, Giappichelli, 2017, 354.
[44] M. Chiavario, Diritto processuale penale, Torino, Utet, VIII ed., 2019, 923, ora in Id., Diritto processuale penale, IX ed., Torino, Utet, 2022, 945 ss.
[45] A. Marandola, Le misure cautelari personale, AA. VV., Manuale teorico-pratico di diritto processuale penale, Padova, Cedam, 2018, 694: «il panorama delle misure cautelari si è arricchito di una nuova “cautela”».
[46] Quindi, si tratterebbe della neutralizzazione dell’ animus manendi et revertendi.
[47] Su cui v. Trib. Ferrara, sez. pen., sent. 12 ottobre 2021, n.1201, cit., relativamente al provvedimento di foglio di via obbligatorio che deve contenere non solo il divieto di far ritorno nel territorio del Comune di emissione del provvedimento, ma anche l’ordine di rimpatrio in un determinato luogo (al fini del reato di cui all’art. 76 co. 3, D.Lgs. 6 settembre 2011, n.159).Per il foglio obbligatorio di via del Questore illegittimo v. Cass. pen., sez. I, sent. 29 agosto 2019 n. 36652. In materia, v. Cons. St., sent. 17 maggio 2021, n. 3829; Cons. St., sez. III, sent. 6 settembre 2016, n. 3818; T. A. R. Liguria, 24 febbraio 2016, n. 202. Secondo Cons. St., sez. III, sent. 8 giugno 2011, n. 3451 non è richiesta la comunicazione dell’avviso di procedimento.
[48] In dottrina, v. F. Viganò, Sub art. 2 Prot. n. 4. Libertà di circolazione, in Corte di Strasburgo e giustizia penale, a cura di G. Ubertis e F. Viganò, Torino, Giappichelli, 2016, 354, il quale avverte: «Le garanzie previste dall’art. 2 Prot. n. 4 Cedu, che corrisponde nella sostanza a quelle riconosciute dall’art. 16 della Costituzione italiana, nonché a quelle sancite dall’art. 12 Pidu, sono entrambe riconducibili al genus rappresentato dalla libertà di movimento nello spazio».
[49] V. art. 342-bis c. c. (Ordini di protezione contro gli abusi familiari) «Quando la condotta del coniuge o di altro convivente è causa di grave pregiudizio all'integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell'altro coniuge o convivente» e art. 342-ter c.c. (Contenuto degli ordini di protezione): «Con il decreto di cui all'articolo 342-bis il giudice ordina al coniuge o convivente, che ha tenuto la condotta pregiudizievole, la cessazione della stessa condotta e dispone l'allontanamento dalla casa familiare del coniuge o del convivente che ha tenuto la condotta pregiudizievole prescrivendogli altresì, ove occorra, di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dall'istante, ed in particolare al luogo di lavoro, al domicilio della famiglia d'origine, ovvero al domicilio di altri prossimi congiunti o di altre persone ed in prossimità dei luoghi di istruzione dei figli della coppia, salvo che questi non debba frequentare i medesimi luoghi per esigenze di lavoro». In giurisprudenza, v.Trib. Monza, 7 maggio 2012 (ord.), M.F., in Giur. Mer., 313, 294, in tema di allontanamento dalla casa familiare ai sensi degli artt. 342-bis e 342-ter c.c. Pure, v. Cass. civ., sez. VI, 7 dicembre 2017, n. 29492. Est. Scaldaferri.
[50] Trib. Roma, 25 giugno 2022, Servizio, in Giur. mer., 2002, 1290.
[51] Su cui v. M. Montagna, Obblighi convenzionali, tutela della vittima e completezza delle indagini, in Arch. pen., Riv. Quadr., 2019, fac. 3, Pisa, Ius Pisa, 2019, 771 s. Altresì, v. B. Romano- A. Marandola (a cura di), Codice rosso. Commento alla l. 19 luglio 2019 n. 69, in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, Pisa, Pacini giuridica, 2020.
[52] G.i.p. Trib. Palermo, 25 giugno 2001, Lo Coco, in Giur. Mer., 2002, 1047. In dottrina, per esempio, v. G. De Amicis, Sub art. 282-bis, in Codice di procedura penale. Rassegna di giurisprudenza e dottrina, dir. da G. Lattanzi-E.Lupo, IV, a cura di G. Canzio-P.Spagnolo-G. De Amicis, Milano, Giuffrè, 2003, 459; G. Cariolo, Sub art. 282-bis, in Codice di procedura penale, a cura di G Tranchina, T. I, Milano, Giuffrè, 2008, 2072 ss.
Per la manualistica, v. P. Corso, Le misure cautelari, in Aa. Vv., Procedura penale, Torino, Giappichelli, 2015, 371: «l’allontanamento dalla casa familiare è una misura coercitiva specificamente prevista per gli imputati di violenza nelle relazioni familiari: introdotta con l’art. 282 bis (norma pluriemendata)».
[53] Montagna, Obblighi convenzionali, tutela della vittima e completezza delle indagini, cit., 774.
[54]V. in dottrina G. Lozzi, Lezioni di procedura penale, Torino, Giappichelli, 2020, 305: «L’istituto può trovare applicazione nei confronti di chi sia colto in flagranza di uno dei delitti elencati nell’art. 282 bis comma 6° c. p. p. e consta…nell’allontanamento urgente dalla casa familiare». Appunto, «con tale misura il giudice prescrive all’imputato di lasciare immediatamente la casa familiare». (F. Tonini, Manuale breve. Diritto processuale penale, Milano, Giuffrè, 2021). Nello stesso senso, in materia, v. E. Zappalà-V. Patanè, Le misure cautelari personali, in AA. VV., Diritto processuale penale, a cura di G. Di Chiara, V. Patanè, F. Siracusano, Milano, Giuffrè, 2018, 335: «In vista delle esigenze connesse con le indagini, e quindi al di fuori di ogni finalità di tipo propriamente cautelare, la legge concede agli ufficiali e agli agenti di polizia giudiziaria il potere di procedere all’arresto o al fermo della perdona indiziata di un delitto, nonché all’allontanamento d’urgenza dalla casa familiare…nei confronti di chi è colto in flagranza dei delitti di cui all’art. 282-bis, comma 6», e ciò, appunto, «per i delitti che sono indicati espressamente dal comma 6 dell’art. 282-bis» (P. Tonini-C.Conti, Lineamenti di diritto processuale penale, XIX ed., Milano, Giuffrè, 2021, 262).
Il giudice che ritenga adeguata e proporzionata la sola misura cautelare dell’obbligo di mantenere una determinata distanza dalla persona offesa (art. 282-ter, comma 1, c. p. p.) può limitarsi ad indicare tale distanza. Nel caso in cui, al contrario, nel rispetto dei predetti principi, disponga, anche cumulativamente, le misure del divieto di avvicinamento ai luoghi da essa abitualmente frequentati e/o di mantenimento della distanza dai medesimi, deve indicarli specificamente [così, in materia di misure cautelari, Cass. pen., sez. un., 28 ottobre 2021 (29 aprile 2021), n. 39005 - Pres. Cassano - Rel. Di Stefano - P.M. Gaeta (parz. diff.) - Ric. G., in Dir. pen. proc., 2022, n.1, 13]. Qualora il giudice applichi la misura del divieto di avvicinamento a favore della persona offesa, è sufficiente che stabilisca la distanza che l'imputato deve mantenere da questa, non essendo necessario che indichi anche i luoghi preclusi all'imputato, nella “sintassi” di Cass., sez. un., sent. 28 settembre 2021, n. 39005.
Per la dottrina, v. G. Bellantoni, Divieto di avvicinamento alla persona offesa ex art. 282 ter c. p. p. e determinazione di luoghi e distanze, ivi, 2013, 1283 s.; P. Bronzo, Profili critici delle misure cautelari “a tutela dell’offeso”, in Cass. pen., 2012, 3466 s.; V. Maffeo, Il nuovo delitto di atti persecutori (stalking): un primo commento al d.l. n. 11 del 20009 (conv. con modif. dalla l. n. 38 del 2009), ivi, 2009, 2719 s.; A. Marandola, I profili processuali delle nuove norme in materia di sicurezza pubblica, di contrasto alla violenza sessuale e stalking, in Dir. pen. proc., 2009, 946 s.; C. Minnella, Divieto di avvicinamento e ordine di protezione europeo: il difficile equilibrio tra la tutela “dinamica” alle vittime di stalking e le libertà dell’imputato, in Cass. pen., 2014, 2207 ss.; Id., In assenza di un’individuazione dettagliata il provvedimento è nullo per indeterminatezza, in Guida dir., 2014, 18, 67; F. Peroni, I luoghi oggetto del divieto di avvicinamento devono essere indicati in maniera specifica e dettagliata, in Dir. pen. proc., 2011,1081 ss.
[55] Per Cass., sez. VI, sent. 12 aprile 2010, n. 1389, è inidonea ed inadeguata la misura cautelare che impone l'allontanamento dall'ambiente familiare del genitore che assuma un atteggiamento nei confronti dei figlio minore scarsamente apprezzabile come strumento educativo, e tuttavia generalmente ricorrente nei rapporti familiari, quale quello di rivolgergli epiteti ingiuriosi (nella specie quello di “deficiente”), senza che tenga in debito conto delle ripercussioni che possono derivare sull'assetto affettivo e organizzativo della stessa famiglia e la misura cautelare dell'allontanamento dalla casa familiare, prevista dall'art. 282 bis c.p.p., non rientrando tra quelle espressamente previste dagli artt. 19 e ss. del D.P.R. 22 settembre 1988 n. 448, non può trovare applicazione nei confronti di soggetto minorenne (Cass., sez. V, sent. 25 maggio 2007, n. 20496).
Addirittura, la misura cautelare dell'allontanamento dalla casa familiare (art. 282 bis c. p. p.) è applicabile anche quando l'indagato abbia già abbandonato il domicilio domestico per intervenuta separazione coniugale (Cass.,sez. VI, sent. 26 maggio 2006, n. 18990).
[56] La fattispecie del delitto di omicidio, realizzata a seguito di quella di atti persecutori da parte dell’agente nei confronti della medesima vittima, contestata e ritenuta nella forma del delitto aggravato ai sensi dell’artt. 575 c. p. e 576, comma 1, n. 5.1, c. p. - punito con la pena edittale dell’ergastolo - integra un reato complesso, ai sensi dell’art. 84,comma 1, c. p. in ragione della unitarietà del fatto [Cass. pen., sez. un., 26 ottobre 2021 (15 luglio 2021), n. 38402 - Pres. Cassano - Rel. Zaza - P.M. Birritteri (diff.) - Ric. A.M., in Dir. pen. proc., 2022, n.1, 14]. In dottrina, v. R. Bricchetti-L. Pistorelli, Sulla circostanza aggravante dell’omicidio c’è il rischio di interpretazioni forzate, in Guida dir., 2009, 19, 43; F. Macrì, Modifiche alla disciplina delle circostanze aggravanti dell’omicidio e nuovo delitto di “Atti persecutori”, in Dir. pen. proc., 2009, 816.
[57] Ai fini della sussistenza del reato di molestie “col mezzo del telefono”, ciò che rileva è l’invasività in sé del mezzo impiegato per raggiungere il destinatario e non la possibilità per quest’ultimo di interrompere l’azione perturbatrice, già subita e avvertita come tale, ovvero di prevenirne la reiterazione, escludendo il contatto o l’utenza sgradita senza nocumento della propria libertà di comunicazione [Cass. pen., sez. I, 22 ottobre 2021 (u.p. 18 marzo2021), n. 37974 - Pres. Siani - Rel. Saraceno - P.M. Zacco (conf.) - Ric. D.F., in Dir.pen. proc., 2022, n.1, 17 s.].
[58] A. Marandola, Le misure cautelari personale, AA. VV., Manuale teorico-pratico di diritto processuale penale, Padova, Cedam, 2018, 694: «sebbene» - prosegue l’A. - «in analogia con quanto stabilito per le misure di cui all’art. 283, pare ovvio ritenere che il provvedimento debba essere comunicato all’interessato e alla polizia giudiziaria competete a controllarne la misura». Sul punto, v. P. Corso, Le misure cautelari, in Aa. VV., Procedura penale, VII ed., Torino Giappichelli 2021, 389: «il rispetto può essere garantito con modalità di controllo elettronico, ove possibili (art. 282 bis in relazione all’art. 275 bis)» .
[59] V., ad esempio il seguente principio: l’inammissibilità dell’appello, scaturente da un precedente rigetto di istanza di rimessione in termini per impugnare, va dichiarata con procedura “de plano”, senza necessità di fissare l’udienza camerale e di avvisare i difensori, trovando applicazione l’art. 127, comma 9, c.p.p., secondo il quale l’inammissibilità dell’atto introduttivo del procedimento è dichiarata dal giudice con ordinanza, anche senza formalità di procedura, salvo che sia diversamente stabilito [Cass pen., sez. II, 2 settembre 2020 (C.C. 24 luglio 2020), n. 24808 - Pres. Imperiali - Est. Pacilli - P.M. Corasaniti - Ric. Koiyf Redwan, in Dir.pen. proc., 2022, f.1, 40]. Fra gli altri, v. G. Colaiacovo, Procedimento in camera di consiglio e declaratoria de plano dell’inammissibilità dell’impugnazione, in Proc. pen. giust., 2019, 3; G. Spagnoli, Osservazioni a Sez. III, 22 dicembre 2010, n. 3895, in Cass. pen., 2011, 3483.
[60] A. Camon, Le prove, in Aa. Vv., Fondamenti di procedura penale, seconda edizione, Vicenza, Cedam, 2020, 282, sul «procedimento probatorio», rinviandosi (al tema può solo accennarsi perché perimetro risulta esulante dai confini della presente analisi).
[61] G. Conso, Introduzione (agg. da M. Bargis), in G. Conso-V.Grevi-M.Bargis, Compendio di procedura penale, Padova, Cedam, 2019, LXXXIX.
[62] Cfr. M. Cassano, Il procedimento in absentia. Principi sovranazionali e profili applicativi a confronto, Milano, Giuffrè, 2015; L. Iannone, Procedimento in absentia, in il Penalista, 2021.
In dottrina, v. lo studio, ancorché non più recente egualmente d’interesse, sulla «mancata partecipazione dell’imputato ad atti dibattimentali», di G. Ubertis, Dibattimento senza imputato e tutela del diritto di difesa, Milano, Giuffrè, 1984, p.224.
[63] G. Illuminati, Relazione, in AA. VV., G.i.p. e libertà personale. Verso un contraddittorio anticipato?, Napoli, Jovene, 1997, 24, seccamente: « Il giudice per decidere deve conoscere deve conoscere le ragioni di entrambe le parti. Enzo Zappalà…parlava nel 1993 di “giurisdizione senza cognizione”, con riferimento al giudice per le indagini preliminari che adotta il provvedimento restrittivo della libertà personale. Questa definizione ha avuto fortuna ed è stata ripresa da molti ». Parimenti, si interroga M. Nobili, Dal garantismo inquisitorio all’accusatorio non garantito?, in Scenari e trasformazioni del processo penale, Padova, Cedam, 1998, 30: «giudice senza poteri di conduzione o, altresì, giudice senza poteri di cognizione degli atti compiuti?».
[64] V., per uno spunto, Corte cost., ord. 19 novembre 2002, n. 460: «d'altra parte - posto che la funzione dell'avviso di cui al richiamato articolo 415-bis appare essere chiaramente quella di assicurare una fase di “contraddittorio” tra indagato e pubblico ministero, in ordine alla completezza delle indagini - consegue che l'espletamento di quella fase e la garanzia di uno specifico ius ad loquendum dell'indagato in tanto si giustificano, in quanto il pubblico ministero intenda coltivare una prospettiva di esercizio dell'azione penale». Altresì, v. Cass., sez. IV, 19 maggio 2016, n. 20993.
Ma vi sono casi in cui, invece, la parola non è data, all’opposto, alla persona offesa, e su cui v. C. Morselli, È tempo di dare la parola alla persona offesa dal reato nella discussione finale ex art. 523 c.p.p. (riconosciuta all’imputato ma non alla sua vittima non costituita parte civile), passibile di una censura di incostituzionalità nella formulazione attuale, in A. I. C., 19 febbraio 2019, n. 2, 351 s.
[65] In merito all’esame dell’imputato (art. 208 c.p.p.), su tale mezzo istruttorio, v., per uno spunto, Corte e. d. u. 8 luglio 2021, causa Maestri ed altri contro Italia, in Proc. pen. giust., 2021, Sist. pen., 30 settembre 2021, che «ha censurato l’ordinamento processuale italiano per non aver previsto, a garanzia dell’imputato assolto nel primo grado del giudizio e condannato nel processo di appello, uno specifico onere di audizione del medesimo prima di assumere la decisione di condanna. A tal fine è necessario che l’imputato…sia destinatario di una chiamata in giudizio al fine di porlo in condizione di rendere l’esame: a questo scopo non è sufficiente l’ordinaria citazione in appello, ma è richiesta una chiamata specifica con l’indicazione dell’incombente istruttorio da compiersi…Invero, il recente arresto costituisce una tappa ulteriore di una sempre più approfondita verifica - da parte della Corte europea - dei diritti e delle garanzie dell’imputato previste dall’ordinamento, in caso di ribaltamento della sentenza di assoluzione nel giudizio di appello. A partire dal famoso caso Dan c. Moldavia del 15 luglio 2011, la Corte EDU ha mostrato una specifica attenzione all’applicazione dei canoni del giusto processo…in caso di condanna dell’imputato, per la prima volta, nel secondo grado di giudizio…La sentenza Maestri c. Italia, ad avviso della Corte, individua un vulnus sia procedurale che sostanziale, laddove non ci sia stata apposita citazione dell’imputato per l’esame innanzi al giudice di appello prima di essere condannato - per la prima volta - a seguito di un giudizio di primo grado definito con pronuncia di assoluzione. 3. Tale situazione richiede la rimessione al più alto consesso della Corte, pur in assenza di uno specifico strumento previsto nel codice di rito vigente, a differenza del codice di procedura civile…art. 374 secondo comma…operando in via estensiva e sistematica, per esigenza di armonia dei sistemi processuali» (v. Cass., sez. I, ord. 7 dicembre 2021, n. 45179, Pres. A. Tardio, in Norme & Trib., 7 dicembre 2021; v. D. D’Auria, Caso Maestro c. Italia: una nuova ipotesi estensiva della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello?, in Quot. giur., 24 dicembre 2021; altresì L. Roccatagliata, Obbligo del giudice di appello di rinnovare l’esame dell’imputato assolto in primo grado: rimessa una questione alle Sezioni Unite, in Giur. pen., 24 dicembre 2021).
[66] F. Cordero, Riti e sapienza del diritto, Roma-Bari, Laterza, 1981, 44.
[67] Il corsivo è nostro, per far risaltare la base solida del diniego, rappresentata da una sentenza di merito non da un provvedimento cautelare.
[68] Su ciò pone l’accento G. Spagnher, Inquadramento generale, in Aa. Vv., Manuale teorico-pratico di diritto processuale penale, loc.cit., sulla «eccezionalità della restrizione (con il conseguente riconoscimento del minor sacrificio) della libertà personale prima della condanna se non in presenza di valori costituzionalmente protetti…con il conseguente corollario della provvisorietà (conseguente contingentamento del tempo della restrizione, anche per evitare l’anticipazione della pena) e della rivedibilità…,la libertà personale può subire limitazioni» [sul punto, in precedenza, v. C. De Robbio, (Penale e processo) Le misure cautelari personali, 2016, 1: «Sembrerebbe fuori dal sistema ed illegittima…ogni forma di “anticipazione della pena”»].
Cfr., pure, M. L. Di Bitonto, La tutela cautelare, in Aa Vv., Fondamenti di procedura penale, seconda edizione, Vicenza, Cedam, 2020, 821, sui provvedimenti «attraverso i quali è possibile disporre in via provvisoria la restrizione di diritti, al fine di salvaguardare specifiche esigenze».
[69] L’introduzione nell’ordinamento, con legge 11 febbraio 2015, n.15, del preavviso di rigetto ha segnato l’ingresso di una modalità di partecipazione al procedimento, con la quale si è voluto “anticipare” l’esplicitazione delle ragioni del provvedimento sfavorevole alla fase endoprocedimentale, allo scopo di consentire una difesa ancora migliore all’interessato, mirata a rendere possibile in confronto con l’amministrazione, ancor prima della decisione finale (Cons. St., sez. 3, sent. 8 ottobre 2021, n. 6743 , in Il Merito, febbraio 2022, n.2, 73). L'istituto del c.d. preavviso di rigetto mira a far conoscere alle Amministrazioni, in contraddittorio rispetto alle motivazioni da esse assunte sulla scorta degli esiti dell'istruttoria espletata, quelle ragioni, fattuali e giuridiche, dell'interessato, che possono contribuire a far assumere agli organi competenti una diversa determinazione finale, derivante dal vaglio e dalla ponderazione di tutti gli interessi in campo e determinando una possibile riduzione del contenzioso fra le parti (cfr. Cons. St., sez. III, 5 dicembre 2019, n.834 e 26 giugno 2019, n. 4413; sez. VI, 06 agosto 2013, 4111; sez. III 27 giugno 2013, n. 3525).
[70] Cfr. O. Mazza, Garanzie di indipendenza e di imparzialità degli organi giurisdizionali, in Giurisprudenza sistematica di diritto processuale penale, diretta da M. Chavario ed E. Marzaduri, Torino Utet, 1995, 3, traccia un interessante percorso inverso a quello da noi descritto: «Il ruolo del giudice…è…emblematico del percorso attraverso il quale il modello originario si è confrontato con parametri costituzionali rilevatisi più severi del previsto e con esigenze e sollecitazioni della pratica, emerse con forza nel clima di esasperato impegno in cui il rinnovato processo penale ha fatto le sue prime prove. All’esito si registra un sensibile recupero di centralità d’una figura che la riforma tendeva a spogliare, almeno in parte, delle sue, un tempo soverchianti, attitudini propulsive, a beneficio delle parti», richiamando V. Zagrebelsky, Sul ruolo del giudice nel nuovo processo penale, in Cass. pen., 1989, 913.
[71] Di Bitonto, La tutela cautelare, in Aa. Vv., Fondamenti di procedura penale, cit., 875: «L’allontanamento d’urgenza dalla casa familiare è misura esperibile in relazione al novero dei reati per i quali è prevista la misura cautelare di cui all’art 282 bis. L’individuazione dei relativi casi di applicabilità, quindi…per relationem».Si osserva che «Il provvedimento impositivo della misura è, altresì, comunicato alla persona offesa, la quale deve essere informata anche della facoltà di richiedere l’emissione di un ordine di protezione europeo, al fine di ottenere che gli effetti della misura cautelare si estendano al territorio di altro Stato membro dell’Unione europea in cui decida di risiedere o soggiornare (art. 282, quater)» (op. cit.,.280).
[72] Tonini-Conti, Manuale di procedura penale, cit., 449, ricordandosi, per le misure, che «la loro applicazione deve rispettare il principio di proporzionalità che ha un fondamento sovranazionale e nel diritto interno, oltre che nella giurisprudenza della Consulta». Da ultimo, v. A. Rizzo, La sentenza della Corte costituzionale sul Reddito di cittadinanza: una critica di merito e “di metodo”, in AISDUE, 2022, sulla sentenza della Corte costituzionale n. 19 del 2022: breve analisi alla luce dei rapporti tra diritto nazionale e diritto dell’Unione europea.
Con la sentenza n. 67 depositata l’11 marzo scorso, la Corte Costituzionale (in ASGI, 17 marzo 2022) ha posto fine al contenzioso in materia di Assegno al Nucleo Familiare, affermando l’obbligo del giudice di applicare anche ai titolari di permesso di lungo periodo e di permesso unico lavoro il trattamento più favorevole previsto per gli italiani.
[73] Trib. Ascoli Piceno, 5 ottobre 2021 (che richiama la circolare INPS n.100 del 5 luglio 2019), sez. I, sent. 5 ottobre 2021 n. 201, in Il Merito, 2022, n. 1, p.13: in tema di reddito di cittadinanza, non ha diritto al sussidio il componente del nucleo familiare disoccupato a seguito di dimissioni volontarie, nei dodici mesi successivi alla data delle dimissioni, fatte salve le dimissioni per giusta causa. In caso di dimissioni volontarie, perderà il diritto a percepire il reddito di cittadinanza il solo componente del nucleo familiare che si è volontariamente licenziato dal lavoro. V., collegata con tale decisione, l’analisi di C. Insarda, Reddito di cittadinanza negato per abbandono volontario del lavoro ma riconosciuto in misura ridotta ad altro componente del nucleo familiare (ivi, 16 ss).
[74] Testualmente, v., in dottrina, P. Tonini, Lineamenti di diritto processuale penale, Milano, Giuffrè, 2017, 228 (più recentemente ribadito in Tonini-Conti, Manuale di procedura penale, cit., 448, e in aggiunta: «Il provvedimento di allontanamento dalla casa familiare è comunicato all’autorità di pubblica sicurezza competente, ai fini dell’eventuale adozione dei provvedimenti in materia di armi e munizioni»).
Sullo stesso articolo del c. p. p., v. G. Lozzi, Lineamenti di procedura penale, Torino, Giappichelli, 2016, 173.
[75] Sulla «“creatività del giudice” o “della giurisprudenza”…” si ammette che la sua attività…si possa spingere a compiere operazioni più complesse, quali la creazione di una regola…Come è noto, l’ordinamento italiano…consente l’analogia legis e l’ analogia iuris » (G.Alpa, L’arte di giudicare, Roma.Bari, Laterza, 1996, 5-6-7). Sul punto, v. P. Trimarchi, Istituzioni di diritto privato, Milano, Giuffrè, 2000, 9-12: « sovente la norma va interpretata; talvolta non esiste una norma di legge direttamente applicabile al caso…L’art. 12 comma 2 delle disposizioni sulla legge in generale impone qui di aver riguardo a disposizioni che regolano casi simili o materia analoghe (procedimento per analogia)». Da ultimo, v. A. Torrente-P.Schlesinger, Manuale di diritto privato, XV ed., a cura di F. Anelli e C. Granelli, Milano, Giuffrè, 2021, 51: «È impossibile che il legislatore riesca a disciplinare l’intero ambito dell’esperienza umana, per quanto possa essere attento e minuzioso. È inevitabile, infatti, che si presentino casi che nessuna norma di legge ha espressamente previsto e regolato (le c.d. lacune dell’ordinamento)».
[76] A. Pizzorusso, Giustizia e giudici, in La Costituzione ferita, Roma-Bari, Laterza, 1999, 136.
[77] M. R. Damaska, I volti della giustizia e del potere. Analisi comparativa del processo, Bologna, Il Mulino, 1991, 258. Sulla più generale categoria, costituzionale del c.c. giusto processo, v., fra gli altri, Chiavario, Diritto processuale penale (IX ed 2022), cit., 11.; Tonini-Conti, Lineamenti di Diritto processuale penale, cit., 12 ss.
[78] Volendo considerare l’atto della sospensione del RdC una specie di revoca amministrativa ratione temporis (di carattere sanzionatorio se non propriamente “repressivo”, per la immediata e diretta incidenza sulla condizione personale e patrimoniale del soggetto passivo: v. retro nota 4), di cui nella previsione mancano “l’avvio” e “l’avviso” (le due “a”), in via comparativa, v. T. A. R. Lazio, sez. staccata di Latina, sez. I, 15 dicembre 2018, n. 647: in materia di carta di soggiorno ai sensi dell'art. 9, d.lgs. n. 286/98, il mancato avviso dell'avvio del procedimento ex art. 7, legge 241/90, attraverso cui la questura competente comunica al soggetto interessato la revoca della stessa a seguito di reati penali a suo carico che non lo rendono meritevole della permanenza sul territorio italiano, viola il principio del contraddittorio necessario in siffatte fattispecie. Infatti, attraverso la comunicazione dell'avvio del procedimento e il seguente contraddittorio tra le parti, si rende l'Amministrazione procedente edotta di tutte quelle circostanze che la stessa è obbligata a valutare prima della definizione del procedimento di annullamento o revoca della carta di soggiorno, giacché l'organo amministrativo competente deve prendere in considerazione anche l'eventuale esistenza di nuovi elementi che potrebbero eventualmente consentire il mantenimento in capo al ricorrente del permesso di soggiorno che invece si intende revocare.
Sul requisito del possesso della carta di soggiorno (ora permesso per lungo soggiornanti), v. Cass., sez. lav. civ., 10 agosto 2020, n. 16867, in Immigrazione.it., 2020. In tema, v. T. A. R Lombardia, sez. VI, 4 agosto 2021, n. 1885, ivi, 2021.
L'interessato che lamenta la violazione dell'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento amministrativo ha anche l'onere di allegare e dimostrare che, grazie alla comunicazione, egli avrebbe potuto sottoporre all'Amministrazione elementi che avrebbero potuto condurla a una diversa determinazione da quella che invece ha assunto (art. 7 L. n. 241/1990) (Cons. St., sez. III, sent. 12 maggio 2017, n. 2218). Sulla c.d. garanzia partecipativa di cui all'art. 7 L. 241/1990, v. Cons. St., sez. V, sent. 29 dicembre 2014, n. 6402.
D’interesse la decisione - sul generale procedimento amministrativo e il c.d. preavviso di diniego - di T.A.R. Veneto, Venezia, sez. I, 16 giugno 2021, n. 611, in Norme & Trib., 23 giugno 2021: l’istituto del cosiddetto. preavviso di diniego (articolo 10 bis legge n. 241/1990) assicura che ogni momento del procedimento immediatamente precedente l’adozione del provvedimento sia utile alla P.a. per pervenire alla scelta discrezionale migliore. La norma esige, non solo che l’Amministrazione enunci compiutamente nel preavviso di provvedimento negativo le ragioni che intende assumere a fondamento del diniego, ma anche che le integri, nella determinazione conclusiva (se ancora negativa), con le argomentazioni finalizzate a confutare la fondatezza delle osservazioni formulate dall’interessato nell’ambito del contraddittorio predecisorio attivato dall’adempimento procedurale in questione. La disposizione de qua assolve la sua funzione di consentire un effettivo ed utile confronto dialettico con l’interessato prima della formalizzazione dell’atto negativo, evitando che si traduca in un inutile e sterile adempimento formale.
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