Sommario: 1. Premessa - 2. La disciplina delle SSPL, con particolare riferimento alla governance di queste strutture formative - 3. Segue: equivoci del richiamo alla “legge Gelmini” ai fini della individuazione dei casi di “incompatibilità” ostativi all’assunzione di “cariche accademiche” - 4. Conclusioni.
1. Premessa
Una recentissima pronuncia del Consiglio di Stato getta (in articulo mortis) un’(ingiusta e sorprendente) ombra di “illegittimità” sulla conduzione delle Scuole di specializzazione per le professioni legali (d’ora in poi: SSPL) nel corso del quarto di secolo (o poco più) in cui queste Scuole hanno (sin qui) operato nel nostro ordinamento, dal momento della loro istituzione[1].
L’esperienza maturata in questo periodo (tutto sommato, non breve, considerata la rapida “obsolescenza”, alla quale ci siamo ormai assuefatti, come destino di molti istituti, che il legislatore introduce per finalità a volte contingenti, o in vista del conseguimento di risultati diversi, e comunque “secondari” rispetto a quelli che si dovrebbero invece considerare come “propri” e “primari” dell’istituto di cui trattasi[2]), è fatta di luci e di ombre.
Le prime sono rappresentate dal fatto che le Scuole di specializzazione per le professioni legali hanno costituito un “laboratorio” che ha messo insieme (forse per la prima volta) – in confronto (e dialogo) tra loro – competenze ed esperienze di “professionisti legali” diversi (giudici, avvocati, notai, che si sono affiancati alla tradizionale figura dei docenti universitari), confronto che si è rivelato generalmente assai proficuo, dando modo agli “specializzandi” non solo di integrare la conoscenza teorico-concettuale degli istituti (acquisita nelle aule universitarie) con la vita concreta degli stessi nella dinamica evolutiva degli ordinamenti (il c.d. “diritto vivente”), ma anche di percepire le diverse “prospettive” dalle quali il singolo fenomeno giuridico può essere riguardato.
Le seconde sono (state), invece, la conseguenza di quel vizio di origine cui si accennava, e dal quale non è stata immune neanche l’introduzione delle SSPL: ossia, il fatto che l’istituzione delle Scuole sia stata concepita non solo (e non tanto) per l’importanza intrinseca del progetto (che esse avrebbero dovuto essere chiamate a realizzare), quanto piuttosto per conseguire (nell’immediato, e perciò nel contingente) altre finalità, rispetto alle quali le Scuole hanno finito per apparire come uno “strumento” (piuttosto che come un fine, in sé meritevole di essere perseguito), con la conseguenza – come vedremo subito – che, venuta meno questa funzione (meramente) “strumentale”, ha finito per essere travolto anche il “progetto” di fondo.
Queste “altre finalità” (cui si è or ora accennato) risultavano enunciate sin dalla Legge che, per prima, ha previsto l’istituzione delle Scuole (rinviando poi ad un regolamento la disciplina delle stesse). Si tratta della L. 15 maggio 1997, n. 127, il cui lunghissimo art. 17 conteneva due commi (il 113 e il 114) con i quali il Governo veniva delegato ad emanare (entro sei mesi) uno o più decreti legislativi, per modificare la disciplina del concorso per l'accesso alla magistratura ordinaria, prevedendo (fra l’altro) “l’introduzione graduale, come condizione per l'ammissione al concorso, dell'obbligo di conseguire un diploma esclusivamente presso scuole di specializzazione istituite nelle università, sedi delle facoltà di giurisprudenza» (comma 113), mentre il comma successivo prevedeva altresì, quanto all’accesso alle professioni di avvocato e di notaio, che il diploma di specializzazione di cui al comma precedente diventasse “titolo valutabile ai fini del compimento del relativo periodo di pratica”, concludendosi con la delega al Governo a definire “i criteri per la istituzione ed organizzazione delle scuole di specializzazione di cui al comma 113, anche prevedendo l'affidamento annuale degli insegnamenti a contenuto professionale a magistrati, notai ed avvocati” (comma 114).
Dunque, l’istituzione delle Scuole di specializzazione per le professioni legali è stata esplicitamente “agganciata” (anzitutto) ad una ipotizzata riforma della disciplina del concorso per l’accesso alla magistratura ordinaria, e, in secondo luogo, a (minori, ma anch’esse significative) modifiche incidenti sul requisito della “pratica professionale” richiesta per l’accesso agli esami di avvocato e al concorso notarile[3].
Il che è stato realizzato, negli anni successivi, attraverso una serie di disposizioni. E, così, si è previsto che il conseguimento del titolo di specializzazione avrebbe consentito l’accesso all’esame per l’ingresso in Magistratura, senza dover superare la prova c.d. “preselettiva” all’epoca contemplata (primo passo in vista dell’ipotizzata configurazione del diploma di specializzazione come “filtro unico” per l’accesso al concorso per uditore giudiziario)[4], e si è stabilito, altresì, che “il diploma conseguito presso le scuole di specializzazione per le professioni legali … è valutato ai fini del compimento del tirocinio per l'accesso alla professione di avvocato per il periodo di un anno”[5], e analoga previsione è stata dettata ai fini dello svolgimento della pratica notarile come requisito per l’accesso al relativo concorso [6].
Nel frattempo era stato emanato (sulla base della delega contenuta nel già citato comma 114 della L. 127/1997) il D.lgs. 7.11.1997, n. 398, cui ha fatto seguito (a distanza di quasi 2 anni !) il D. min. 21.12.1999 n. 537 (Regolamento recante norme per l’istituzione e l’organizzazione delle scuole di specializzazione per le professioni legali): e sono queste le due fonti “nazionali”, che hanno – ab initio e sin qui – disciplinato le Scuole di specializzazione, istituite presso le varie università italiane.
Rinviando al prossimo paragrafo l’esame di alcuni aspetti di tale disciplina (con particolare riferimento al profilo toccato dalla sentenza, al cui commento sono dedicate queste Note), concludiamo questa breve introduzione solo aggiungendo che la parabola delle SSPL (un istituto ormai in articulo mortis – come si detto in esordio) era, in un certo senso, già iscritta nelle “premesse” a cui era stata “collegata” la nascita delle SSPL: (premesse) venute meno le quali (cosa che è accaduta quando si è deciso di modificare i requisiti di accesso al concorso per uditore giudiziario, non già nel senso – come si era inizialmente pensato – di irrobustire il “filtro” di accesso a tale concorso, bensì nel senso di porre come requisito il semplice possesso della laurea in Giurisprudenza) si è registrato un vertiginoso calo delle domande di ammissione alle SSPL (il cui numero è ormai notevolmente inferiore ai posti che vengono annualmente banditi, sulla base delle determinazioni ministeriali), tanto da far pronosticare la scomparsa (de facto, prima ancora che de iure) dell’istituto, a meno che non intervenga una riconsiderazione normativa della funzione e dei compiti di queste Scuole.
2. La disciplina delle SSPL, con particolare riferimento alla governance di queste strutture formative
Le Scuole di specializzazione per le professioni legali – secondo la normativa che le regola – sono istituite presso le Università che siano sedi di Facoltà di Giurisprudenza (art. 2 Decr. n. 537/1999) e sono rette da un Consiglio direttivo presieduto da un direttore, e composto di 12 membri (di cui sei professori universitari di discipline giuridiche ed economiche, designati dal Consiglio della Facoltà di Giurisprudenza; due magistrati ordinari, due avvocati e due notai, scelti nell’ambito di tre rose di quattro nominativi formulate rispettivamente dal C.S.M., dal C.N.F. e dal C.N.N.). Il Direttore, come recita il 4° comma dell’art. 5 del Decr. n. 537/1999, «è eletto dal Consiglio stesso nel proprio seno tra i professori universitari di ruolo».
Quest’ultima formula – che, come si vede, fa generico riferimento ai “professori universitari di ruolo” (senza distinguere tra professori a tempo pieno e professori a tempo definito) – è ripetuta tal quale praticamente in tutti i Regolamenti delle Scuole di specializzazione per le professioni legali (che la riproducono fedelmente, al più specificando se debba trattarsi di professori ordinari o anche di professori associati)[7].
E sulla base di essa (che – si ripete – non distingue tra professori a tempo pieno e professori a tempo definito), in moltissime (quasi tutte le) Scuole di specializzazione esistenti nelle Università italiane, risultano essere stati, o essere attualmente, Direttori (della Scuola) professori a tempo definito (ossia dei «prof. avv.», vale a dire dei professori che, essendo anche avvocati, hanno fatto l’opzione per il c.d. “tempo definito”).
E, sulla base di tali previsioni dei regolamenti universitari (riproduttive – si ripete – della norma generale, nazionale), in tutte le Università sedi di Scuole di specializzazione per le professioni legali, l’incarico di Direttore della Scuola è stato attribuito e ricoperto (nel corso degli anni) sia da professori (di ruolo) “a tempo pieno”, sia – e in maniera nettamente prevalente – da professori “a tempo definito”, cioè da professori che svolgevano anche la professione di avvocato[8].
D’altronde sarebbe ben strano che la Direzione di una Scuola di specializzazione, finalizzata a consentire e favorire l’accesso alle “professioni legali”, fosse preclusa proprio a quei docenti universitari che, esercitando una professione legale (nella specie quella di avvocato), sono meglio in grado di comprendere le problematiche – non solo teoriche, ma anche “pratiche” – che si riconnettono all’esercizio della professione, e sono meglio in grado altresì di interloquire con gli altri componenti “extra-accademici” del Consiglio direttivo, che sono anch’essi dei professionisti (avvocati, notai, magistrati).
E, del resto, le materie che costituiscono l’ossatura fondamentale dell’ordinamento didattico delle Scuole di specializzazione per le professioni legali (e cioè il Diritto privato, il Diritto Amministrativo, il Diritto penale, cui si aggiungono il Diritto del Lavoro, il Diritto Commerciale, la Procedura civile, la procedura penale) sono materie che, nelle università, sono per lo più (o, comunque, assai spesso) insegnate da docenti che esercitano anche la professione; e sarebbe del tutto irrazionale che la carica di Direttore delle Scuole di specializzazione fosse (esclusivamente) “riservata” a professori che non siano anche dei “professionisti”, bensì docenti di materie c.d. “culturali” (come Diritto romano, Filosofia del diritto, Diritto costituzionale, etc.), sebbene anche tra questi ultimi si trovino spesso dei valentissimi avvocati.
Vi è dunque una ratio (una “ragionevolezza”, come si amerebbe dire oggi), abbastanza intuitiva (e che affianca e rafforza il dato testuale), della previsione normativa sopra ricordata, che dichiara che il Direttore della Scuola deve essere (semplicemente) “un professore di ruolo”, senza aggiungere altro (e in particolare, senza aggiungere che deve trattarsi di un professore “a tempo pieno”). Ratio pienamente rispettata ed attuata dalla prassi (del tutto conforme alla norma di legge e di regolamento) che ha visto (e vede ancora oggi) l’attribuzione dei compiti di Direzione delle Scuole di specializzazione per le professioni legali quasi sempre (e. comunque, in un grandissimo e prevalente numero di casi) a dei «prof. avv.», ossia professori a tempo definito.
Non può non sorprendere – allora – che, nella sentenza che si annota, queste elementari considerazioni (che si basano – si ripete – su una piana interpretazione, inequivocamente corroborata dal dato testuale, ma anche da quello desumibile dalla ratio legis), siano state completamente pretermesse dal Consiglio di Stato, nella sentenza in commento.
Il “caso” riguardava l’impugnazione davanti al giudice amministrativo del provvedimento adottato dal Rettore di una Università, che aveva decretato la “revoca” dall’incarico di Direttore della Scuola di specializzazione per le professioni legali istituita presso quell’Università, di un docente (che svolgeva tale incarico da circa dieci anni), sulla base di una asserita “incompatibilità” della assunzione e dello svolgimento di tale incarico, essendo il docente in questione un docente “a tempo definito” (ossia un “prof. avv.”).
Ecco cosa si legge nei passaggi più significativi (pur nel contesto di una motivazione alquanto scarna, e sostanzialmente apodittica) della sentenza in questione. Scrivono i giudici, affermando l’assenza di alcun profilo di illegittimità dell’atto (di “revoca”):
(Omissis)
5.6 – In primo luogo, la già inequivoca previsione dello Statuto universitario deve essere necessariamente letta alla luce della sopravvenuta disposizione dell’art. 6, comma 12, della legge n. 240/2010, che prevede una diretta ed oggettiva incompatibilità tra lo svolgimento delle funzioni di professore a tempo definito e le cariche accademiche, tra le quali non si comprende perché non potrebbe essere fatta rientrare, come sostenuto, quella di Direttore della Scuola di Specializzazione della medesima Università, trattandosi di un incarico in ambito universitario limitato ai soli docenti universitari ai sensi del dm 537/1999, art. 5.
5.7 – Il provvedimento di revoca si configurava dunque come un atto non solo legittimo, ma dovuto ed a contenuto vincolato ex lege a causa di una oggettiva condizione, da valutare in astratto, di incompatibilità fra la figura professionale dell’appellante e l’incarico da esso rivestito.
Il brano citato configura, dunque, la “revoca” (nella fattispecie in esame) come “un atto non solo legittimo, ma dovuto ed a contenuto vincolato ex lege”, a ragione di “una oggettiva condizione, da valutare in astratto, di incompatibilità” tra l’incarico rivestito e lo “status” professionale di docente “ a tempo definito”.
3. Segue: equivoci del richiamo alla “legge Gelmini” ai fini della individuazione dei casi di “incompatibilità” ostativi all’assunzione di “cariche accademiche”
Come risulta dal brano (della sentenza) citato nel paragrafo precedente, la legittimità dell’atto di “revoca” impugnato viene ravvisata dai giudici di palazzo Spada nell’art. 6, comma 12, della “Legge Gelmini” (legge 30 dicembre 2010, n. 240), ai sensi del quale “la condizione di professore a tempo definito è incompatibile con l’esercizio di cariche accademiche”.
Orbene – ammesso pure (ma non concesso: v. subito infra) che la disposizione in esame sia, nella specie, invocata pertinentemente – i giudici avrebbero dovuto quanto meno porsi il dubbio se essa sia idonea a prevalere sulle formule contenute nei testi normativi specificamente concernenti la Scuola di specializzazione (e sopra richiamati).
Questi testi sono bensì anteriori alla “legge Gelmini”, la quale sembrerebbe pertanto prevalere in virtù del principio lex posterior derogat priori. Sennonché, tra i criteri di risoluzione delle c.d. “antinomie normative” vi è anche il diverso principio, secondo il quale “lex specialis derogat generali” (anche se la legge generale è una legge successiva).
Orbene, quella che ci riguarda sarebbe certamente (sempreché – si ripete – si assuma che la legge Gelmini sia astrattamente applicabile anche al caso di specie) un’ipotesi “da manuale” di applicazione di quest’ultimo criterio. Non v’è dubbio, infatti, che sulla legge Gelmini (legge generale sopravvenuta, e dunque prevalente in base ad un criterio meramente “temporale”) prevale (ancorché anteriore) – in quanto lex specialis − la normativa specifica che regola le Scuole di specializzazione, e che in particolare non utilizza (ai fini dell’incarico di Direttore della Scuola) la distinzione tra docenti a tempo pieno e docenti “a tempo definito”. Il che – come abbiamo visto – è confermato dalla “prassi” (del tutto secundum legem) che vede, in quasi tutte le Scuole di specializzazione per le professioni legali istituite presso le università italiane, l’incarico di Direttore (della Scuola) attribuito anche (e, anzi, in misura assolutamente prevalente) a professori (di ruolo) “a tempo definito”.
Ma c’è di più. Come già anticipato, può fondatamente contestarsi la stessa riferibilità del cit. art. 6, co. 12, della Legge Gelmini (e delle sue “riproduzioni” negli Statuti universitari) anche alla figura di Direttore della Scuola di specializzazione per le professioni legali, che non può essere considerata una “carica accademica” in senso stretto.
Sebbene, infatti, le Scuole di specializzazione siano “strutture didattiche” delle Università che le ospitano e che ne hanno la gestione, esse non sono, in senso stretto, “organi” delle Università presso le quali operano, e quindi anche l’appartenenza al Consiglio direttivo delle Scuole da parte dei docenti universitari non può considerarsi una “carica accademica” (come dimostra il fatto che i Consigli direttivi delle SSPL sono pieni di professori “a tempo definito”). Né – in particolare – può considerarsi una “carica accademica” quella (specifica) di “Direttore” della Scuola, posto che la nomina a questo ruolo non proviene da un organo universitario (Consiglio di Facoltà, e, oggi, Consiglio di Dipartimento; Senato accademico, Consiglio di amministrazione, etc.), bensì da un Collegio (il Consiglio direttivo della Scuola) che è composto non solo da sei docenti universitari ma altresì – come visto – dai sei rappresentati dell’Avvocatura, della Magistratura e del Notariato). La circostanza che la nomina del Direttore (eletto dal Consiglio direttivo della Scuola) avvenga con decreto rettorale non modifica questo dato, perché il decreto rettorale di nomina non è che una mera presa d’atto di una deliberazione adottata da un collegio del quale fanno parte anche componenti non accademiche.
La sentenza del Consiglio di Stato, che qui si è voluto prendere in esame, non si pone alcuno dei problemi sopra indicati, e si risolve in affermazioni puramente apodittiche (quale quella secondo cui “non si comprende perché [tra le cariche accademiche] non potrebbe rientrare anche quella di Direttore della Scuola») ed autoreferenziali. Se a ciò si aggiunge la totale pretermissione del dato normativo relativo alla disciplina “specifica” delle Scuole di specializzazione (una disciplina – come visto – chiara nel suo tenore testuale, coonestato dalla ratio legis), non può che concludersi nel senso di trovarsi di fronte ad una pronuncia (quanto meno) superficiale, attesa anche la sostanziale assenza di una (vera) motivazione.
4. Conclusioni
Le considerazioni sopra svolte potrebbero indurre a “derubricare” la vicenda al rango di una tra le tante ipotesi di pronunce giudiziali “erronee” (o, quanto meno, discutibili). La cosa non meriterebbe di destare meraviglia, pur essendo indicativa di una preoccupante tendenza a svalutare i dati normativi (o, almeno, a non considerarli nella loro interezza), anche quando essi sono chiari. I “cancelli delle parole” – per usare una suggestiva immagine[9] – che dovrebbero circoscrivere il terreno entro il quale può dispiegarsi la interpretatio legis, sembrano aver perso ormai la funzione di “limite” (nel duplice senso di “soglia” che bisogna varcare se ci si vuole collocare sul terreno della interpretazione ed applicazione della legge, e non della “creazione” di regole da parte del giudice; ma anche di “recinzione” dalla quale – per la stessa ragione – non si può sfuggire). Sono diventati - insomma – dei cancelli … aperti.
Ma c’è un altro aspetto, nella vicenda in esame, che non può non destare preoccupazione. Si tratta – come accennavamo all’inizio di queste pagine – dell’ombra (ingiustificata ed ingiusta) che la sentenza in esame finisce per gettare (forse, senza neanche rendersene conto) sulla vita e sul funzionamento delle Scuole di specializzazione per le professioni legali nei venticinque anni (sino a questo momento) della loro presenza nel nostro ordinamento. È come dire che queste Scuole sono vissute (per lo meno dopo l’entrata in vigore della legge Gelmini) nella “illegalità”, essendo state dirette (e continuando ad esserlo, ancora oggi), in larga (o larghissima) misura, da professori “a tempo definito”, e dunque da soggetti che avrebbero dovuto essere (e dovrebbero, se ancora in carica) ritenersi “incompatibili” a rivestire la “carica” suddetta.
E come è possibile – viene da chiedersi – che i Rettori di tante Università italiane abbiano emesso (inconsapevolmente ?) tanti decreti di nomina “illegittimi” ? Questi decreti dovrebbero tutti essere “revocati” ? E perché è mancato un controllo del Ministero sul funzionamento (da questo punto di vista) delle Scuole ?
Sono domande che, forse, anche i giudici di Palazzo Spada avrebbero potuto (e dovuto) porsi, valutando le conseguenze della loro pronuncia (sia pure relativa ad un singolo caso, che però solleva un problema generale).
Quest’ “ombra” è – probabilmente – destinata ad accompagnare il (probabile) epilogo dell’esperimento delle Scuole di specializzazione per le professioni legali, aggiungendosi ad altri errori (questa volta imputabili al legislatore) che hanno costellato la vita di questo istituto.
Un rimedio sarebbe – forse – l’emanazione di una legge di interpretazione autentica, che chiarisca in modo inequivocabile che la “prassi” di attribuire (anche) a “professori a tempo definito” la funzione di Direttore delle Scuole di specializzazione per le professioni legali non era (e non è) una prassi “illegittima”, ma anzi corrispondeva (e corrisponde) alla lettera e alla ratio delle norme che hanno introdotto e disciplinato l’istituto in esame.
[1] CdS, sez. VII, sent. 24-2-2025 n. 1538 (Pres. Contessa, est. Sestini).
[2] Nel caso delle Scuole di specializzazione per le professioni legali l’obiettivo prioritario da conseguire era (recte: avrebbe dovuto essere) quello di creare un canale di formazione “post-universitaria”, strettamente collegato e finalizzato ad organizzare un accesso alle professioni legali solidamente fondato sul piano culturale, alla luce di almeno due considerazioni: la rilevanza (anche costituzionale) che l’esercizio di tali professioni ha nel nostro ordinamento; la consapevolezza che la formazione del “giurista” (al di là del ruolo specifico che egli rivesta) richiede sempre di più una “integrazione” di “visuali” diverse (quali possono essere, ad es., quelle del giudice e dell’avvocato), tutte necessarie per comprendere appieno i fenomeni oggetto di analisi.
[3] Non si trattava soltanto di “ridurre” la durata della “pratica professionale” (da svolgere, rispettivamente, presso lo studio di un avvocato ovvero di un notaio), ma – ancora una volta – di concepire una “pratica professionale” più articolata e completa, in virtù della partecipazione alla formazione dell’aspirante avvocato o dell’aspirante notaio (anche) di figure professionali diverse da quella di destinazione.
[4] Vedi art. 1, comma del d.lgs. 17.11.1997, n. 398 – recante “Modifica alla disciplina del concorso per uditore giudiziario e norme sulle scuole di specializzazione per le professioni legali, a norma dell'articolo 17, commi 113 e 114, della legge 15 maggio 1997, n. 127” – che, modificando l'articolo 123 del R.D. 30.1.1941, n. 12 sull’ordinamento giudiziario – stabiliva che il concorso per uditore giudiziario prevedesse una “prova preliminare”, disciplinata dall'articolo 123-bis, per i candidati che non sono in possesso del diploma di specializzazione di cui all'articolo 17, comma 113, della legge 15 maggio 1997, n. 127)
[5] Così l’art. 41, co. 9, della L. 31.12.2012, n. 247, recante Nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense.
[6] Cfr. art. 1 d. min. Giustizia, 11.12.2001, n. 475, che così recita: “Il diploma di specializzazione, conseguito presso le scuole di specializzazione per le professioni legali di cui all'articolo 16 del decreto legislativo 17 novembre 1997, n. 398, e successive modificazioni, è valutato ai fini del compimento del periodo di pratica per l'accesso alla professione di notaio per il periodo di un anno».
[7] Cfr. – exempli gratia – i Regolamenti delle Scuole di specializzazione per le professioni legali adottati nelle Università di Roma-Tre (art. 2 reg.), di Roma-Tor Vergata, di Siena (art. 3 reg.), di Pisa (art. 4 reg.), di Parma (art. 5 reg.), di Genova (art. 4 reg.), di Trento e Verona (art. 5 reg.), di Sassari (art. 4 reg.), di Palermo (art. 4 reg.), di Catania, di Napoli-Parthenope, di Catanzaro; e così via elencando
[8] Ciò è accaduto nella maggior parte delle Scuole di specializzazione istituite presso le Università elencate (a titolo esemplificativo) nella nota precedente.
[9] Cfr. Irti, I “cancelli delle parole” (Intorno a regole, principi, norme), Napoli, 2016, (ricompreso anche nella raccolta di saggi dello stesso autore, apparsa lo stesso anno con il titolo Un diritto incalcolabile, Torino, 2016, 57 ss.).