Riflessioni a margine di un dibattito sul metodo giuridico[i]
di Fabio Francario
Sommario: 1. Il “cosa” e il “come” - 2. Diversità di metodo per diverse figure di giurista - 3. Sul metodo giuridico dello studioso accademico - 4. Ulteriori spunti di riflessione critica.
1. Il “cosa” e il “come”.
Sovente accade, specie nei tempi più recenti, che le conclusioni di un convegno di studi vengano preparate in anticipo, con l’effetto di aggiungere una vera e propria nuova relazione al dibattito che si dovrebbe invece concludere. A volte ciò avviene senza nemmeno aver presenziato allo svolgimento dei lavori congressuali.
Voglio tranquillizzare subito i presenti precisando che non intendo seguire questa modalità. Mi limiterò a raccogliere gli spunti offerti dalle relazioni ascoltate per i profili che mi hanno maggiormente suggestionato, mettendo insieme e cercando di riordinare al meglio gli appunti presi durante l’ascolto.
Inizierei da una cosa della quale in verità non si è affatto parlato, ma che credo sia di sicuro e concreto interesse per tutti gli appartenenti alla comunità scientifica accademica e che è esemplare per sintetizzare le diverse problematiche che si agitano sul tema del metodo giuridico. Mi riferisco alla prassi ormai invalsa del c.d. referaggio o più in generale della necessità di sottoporre a valutazione la produzione scientifica individuale. Impossibile appartenere alla comunità scientifica accademica senza esserne soggetti o attivamente, in quanto valutatori, o passivamente, in quanto autori del prodotto scientifico sottoposto appunto a valutazione. In un modo o nell’altro, come docenti universitari, siamo tutti coinvolti nel processo valutativo. Il nesso di questo primo appunto con il tema dell’odierno incontro emerge quasi testualmente dai format in uso per i referaggi, che presentano quasi sempre nella griglia di valutazione, quasi fosse obbligatorio, il riferimento al profilo del metodo scientifico seguito. Occorre precisare se il metodo è corretto o meno; se il lavoro svolto è corretto o meno sotto il profilo metodologico.
Lo spunto ci conduce immediatamente al cuore del tema oggetto del presente convegno se solo ci si domanda come si giudica corretto un lavoro sotto il profilo metodologico, quali criteri debba seguire il valutatore e se vengono sempre seguiti dei criteri univoci. Non so se in fondo in fondo sia un bene o un male, ma non credo che abbiamo tutti lo stesso metro di giudizio nel valutare un contributo sotto tale profilo. Non mi riferisco ovviamente al significato intrinseco di quello che è stato detto dall’autore del contributo sottoposto a valutazione, alle conclusioni raggiunte dal lavoro scientifico esaminato. La valutazione di “cosa” è stato detto impinge sul diverso profilo della originalità o meno del contributo scientifico.
Nella parte in cui s’interessa del metodo, il valutatore si preoccupa del “come”, non del “cosa”. Non si preoccupa cioè di vedere se il contributo è originale o meno, ma come si è svolto il lavoro, com'è stata condotta l'indagine, in che modo è stata svolta la ricerca, “come” ha proceduto l'autore. Non già “cosa” ha detto, perché ciò implicherebbe entrare nella valutazione del merito del contributo, e non del metodo seguito.
Il profilo del metodo consuma dunque una valutazione che dovrebbe essere aliena da margini di opinabilità, non fosse altro per la gravità delle sue conseguenze: se il lavoro non è metodologicamente corretto, vuol dire che non è scientificamente accettabile; che l'Accademia non lo può accettare come contributo. Se il diritto è scienza, vuol dire che le conclusioni raggiunte devono poter essere verificabili; nel senso che, riproducendo lo stesso metodo seguito dall’autore, si raggiungono le medesime conclusioni in ordine ad un dato fenomeno o realtà giuridica.
Senza dunque entrare nel merito di cosa abbia detto l’Autore, per stabilire se il lavoro è stato condotto correttamente, il valutatore dovrebbe dunque valutare innanzi tutto se l’Autore abbia preso in osservazione i dati dell'esperienza giuridica. La considerazione può sembrare ovvia e banale, ma non lo è affatto, come dimostra l’incertezza più volte emersa nel dibattito odierno sul concetto stesso di esperienza giuridica.
2. Diversità di metodo per diverse figure di giurista.
Come è stato più volte sottolineato nei diversi interventi, la nozione di esperienza giuridica non è semplice, ma complessa; nel senso che identifica, nel loro insieme, esperienze in realtà molto diverse tra loro. Ripercorrendo un dibattito radicato nella tradizione, Vincenzo Cerulli Irelli ha ben rappresentato la tendenza ad assorbire il problema del metodo in quello della giusta selezione del dato giuridico oggetto di osservazione, focalizzando l’attenzione sulla dialettica del ragionar per valori e principi, seguendo un metodo induttivo o deduttivo, o per fattispecie, attraverso un lavoro di sussunzione. E Margherita Ramajoli ha ben sottolineato che, sia se si muova dal sistema, sia che si muova dal caso problematico, il metodo giuridico deve saper sempre coniugare pensiero sistematico e pensiero problematico.
Muovendo dall’osservazione che la nozione di esperienza giuridica non è univoca, credo si possa però fare un’ulteriore considerazione; e cioè che la nozione non è univoca (anche) perchè sullo scenario dell’esperienza giuridica si muovono tre attori protagonisti. C'è il cultore della materia, l'accademico, lo studioso teorico del diritto; c'è poi il magistrato, il giudice che deve applicare le norme per risolvere conflitti insorti nei singoli casi di specie tra parti concretamente interessate alla definizione di una lite; e c'è anche il legislatore, chi fa le norme, chi fa le leggi e cose di questo genere. Il lemma “giurista” indica quindi situazioni diverse, che diversamente si muovono nello scenario dell’esperienza giuridica e approcciano il dato giuridico con differenti finalità.
La considerazione che a mio avviso è giusto trarre da questa constatazione è dunque che ciascuna categoria debba avere ed applicare un metodo giuridico suo proprio, che cioè alle diverse categorie di giuristi corrispondano metodi giuridici diversi. Voglio con ciò dire che, se ragioniamo sul metodo ed allarghiamo il dato dell'esperienza giuridica fino a comprendere tutte e tre le categorie, dobbiamo raggiungere la conclusione che il metodo giuridico impiegato varia in ragione del ruolo proprio di ciascuna categoria. Il metodo giuridico dello studioso non è cioè lo stesso del normatore, di chi fa le norme; e non è nemmeno lo stesso del magistrato, del giudice.
Lo studioso teorico deve muovere dall’osservazione della letteratura, della giurisprudenza e della legislazione - normazione. Il giudice deve invece trovare, più o meno in base alle leggi, partendo cioè dal dato normativo, la soluzione giusta per il caso concreto. Non deve seguire lo stesso metodo del giurista accademico. Il metodo è diverso. Anzi. Guai se il giudice, come spesso poi in realtà accade, si mette a fare accademia quando produce una sentenza. E’ cosa in verità deprecabile, ma tuttavia frequente, che vengano prodotte sentenze in forma di trattato giuridico. Quando ciò avviene, spesso e volentieri si perde la sequenza logica di stretta consequenzialità sulla quale dovrebbe fondarsi la decisione (premessa, conseguenza e conclusione). Quando ciò avviene, la decisione sembra voler fondare la propria autorevolezza nel dato quantitativo, piuttosto che qualitativo, e sembra voler nascondere la ratio decidendiinabissandola nelle diverse decine di pagine in cui viene articolata la motivazione. Cosa che, peraltro, avviene in barba alla declamazione del principio di sinteticità, che viene fatto gravare solo sui pratici avvocati che si azzardano a fare ricorsi innanzi al giudice amministrativo, ed è chiaro ed evidente sintomo della debolezza del principio applicato. Più la sentenza è lunga, meno ne è comprensibile il principio realmente affermato. Questa inclinazione della giurisprudenza a farsi dottrina è stata ben sottolineata da Pierluigi Portaluri, unitamente ai rischi in essa insiti. La sentenza, dunque, non deve fare accademia e il metodo di valutazione della sentenza è pertanto necessariamente diverso da quello che deve seguire il giurista studioso. Il giurista “giudice” deve fare una sentenza giusta. Bisogna poi ovviamente intendersi su cosa esattamente significhi trovare la soluzione giusta nel caso concreto, ma si aprirebbe un altro discorso (per non lasciare incompiuto il riferimento, posso rinviare agli atti del convegno di Modanella del maggio 2017, pubblicati in F. Francario, M.A. Sandulli, La sentenza amministrativa ingiusta e i suoi rimedi, Napoli, 2018).
Diverso è anche il metodo del giurista “legislatore”. Egli non deve seguire lo stesso metodo del giudice. Non si deve preoccupare di giustificare più di tanto il perché arrivi a determinate conclusioni. Ci sarà sì un preambolo che recherà le motivazioni delle statuizioni, ci saranno relazioni e atti preparatori che serviranno a giustificare il potere pubblicistico che viene esercitato. Dal punto di vista del metodo, però, una norma è corretta se ha rispettato le fonti ad essa superiori, che ne limitano il possibile contenuto secondo principi gerarchici o di competenza. Se prendiamo l’atto normativo per eccellenza, la legge, è corretta se viene fatta rispettando la Costituzione. E così il decreto delegato, se rispetta la legge di delega; e il regolamento, se rispetta le norme aventi forza e valore di legge. A ciò si possono poi aggiungere i requisiti generali di metodo indicati da Crisafulli, i caratteri generali che una norma deve possedere. La generalità e l'astrattezza della formulazione, cosa che oggi come oggi è sempre più difficile rinvenire in un atto normativo.
La conclusione che si raggiunge è quindi che il metodo giuridico si può e si deve differenziare a seconda della categoria del giurista che opera nel concreto dell'esperienza giuridica.
3. Sul metodo giuridico dello studioso accademico.
Il chiarimento raggiunto ci aiuta a capire meglio quale deve essere il ruolo specifico del giurista accademico, dello studioso del diritto.
La risposta in verità dovrebbe essere semplice: lo studioso, non pressato dall’esigenza di definire una lite concretamente insorta in un caso di specie, né da quella di definire in maniera generale e astratta regole di condotta che devono essere osservate per la definizione delle liti o per prevenirne l’insorgere, dovrebbe preoccuparsi di ricomporre gli istituti giuridici che il dato più o meno disordinatamente proposto dal formante giurisprudenziale e da quello normativo consentono di ricostruire. Secondo principi informatori comuni ai diversi dati o fenomeni giuridici.
È importante intendersi sul fatto che i principi non sono solo quelli che siano esplicitamente dichiarati tali in un enunciato legislativo. Anche, e forse soprattutto, sono quelli che non sono espressamente dichiarati dal legislatore, ma che emergono dalla logica intrinseca del dato positivo, come principi generali della materia o dell’ordinamento. Ancora più importante è ricordare, come ben sottolineato da Marco Mazzamuto, che l’enucleazione di questi principi è compito precipuo della dottrina. La riconduzione dei diversi dati, nelle loro reciproche relazioni, in istituzioni giuridiche ricostruite secondo un principio di coerenza logica, la sistemazione dei diversi fenomeni giuridici in insiemi coerenti, è compito irrinunciabile per la dottrina, che non avrebbe altrimenti ragion d’essere se pensasse di poter limitare il proprio contributo soltanto alla mera comunicazione e diffusione della conoscenza del dato giurisprudenziale o normativo. Per far ciò, basterebbe e avanzerebbe un bravo giornalista.
La ricostruzione teorica degli istituti giuridici è invece un’attività di fondamentale importanza per garantire l’effettivo rispetto del principio democratico di eguaglianza da parte dell’ordinamento. La possibilità di confrontare la decisione del caso giurisprudenziale o un precetto normativo con un parametro di ragionevolezza preesistente è garanzia verso la possibilità di arbitrio tanto del giudice, quanto del legislatore. L’arbitrarietà o irragionevolezza del favor che venga eventualmente riservato dall’uno o dall’altro diventa visibile (e ove possibile censurabile nelle forme e nei modi previsti dall’ordinamento) se ed in quanto il raffronto con la disciplina e i principi informatori dell’istituto applicato, sia esso di diritto sostanziale o processuale, rende evidente che la scelta compiuta dal giudice o dal legislatore non appare spiegabile in base ai principi e alle regole dell’istituto ma contrasta con esse. Altra cosa è, ovviamente, se si è invece di fronte a scelte e decisioni, legislative o giurisprudenziali, che, consapevolmente e dichiaratamente, ritengono opportuno innovare l’ordinamento revisionando o aggiornando l’istituto medesimo.
4. Ulteriori spunti di riflessione critica.
Oggi come oggi, il ruolo del giurista teorico è messo fortemente in crisi dai processi di globalizzazione, nel momento in cui questi tendono a rendere labili i confini tra le materie e obsoleti gli istituti tradizionalmente impiegati.
La vulgata dominante o, se si preferisce il mainstream imperante, vuole infatti che, oggi come oggi, il giurista debba aprirsi e confrontarsi con gli altri Saperi e non debba chiudersi in una torre d’avorio. Questo perché si ritiene che la società contemporanea, sempre più caratterizzata da processi di globalizzazione e di integrazione delle scienze e delle conoscenze, non possa più prescindere da forme di comunicazione più immediate e comprensibili dei Saperi e, soprattutto, da una sostanziale omogeneizzazione dei Saperi stessi che è frutto del loro reciproco intrecciarsi unicamente intorno ai rispettivi fundamentals, come ha ben rappresentato Fulvio Cortese.
Questo è un punto molto delicato sul quale occorre intendersi. Proprio e in special modo se intenda confrontarsi con gli altri Saperi, il giurista deve stare attento innanzi tutto a non perdere il tratto identitario del proprio Sapere, il che significa che il dato proprio dell’osservazione scientifica del giurista accademico rimane pur sempre il mondo del diritto, fatto di norme, giurisprudenza e istituti ricostruiti dalla letteratura giuridica. Il confronto suppone necessariamente la diversità. Se questa viene meno, non c’è più nemmeno la possibilità di confronto. In fondo, come ha ben ricordato Marco Mazzamuto, così è sempre stato e propugnare oltre misura l’eclettismo scientifico implica solo alimentare la crisi del diritto compromettendo il livello di civiltà dell’ordinamento.
Il tema è particolarmente delicato per lo studioso del diritto amministrativo, in quanto, a seguire i processi di omogeneizzazione in atto, si rischiano di perdere le caratteristiche di specialità, che contraddistinguono la materia non per il solo fatto che la pubblica amministrazione è necessariamente destinataria di tale disciplina, ma perché i rapporti giuridici e i conseguenti sistemi di garanzia ubbidiscono a principi informatori diversi rispetto a quelli tipici del diritto civile o dei privati cittadini. Procedimentalizzazione, unilateralità e tipicità degli effetti giuridici governano l’attività di tutela di interessi superindividuali; rilevanza dell’elemento volontaristico e atipicità degli effetti giuridici governano la tutela degli interessi individuali. Le prime vittime dei processi di omogeneizzazione sono le realtà che perdono la ragion d’essere della propria specialità e, nel caso del diritto amministrativo, la posta in gioco è l’abbandono di modelli che creano rapporti giuridici finalizzati ad apprestare garanzie nei confronti dell’esercizio del potere amministrativo.
V’è certamente una crisi delle categorie tradizionali nello spiegare e orientare il mondo giuridico del dover essere, aggravata dalla crescente incapacità del legislatore d’intervenire dettando discipline che abbiano le caratteristiche della stabilità, della generalità e dell’astrattezza e che, almeno in ambito nazionale, diventa invece sempre più amministratore di interessi particolari. Se le categorie tradizionali non sono più in grado di spiegare il presente, vuol dire che ne vanno ricostruite e messa a sistema di nuove, ma la giurisprudenza, come non ha mancato di sottolineare Pierluigi Portaluri, non può essere lasciata sola nell'occupazione degli spazi lasciati vuoti dal legislatore, altrimenti cresce il rischio che la giustizia trasmodi in arbitrio. La giustizia è una questione troppo importante perché se ne occupino solo i giudici. Così si legge nel manifesto della rivista alla quale tanti di noi collaborano nella sezione diritto e processo amministrativo nel preciso intento di rivitalizzare quello che una volta era il genere letterario, tipico del giurista, delle c.d. note a sentenza (per tutti v. G. Morbidelli, Le note a sentenza di Aldo M- Sandulli, in Giustiziainsieme.it, 2 marzo 2022). E’ una scommessa intellettuale che tanti di noi hanno fatto nel convincimento che giurisprudenza e dottrina debbano svolgere ciascuna il proprio ruolo mantenendo vivo un dialogo ispirato a un confronto non autoreferenziale: il giudice deve preoccuparsi di trovare la soluzione giusta nel caso concreto; la dottrina deve preoccuparsi di valutare la coerenza sistematica della singola pronuncia nell'insieme dell'ordinamento. Il dialogo, tra giurisprudenza e dottrina, che valorizzi le rispettive competenze e vocazioni è indispensabile per assicurare quanto più possibile il rispetto del principio della certezza del diritto e con esso l'uguaglianza dei cittadini davanti alla legge.
[i] L’articolo riproduce le conclusioni del convegno tenutosi presso l'Università degli Studi Roma Tre il 1 marzo 2022 su Il confronto nel metodo giuridico, i cui atti sono in corso di pubblicazione nel volume a cura di F. Aperio Bella, A. Carbone, E. Zampetti, Il confronto nel metodo giuridico, Napoli, 2023.