Il lavoro sicuro nella cosmogonia costituzionale: il “caso Ilva”
di Stella Laforgia
Sommario: 1. Premessa. - 2. Il “caso Ilva” e il conflitto tra gli interessi in gioco. - 2.1. Lo “spazio” dilatato della fabbrica. - 3. Il dispositivo regolativo dei conflitti nelle questioni ambientali dei siti produttivi: l’AIA. - 3.1. Gli interventi giudiziari e le questioni costituzionali nelle vicende Ilva. - 3.2. Il paesaggio assiologico tracciato dalla Corte costituzionale nelle vicende Ilva. - 3.3. L’ulteriore variazione in tema di conflitti istituzionali: l’intervento della magistratura amministrativa. - 4. Brevi riflessioni finali. Il bilanciamento sempre imperfetto tra lavoro e salute.
1. Premessa
Se si vuole seguire la traccia “Dignità e Sicurezza nel rapporto di lavoro”, si impone una necessaria operazione di delimitazione dei termini della questione e, ancor prima, una precisazione linguistico-concettuale di questi, soprattutto con riferimento al lemma “sicurezza”.
Quest’ultimo, tuttavia, pur considerando la sua polisemia e la conseguente estensione semantica, soprattutto se riferito al lavoro, risulta essere strettamente connesso alla “salute”.
Ma c’è di più. Infatti, una volta stabilito il nesso tra “salute” e “lavoro”, l’aggettivo “sicuro” non può più essere solo un mero attributo del lavoro ma diventa coessenziale a esso.
Dunque, il lavoro o è sicuro o non è.
Quindi, “lavoro e sicurezza” rappresenta un’endiadi indissolubile che non ha bisogno di ulteriori specificazioni. Questo, dunque, è l’assunto di partenza.
Tuttavia, se si passa dal piano deontico, cioè del dover essere, a quello di realtà, cioè dell’essere, ci accorgiamo che questo nesso non è affatto scontato, né tantomeno la sua consustanzialità.
Non solo, ma osserviamo - e questo deve interessarci quali giuristi - che l’aggettivo sicuro spesso viene separato nel discorso giuridico giuridico, laddove vengono inscenati conflitti.
Prendiamo appunto la coppia “lavoro” e “salute”: i termini di essa, lungi dall’essere considerati indissolubili, vengono posti spesso in antitesi.
Viene inscenato, appunto, un vero e proprio conflitto che riguarda una fitta trama regolativa di istituti giuridici sul tema, che finisce però per coinvolgere proprio i principi posti alla base del nostro ordinamento e che trovano la loro positivizzazione nella Carta costituzionale.
A questo punto, gli esempi potrebbero essere innumerevoli: qui si prende in considerazione un caso che può fungere da prisma per osservare, più concretamente ed efficacemente, quanto brevemente sostenuto finora. Questo è il “caso (appunto) Ilva”.
2. Il “caso Ilva” e il conflitto tra gli interessi in gioco
Se si discute di lavoro e sicurezza, infatti, viene subito in mente il colosso siderurgico di Taranto, l’Ilva, che immediatamente viene definito e collocato nell’immaginario collettivo come il “caso Ilva”[1].
Le vicende che riguardano l’Ilva, infatti, hanno assunto da anni la valenza di “caso”, a dire del suo valore paradigmatico nella storia industriale italiana, simbolo dei limiti di certa imprenditoria, dei ritardi o delle omissioni della politica, della conseguente disaggregazione sociale di alcuni territori e ormai del conclamato disastro ambientale.
Qui si osservano i conflitti tra principi appena evocati e, in particolare, la contrapposizione più drammatica, intorno alla quale si è costruita la lunga narrazione politica e mediatica, circa il polo siderurgico tarantino: quella tra salute e lavoro.
Posta così la questione, la prima domanda da porsi è se siano effettivamente questi i termini della polarizzazione tra interessi. In altri termini, è necessario, date anche le gravi implicazioni, che ne derivano sul piano concreto, individuare con esattezza, nell’ambito del caso Ilva, gli interessi sottostanti.
Infatti, esiste davvero, come ormai siamo avvezzi sentire, la dicotomia lavoro e salute?
2.1. Lo “spazio” dilatato della fabbrica
La contrapposizione tra principi - che quasi ineluttabilmente anche la magistratura segue (v, infra diffusamente) - è connessa all’adozione di un concetto di spazio (della fabbrica) che si rivela invece angusto e contraddittorio.
Infatti, in controluce rispetto alla confliggenza di interessi, vi è un’artificiosa distinzione tra un “dentro” e un “fuori” la fabbrica, come se si potessero davvero distinguere e contrapporre le ragioni di chi lavora (dentro la fabbrica) e coloro che vivono, fuori dalla fabbrica, ma nell’ambito di quello stesso territorio.
Se all’inizio di questa riflessione, nell’attribuzione di senso del lemma “sicurezza” in stretta connessione con il lavoro, si è posto l’accento sulla salute, questa scelta di fondo non impone forse, di riconsiderare anche l’ampiezza o meno del concetto di ambiente di lavoro e quello di non lavoro?
Infatti, anche le fonti legali e contrattuali in materia lavoristica ci consegnano ormai una nozione di salute come il portato della transizione da una logica burocratico-sanitaria (imperniata sul concetto di “igiene”), evidentemente concentrata sull’adempimento formale delle prescrizioni normative in materia, a una concezione “olistica” di salute che prende in considerazione tanto la tutela dei lavoratori, con particolare riguardo alle condizioni di lavoro di questi, quanto il “benessere sociale” cioè delle comunità e dei territori nei quali le aziende del settore insistono.
Così come, conseguentemente, il concetto stesso di “ambiente” – illuminato retrospettivamente dalla nuova nozione di salute, risulta dilatato oltre lo spazio dell’ambiente di lavoro fino a ricomprendere quella più generale, intesa quale salute e salubrità ecologica.
Ne deriva che l’ambiente è connesso un’idea ampia nella quale il confine tra il “dentro” e il “fuori” degli stabilimenti è labile e soprattutto mobile, laddove non vi è distinzione tra le istanze di tutela della salute dei lavoratori e quelle di coloro che vivono comunque in quell’ambito territoriale.
Nozioni di salute e ambiente, di spazio, di lavoro, che si inscrivono, peraltro coerentemente, nel rinnovato assetto costituzionale in materia. Si considerino, infatti, le modifiche di portata costituzionale agli artt. 9 e 41 Cost[2]
E, dunque, da questa nuova visione “ecosistemica” che occorre partire per acquisire consapevolezza della miopia del legislatore nella regolazione degli interessi in gioco in siffatte ipotesi.
Si prenda in considerazione ancora una volta, per tentare un’esemplificazione di quanto si va sostenendo, il dispositivo giuridico costituito dall’AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale).
3. Il dispositivo regolativo dei conflitti nelle questioni ambientali dei siti produttivi: l’AIA
L’AIA viene introdotta nel nostro ordinamento quale procedimento autorizzativo al quale sono sottoposti determinati siti produttivi, dotato di un carattere conformativo, per contemperare nelle singole fattispecie, interessi conservativi di tutela ambientale con interessi di sviluppo, di natura prevalentemente produttiva, senza che vi sia, peraltro, una predeterminata gerarchia di carattere generale tra gli stessi.
Il dispositivo, pertanto, viene considerato risolutivo di ogni possibile criticità “ambientale” (evidentemente, esterna e interna alla fabbrica). Da questo punto di vista, esso risulta addirittura ieratico, pacificato, perché si basa sul presupposto che il coinvolgimento di molti soggetti istituzionali preposti alla salvaguardia della salute e dell’ambiente garantisca la conformità dello stabilimento che la ottiene a tutte le prescrizioni in materia ambientale.
Insomma, l’ottenimento dell’Aia comporta la presunzione ex se di “compatibilità” ambientale dell’attività produttiva
E’ evidente, però, che la questione è più complessa.
Si consideri, infatti, che la prima regolazione si è avuta con il d.lgs. 372 del 1999 ma che solo con il d.lgs. n. 59 del 2005 diventa operativa e viene emanata per la prima volta nel 2011.
Ebbene, proprio nello stesso arco temporale, la questione ambientale, di fatto, esplode.
3.1. Gli interventi giudiziari e le questioni costituzionali nelle vicende Ilva
A questo proposito, ci sono due momenti topici nella storia recente che segnano ognuno un passaggio e vedono interventi costanti della magistratura.
Il primo. È il 26 luglio 2012, quando il GIP Patrizia Todisco, accogliendo la richiesta della procura ionica, dispone il sequestro senza facoltà d’uso dei sei impianti dell’area a caldo ritenuti responsabili secondo le risultanze di ben due perizie (una epidemiologica e l’altra chimica) di emissioni nocive, oltre i limiti consentiti, con impatti devastanti sull’ambiente e sulla popolazione.
Il secondo. Qualche anno più tardi, nel giugno 2015, si verifica un altro incidente mortale nello stabilimento, l’ennesimo, e ne è vittima un operaio investito da materiale incandescente proveniente dall’altoforno “Afo2”.
Il PM, nella fase delle indagini preliminari, dispone, anche in questo caso, il sequestro preventivo d’urgenza, senza facoltà d’uso, dell’altoforno medesimo
La magistratura emette provvedimenti volti a bloccare parte degli impianti; il Governo, quindi il decisore politico (non il legislatore), dal 2012 interviene con la sequela dei c.d. decreti Salva-Ilva volti di fatto a neutralizzare i provvedimenti giudiziari.
Dunque, in entrambi i casi sottoposti alla Corte costituzionale la magistratura penale blocca l’attività produttiva dello stabilimento poiché considerato insicuro per la salute e sicurezza dei lavoratori e più in generale della comunità cittadina; all’inattività coattiva disposta dai Giudici reagisce il legislatore o, più propriamente, il decisore politico.
Infatti, i provvedimenti dei giudici – che hanno sostanzialmente bloccato, seppur parzialmente, gli impianti, rischiando di fermare definitivamente la produzione – hanno brutalmente richiamato l’attenzione del Governo che ha “congelato” l’operato della magistratura.
Sempre in entrambi i casi, di fronte a quelle disposizioni normative, i GIP tarantini, hanno ritenuto di rimettere al vaglio di legittimità della Corte costituzionale le norme che dispongono il dissequestro.
Con le note sentenze, n. 85 del 2013 e n. 58 del 2018, i Giudici costituzionali sono stati chiamati a pronunciarsi sulla legittimità delle norme che, nel caso di stabilimenti di interesse strategico nazionale come l’Ilva evidentemente, consentono la prosecuzione dell’attività produttiva nonostante l’emissione di provvedimenti giudiziari di sequestro dei siti che volti ad impedire quella stessa attività.
I presupposti di questa continuazione, però, effettivamente differiscono e sono alla base della diversa soluzione adottata nelle sentenze.
Nella sentenza n. 85 del 2013, la prosecuzione dell’attività viene condizionata all’osservanza di specifici limiti, disposti in provvedimenti amministrativi relativi all’AIA e assistita dalla garanzia di una specifica disciplina di controllo e sanzionatoria.
Nel caso della sentenza n. 58 del 2018, invece, il quadro regolativo è diverso e, addirittura, non si condiziona la prosecuzione dell’attività al rispetto delle prescrizioni dell’AIA, pur ritenuto l‘unico dispositivo normativo al quale l’azienda debba attenersi, richiedendosi esclusivamente la predisposizione, entro trenta giorni, di un piano che può essere addirittura provvisorio, redatto unilateralmente e, cioè, ad opera della stessa parte colpita dal sequestro dell’autorità giudiziaria, senza alcuna forma di partecipazione di altri soggetti pubblici o privati. Tantomeno si richiede all’azienda l’adozione di misure tempestive volte a rimuovere la situazione di pericolo per l’incolumità dei lavoratori esposti dalla perdurante prosecuzione dell’attività d’impresa.
Quanto al contenuto, nel piano manca del tutto qualsiasi rinvio alla legislazione in materia di sicurezza sul lavoro e questo, come si legge nella sentenza: «… lascia sfornito l’ordinamento di qualsiasi concreta ed effettiva possibilità di reazione per le violazioni che si dovessero perpetrare durante la prosecuzione dell’attività». L’unico limite è quello temporale dal momento che si prevede che l’attività di impresa non può protrarsi per un periodo di tempo superiore a dodici mesi dall’adozione del provvedimento di sequestro (c. 2).
È evidente da quanto detto l’oggettiva differenza dei provvedimenti normativi sottoposti al vaglio costituzionale che effettivamente hanno esiti diversi. E proprio per questo, nel 2018, contrariamente a quanto avvenuto nel 2013, la norma che consentiva la prosecuzione dell’attività produttiva è stata dichiarata illegittima costituzionalmente.
3.2. Il paesaggio assiologico tracciato dalla Corte costituzionale nelle vicende Ilva
È interessante, però, soffermarsi soprattutto sulla parte delle due pronunce nelle quali i Giudici si soffermano sui correlati costituzionali delle norme ordinarie sottoposte al loro scrutinio.
Si osserva a questo proposito che la pronuncia del 2018, benché richiami espressamente quella del 2013 e ne riporti ampi brani, tuttavia inquadra in modo diverso e più nitido i termini del conflitto assiologico, correttamente circoscrivendoli all’art. 41 Cost. (la libertà di iniziativa economica come fondamento costituzionale al diritto di prosecuzione dell’attività produttiva) e al combinato disposto degli artt. 2 e 32 Cost. (tutela della salute e della vita stessa) con gli artt. 4 e 35 cost. (diritto al lavoro e tutela di tutte le forme dello stesso), considerando quest’ultimo come un tutt’uno inscindibile.
È questo è un passaggio di grande interesse e novità che porta a non polarizzare il conflitto tra lavoro/occupazione e salute come poi è passato nella vulgata corrente.
In realtà, nella pronuncia del 2013, si assisteva ad uno spostamento continuo dei termini della polarizzazione assiologica: la Corte costituzionale individuava soltanto sommariamente i beni oggetto del suo scrutinio che risultava così superficiale e sommario. Infatti, nel dichiarare la legittimità delle norme contenute nel cd. decreto “Salva-Ilva”, i giudici costituzionali ne individuavano la ratio nella realizzazione di un ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, ed in particolare tra quello alla salute (art. 32 Cost.), da cui derivava il diritto all’ambiente salubre, e il diritto al lavoro (art. 4 Cost.). Rispetto a questo, si può innanzitutto osservare che veniva fornita una nozione di “diritto al lavoro” limitata ai livelli occupazionali, accedendo ad un’idea meramente quantitativa del lavoro. Che fosse così, è confermato da diversi stralci della pronuncia il cui argomento principale era quello emergenziale: si parlava tanto di emergenza ambientale – dato il pregiudizio arrecato all’ambiente e alla salute degli abitanti del territorio circostante – quanto di quella occupazionale, considerato che l’eventuale chiusura dell’ILVA avrebbe determinato la perdita del posto di lavoro per migliaia di persone, direttamente dipendenti dello stabilimento o interessate dall’indotto.
Certo, in quella sentenza si considerava la grave compromissione della salubrità dell’ambiente e della salute della popolazione, ma si riteneva che le prescrizioni dell’AIA potessero essere sufficienti quantomeno a ridurne gli effetti. Al centro del ragionamento, dunque, veniva posto il problema occupazionale e, tuttavia, il lavoro in quest’accezione non era considerato ex se ma diveniva un precipitato logico dell’iniziativa economica, le cui ragioni, queste sì, diventavano assorbenti. Il lavoro diveniva così soltanto uno dei tanti fattori della produzione, “degradato” a mera occupazione ed in questo senso era contrapposto al diritto alla salute. Lo sbandierato dissidio tra salute e lavoro altro non celava che il vero conflitto tra salute ed impresa.
Se così non fosse stato e il bilanciamento avesse effettivamente riguardato il diritto al lavoro e quello alla salute, quest’ultimo avrebbe avuto un epilogo in ogni caso tragico: morire di lavoro o morire senza lavoro. Di questa tragicità sembrano molto più consapevoli i Giudici costituzionali.
E infatti, i termini assiologici delle due sentenze sono profondamente diversi.
Cionondimeno, la sentenza del 2018 nel mettere molto più condivisibilmente a fuoco la questione, si ferma purtroppo a questo, senza mettere in discussione l’ordine assiologico equiordinato come riconosciuto nel 2013. Qui invece si affermava che tutti i principi/diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non sarebbe possibile pertanto individuare uno di essi che possa prevalere in maniera assoluta sugli altri; tantomeno si riteneva che la definizione dell’ambiente e della salute come «valori primari» data dalla medesima Corte implicasse una “rigida” gerarchia tra diritti fondamentali. Così si attribuiva alla Costituzione la previsione di un continuo e vicendevole bilanciamento tra principi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi.
Ebbene, si deve ammettere che si fa una certa fatica a ritenere che la seconda sentenza (quella del 2018), benché molto diversa nell’esito dall’altra, sia portatrice di un ordine tassonomico differente e cioè in grado di condurre il bilanciamento ad un altro esito; basti considerare che, se il decisore politico avesse previsto un presupposto diverso, la seconda pronuncia della Corte costituzionale sarebbe stata molto probabilmente del tutto allineata alla prima.
Certo, in quest’ultima, la Corte non si inerpica sul percorso valoriale e non tange neppure l’argomento della tirannia dei valori che in sostanza è il nucleo centrale della sentenza del 2013; tuttavia, non ha messo in discussione, almeno non esplicitamente, l’assunto secondo il quale la qualificazione come “primari” dei valori dell’ambiente e della salute significa che non potrebbero essere sacrificati ad altri interessi, ancorché costituzionalmente tutelati, non già che gli stessi siano posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto.
Seguendo questo percorso, ne consegue che il punto di equilibrio, proprio perché dinamico e non prefissato in anticipo, deve essere valutato – dal legislatore nella statuizione delle norme e dal giudice delle leggi in sede di controllo – secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza.
La concatenazione logica degli argomenti conduce alla conclusione enfatica sancita nella sentenza del 2013 e sulla quale non prende posizione la sentenza del 2018 che, se nel bilanciamento si privilegiasse un diritto rispetto agli altri, questo diverrebbe “tiranno”.
Infatti, se il bilanciamento fosse ad un certo punto inibito e dunque i valori non fossero in un ordine mobile e dinamico, «… si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme (che sembra contestuale ed indistinto n.d.r.), espressione della dignità della persona».
Ma, come più recentemente dimostra un altro filone giurisprudenziale, questa volta amministrativo, il bilanciamento, specie se affidato ad un meccanismo regolativo parziale e formalistico come quello dell’AIA, non garantisce, sul piano dell’effettività, la piena soddisfazione di interessi primari quali, in questo caso, quelli connessi alla salute e salubrità dei lavoratori e dei territori sui quali l’Ilva insiste.
Insomma, si può arrivare al paradosso, così come di fatto è successo, che l’AIA sia rispettata ma si continuino a registrare alti livelli di inquinamento e un elevato tasso di malattia correlate a questo.
Dunque, non si tratta di tirannia di un valore, di un principio su un altro, ma dell’effettività della tutela dei diritti dei soggetti coinvolti.
3.3. L’ulteriore variazione in tema di conflitti istituzionali: l’intervento della magistratura amministrativa
Ancora una volta, rispetto al paesaggio legalistico-formale che nell’AIA trova la sua espressione più compiuta, il principio di realtà irrompe.
È il 27 febbraio 2020 quando Taranto viene invasa da fumi provenienti dal sito siderurgico; il Sindaco, perciò, emette un’ordinanza avente ad oggetto “Il rischio sanitario derivante dalla produzione dello stabilimento siderurgico ex Ilva – Arcelor Mittal di Taranto – emissioni in atmosfera dovute ad anomalie impiantistiche – Ordinanza di eliminazione del rischio e, in via conseguente, di sospensione delle attività”.
L’ordinanza sindacale è stata emanata ai sensi degli artt. 50, co. 5 e 54, co. 4 del d.lgs. n. 267 del 2000 (Tuel) che conferiscono al Sindaco un potere di intervento in casi urgenti e contingibili a difesa della salute pubblica.
Proprio su questi elementi, i presupposti del potere sindacale e l’ambito di intervento hanno costituito, come è intuibile, l’oggetto di una querelle innanzi ai Giudici amministrativi conclusasi in prima istanza con il rigetto dell’impugnativa proposta da Arcelor Mittal, nella qualità di gestore dell’impianto e da Ilva, nella qualità di proprietaria[3] e, invece, con il riconoscimento delle ragioni di queste ultime da parte del Consiglio di Stato[4].
A parte l’estrema diversità degli esiti giudiziari, ciò che preme sottolineare è che al centro delle valutazioni dei magistrati amministrativi c’è proprio l’AIA. Per esempio, il Tar Lecce ritiene legittimo l’intervento del Sindaco dal momento che, come confermato dalle risultanze conseguenti alla preventiva e corposa richiesta di informative e pareri rivolta da questi a tutti i soggetti istituzionalmente preposti alla vigilanza in materia sanitaria, a Taranto si è determinata una situazione di grave pericolo per la salute pubblica non risolvibile, evidentemente, con i poteri tipici e nominati nonché secondo l’ordine delle competenze e delle modalità procedimentali stabilite dall’ordinamento. La difesa delle ricorrenti, invece, si arrocca esclusivamente sull’AIA considerata garanzia ex se della legittimità della condotta dell’azienda, e, dunque, asserisce, con un vero e proprio salto argomentativo, l’insussistenza di qualsiasi responsabilità nella causazione dell’inquinamento.
Certo l’AIA sancisce il punto di equilibrio in ordine all’accettabilità e alla gestione dei rischi che derivano dall’attività oggetto della autorizzazione, ma essa ha una serie di limiti: vi sono, intatti, come acquisto dall’istruttoria dei giudici leccesi, delle sostanze che non vengono inserite nell’ambito dell’AIA e che, invece, sarebbero responsabili di patologie mortali molto gravi e diffuse nel territorio tarantino.
I Giudici di Palazzo Spada, invece, si concentrano esclusivamente sulla sussistenza dei presupposti del potere di ordinanza, i quali richiedono come detto la comprovata inidoneità o inefficacia degli altri rimedi predisposti dall’ordinamento, ritenendosi l’AIA assolutamente in grado di assicurare il contemperamento di tutti gli interessi in gioco.
4. Brevi riflessioni finali. Il bilanciamento sempre imperfetto tra lavoro e salute
Dall’ingorgo istituzionale (magistratura /Governo), dall’intervento di Giudici diversi [magistratura del lavoro chiamata in materia di infortuni sul lavoro; magistratura penale per le ipotesi di reato del management e degli organi istituzionali coinvolti nelle diverse vicende; magistratura penale in tema di deprezzamento immobili), magistratura amministrativa (rispetto ai conflitti istituzionali Sindaco-Governo)] si può desumere che il dispositivo normativo costituito dall’AIA mostra la sua incapacità di dare risposta a tutti gli interessi, spesso confliggenti.
Infatti, non solo questo agisce, come detto, solo sul crinale formale ma non è in grado per come è concepito di censire tutti i rischi connessi a un’attività complessa come quella del siderurgico di Taranto.
L’AIA, allora, risulta insufficiente come può esserlo qualsiasi traduzione, sul piano normativo, del bilanciamento dei diritti e delle libertà costituzionali su questioni come quella trattata.
Il bilanciamento appare, infatti, imperfetto sin dall’individuazione dei beni oggetto di misurazione e valutazione.
Già nell’individuazione di interessi contrapposti tra coloro che sono dentro e coloro che sono fuori la fabbrica emerge il primo errore di metodo che falsa poi ogni valutazione successiva.
Inoltre, pur accedendo all’idea di un’individuazione di interessi e che il lavoro e la sicurezza sub specie di tutela della salute dei lavoratori coincidano, al bilanciamento rispetto agli altri principi non si può ricorrere ad oltranza.
Infatti, nella nostra Costituzione i principi sono chiaramente ordinati in modo tassonomico e non equi-ordinato (come, peraltro, il dispositivo giuridico dell’Aia presuppone).
Il lavoro e la salute sono concetti indissolubili, così come sono preminenti rispetto ad altri. Per esempio, alla libertà di iniziativa economica.
Il rispetto assoluto per il lavoro e per la salute attengono al principio personalistico - centralità della persona - che corre lungo tutto il reticolato costituzionale e che trovano nella dignità sociale il loro compimento.
Infatti, il lavoro - e solo quello sicuro - assicura a colui che quel lavoro svolge la sua dimensione di dignità per sé e rispetto alla sua comunità sociale. Ecco, perciò, apparire uno dei termini, quello iniziale della traccia che ci si è data all’inizio di questo contributo, e si chiude così il cerchio della riflessione che vedeva il lavoro connesso alla salute e, in questo modo, alla dignità.
Alla luce di queste riflessioni, si può rivolgere un invito a chi ha il delicatissimo compito di decidere su questioni così drammaticamente delicate: ricordarsi che i principi sono ordinati nella carta costituzionale in modo diseguale. Il lavoro sicuro è sicuramento uno di quelli sovraordinati rispetto agli altri, destinato, per necessità, a prevalere.
Se si tira il filo del lavoro, scarnificandolo, si mette a dura prova tutto l’assetto democratico che su esso si basa; è il lavoro, infatti, a garantire il patto di cittadinanza e quindi l’emancipazione dal bisogno materiale, la libertà e quindi il riconoscimento dei diritti civili e sociali che, insieme, realizzano la dignità sociale.
[1] Sia consentito sul tema il riferimento a S. Laforgia, “Se Taranto è l’Italia”. Il caso Ilva, in Lavoro e Diritto, 2022, 1; pp. 29 ss.
[2] Gli artt. 9 e 41, modificati con l. cost. dell’11 febbraio 2022 n. 1, risultano così rispettivamente riformulati: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Tutela l'ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali»; «L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali». Ai sensi dell’art. 9 Cost. la Repubblica, da sempre impegnata nella promozione dello sviluppo della cultura e nella ricerca scientifica e tecnica nonché nella tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione, è per effetto della modifica altresì tenuta alla tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. Tuttavia, è il riferimento stesso al “patrimonio” quale complesso di risorse che sono proprie di una determinata comunità insediata in un territorio e il fatto che la titolarità sia attribuita alla Nazione – che non coincide con il popolo ma comprende le generazioni passate e prossime – a caricare la disposizione di significato e a giustificare l’esistenza di limiti alla disponibilità di esso da parte della generazione presente. Così nel secondo comma dell’art. 41 Cost. sono stati inseriti nuovi e diversi limiti all’esercizio dell’iniziativa economica privata, accanto a quelli preesistenti relativi all’utilità sociale, alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana, come il limite del danno alla salute e all’ambiente; la modifica del terzo comma d’altro canto aggiunge una seconda finalità dell’attività di indirizzo e coordinamento dell’attività economica, pubblica e privata, prevedendo che questa debba essere altresì orientata a fini, oltre che sociali, anche ambientali.
[3] Sent. Tar sez. Lecce (I), 13.02.2021, n. 249 in www.giustizia-amministrativa.it.
[4] Cons. Stato (IV sezione), 21.06.2021, n. 1482 in www.giustizia-amministrativa.it.