ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Pubblichiamo un contributo dagli Atti del Convegno La magistratura e l’indipendenza. Dedicato a Giacomo Matteotti promosso da Questa Rivista che si è tenuto a Roma il 12 aprile 2024. Il fascicolo è a cura di Sibilla Ottoni, Michela Petrini, Marco Dell'Utri e Angelo Costanzo e si può leggere e scaricare a questo link.
La proposta di judicial overhaul in Israele come paradigma di odierno attacco all’indipendenza della magistratura
di Leonardo Pierdominici
Sommario: 1. La rilevanza del caso israeliano – 2. La proposta di riforma governativa. – 3. Perché un paradigma?
1. La rilevanza del caso israeliano.
La scelta di analizzare il caso di Israele[1] quando si discute di problematiche costituzionalistiche può sempre sembrare, prima facie, latamente esotica: e dunque non pienamente attinente con le sfide che i maturi ordinamenti dell’area euro-atlantica si trovano a fronteggiare.
In realtà così non è, in particolare per quel che attiene al nostro tema di discussione, e dunque all’organizzazione della magistratura e alla sua indipendenza.
Israele, laboratorio di costituzionalismo liberal-democratico in terra aliena (pur con connaturate debolezze strutturali), costituisce nell’attuale temperie un esempio paradigmatico di ordinamento che fronteggia un virulento attacco politico all’indipendenza della magistratura.
Certe dinamiche storiche rendono esacerbate le dinamiche dei conflitti tra poteri, che oggi prorompono; gli influssi populisti recenti, sul modello anche di alcuni ordinamenti europei, completano il preoccupante quadro, che il conflitto a Gaza ha solo reso meno impellente.
2. La proposta di riforma governativa.
Cosa è in particolare accaduto?
Il governo Netanyahu VI, insediatosi a fine dicembre 2022, ha incardinato a stretto giro presso la allora neo-costituita Knesset, locale assemblea elettiva nazionale, una complessa proposta di riforma della giustizia, dopo averla posta al centro dell’accordo di programma della nuova coalizione di destra vincitrice delle elezioni.
Essa si compone di una serie di elementi, che vanno partitamente analizzati, al fine di giungere a una visione d’insieme delle sue finalità.
La proposta intende intervenire su cinque fondamentali aspetti del sistema costituzionale israeliano.
La prima dimensione del proposto intervento attiene alle modalità di selezione dei giudici nell’ordinamento.
L’attuale sistema, fondato sulle disposizioni della Basic Law: the Judiciary (la legge costituzionale in materia di ordinamento giudiziario), prevede che i giudici siano nominati da un Judicial Selection Committee composto da nove membri: il Justice Minister e il Chairman Cabinet Minister in rappresentanza del governo, due membri della Knesset usualmente designati in rappresentanza di maggioranza e opposizione parlamentare, due membri della locale Bar Association, ossia designati dall’avvocatura, tre membri in rappresentanza dei giudici della Corte suprema, tra cui il Chief Justice. Sempre attualmente, la nomina dei giudici ordinari avviene a maggioranza semplice tra i membri del Judicial Selection Committee; quella dei giudici della Corte suprema, in esito ad una riforma del 2008[2], avviene a maggioranza di sette membri su nove, così da garantire un sostanziale e speculare potere di veto tanto in capo alla componente magistratuale che a quella politica (composta dai due membri del governo e dal deputato di maggioranza), e così da garantire nomine necessariamente congiunte.
L’attuale proposta governativa mira alla modifica di tale assetto, al fine di dotare la maggioranza politica all’interno dell’eventualmente riformato Judicial Selection Committee di una capacità di decisione sostanzialmente autonoma. L’idea è di modificare la composizione del Committee portandola a undici membri: il Justice Minister, che fungerebbe anche da presidente, due altri ministri designati dal governo, i presidenti del Constitution, Law and Justice Committee, dello State Control Committee, dello Knesset Committee costituiti all’interno dell’assemblea parlamentare (anch’essi, quali presidenti di commissione parlamentare, solitamente riconducibili alla maggioranza), il Chief Justice e altri due giudici della Corte suprema scelti in autonomia dall’organo, due altri rappresentanti scelti dal Justice Minister, di cui uno avvocato. La necessaria maggioranza di sette membri per la nomina di ogni giudice, anche della Corte suprema, sarebbe così facilmente raggiungibile coi soli voti dei componenti in un modo o nell’altro riconducibili al governo in carica: così da potenzialmente dotare quest’ultimo di un pieno controllo su nomine e revoche degli appartenenti all’ordine giudiziario.
La seconda dimensione del proposto intervento attiene alle modalità del controllo di costituzionalità delle leggi in essere nell’ordinamento.
Nel sistema costituzionale israeliano a partire dagli anni ‘90 s’è sviluppata per via pretoria una forma di controllo di costituzionalità delle leggi, nonostante l’inesistenza di una costituzione unidocumentale e rigida, e l’esistenza di un solo reticolo, incompleto, di cd. Basic Laws emanate nel corso dei decenni, adottate senza la previsione di alcun procedimento aggravato, e sino agli anni ’90 vertenti solo su aspetti organizzativi dei poteri dello Stato. Sulla scorta della adozione nel 1992, da parte della Knesset, delle prime Basic Laws in materia di diritti fondamentali, la Corte suprema d’Israele ha dichiarato, col noto caso United Mizrahi Bank del 1995[3] (non a caso da più parti paragonato alla storica sentenza Marbury v. Madison della Corte suprema degli Stati Uniti che nel 1803 “inventò” il judicial review of legislation[4]), l’esistenza di una «rivoluzione costituzionale» nell’ordinamento, ossia di un preteso cambiamento paradigmatico nella struttura costituzionale del paese e nei rapporti tra potere politico e potere giudiziario, prima modellati sull’ancoraggio alla common law britannica e ad un costituzionalismo “evoluzionista”[5], ma ormai da ritenersi fondati, invece, sulla judicial supremacy[6], e dunque sulla piena possibilità di un controllo giudiziale della conformità delle leggi ordinarie con i disposti delle Basic Laws.
Tale «rivoluzione costituzionale», a far data dal 1995, ha costituito il paradigma ampiamente maggioritario nella lettura della struttura costituzionale d’Israele: ma tale paradigma interpretativo, seppur largamente adottato, non è mai stato l’unico, ha condotto ad un uso cauto e spesso contestato degli effetti poteri di controllo di costituzionalità delle leggi, e ha sempre conosciuto tentativi «contro-rivoluzionari» da parte del potere politico tesi alla riaffermazione della propria primazia[7].
Ecco dunque che l’attuale proposta governativa in discussione mira alla modifica di tale assetto, e dunque a porre un freno al potere di controllo di costituzionalità delle leggi che la Corte suprema d’Israele s’è arrogata: da un lato, finalmente, sancendone l’esistenza nell’ambito della normazione primaria, mediante l’adozione di una Basic Law: the Legislation sino ad oggi ripetutamente prefigurata ma mai emanata; dall’altro, espressamente limitandolo in due fondamentali sensi, ossia anzitutto vietando il judicial review avente ad oggetto Basic Laws, e dunque sancendo l’impossibilità di controllo giudiziale di «unconstitutional constitutional amendments»[8] (si noti: nell’ambito di un sistema che non differenzia l’adozione di Basic Laws mediante procedimenti legislativi aggravati, e dunque rimanendo solo nominalistica la differenza tra leggi ordinarie e tali “leggi fondamentali”), e poi richiedendo, per la dichiarazione d’incostituzionalità di leggi ordinarie, una pronunzia della Corte suprema in necessaria seduta plenaria di quindici membri, e con un quorum deliberativo dell’80% dei membri stessi.
Fin troppo evidente, in tal ottica, l’intento governativo: una severa actio finium regundorum degli spazi tra potere giudiziario di controllo di costituzionalità delle leggi e potere politico, che, pur istituzionalizzando il primo, ne sancisca significativi limiti procedurali, e soprattutto esoneri dal controllo la normazione attuata nelle forme di Basic Law - senza però che tali forme prevedano, ad oggi, procedure aggravate particolari, e dunque essendo esse alla mercé di maggioranze politiche semplici.
Tale intento di ridefinizione dei ruoli tra politico e giudiziario risulta vieppiù chiaro se poi si guarda alla terza dimensione del proposto intervento, che attiene alla possibilità di cd. override parlamentare delle decisioni della Corte suprema in punto di incostituzionalità della legislazione.
L’idea che si propone è quella di dotare la Knesset in via generalizzata del potere di sovvertire, mediante votazione a maggioranza assoluta (61 deputati su 120), una decisione della Corte suprema che abbia dichiarato l’illegittimità costituzionale di una legge: così ri-affermando, mediante deliberazione assembleare ulteriore, la vigenza della normazione censurata.
Si gioca, con tale proposta, con la generalizzazione di un meccanismo di pretesa soluzione della cd. counter-majoritarian difficulty teorizzata, da noti costituzionalisti americani[9], come insita in ogni esercizio di controllo di costituzionalità delle leggi: con il controllo di costituzionalità si sancisce sì la preminenza di regole e principi di rango costituzionale su deliberazioni legislative di rango ordinario; ma, sul piano istituzionale, si afferma la possibilità che giudici, o organi in ogni caso non eletti o comunque dotati di legittimazione diretta, annullino le volontà dei rappresentanti del corpo elettorale, e dunque agiscano in contrasto con la volontà maggioritaria, e ciò costituirebbe la “difficoltà” di base che alimenta il secolare dibattito sulla legittimità e sulle forme di legittimazione necessarie a tal fine[10].
Il potere di cd. override parlamentare è uno degli svariati sistemi teorizzati e poi applicati, in ambito comparatistico[11], per la pretesa soluzione di tale intrinseco dilemma istituzionale: sancendo una deroga al principio di judicial supremacy, che darebbe all’organo di controllo di costituzionalità l’“ultima parola” sulla questione controversa, si prevede che l’organo politico si possa riappropriare di tale ultima parola, con deliberazione susseguente presa semmai con speciali maggioranze. Ma qui è ovviamente il punto: tale soluzione è invero prevista, in ambito comparatistico, da alcuni sparuti ordinamenti, e tra questi v’è già Israele rispetto a puntiformi disposizioni delle Basic Laws del 1992 sui diritti fondamentali (è insomma previsto che ove queste specifiche disposizioni fungano da parametro in un giudizio di costituzionalità, un override parlamentare è possibile); è di solito accompagnata da limiti di vigenza temporale e relativi ai possibili parametri costituzionali interessati[12]; la proposta in discussione è invece anzitutto relativa alla generalizzazione di tale istituto (relativamente ad ogni possibile parametro di costituzionalità, anche fondamentale), può condurre a ri-affermazioni di vigenza permanenti della legge censurata, e soprattutto si calerebbe in un contesto ordinamentale in cui, s’è detto, non esistono procedimenti legislativi aggravati per l’adozione di Basic Laws (donde il rischio che la disciplina costituzionale parametro sia sostanzialmente messa in dubbio, nella sua effettività, dalla successiva deliberazione che deroghi alla sua applicazione giudiziale), e la maggioranza assoluta di 61 deputati su 120 è usualmente appannaggio della coalizione governativa (donde il rischio che una mera maggioranza politica possa sovvertire in ogni caso decisioni giudiziali di incostituzionalità).
Ancora sostanzialmente collegata è la quarta dimensione del proposto intervento, che attiene alla volontà governativa di vietare ex lege ogni modalità di censura giudiziale dell’azione amministrativa sub forma di controllo di ragionevolezza.
Il vaglio giudiziale della ragionevolezza dell’azione amministrativa è istituto antico che appartiene ab origine all’ordinamento giuridico israeliano: come noto, tale ordinamento s’è modellato sin da principio con aderenza alla tradizione di common law britannica, che era unificante law of the land ai tempi del Mandato britannico in Palestina precedenti al 1948[13]. È importante rimarcare che all’aderenza a tale tradizione Israele deve anche la cd. original jurisdiction della Corte suprema quale Alta Corte di giustizia (High Court of Justice), supremo tribunale amministrativo destinato, in via diretta, al vaglio degli atti governativi e delle pubbliche autorità[14], che si affianca alla sua appellate jurisdiction quale organo di vertice dell’ordinamento per le questioni civili e penali.
Ciò si rimarca al fine di comprendere come la proposta in discussione sia, nuovamente, indirizzata contro il perenne idolo polemico dell’attuale maggioranza politica conservatrice d’Israele: la Corte suprema, rea in questo caso di avere sviluppato appunto quale Alta Corte di giustizia, a partire dalla fine degli anni ‘70, una invero assai largheggiante giurisprudenza tesa alla sostanziale eliminazione, per via interpretativa, delle principali restrizioni procedimentali al potere di scrutinio degli atti amministrativi e dell’esecutivo, ed in particolare dei requisiti di justiciability (idoneità di una controversia a essere decisa da un giudice) e di standing (legittimazione/interesse ad agire), e che avevano in precedenza impedito di pronunciarsi su molte delle questioni portate, anche informalmente od irritualmente, dinanzi ad essa[15]. La trasposizione di questa innovativa giurisprudenza (in larga parte imputabile all’ispirazione teorica del presidente della Corte Aharon Barak[16], che poi sarà nel decennio successivo il fautore della proclamata «rivoluzione costituzionale» cui s’è accennato) ai procedimenti conosciuti in veste di Alta Corte di giustizia ha finito per conformare un modello di giustizia amministrativa fortemente aperto alle istanze provenienti dalla società, pronto ad affrontare ogni tipo di questione sensibile anche di natura militare, facendo giustizia del motto «everything is justiciable» con cui era stato apertamente teorizzato[17]. La Corte ha in tal senso da decenni strategicamente aperto le proprie porte a pressoché ogni tipologia di attore sociale e di sue doglianze; si è così costruita un ruolo centrale nel vaglio di legittimità dei poteri amministrativi e poi anche legislativi e financo di normazione costituzionale, esercitato sino a censurare, di recente, proprio anche sub forma di vaglio di ragionevolezza, l’abuso del procedimento legislativo[18], l’abuso delle forme delle Basic Laws[19], oltre che la violazione dei principi costituzionali.
Evidente allora che la contestazione governativa oggi in discussione non attiene di per sé al vaglio giudiziale di ragionevolezza, ma all’impiego, invero pervasivo, che la Corte ne ha fatto da decenni, sulla scorta di una giurisprudenza largheggiante ma mai sinora messa in discussione.
Da ultimo, la disamina va completata con la quinta dimensione del proposto intervento, che mira alla relativizzazione dell’importante, e “costituzionalizzato”[20], ruolo dell’Attorney General.
Tale organo, monocratico, si ispira anch’esso a forme di common law, ma assume nell’ordinamento israeliano un’originale postura. Anziché essere parte della compagine di governo, come omologhi organi in similari sistemi, ne è una sorta di consigliere giuridico, che però s’atteggia a mo’ di autorità indipendente: lo rappresenta in giudizio, sovraintende alla pubblica accusa, formula pareri, spesso obbligatori[21]. Ma, proprio alla luce dell’indipendenza che gli è conferita, l’azione e i pareri dell’Attorney General sono prese di posizione che spesso impegnano, malvolentieri, il governo.
La proposta è di rimodulare la configurazione dell’Attorney General, trasformandolo da organo indipendente a mero consulente posto nei ranghi del Ministero della giustizia, a rendere i pareri del medesimo espressamente non vincolanti per il governo, a consentire ai ministri di svincolarsi dalla necessaria rappresentanza giudiziale dell’Attorney mediante la possibilità di rappresentanza su base volontaria da parte del libero foro, in caso di differenza di vedute con costui.
Ovviamente, ha attratto critiche la posizione di un governo non solo esplicito nella sua volontà di diminuire la possibilità di vaglio da parte dei giudici sul proprio operato, ma anche riluttante ad accettare in tal ottica le prese di posizione dell’Attorney General[22].
3. Perché un paradigma?
Il tentativo di judicial overhaul israeliano, così sommariamente descrvibile, è in più sensi paradigmatico.
È anzitutto indicativo di una recrudescenza nelle dinamiche di conflitto tra poteri che sono tipiche, da decenni, in Israele.
L’idea di una «rivoluzione costituzionale» consumatasi negli anni Novanta, e conducente a pieni poteri di controllo di costituzionalità delle leggi da parte della Corte suprema, in un paese che non ha una costituzione unidocumentale e rigida, è da decenni il paradigma interpretativo maggiormente accettato, ma non è mai stata avallata in senso univoco da ogni strato della complessa, plurale popolazione israeliana. Ciò vale, in generale, per parte significativa del fronte conservatore, ed in particolare vale per i plurimi fronti conservatori religiosi, che temono da sempre un sovvertimento dei delicati equilibri politici di un paese che, sin nella propria Dichiarazione d’indipendenza del 1948, s’è proclamato «Jewish and democratic»: ossia, temono il potenziale impatto laicizzante che l’applicazione iussu iudicis di principi costituzionali liberal-democratici potrebbe avere, ad esempio in settori simbolici ma altamente sensibili quali la gestione pluralistica su base religiosa dei regimi di diritto di famiglia[23] o le storiche esenzioni, pure su base religiosa, dal servizio militare[24].
Da tale constatazione deriva un primo elemento di contingenza da sottolineare: già si erano registrati, da almeno quindici anni, tentativi «contro-rivoluzionari» da parte del potere politico di riaffermazione della propria primazia rispetto alla proclamazione pretoria del potere di controllo di costituzionalità delle leggi, anche nelle gravi forme oggi proposte (o, rectius, riproposte)[25]; la proposta di riforma in discussione però li riunisce, ed è avanzata in un frangente in cui la dinamica politica può concretamente condurre ad una sua adozione.
Occorre infatti considerare che almeno sin dal 2007, e dunque subito successivamente al ritiro di Aharon Barak dalla sua presidenza (e quale carismatica guida), gli attacchi politici alla Corte iniziarono a concretarsi. Chi si fece primo promotore di quella che sarebbe divenuta una serie ripetuta di tentativi di contenimento del potere giudiziario fu l’allora ministro della giustizia Daniel Friedmann, un illustre accademico già voce critica rispetto al tralaticio sistema di nomine giudiziali nel paese[26], e che avrebbe poi anche nella propria produzione scientifica evidenziato aspre critiche sulla «rivoluzione» giudiziale[27]. Fu nell’ambito del suo mandato che si iniziò a prefigurare l’impiego di quel tipico arsenale di metodi che gli studi comparatistici tradizionali e le riflessioni svolte ci fanno facilmente prefigurare, e che s’attualizzano oggi.
In linea con le ragioni critiche del passato, egli propose anzitutto una riforma del sistema di selezione dei giudici, ed in particolare di quelli della Corte suprema, nella prospettiva di un «court packing»[28] in chiave conservatrice, ossia di una ridefinizione degli equilibri di forza al suo interno[29]: ciò in particolare ragionando della possibile riforma della Basic Law: the Judiciary così da emendare la composizione di quel Judicial Selection Committee tradizionalmente incaricato delle nomine, e tradizionalmente dominato dagli stessi giudici della Corte suprema, capaci dunque di porre in atto, sino a quel momento, una sostanziale politica di cooptazione rispetto a professionalità e sensibilità affini.
Altra proposta fu quella di ridefinizione, addirittura mediante legge ordinaria, dell’ambito delle Basic Laws capaci di fungere da parametro in un giudizio di costituzionalità: giacché, da parte critica, si considerava che tra le varie questioni lasciate aperte dal caso United Mizrahi Bank del 1995 vi fosse quella di quali leggi fondamentali potessero fondare i nuovi poteri giudiziali, se solo quelle nuove sui diritti umani del 1992 od anche, opportunamente interpretate, anche quelle passate ed eventuali future[30]. A ciò, viste le polemiche sorte dalla sentenza che per prima aveva interessato la materia[31], si accompagnava l’idea di emendare la Basic Law: Human Dignity and Liberty, cui pur confermare il potenziale valore parametrico, così da esentare le leggi relative alla cittadinanza, visto il loro potenziale simbolico, dal vaglio di costituzionalità[32].
Ancora, si propose di emendare sin da quell’epoca, in altri sensi, la Basic Law: the Judiciary: in particolare prevedendo ex lege la possibilità di judicial review of legislation solo da parte della Corte suprema (mirando a risolvere le pur registratesi incertezze sulla natura diffusa o accentrata dei relativi poteri[33]), e solo mediante deliberazioni di collegi di almeno nove giudici, con almeno due terzi dei voti dei giudicanti in favore (mirando a sradicare i pur registratisi episodi di deliberazioni di invalidità a composizione ristretta).
Non solo. Sostanziando appieno l’idea di una «contro-rivoluzione» chiamata a sradicare i frutti della «rivoluzione» di Barak, e dunque in primis l’idea della judicial supremacy fondata sul potere di controllo di costituzionalità delle leggi, si propose la positivizzazione di un generale potere di ovverride da parte della Knesset rispetto ai dicta giudiziali: così che, nella configurazione dei disegni dell’epoca (comunque più garantistica rispetto a quella oggi propalata), una super-maggioranza di 70 membri su 120 della camera rappresentativa potesse rendere inefficace una dichiarazione di incostituzionalità, riasserendo validità ed efficacia della disciplina di legge censurata[34].
Nessuna delle proposte suddette si fece effettivamente strada, in quell’iniziale frangente come poi successivamente. Ciò nonostante ognuna di esse sia stata destinata a riemergere a più riprese nel dibattito pubblico, ad esempio nel 2012[35] e poi ancora recentemente con il mandato al ministero della giustizia della combattiva conservatrice Ayelet Shaked, la quale propose già in quel frangente l’idea, oggi tornata à la page, di un generale override power legislativo a sola maggioranza assoluta[36].
Solo, nel 2008, s’è emendata la disciplina del Judicial Selection Committee (la cui composizione pur rimase intatta) al fine di richiedere la cennata speciale maggioranza di sette membri su nove per nominare i giudici della Corte suprema: ciò motivando sulla base della delicatezza del ruolo, ma sostanzialmente nella speranza, già in effetti oggi in essere, di ribaltare le usuali dinamiche interne all’organo, che vedevano il sostanziale controllo delle nomine da parte dei giudici stessi, presenti nel Committee nel numero di tre, d’intesa coi membri dell’avvocatura, presenti nel numero di due, e così da privilegiare il peso dei componenti politici (due membri governativi e due membri parlamentari)[37]. Riforma parziale che però non ebbe effetti dirompenti, anzi avendone in fondo di condivisibili: richiamando ad un necessario vasto consenso nelle procedure di nomina, senza possibilità di preponderanze tra frange diverse di componenti.
Va dunque ben inteso in che senso si sottolinei tale primo elemento di contingenza: analoghi tentativi di «contro-rivoluzione» rispetto a quelli odierni si registrano, appunto, da quindici anni almeno; essi però non hanno mai incontrato, nel sistema parlamentaristico israeliano fondato sulla formula proporzionale e dunque indefettibilmente su governi di coalizione[38], l’ampio supporto necessario tra le forze politiche delle varie maggioranze succedutesi, pur se spesso conservatrici e dunque generalmente ostili rispetto all’attivismo considerato liberal della Corte[39].
Terminato tuttavia l’esperimento del governo di larga coalizione Bennett-Lapid in carica tra il 2021 e il 2022 (fondatosi sulla conventio ad excludendum «rak lo Bibi», ossia “tutti dentro fuorché Bibi Netanyahu”), il governo Netanyahu VI oggi in carica si presenta come un potenziale sovvertimento delle dinamiche politiche degli scorsi anni. Esso gode nella Knesset di una maggioranza di supporto solida, che ammonta a 64 deputati su 120; e si fonda su una coalizione che può dirsi quella più a destra della storia di Israele, che federa gli storici alleati ultraortodossi Shas e United Torah Judaism e per la prima volta formazioni di destra radicale quali Otzmà Yehudit, Tkumà e Noam, rispetto alle quali il Likud è, insolitamente, “ala moderata”; e che è resa vieppiù omogenea dalla precedente, risentita esperienza all’opposizione.
Quel che insomma non s’era concretato negli scorsi due decenni, ossia una convergenza di forze conservatrici, sia religiose che più laiche, programmaticamente ostili, nel conflitto tra poteri, rispetto alla Corte e al suo operato, e pronte per ciò a sovvertire il sistema costituzionale, oggi viene in essere: tanto che, in punto di contingenza politica, va registrato che non solo (s’è accennato) la proposta riforma era parte del programma elettorale espressamente propalato dall’attuale maggioranza, e siglato dalle sue forze componenti, ma che, addirittura, in simultanea rispetto alla sua presentazione, che è tesa alla ridefinizione dei poteri costituzionali della Corte, il governo è pure al lavoro sul sensibile tema dell’ampliamento simmetrico dei poteri delle Corti rabbiniche, nell’idea di facoltizzarle ad agire da arbitri in materia civile sulla base del diritto religioso in presenza di accordo delle parti in conflitto – ma dunque ulteriormente tendendo alla delegittimazione del sistema giudiziario civile, e attentando all’uniformità ordinamentale e di trattamento dei cittadini[40].
Il fatto che anche il Likud, quale “ala moderata” di coalizione e soprattutto quale partito tradizionale, sia ormai decisamente spinto ad esacerbare il conflitto tra poteri - almeno ad oggi, e nonostante qualche primo timido recentissimo ripensamento[41] - deriva poi da un secondo elemento di contingenza, che pure va sottolineato.
Benjamin Netanyahu, leader del Likud, è dal 2020 imputato per frode e corruzione dinanzi alla District Court di Gerusalemme. Ciò non solo comporta ragioni nuove di tensione tra coalizione di governo e ordine giudiziario, che aggravano quelle già esistenti e di cui s’è detto; ma ha comportato ripetuti interventi dell’Attorney General che hanno stigmatizzato il conflitto d’interessi del primo ministro rispetto alla proposta riforma giudiziaria, e lo hanno invitato a non assumere, nell’iter legis, un ruolo attivo, in ottemperanza al patto da lui stesso siglato nel 2020[42], su invito proprio dell’Attorney General, per continuare a rivestire legittimamente cariche pubbliche di governo nonostante la delicata posizione assunta[43]. Si è recentemente arrivati addirittura all’approvazione di una specifica disciplina di legge che garantisce l’impossibilità di rimozione del primo ministro dall’incarico per ordine giudiziario, evidentemente fondata sul timore che l’Attorney General potesse richiedere alla Corte suprema misure del genere contro Netanyahu: e subito successivamente all’approvazione di tale discutibile disciplina novella, il primo ministro ha ripreso senza requie il proprio battage polemico sul tema[44].
Ciò spiega facilmente, già di per sé, perché la proposta di riforma sia largamente indirizzata contro la figura indipendente dell’Attorney General, oltre che contro l’ordine giudiziario organizzato.
Va poi ulteriormente rimarcato come, nel sistema israeliano, il circuito Attorney General - High Court of Justice si sia reso depositario di prerogative invero ampie, e di scarsa diffusione, per come delineatesi, a livello comparatistico.
Tra queste vi è quella del vaglio di ammissibilità dei candidati a ruoli parlamentari e di governo: talvolta sulla base di discipline di legge specifiche, tra cui quella di cui all’articolo 7a comma 2 della Basic Law: the Knesset che impedisce la candidatura nell’assemblea a chi inciti al razzismo; talaltra sulla base, più discutibile, di un vaglio di ragionevolezza della candidatura rispetto a elementi ostativi pregressi. Su tali fondamenti si sono registrate esclusioni quali quelle, recenti, dell’estate 2019 relativa alla rimozione dal seggio dei deputati della destra radicale ebraica Gopstein e Marzel[45] - membri del partito Otzma Yehudit dell’attuale Ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir - e del leader del partito Shas Aryeh Deri nel gennaio 2023 quale Ministro dell’interno dell’attuale compagine di governo, giacché reo di evasione fiscale e pregressi episodi corruttivi[46].
Anche in tal ottica, risultano evidenti gli elementi di tensione diretta tra maggioranza governativa attuale e ordine giudiziario.
V’è poi una contingenza che potremmo definire comparatistica, ossia che accomuna Israele ad altri ordinamenti nell’attuale temperie.
A più riprese, nell’inusuale lunga serie di governi guidati da Benjamin Netanyahu tra il 2009 e il 2021 (che è coincisa, non a caso, con la gran parte delle iniziative «contro-rivoluzionarie» che abbiamo descritto) i commentatori hanno ragionato di tendenze populiste della politica israeliana, quando non proprio di arretramento delle sue credenziali democratiche. Si sono stigmatizzati i ripetuti attacchi al potere giudiziario e all’indipendenza della figura dell’Attorney General[47], su cui ci siamo soffermati; ma anche l’adozione di nuove discipline penalizzanti nei confronti delle ONG, ampiamente attive nel paese nell’ambito della tutela dei diritti umani[48]; la centralizzazione del ruolo del Committee of Ministers on Legislation così da controllare, da parte governativa, il calendario dei lavori parlamentari[49]; l’avocazione in capo al primo ministro di plurime deleghe diffusamente esercitate[50].
S’è dunque molto ragionato in tema di preteso coinvolgimento del paese nelle odierne globali tendenze di «constitutional retrogression», o «constitutional capture» o «democratic decay»[51] che dir si voglia: le quali, secondo gli studiosi che più da vicino le hanno studiate, «drawing on comparative law and politics analysis», si invererebbero attorno a cinque tipiche dinamiche istituzionali, ossia la revisione costituzionale, l’eliminazione degli istituti di garanzia, la centralizzazione del potere nelle mani dell’esecutivo, la contrazione o distorsione della sfera pubblica, l’eliminazione della competizione politica[52].
In particolare, specie in punto di eliminazione degli istituti di garanzia e di centralizzazione del potere nelle mani dell’esecutivo, l’attacco all’indipendenza e alla funzionalità della magistratura è tipico di tali tendenze, e ben conosciuto anche in ordinamenti a noi prossimi, persino appartenenti all’Unione europea: si pensi agli ormai noti «usual suspects» Polonia e Ungheria, già oggetto di plurime censure da parte della Commissione europea e della Corte di giustizia in proposito[53], ma anche a casi meno noti come la Romania, ove recenti riforme giudiziarie hanno attirato critiche da parte dei commentatori e delle stesse istituzioni sovranazionali[54].
Proprio dall’accostamento tra analoghe tendenze alla tensione tra potere politico e ordine giudiziario, e a riforme limitanti la capacità della magistratura di svolgere in via indipendente il proprio ruolo, vari analisti hanno potuto osservare, soffermandosi anche su Israele, che «le somiglianze nelle misure adottate in diversi sistemi giuridici e politici, in contesti storici radicalmente diversi, suggeriscono non solo un certo grado di comunanza di idee e obiettivi, ma anche una certa condivisione di esperienze e pratiche da parte di forze illiberali»[55].
Il fenomeno dello scivolamento verso tendenze autocratiche è indubitabile, e certo simile a quello di altri ordinamenti - sebbene nei contesti dell’Est Europa vengano in rilievo mancate compiute transizioni costituzionali di origine relativamente recente, posteriore al collasso dei sistemi socialisti[56], mentre in Israele, vedremo specificamente, il fenomeno è più radicato e, se vogliamo, strutturale, ossia relativo ad un programma di costituzionalizzazione frustrato sin da principio.
L’osservazione di tali tendenze è comunque rilevante, e deve condurci ad una connessa, necessaria, e forse più approfondita riflessione, che pure riecheggia teorizzazioni già svolte proprio relativamente alle esperienze di democratic backsliding dei paesi dell’Est Europa e che ben si attagliano alla nostra analisi degli sviluppi israeliani.
Kim Lane Scheppele, nota studiosa di Princeton, ha icasticamente descritto le riforme costituzionali ungheresi degli scorsi anni come una sorta di sindrome di Frankenstein, proprio nel senso del romanzesco personaggio mostruoso di Mary Shelley, capaci di condurre a un «Frankenstate»[57]: ciò al fine di sottolinearne il potenzialmente mostruoso effetto cumulativo, nonostante la possibile opinabilità di alcune di esse, e al fine di dissuadere gli osservatori, in tempo di tendenze globali al democratic backsliding, dal commentare riforme costituzionali simultanee una ad una, partitamente, nei loro aspetti magari innocui o similari ad altre esperienze comparatistiche, senza considerare il disegno complessivo capace di creare per accumulo, appunto, mostruosità costituzionali.
Tale insegnamento è di particolare utilità per l’analisi della proposta riforma in Israele.
Singolarmente prese, e a un occhio profano, le riforme attualmente suggerite possono sembrare relativamente innocenti, o essere vagamente giustificate proprio anche in ottica comparatistica - e ciò è stato puntualmente fatto nel corso del dibattito degli scorsi mesi[58]: in fondo assegnare le nomine giudiziarie apicali al controllo del governo in carica non è soluzione sconosciuta a ordinamenti liberal-democratici, persino prototipici come quello degli Stati Uniti d’America; richiedere una maggioranza speciale in un collegio giudiziale per la censura costituzionale delle leggi parlamentari può essere una soluzione inedita, ma prima facie forse nemmeno irragionevole, al problema storico, già cennato e onnipresente nelle teorizzazioni in materia, della cd. counter-majoritarian difficulty, specialmente sentito ove non si incarichi per disciplina costituzionale positivizzata un organo ad hoc di tale compito, come invece nella tradizione europea[59]; la stessa idea di consentire all’assemblea parlamentare di sovvertire ex post gli effetti delle decisioni giudiziali di illegittimità costituzionale non è esperienza sconosciuta, anzi è ispirata a modelli noti, Canada e Finlandia su tutti, già persino trasposti in via puntiforme in Israele[60]; e le specificità dei ruoli dell’Attorney General nel sistema israeliano, e la potenziale pervasività della sua figura, risultano certo inedite ad uno sguardo d’altrove, e dunque può non sembrare assurdo concepire una riforma di tali aspetti.
È evidente però che la simultanea proposta di tali riforme non sia un caso, e il suo significato vada apprezzato organicamente, nell’interezza: connotandosi dunque, a prescindere dalla opinabilità di alcuni aspetti, come un sicuro affronto all’equilibro nella separazione tra i poteri, e fondato sull’esercizio di un fenomeno pure ormai noto agli studiosi di diritto costituzionale comparato, quello del cd. abusive constitutional borrowing, ossia sull’«appropriazione di modelli, concetti e dottrine costituzionali liberal-democratici, al fine di far avanzare progetti autoritari»[61]. Difatti, il successo del diritto costituzionale comparato, conclamatosi negli scorsi decenni, e che ha condotto alla rapida diffusione globale di istituti di marca liberal-democratica, porta con sé possibili dinamiche perverse: tra le quali quella che pare in atto proprio in Israele, come anche in altri ordinamenti, ossia la manipolazione e decontestualizzazione di modelli ed esperienze stranieri, asserviti strumentalmente alla giustificazione di soluzioni che tendono a limitare o corrompere, comunque a strumentalizzare, nozioni e istituti che negli ordinamenti di riferimento hanno avuto e hanno ben altro significato[62].
[1] Per una compiuta disamina sul tema si rinvia a «La riforma della giustizia israeliana: cronache dall’ultima frontiera costituzionale», in Giustizia Insieme, vol. 3 settembre-dicembre 2023, Dialoghi oltre i confini nazionali, p. 507.
[2] Che già ha interrotto il denunziato precedente sostanziale dominio da parte dei giudici della Corte suprema nel consesso, considerati sino a quella data capaci di porre in atto una sostanziale politica di cooptazione rispetto a professionalità e sensibilità affini (deliberando a maggioranza semplice con il voto, tradizionalmente concorrente, dei rappresentanti dell’avvocatura e/o almeno di alcuni dei rappresentanti politici).
[3] United Mizrahi Bank PLC v. Migdal Cooperative Village (1995) 49 (iv) PD 221.
[4] Ex pluribus T. Groppi, La Corte suprema di Israele: la legittimazione della giustizia costituzionale in una democrazia conflittuale, in Giurisprudenza costituzionale, 2000, p. 3543, 3554; Z. Segal, The Israeli Constitutional Revolution: the Canadian Impact in the Midst of a Formative Period, in Forum Constitutionnel, 1997, p. 53, 54; M. Halberstam, Judicial Review, A Comparative Perspective: Israel, Canada, and the United States, in Cardozo Law Review, 2010, p. 2393, 2424; ed estesamente sul raffronto Y. Rabin, A. Gutfeld, Marbury v. Madison and its Impact on the Israeli Constitutional Law, in University of Miami International & Comparative Law Review, 2000, p. 303; criticamente infine M. Troper, Marshall, Kelsen, Barak and the Constitutionalist Fallacy, in International Journal of Constitutional Law, 2005, p. 24.
[5] M. Luciani, Costituzionalismo irenico e costituzionalismo polemico, in Giurisprudenza costituzionale, 2006, p. 1643, 1652: «È noto che si possono contrapporre due modelli di sviluppo costituzionale: quello britannico dell’evoluzione delle regole fondamentali della convivenza sociale attraverso il graduale sviluppo delle leggi, delle consuetudini, della giurisprudenza, e quello continentale dell’evoluzione attraverso passaggi ordinamentali, rotture della continuità, momenti - cioè - costituenti. L’idea della radicalità di tale contrapposizione, molto diffusa tra Ottocento e Novecento, è in realtà risalente: la ritroviamo, in particolare, nella tesi ciceroniana della superiorità della forma di governo romana (“quam patres nostri nobis acceptam iam inde a maioribus relinquerunt”) proprio in ragione della gradualità dei suoi sviluppi».
[6] Per approfondimenti sulla ricostruzione teorica sottostante v. da ultimo S. Gardbaum, What is Judicial Supremacy?, in G.J. Jacobshon, M. Schor (a cura di), Comparative Constitutional Theory, Cheltenham,, 2018, p. 21.
[7] Secondo la nota locuzione di D. Navot, Y. Peled, Towards a Constitutional Counter-Revolution in Israel?, in Constellations, 2009, p. 429
[8] Cfr. Y. Roznai, Unconstitutional Constitutional Amendments: The Limits of Amendment Powers, Oxford, 2017, e, per riferimenti tradizionali, O. Bachof, Verfassungswidrige Verfassungsnormen?, Tubinga, 1951.
[9] In primis A.M. Bickel, The Least Dangerous Branch: The Supreme Court at the Bar of Politics, New Haven, 1986, specie pp. 34 e ss.; sulla «ossessione» di certa dottrina costituzionalistica, specie nordamericana, per la questione v. B. Friedman, The Birth of an Academic Obsession: The History of the Countermajoritarian Difficulty, Part Five, in Yale Law Journal, 2002, p. 153.
[10] Per una utile summa in italiano del dibattito in materia può vedersi L. Mezzetti, Teoria della giustizia costituzionale e legittimazione degli organi di giustizia costituzionale, in Estudios Constitucionales, 2010, p. 307.
[11] Si v. ad es. rispetto al paradigma costituito dalla nota Section 33 della Canadian Charter of Rights and Freedoms, nella dottrina italiana, G. Gerbasi, Problematiche costituzionali sulla clausola nonobstant di cui all'art. 33 della Canadian Charter of Rights and Freedoms, in C. Amirante, S. Gambino (a cura di), Il Canada. Un laboratorio costituzionale, Padova, 2000, p. 241.
[12] V. appunto Sez. 33 della Canadian Charter of Rights and Freedoms: «33. (1) Parliament or the legislature of a province may expressly declare in an Act of Parliament or of the legislature, as the case may be, that the Act or a provision thereof shall operate notwithstanding a provision included in section 2 or sections 7 to 15 of this Charter. (2) An Act or a provision of an Act in respect of which a declaration made under this section is in effect shall have such operation as it would have but for the provision of this Charter referred to in the declaration. (3) A declaration made under section (1) shall cease to have effect five years after it comes into force or on such earlier date as may be specified in the declaration. (4) Parliament or the legislature of a province may re-enact a declaration made under section (1). (5) Section (3) applies in respect of a re-enactment made under section (4)».
[13] Lo sottolinea opportunamente oggi, discutendo della riforma, R. Ziegler, The British Are Not Coming: Why You Can't Compare Israel's Proposed Legal Overhaul to the UK System, in Haaretz, 7.2.2023, disponibile al sito https://www.haaretz.com/opinion/2023-02-07/ty-article-opinion/.premium/the-british-are-not-coming-why-you-cant-compare-israels-legal-overhaul-to-the-uk/00000186-2cdb-d2f6-afe6-3dffe4880000.
[14] Sulla storia dell’istituzione v. da ultimo Y. Sagy, The Missing Link: Legal Historical Institutionalism and the Israeli High Court of Justice, in Arizona Journal of International and Comparative Law, 2014, p. 703.
[15] D. Barak-Erez, Broadening the Scope of Judicial Review in Israel: Between Activism and Restraint, in Indian Journal of Constitutional Law, 2009, p. 118, 119 ss.
[16] Facciamo soprattutto riferimento, a livello di pubblicistica internazionale, ad A. Barak, Judicial Discretion, New Haven, 1989; Id., Forward: A Judge on Judging: The Role of a Supreme Court in a Democracy, in Harvard Law Review, 2002, p. 119; Id., Purposive Interpretation in Law, Princeton, 2005; Id., The Judge in a Democracy, Princeton, 2006, su cui si v. anche H. Neuer, Aharon Barak’s Revolution, in Azure, 1998, p. 5758.
[17] Un modello che è stato definito di «iperattivismo giudiziario», e paragonato per apertura alle istanze sociali al sistema di giustizia costituzionale canadese, da T. Groppi, La Corte suprema di Israele: la legittimazione, cit., p. 3557, sulla scorta della definizione di Y. Dotam, Judicial Accountability in Israel: The High Court of Justice and the Phenomena of Judicial Hyperactivism, in Israeli Affairs, 2002, p. 87 ss.
[18] V. HCJ 10042/16 Quantiski v. the Israeli Knesset (Aug. 6, 2017), e il commento di Y. Bar-Siman-Tov, In Wake of Controversial Enactment Process of Trump’s Tax Bill, Israeli SC Offers a Novel Approach to Regulating Omnibus Legislation, in International Journal of Constitutional Law Blog, 13.12.2017, disponibile al sito www.iconnectblog.com/2017/12/in-wake-of-controversial-enactment-process-of-trumps-tax-bill-israeli-sc-offers-a-novel-approach-to-regulating-omnibus-legislation/.
[19] V. HCJ 8260/16 The Academic Center for Law & Business v. Israeli Knesset (Sept. 6,2017), e le riflessioni di S. Navot, Y. Roznai, From Supra-Constitutional Principles to the Misuse of Constituent Power in Israel, in European Journal of Law Reform, 2019, p. 403.
[20] Giacché il suo ruolo è positivizzato tanto nella Basic Law: the Judiciary (1984) che nella Basic Law: the Government (2001).
[21] Sulla figura in extenso E. Ottolenghi, La forma di governo, in T. Groppi, E. Ottolenghi, A.M. Rabello (a cura di), Il sistema costituzionale dello stato di Israele, Torino, 2006, p. 111.
[22] J.H.H. Weiler, Israel: Cry, the Beloved Country, in Verfassungsblog, 1.2.2023, disponibile al sito https://verfassungsblog.de/cry-beloved-country/.
[23] Cfr. in merito E. Ottolenghi, Profili storici e A.M. Rabello, Costituzione e fonti del diritto, in T. Groppi, E. Ottolenghi, A.M. Rabello (a cura di), Il sistema costituzionale dello stato di Israele, cit., 11 ss.; G. Tedeschi, Le Centenaire de la Mejelle, in Revue internationale. de droit comparé, 1969, p. 125.
[24] Sul punto cfr. la ricostruzione recente di D. Ellenson, The Supreme Court, Yeshiva Students, and Military Conscription: Judicial Review, the Grunis Dissent, and its Implications for Israeli Democracy and Law, in Israel Studies, 2018, p. 197.
[25] D. Navot, Y. Peled, Towards a Constitutional Counter-Revolution in Israel?, cit.
[26] Ivi, 440.
[27] D. Friedmann, The Purse and the Sword: The Trials of Israel's Legal Revolution, Oxford, Oxford University Press, 2016: su cui, criticamente e in chiave comparatistica, F.I. Michelman, Israel’s “Constitutional Revolution”: A Thought from Political Liberalism, in Theoretical Inquiries in Law, 2018, p. 745.
[28] Il riferimento è ovviamente all’antecedente del Judicial Procedures Reform Bill of 1937 nordamericano, con cui il Presidente Franklin D. Roosevelt si propose di emendare le procedure di selezione dei giudici della Corte suprema U.S.A. al fine di ottenere giudizi più favorevoli rispetto alla legislazione sul New Deal; per una recente ricostruzione storica in materia, si v. J. Braver, Court-Packing: An American Tradition?, in Boston College Law Review, 2020, p. 2747.
[29] D. Izenberg, Friedmann Urges Revamping Judges Selection Committee, in Jerusalem Post, 27.3.2007, disponibile al sito www.jpost.com/israel/friedmann-urges-revamping-judges-selection-committee.
[30] C. Price, Israel Cabinet Backs Bill Restricting Supreme Court Review Power, in Jurist.org - Legal News and Commentary, 7.9.2008, disponibile al sito www.jurist.org/news/2008/09/israel-cabinet-backs-bill-restricting/.
[31] HCJ 7052/03 Adalah v. Minister of the Interior (2006) 2 TakEl 1754.
[32] D. Navot, Y. Peled, Towards a Constitutional Counter-Revolution in Israel?, cit., 440.
[33] Su cui v. O Aronson, The Democratic Case for Diffuse Judicial Review in Israel, cit., e, volendo, L. Pierdominici, Diffusione e concentrazione del giudizio di costituzionalità delle leggi in Israele. L’ottica del conflitto tra poteri, in D. Butturini, M. Nicolini (a cura di), Giurisdizione costituzionale e potere democraticamente legittimato, vol. II, Bologna, Bononia University Press, 2017, p. 183.
[34] D. Navot, Y. Peled, Towards a Constitutional Counter-Revolution in Israel?, cit., 440.
[35] A. Bottorf, Israel Bill Would Allow Parliament to Overturn Supreme Court Decisions Cabinet Backs Bill Restricting Supreme Court Review Power, in Jurist.org - Legal News and Commentary, 9.4.2012, disponibile al sito www.jurist.org/news/2012/04/israel-bill-would-allow-parliament-to-overturn-supreme-court-decisions.
[36] Si v. criticamente A. Harel, The Israeli Override Clause and the Future of Israeli Democracy, in Verfassungsblog – On Matters Constitutional, 15.5.2018, disponibile al sito verfassungsblog.de/the-israeli-override-clause-and-the-future-of-israeli-democracy.
[37] Y. Levy Ariel, Judicial Diversity in Israel: An Empirical Study of Judges, Lawyers and Law Students, tesi dottorale depositata alla Faculty of Laws, University College London, disponibile al sito www.ucl.ac.uk/judicial-institute/sites/judicial-institute/files/judicial_diversity_in_israel.yla__1.pdf, p. 50 ss.
[38] E. Ottolenghi, La forma di governo, in T. Groppi, E. Ottolenghi, A.M. Rabello (a cura di), Il sistema costituzionale dello stato di Israele, cit., 79 ss.
[39] M. Mautner, Law and the Culture of Israel, Oxford, 2011, p. 159 ss.
[40] J. Ari Gross, Bills to ban hametz, expand powers of rabbinic courts breeze through committee, in Times of Israel, 19.2.2023, disponibile al sito https://www.timesofisrael.com/bills-to-ban-hametz-expand-powers-of-rabbinic-courts-breeze-through-committee/.
[41] A. Obel, M. Bachner, Two Likud MKs back Gallant’s call to pause overhaul; others urge PM to fire him, in Times of Israel, 26.3.2023, disponibile al sito https://www.timesofisrael.com/several-likud-mks-back-gallants-call-to-pause-overhaul-others-urge-pm-to-fire-him/.
[42] J. Federman, Israel’s Netanyahu pressed to sign conflict-of-interest deal, in Associated Press News, 10.9.2020, disponibile al sito https://apnews.com/article/trials-israel-virus-outbreak-benjamin-netanyahu-910eaed8d1ad6e8d985858c55931450e.
[43] I. Debre, Israeli AG warns Netanyahu broke law on conflict of interest, in Associated Press News, 24.3.2023, disponibile al sito https://apnews.com/article/israel-netanyahu-politics-judicial-overhaul-protests-crisis-courts-aefbf9607a6e3a0e1bb5e3355e733043.
[44] T. Stann, L. Kerrer-Lynn, Knesset passes law shielding Netanyahu from court-ordered recusal 61-47, in Times of Israel, 23.3.2023, disponibile al sito https://www.timesofisrael.com/knesset-passes-law-shielding-netanyahu-from-recusal-in-61-47-final-vote/.
[45] J. Magid, Supreme Court bans extreme-right Gopstein and Marzel from elections, in Times of Israel, 26.8.2019, disponibile al sito https://www.timesofisrael.com/supreme-court-bans-extreme-right-gopstein-and-marzel-from-election-race/.
[46] J. Sharon, AG: Deri’s appointment as minister ‘unreasonable in the extreme’, in Times of Israel, 4.1.2023, disponibile al sito https://www.timesofisrael.com/ag-deris-appointment-as-minister-unreasonable-in-the-extreme/.
[47] Si v. organicamente il report di D. Scheindlin, The Assault on Israel’s Judiciary, in The Century Foundation, 7.7.2021, disponibile al sito tcf.org/content/report/assault-israels-judiciary.
[48] C. Levinson, Netanyahu Seeks to Clamp Down on Human-rights Groups and Bar Funding from Foreign States, in Haaretz, 11.6.2017, disponibile al sito www.haaretz.com/israel-news/1.795078.
[49] Mediante un inedito accordo di coalizione che vincolava ogni parlamentare dei partiti di maggioranza al voto conforme agli indirizzi presi dal Committee ministeriale: lo rileva G. Stopler, Special Symposium–Part 2 of 7: Constitutional Capture in Israel, in International Journal of Constitutional Law Blog, 21.8.2017, disponibile al sito www.iconnectblog.com/2017/08/constitutional-capture-israel.
[50] N. Mordechay, Y. Roznai, A Jewish and (Declining) Democratic State? Constitutional Retrogression in Israel, in Maryland Law Review, 2017, p. 244, 257: «Governmental powers and government departments are concentrated in the hands of Prime Minister Netanyahu, reducing the weight of his coalition partners. At a certain point, Prime Minister Netanyahu has simultaneously been Israel’s Prime Minister, Foreign Minister, Communications Minister, Economy Minister, and Regional Cooperation Minister». La stessa Corte suprema fu investita, quale Alta Corte di giustizia, della questione, giudicata legittima nella sua transitorietà sebbene, espressamente, non opportuna: v. HCJ 3132/15 Yesh Atid v. Prime Minister of Israel (Apr. 13, 2016) (Isr.).
[51] Si v. almeno l’interessante dibattito online Symposium: Constitutional Capture in Israel? ospitato sulle pagine dell’International Journal of Constitutional Law Blog tra il 20.8.2017 e il 26.8.2017, la cui introduzione è disponibile al sito www.iconnectblog.com/2017/08/introduction-to-i-connecticon-s-il-symposium-constitutional-capture-in-israel/, nonché in italiano, volendo, L. Pierdominici, Evoluzioni, rivoluzioni, involuzioni. Il costituzionalismo israeliano nel prisma della comparazione, Padova, 2022.
[52] A. Huq, T. Ginsburg, How to Lose a Constitutional Democracy, in UCLA Law Review, 2018, p. 78, 118: «Drawing on comparative law and politics analysis of these cases, we then extract five specific mechanisms by which constitutional retrogression unfolds. These are: (i) constitutional amendment; (ii) the elimination of institutional checks; (iii) the centralization and politicization of executive power; (iv) the contraction or distortion of a shared public sphere; and (v) the elimination of political competition».
[53] Cfr. almeno L. Pech, K.L. Scheppele, Illiberalism Within: Rule of Law Backsliding in the EU, in Cambridge Yearbook of European Legal Studies, 2017, p. 3, e, in italiano, G. Delledonne, Ungheria e Polonia: punte avanzate del dibattito sulle democrazie illiberali all’interno dell’Unione Europea, in DPCE online, 2020, p. 3999.
[54] E.S. Tănăsescu, The independence of justice as proxy for the rule of law in the EU - Case study – Romania, in Nuovi Autoritarismi e Democrazie: Diritto, Istituzioni, Società, 1/2021, p. 103.
[55] M. Kremintzer, Y. Shany, Illiberal Measures in Backsliding Democracies: Differences and Similarities between Recent Developments in Israel, Hungary, and Poland, cit., 152: «it can be noted that the similarities in the measures taken across different legal and political systems, in radically different historical contexts, suggests not only some degree of commonality in ideas and goals, but also some sharing of experiences and practices by illiberal forces».
[56] Cfr. per un inquadramento, tra i vari, L. Mezzetti, Corrosione e declino della democrazia, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2019, p. 441.
[57] K.L. Scheppele, The Rule of Law and the Frankenstate: Why Governance Checklists Do Not Work, in Governance. An International Journal of Policy Administration and Institutions, 2013, p. 559.
[58] Lo sottolinea opportunamente anche J.H.H. Weiler, Israel: Cry, the Beloved Country, cit.
[59] A livello comparato, la previsione dei relativi poteri «expressis verbis in costituzione» è, o dovrebbe essere, la caratteristica fondamentale dei cd. sistemi accentrati di giustizia costituzionale: v. A.R. Brewer-Carias, Judicial Review in Comparative Law, Cambridge, 1989, p. 188; seppure proprio il caso di Israele sia una possibile eccezione, cfr. volendo L. Pierdominici, Diffusione e concentrazione del giudizio di costituzionalità delle leggi in Israele. L’ottica del conflitto tra poteri, cit.
[60] La Basic Law: Freedom of Occupation, emanata nel 1992, fu emendata già nel 1994, su pressione dei partiti religiosi, proprio in esito ad un primo suo sensibile impiego giudiziale, quando, nel caso Mitral Ltd. v. The Prime Minister, 47(5) P.D. 485 (1993) la Corte suprema stabilì la violazione della legge fondamentale in parola da parte della legislazione ordinaria che poneva limiti all’importazione in Israele di carne non kosher, ossia non macellata secondo le regole ebraiche tradizionali. In esito a quella riforma, subito successiva alla pronunzia giudiziale, anche quella Basic Law fu dotata di una notwithstanding clause, che disponeva: «(A) provision of a law that violates freedom of occupation shall be of effect, even though not in accordance with section 4, if it has been included in a law passed by a majority of the members of the Knesset, which expressly states that it shall be of effect, notwithstanding the provisions of this Basic Law; such law shall expire four years from its commencement unless a shorter duration has been stated therein». Si dotò dunque il parlamento dell’ultima parola in tema di costituzionalità di una normativa in materia, purché mediante votazione a maggioranza assoluta e con una disciplina necessariamente a termine quanto ai suoi effetti.
[61] R. Dixon, D. Landau, Abusive Constitutional Borrowing: Legal Globalization and the Subversion of Liberal Democracy, Oxford, 2021, p. 1 ss.: «Legal globalization has a dark side: norms intended to protect and promote liberal democratic constitutionalism can often readily be used to undermine it. Abusive constitutional borrowing involves the appropriation of liberal democratic constitutional designs, concepts, and doctrines to advance authoritarian projects. Some of the most important hallmarks of liberal democratic constitutionalism—including constitutional rights, judicial review, and constituent power—can be turned into powerful instruments to demolish rather than defend democracy».
[62] Cfr. in tal ottica T. Groppi, Il diritto comparato nel prisma delle regressioni democratiche. Recensione al volume di Rosalind Dixon e David Landau, Abusive Constitutional Borrowing. Legal Globalization and the Subversion of Liberal Democracy, Oxford University Press, 2021, in Diritticomparati.it, 28.9.2022, disponibile al sito https://www.diritticomparati.it/il-diritto-comparato-nel-prisma-delle-regressioni-democratiche-recensione-al-volume-di-rosalind-dixon-e-david-landau-abusive-constitutional-borrowing-legal-globalization-and-the-subversion-of-liber/.
Pubblichiamo un contributo dagli Atti del Convegno La magistratura e l’indipendenza. Dedicato a Giacomo Matteotti promosso da Questa Rivista che si è tenuto a Roma il 12 aprile 2024. Il fascicolo è a cura di Sibilla Ottoni, Michela Petrini, Marco Dell'Utri e Angelo Costanzo e si può leggere e scaricare a questo link.
Fenomeni di regressione costituzionale in Europa, il caso ungherese
di Simone Benvenuti
Sommario: 1. Le dimensioni istituzionale, sociale e culturale della regressione costituzionale – 2. L’integrità del giudice come anticorpo? – 3. La rilevanza della dimensione sovranazionale
1. Le dimensioni istituzionale, sociale e culturale della regressione costituzionale
Ringrazio molto gli organizzatori per l’invito. Mi pare anzitutto opportuno sottolineare a mo’ di premessa due punti essenziali[1]. Quando si tratta di dinamiche relative alla vitalità dell’indipendenza giudiziaria in seno a un ordinamento, i fattori sottostanti sono molteplici. C’è una multidimensionalità che occorre considerare, nel senso che non bisogna pensare ci sia una ragione unica a spiegare certi fenomeni. Per identificare gli antidoti, non si può perciò prescindere dalla delineazione di un quadro articolato.
In secondo luogo, con riguardo al fenomeno di regressione relativo a Paesi di “più recente” adesione, come l’Ungheria, la Polonia, la Romania, non deve dimenticarsi che da parte dell’Unione europea il processo di valutazione fu realizzato in tali ordinamenti attraverso il ricorso ai criteri di Copenaghen e il metodo di lavoro della Commissione è stato sempre caratterizzato da un approccio formalista all’indipendenza giudiziaria, così come ad altri profili costituzionali e ordinamentali.
Ritengo che occorra anzitutto partire da queste due premesse: multidimensionalità ed esigenza di guardare in un’ottica non formalista, attenta non solo alle norme scritte e alle istituzioni sulla carta. A emergere accanto alla dimensione istituzionale sono quelle sociale e culturale: prendere in considerazione anche queste solo permette in definitiva di far luce su situazioni problematiche che per altri versi possono riguardare anche Paesi dell’Europa occidentale, ma che assumono negli ordinamenti menzionati aspetti patologici.
Fatte queste premesse, mi preme sottolineare tre punti.
Il primo punto riguarda l’importanza del fattore storico-sociale. Non bisogna dimenticare che si tratta di ordinamenti che appartengono a una determinata area dell’Europea, con una sua storia, appunto l’area centro-orientale, peraltro caratterizzata da forte eterogeneità delle esperienze del costituzionalismo nella prima metà del Novecento ma i cui ordinamenti sono accomunati da un debole radicamento sociale della magistratura e del valore dell’indipendenza del giudice. C’è dunque anzitutto un problema di debole radicamento sociale.
E questo è importante perché il radicamento sociale è il primo bastione dell’indipendenza della magistratura. La cultura dell’indipendenza non è un fatto che riguarda solo i magistrati – si parla spesso del problema della diffusione della cultura dell’indipendenza presso i magistrati – bensì è un fatto culturale che riguarda un’intera società. Vorrei ricordare a questo riguardo un’osservazione che fa Paolo Ridola in un contributo all’interno di un volume curato da Beniamino Caravita e che ci interessa molto da vicino. Ridola ci ricorda che il tema del radicamento sociale, o meglio il problema dell’assenza di radicamento sociale della magistratura, è presente alla nostra Assemblea costituente nel momento in cui si è venuto delineando quel modello di consiglio superiore della magistratura elettivo e a composizione mista. Dunque, la presa d’atto dell’assenza di radicamento sociale ha determinato alcune decisive scelte istituzionali nell’Italia post-albertina.
Il secondo punto attiene ai fattori istituzionali. Se si guarda ai modelli istituzionali di governo della magistratura ad esempio in Ungheria e in Polonia, che sono i Paesi che evidenziano al massimo grado il processo di regressione, rispettivamente dopo il 2010 e del 2015, si tratta di modelli formalmente garantisti dell’autonomia della magistratura. Eppure, questo modello non appare essere stato in grado di garantire tale autonomia sul lungo periodo. Per comprendere le ragioni di ciò, non si può isolare il sistema giudiziario come fosse una monade disgiunta dal contesto, perché le riforme del 2011/2012 e poi quelle che incrementalmente sono intervenute nel corso del decennio sono in realtà intimamente legate alla situazione pre-2010.
Tali riforme esprimono anche una reazione a una debole “accountability” del giudice, democratica e non, del modello istituzionale pre-2010. Tale debole “accountability” (utilizzo il termine inglese perché abbraccia un concetto più ampio rispetto a quello nostro di responsabilità) è stata resa ancor più problematica dall’assunzione da parte degli organi giudiziari (che certo hanno loro canali di legittimazione democratica ma che rimangono prevalentemente organi a legittimazione tecnica) l’assunzione di una centralità nei processi decisionali politici, di “allocazione autoritativa dei valori”. Tutto ciò riguarda non solo la giustizia ordinaria, ma anche, ovviamente, la giustizia costituzionale. Il sistema politico ungherese della transizione è caratterizzato da una debolezza dell’organo rappresentativo in termini di capacità decisionale e dalla sostituzione, o supplenza, del giudiziario (si pensi alla nota decisione della Corte costituzionale ungherese sulla pena di morte) – e alcune tendenze possono essere lette come reazione a questa realtà di fatto: lo sbilanciamento nel rapporto tra i poteri. Si tratta, come vedete, di temi che sono a noi familiari.
Infine, guardando ai fattori che hanno determinato il processo di regressione del sistema giudiziario non bisogna perdere di vista la prospettiva sistemica. Se si prende a esempio l’Ungheria, ciò che noi chiamiamo regressione del sistema costituzionale ha inizio da un evento – le elezioni dell’aprile del 2010, che ha dato a una forza politica divenuta egemonica il potere di realizzare riforme costituzionali e non ad ampio spettro e tra queste una riforma del sistema giudiziario. Alla radice di quella regressione del sistema istituzionale è in altre parole una “window of opportunity” consentita dalla debolezza del disegno istituzionale – sistema elettorale estremamente deformante, procedura di revisione della costituzione “semplice” etc. Non si può quindi prescindere dal fatto che certi passi che sono stati fatti non sarebbero stati possibili se quel disegno istituzionale fosse stato efficiente.
2. L’integrità del giudice come anticorpo?
Ciò detto, emerge centrale il tema della presenza di controspinte alle dinamiche descritte e di anticorpi in grado di frenarle. Se si parla di controspinte, nel caso ungherese è difficile vederne, e qui c’è forse un elemento di divergenza rispetto al caso polacco. Per quanto riguarda gli anticorpi, Simone Pitto ha giustamente osservato che le modifiche ordinamentali che hanno contrassegnato i casi ungherese e polacco, dando luogo a fenomeni di cattura delle istituzioni giudiziarie, hanno portato con sé prassi di vera e propria epurazione della magistratura, anche molto ampie – qualcosa che possiamo ritrovare a tali livelli anche nella storia francese, ma del XIX secolo. Questo cosa ci dice? Ci dice che l’elemento umano, per così dire, è centrale, ed è centrale con esso il tema della integrità professionale. Molto discusso anche a livello internazionale, il tema dell’integrità professionale, o “judicial integrity” riguarda una nozione ben più ampia e per molti aspetti non sovrapponibile a quella di indipendenza giudiziaria. Il tema riconduce a quanto ci ricordava Paola Filippi – non il dover essere ma il modo di porsi di fronte alla decisione giudiziaria, al lavoro giudiziario – e ancor prima all’esempio di Mauro Del Giudice, giudice nel procedimento Matteotti, richiamato dal Direttore dell’Archivio di Stato di Roma Michele di Sivo. E dunque, se guardiamo all’ordinamento ungherese di cui ho una conoscenza più approfondita, pur di fronte a una situazione estremamente degradata quel che vediamo è l’esistenza di isole di “resistenza” per così dire – seppure il termine resistenza non sia il più appropriato con riguardo alla magistratura perché ritengo che non sia quello di resistere il ruolo della magistratura, non foss’altro perché finisce comunque per essere perdente di fronte ai poteri politici rappresentativi.
Mi limito a riportare due esempi, cercando di rimanere nei tempi. Anzitutto, a distanza di quindici anni dallo smantellamento incrementale del sistema giudiziario possiamo testimoniare ancora l’esistenza, pur frammentaria, di una giurisprudenza di tribunali e corti che non è certo filo-governativa. Si pensi al noto caso Gyöngyöspata… Gyöngyöspata è un piccolo villaggio di nemmeno tremila abitanti dell’Ungheria centrale dove sono state messe in atto politiche di segregazione scolastica in una scuola elementare nei confronti dell’etnia Rom. Si tratta di un caso molto rilevante sia dal punto di vista politico, sia dal punto di vista giuridico, sia dal punto di vista sociale che è arrivato fino alla Corte europea dei diritti dell’uomo. A seguito della condanna dell’Ungheria da parte della CEDU, la questione riguardava essenzialmente la forma del risarcimento, laddove il Governo si rifiutava di risarcire le famiglie a titolo individuale, intendendo utilizzare le risorse per programmi rivolti all’intera comunità scolastica di Gyöngyöspata. Ebbene, dopo diversi gradi di giudizio, il giudice ungherese, e più esattamente la Corte suprema, nel 2020 ha reso una decisione contraria al Governo. Certo si può dire si tratti di casi residuali ma i quali evidenziano la capacità di alcuni giudici ungheresi di continuare a tenere il punto. Si può poi richiamare l’esempio del consiglio giudiziario nazionale, organo ormai sì svuotato di poteri effettivi ma che ha avuto la capacità in diverse occasioni di esprimere pareri pubblici ufficiali, che dunque hanno fatto prassi, molto duri sia nei confronti del Governo sia, mi preme sottolinearlo, nei confronti di alcuni rappresentanti della magistratura accondiscendenti nei confronti del Governo, non ultimo lo stesso attuale presidente della Corte suprema.
Va detto che quello che manca forse in Ungheria è il supporto a questa capacità di far fronte alle pressioni, anche tacite, del Governo: perché come dicevo in principio con riguardo al contesto allargato, vi è comunque un debole radicamento sociale della magistratura e perché, altro aspetto da sottolineare, è assente in Ungheria un panorama associazionistico come quello italiano che funga anche da collegamento tra magistratura e società (de resto si tratta di magistrature molto differenti e il caso italiano è forse più un’eccezione da questo punto di vista, nel panorama comparato), così come forse il ruolo dell’avvocatura, molto importante, è carente da questo punto di vista.
Ma, certamente, credo sia importante volgere lo sguardo al tema della integrità professionale e con esso a quello collegato del reclutamento e della formazione dei giudici, spostare l’attenzione dai modelli formali alle precondizioni sociali e culturali che permettano la tenuta del sistema anche in tempi di crisi quale elemento di resilienza per ricorrere un termine che oggi va tanto di moda.
3. La rilevanza della dimensione sovranazionale
Rimane da esplorare quale possa essere la funzione dell’integrazione sovranazionale in questo contesto. Al riguardo, c’è anzitutto da dire che i fenomeni di integrazione sovranazionale – Unione europea ma anche sistema convenzionale – sono decisamente controversi in seno alla società ungherese, e questo per motivi storici che hanno a che fare con il processo di costruzione della statualità ungherese la cui analisi ci porterebbe lontano dal tema che stiamo discutendo. Insomma non bisogna nascondersi che, sebbene Fidesz non goda della maggioranza dei consensi in termini assoluti nella società ungherese, quello dell’integrazione sovranazionale rimane un tema controverso a livello trasversale.
Se poi riflettiamo sugli anticorpi esterni, possiamo ben dire che questi nel caso ungherese non siano stati molto efficaci. Mi permetto di ricordare come solo poche settimane fa, il 13 dicembre 2023, il Parlamento ungherese abbia approvato un pacchetto di riforma della giustizia per dare soddisfazione ad alcune richieste degli organi europei e che mira a rafforzare l’’indipendenza della Corte suprema e del consiglio giudiziario nazionale. In cambio anche di questa riforma, l’Ungheria ha ottenuto il provvisorio sblocco di dieci miliardi di euro di fondi europei. Che cosa si può dire? Anzitutto, che le riforme come quelle del dicembre scorso sono, per richiamare l’espressione usata da Leonardo, riforme Frankenstein, vale a dire pezzi che non possono che evocare un giudizio positivo se considerati isolatamente ma che in definitiva non sono decisivi in un contesto degradato che è l’esito di un patchwork normativo dove ciò che conta sono alcuni dettagli, anche minimi. Si tratta di riforme inoltre spesso inattuate, o che possono rimanere inattuate, o che possono prendere molto tempo per la loro attuazione, e che in definitiva operano come pedine di una partita a scacchi con gli organi dell’Unione europea. Questo ci dice che la condizionalità politica e è scarsamente efficace e la condizionalità finanziaria può esserlo solo se presa sul serio.
E veniamo qui al vero tema, che dietro a queste riforme, interventi normativi a carattere formale, vi sono strumenti assai raffinati a disposizione del Governo e dei sostenitori, in seno al sistema giudiziario, del cosiddetto “Sistema di cooperazione nazionale” per raggiungere i propri obiettivi. Così, proprio mentre venivano discusse e poi approvate queste ultime riforme, il presidente della Corte suprema ungherese, che dispone di poteri significativi anche in materia di allocazione dei giudici tra le diverse sezioni, al pari dei presidenti delle corti negli ordinamenti centro-orientali, assumeva iniziative che volte a indebolire notevolmente l’indipendenza de facto della seconda sezione della corte suprema: proprio quella che aveva dimostrato di saper esprimere una giurisprudenza meno favorevole alle posizioni del Governo.
[1] Per una compiuta disamina sul tema affrontato si rinvia a «Dodici anni di riforme della giustizia in Ungheria», in Giustizia Insieme, vol. 3 settembre-dicembre 2023, Dialoghi oltre i confini nazionali, p. 499.
Approdi e prospettive del rapporto tra interdittiva antimafia e controllo giudiziario volontario (nota a Consiglio di Stato, Sez. VI, 15 marzo 2024, n. 2515)
di Rocco Parisi
Sommario: 1. La vicenda contenziosa; 2. Brevi cenni sul quadro normativo in materia di prevenzione antimafia; 3. Il controverso rapporto tra controllo giudiziario volontario ed interdittiva antimafia, a partire dall’incerta perimetrazione dei presupposti applicativi previsti dalla legge; 4. Il problematico coordinamento tra gli istituti in esame nelle successive fasi esecutive; 5. Conclusioni: problematiche ancora aperte nel coordinamento tra le misure di prevenzione antimafia. La recente rimessione alla Corte Costituzionale della questione di legittimità costituzionale dell’art. 34-bis, comma 7, del d.lgs. n. 159/2011 (TAR Reggio Calabria, Ordinanza n. 646/2024).
1. La vicenda contenziosa.
La pronuncia in commento prende le mosse da una vicenda piuttosto complessa, protrattasi per quattro anni e caratterizzata da ben quattro pronunce dei giudici amministrativi di primo e di secondo grado.
In origine, una società cooperativa agricola proponeva ricorso dinanzi al TAR del Lazio avverso il provvedimento di interdittiva antimafia adottato dalla Prefettura, impugnando con successivi motivi aggiunti taluni ulteriori provvedimenti adottati da altri Enti (A.N.A.C., G.S.E., A.G.E.A., Regione Lazio) in esecuzione della medesima interdittiva.
Il giudizio di primo grado si concludeva con l’accoglimento del ricorso e dei motivi aggiunti.
Il Ministero appellava la sentenza, chiedendone contestualmente la sospensione cautelare degli effetti.
Il Consiglio di Stato accoglieva l’istanza cautelare.
Nelle more del giudizio d’appello la società cooperativa otteneva l’ammissione al controllo giudiziario volontario ex art. 34-bis, comma 6, del d.lgs. n. 159/2011 per una durata di due anni, da cui derivava la sospensione degli effetti dell’interdittiva ai sensi del comma 7 del medesimo art. 34-bis.
Tuttavia, in virtù della sospensiva cautelare della sentenza di primo grado, A.G.E.A. riteneva di dover portare ad esecuzione l’informazione interdittiva (ancora sub iudice), negando le erogazioni previste dai programmi operativi di sussidio rurale e preannunciando le azioni recuperatorie delle somme già erogate.
All’esito del giudizio di secondo grado, il Consiglio di Stato accoglieva l’appello, confermando di conseguenza l’interdittiva ed i provvedimenti impugnati in primo grado.
A seguito della sentenza amministrativa di secondo grado, pur essendo ancora in itinere il controllo giudiziario volontario, venivano adottati una serie di atti esecutivi dell’interdittiva antimafia, divenuta ormai definitiva; cosicché, in particolare:
- il Mediocredito Centrale- Banca del Mezzogiorno S.p.A. comunicava alla società cooperativa la «revoca del provvedimento agevolativo concesso in favore dell’impresa beneficiaria finale e contestuale invito di pagamento di una somma rapportata all’equivalente sovvenzione lordo - E.S.L.»;
- l’A.N.A.C. comunicava l’avvenuta segnalazione e l’inserimento nel Casellario della relativa annotazione integrativa;
- con nota prot. n. 92628/2022 la Prefettura riteneva superata l’ammissione della misura di prevenzione patrimoniale del controllo giudiziario ex art. 34-bis, comma 6, del d.lgs. n. 159/2011 sulla scorta dell’intervenuta reiezione del gravame proposto avverso l’informazione interdittiva a monte;
- il G.S.E. comunicava di voler mantenere sospesa in via cautelativa l’erogazione degli importi di cui alla Convenzione per il riconoscimento delle tariffe incentivanti, «in attesa delle determinazioni che le Autorità […] intenderanno assumere a valle dei propri approfondimenti»;
- la Regione Lazio disponeva la revoca del riconoscimento di organizzazione di produttori alla società cooperativa, revocando di conseguenza l’approvazione del programma operativo 2013-2017 e 2018-2022 e disponendo di non approvare il programma operativo 2023-2025.
Con ricorso integrato da motivi aggiunti, la società cooperativa impugnava dinanzi al TAR del Lazio tutti i predetti provvedimenti adottati in esecuzione dell’interdittiva antimafia, deducendo che gli stessi fossero stati adottati nel periodo in cui il controllo giudiziario volontario non risultava ancora concluso.
Con sentenza n. 9672/2023, il T.A.R. rigettava il ricorso, ritenendo che il controllo giudiziario volontario non potesse produrre alcun effetto sospensivo sui rapporti pregressi, cui gli atti impugnati si riferivano, incisi dall’interdittiva prima del decreto adottato dal giudice penale ex art. 34-bis del d.lgs. n. 159/2011.
La società cooperativa appellava la predetta sentenza, deducendo l’erronea applicazione da parte del primo giudice della disciplina normativa di cui all’art. 34-bis del Codice antimafia.
Costituendosi in giudizio, l’A.N.A.C., il Ministero dell’Interno ed il Ministero dell’agricoltura proponevano appello incidentale, asserendo la violazione dei termini a difesa di cui agli artt. 46 e 71, comma 3, c.p.a., la nullità della sentenza ex art. 132 n. 4) c.p.c. per difetto di motivazione ed altri profili di inammissibilità dei motivi aggiunti proposti in primo grado.
Con la sentenza in commento, il Collegio, nel dichiarare inammissibile ed infondato l’appello incidentale, ha accolto l’appello principale, rilevando l’illegittimità dei provvedimenti gravati in prime cure per violazione della disciplina di cui all’art. 34-bis, commi 6 e 7, del d.lgs. n. 159/2011.
Fornendo un’apprezzabile ricostruzione dei (controversi) rapporti tra interdittiva antimafia e controllo giudiziario volontario, i giudici amministrativi evidenziano che «tutti i provvedimenti gravati in prime cure sono stati adottati in data successiva al 27 aprile 2022 (id est all’ammissione al controllo giudiziario). Tanto basta a ritenere operante, nella vicenda de qua, il disposto del comma 7 dell’art. 34-bis del d.lgs. n. 159 del 2011, restando del tutto irrilevante, per quanto qui più interessa, che il giudizio amministrativo avente ad oggetto l’informazione interdittiva antimafia si sia, nelle more, concluso con sentenza definitiva di questo Consiglio che ha respinto il ricorso proposto avverso di essa»[1].
Rimandando ad altra sede la disamina dei profili processuali emergenti dalla pronuncia in commento, inerenti alle motivazioni sottese al rigetto dell’appello incidentale, si svolgeranno alcune considerazioni sulle questioni sostanziali affrontate dai giudici di Palazzo Spada nella soluzione della res controversa.
Invero, la statuizione de qua, pur inserendosi lungo il solco tracciato dalla giurisprudenza amministrativa prevalente, consente di mettere in luce taluni profili problematici ancora irrisolti nel rapporto tra interdittiva antimafia e controllo giudiziario volontario, sui quali i giudici sono a tutt’oggi chiamati ad intervenire per colmare le lacune del quadro normativo vigente.
2. Brevi cenni sul quadro normativo in materia di prevenzione antimafia.
Il sistema della prevenzione antimafia rappresenta da sempre un ambito complesso e controverso, connotato da una forte tensione tra diritti ed interessi fondamentali, di egual rango costituzionale.
L’obiettivo primario di contrastare il rischio dell’infiltrazione criminale e mafiosa nel circuito economico legale è stato perseguito dal legislatore attraverso strumenti (fisiologicamente) afflittivi per le imprese, idonei a comprimere valori altrettanto importanti per l’ordinamento, in primis la libertà d’impresa di cui all’art. 41 Cost.
Tale tensione diviene ancor più pressante ove si consideri che il sistema della prevenzione antimafia trova concreta applicazione anche (e soprattutto) nel settore dei contratti pubblici, con precipuo riferimento alle imprese affidatarie ritenute a rischio di permeabilità mafiosa, rischiando così di paralizzare l’esecuzione delle commesse pubbliche e di annichilire buona parte del tessuto imprenditoriale del Paese[2].
Com’è noto, tale problematica è stata particolarmente avvertita nell’ultimo periodo, specie a seguito della crisi derivante dalla pandemia di Covid-32, frapponendosi alla tempestiva attuazione delle riforme e degli interventi previsti dal PNRR, strumentali a consentire il rilancio del sistema economico del Paese.
Ciò spiega, almeno in parte, la ragione per cui la normativa della prevenzione antimafia, contenuta nel d.lgs. n. 159/2011 (c.d. “Codice antimafia”), sia stata oggetto nel corso degli anni di importanti riforme, il cui filo conduttore è stato di mitigare progressivamente l’afflittività delle misure ivi previste, quantomeno nella risposta primaria dello Stato ai fenomeni di infiltrazione più “blandi”, attraverso una graduazione dell’intensità delle misure di prevenzione in maniera proporzionale al livello di contaminazione criminale dell’impresa.
Per molto tempo, il sistema della prevenzione antimafia è stato incentrato, sul versante amministrativo, sull’istituto dell’interdittiva antimafia[3], la cui finalità è quella di estromettere dal circuito economico le imprese indiziate – sulla scorta di una valutazione prettamente discrezionale, indiziaria e probabilistica del Prefetto – di essere assoggettate a condizionamenti mafiosi[4].
Pur se concepita originariamente come misura di prevenzione settoriale, destinata ad incidere sulla sola capacità contrattuale dell’impresa nei confronti della pubblica amministrazione, l’interdittiva antimafia ha assunto progressivamente una portata ben più ampia, estendendo i propri effetti anche alla revoca delle autorizzazioni e delle concessioni strumentali all’esercizio dell’attività economica[5], determinando così una sorta di “prigionia legale” dell’impresa, di fatto impossibilitata ad esercitare la propria attività anche nei rapporti interprivati.
Sicché, pur se astrattamente circoscritta ad un arco temporale massimo di 12 mesi[6], l’interdittiva è destinata sovente a produrre effetti devastanti ed «esiziali»[7] per la compagine societaria, determinandone nel breve periodo la scomparsa, con tutte le gravi conseguenze che ne derivano sul piano economico ed occupazionale[8].
Con il passare del tempo, il sistema antimafia è andato strutturandosi in una prospettiva non solo “multidisciplinare” – secondo un “doppio binario” di misure amministrative (di competenza del Prefetto) e giudiziarie (di competenza del giudice penale) – ma anche “progressiva”, arricchendosi di misure ad intensità variabile e proporzionalmente calibrate alla gravità dell’inferenza mafiosa sulla compagine societaria.
Ad un primo livello si pongono le misure applicabili alle fattispecie integrate da tentativi di infiltrazione mafiosa riconducibili a fenomeni di «agevolazione occasionale», tra cui rientra il controllo giudiziario di cui all’art. 34-bis del d.lgs. n. 159/2011[9], di competenza del Tribunale di prevenzione, e la prevenzione collaborativa di cui all’art. 94-bis del Codice antimafia, di competenza del Prefetto.
Ai sensi del citato art. 34-bis, il controllo giudiziario ha una durata compresa tra uno e tre anni e può essere disposto dal giudice penale sia d’ufficio (ex comma 1), che su richiesta dell’impresa già destinataria di interdittiva[10] che abbia preventivamente impugnato tale provvedimento dinanzi al giudice amministrativo (ex comma 6). In tal caso, ai sensi del comma 7 dell’art. 34-bis, dall’ammissione al controllo giudiziario deriva la sospensione degli effetti dell’interdittiva di cui all’art. 94 del d.lgs. n. 159/2011.
Contrariamente all’interdittiva antimafia, il controllo giudiziario volontario di cui al comma 6 consente all’impresa di continuare a svolgere la propria attività sotto l’egida di un amministratore giudiziario nominato dal Tribunale, con funzioni di “tutoraggio” e controllo[11].
Il controllo giudiziario è stato perciò inteso come misura “dinamica” e temporalmente circoscritta, attraverso cui l’impresa viene immessa in un percorso di recupero, volto alla definitiva bonifica dalle contaminazioni criminali occasionali ed al suo pieno recupero nel mercato legale.
In particolare, «l’essenza del controllo giudiziario è stata rintracciata nel perseguimento di una finalità dinamica tendente al risanamento dell’impresa nella peculiare ipotesi in cui l’agevolazione sia occasionale e vi siano, pro futuro, concrete possibilità che essa compia un fruttuoso cammino verso il riallineamento con il contesto economico sano, anche avvalendosi di controlli e sollecitazioni»[12].
La misura in esame si pone al guado tra prevenzione penale ed amministrativa[13], rappresentando una fattispecie normativa complessa caratterizzata dall’intervento di una pluralità di Autorità (amministrative e giurisdizionali). Ciò, come si vedrà, pone notevoli problematiche applicative e di coordinamento tra i diversi ambiti della prevenzione antimafia, in mancanza di un’apposita disciplina normativa.
Restando sempre al primo livello delle misure antimafia, il coacervo degli istituti preventivi si è arricchito, sul versante amministrativo, con la prevenzione collaborativa di cui all’art. 94-bis del d.lgs. n. 159/2011, introdotta con la riforma del 2021[14] al precipuo fine di mitigare la risposta amministrativa di prevenzione antimafia nelle ipotesi meno gravi di inferenza criminale, limitando così il ricorso alla misura interdittiva.
La prevenzione collaborativa può essere disposta dal Prefetto ove i tentativi di infiltrazione mafiosa siano riconducibili a situazioni di agevolazione “solo” occasionale e consiste nell’imposizione di oneri comunicativi e organizzativi in capo all’impresa, alla quale viene consentita la continuità della propria attività[15].
Emerge, dunque, prima facie che controllo giudiziario e prevenzione collaborativa, pur avendo una diversa natura (rispettivamente, giudiziaria ed amministrativa), siano connotati da uguali presupposti e finalità, essendo dinamicamente preordinati alla bonifica dell’impresa esposta ad un’agevolazione mafiosa occasionale, consentendo a quest’ultima di esercitare la propria attività nell’ambito di un percorso di pieno recupero alla legalità.
Orbene, la previsione di un sistema fondato sul doppio binario, amministrativo e giudiziario, ha posto numerosi problemi applicativi nel rapporto tra i diversi istituti, difettando un’apposita normativa di coordinamento.
Tralasciando per il momento di considerare le questioni poste dall’introduzione della prevenzione collaborativa, che come si vedrà è andata ad alterare gli equilibri (già instabili) delineati in sede giurisprudenziale, la sentenza in commento impone di soffermarsi sulle annose problematiche inerenti al rapporto tra interdittiva antimafia e controllo giudiziario volontario.
Infatti, si sono posti in sede applicativa notevoli problemi di coordinamento logico-giuridico-temporale tra gli istituti in esame, da qui sono sovente scaturite torsioni applicative, se non veri e propri paradossi, contrastanti con la ratio e con le finalità sottese al sistema di prevenzione delineato dal legislatore.
Tali questioni hanno imposto una massiccia attività suppletiva da parte della giurisprudenza, sia penale che amministrativa, chiamata a riportare a coerenza l’applicazione delle misure antimafia, colmando le lacune lasciate dal legislatore.
3. Il controverso rapporto tra controllo giudiziario volontario ed interdittiva antimafia, a partire dall’incerta perimetrazione dei presupposti applicativi previsti dalla legge.
Nel delineare i rapporti tra controllo giudiziario volontario ed interdittiva antimafia, una prima questione problematica si pone, già a monte, in merito alla perimetrazione dei presupposti applicativi previsti dalla legge, la cui valutazione è demandata ad Autorità diverse, appartenenti ai diversi plessi amministrativi e penali, con conseguente rischio che sulla medesima vicenda si giunga a valutazioni diverse e contrastanti da parte dei soggetti istituzionalmente preposti.
Come si è visto, infatti, ai sensi dell’art. 34-bis, comma 6, del d.lgs. n. 159/2011, l’accesso al controllo giudiziario volontario può essere disposto dal Tribunale di prevenzione, su richiesta dell’impresa già attinta da interdittiva che abbia già impugnato tale provvedimento dinanzi al Giudice amministrativo, «ove ne ricorrano i presupposti», individuati dal comma 1 nella sussistenza di un’agevolazione mafiosa occasionale.
Ci si è interrogati, dunque, sull’effettiva portata dei poteri di cognizione del giudice penale rispetto all’accertamento del presupposto della occasionalità dell’agevolazione mafiosa, vieppiù in presenza di una valutazione sui medesimi fatti già effettuata dal Prefetto che ha disposto l’interdittiva antimafia.
Sul punto, la disciplina normativa risulta alquanto generica, limitandosi a prevedere che il Tribunale, prima di pronunciarsi sull’istanza di ammissione al controllo giudiziario volontario, debba sentire anche il Prefetto che ha adottato l’informazione antimafia interdittiva, senza precisare alcunché in merito alla concreta incidenza delle valutazioni prefettizie sulla decisione che il giudice penale è chiamato ad assumere.
Tale questione, in realtà, era stata affrontata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nel 2019[16], le quali avevano messo in luce che la valutazione del giudice penale adito sul controllo giudiziario volontario deve muovere dall’accertamento dell’occasionalità dell’agevolazione mafiosa, per poi soffermarsi prevalentemente su una valutazione prognostica circa l’effettiva idoneità della misura richiesta a consentire il risanamento dell’ente dalle contaminazioni criminali.
La pronuncia delle Sezioni Unite, tuttavia, è stata diversamente interpretata dalla giurisprudenza, sia penale che amministrativa, in riferimento alla portata da riconoscere alla verifica “iniziale” del giudice penale sulla sussistenza dell’agevolazione mafiosa occasionale.
Un primo (e prevalente) orientamento ha ridimensionato fortemente l’alveo di accertamento del giudice penale sulla sussistenza della permeabilità mafiosa, ritenendo tale requisito già acclarato dall’autorità prefettizia, demandando al Tribunale la sola valutazione prognostica sull’effettiva “bonificabilità” dell’impresa[17].
Al riguardo, è stato rilevato che «stante l’autonomia tra le due procedure - il Giudice della prevenzione non deve “sindacare” il contenuto della misura prefettizia, ma deve limitarsi a verificare, proceduralmente, che la stessa sia stata impugnata in sede amministrativa, e a verificare con un giudizio prognostico, se il libero svolgimento dell’attività economica possa determinare in favore dei soggetti interessati una agevolazione di consistenza inidonea a legittimare l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali, e se sussista la concreta possibilità che l’impresa, in forza delle specifiche misure e prescrizioni applicate dal provvedimento di controllo giudiziario, possa riallinearsi con il contesto economico sano, affrancandosi dal condizionamento delle infiltrazioni mafiose»[18].
Dunque, la valutazione del giudice penale deve necessariamente muovere dal presupposto dell’agevolazione mafiosa, già cristallizzata nella valutazione prefettizia, dovendo all’uopo verificare se, in una prospettiva dinamica e rivolta al futuro, l’impresa possa essere effettivamente bonificata e restituita al libero mercato all’esito del percorso di risanamento previsto dall’art. 34-bis[19].
Tale tesi, pur evidentemente restrittiva dei poteri di cognizione del giudice penale, è animata dall’esigenza di scongiurare il rischio di valutazioni divergenti da parte del Tribunale e del Prefetto rispetto al dato della permeabilità mafiosa dell’impresa, evitando soprattutto il corto circuito istituzionale, già emerso nella prassi, per cui il Tribunale penale possa giungere a rigettare la richiesta di ammissione al controllo giudiziario per insussistenza in capo all’impresa (già attinta da interdittiva) di qualsivoglia contaminazione mafiosa, anche solo occasionale.
Un diverso orientamento, recentemente sostenuto dalla Corte di Cassazione, è incline a riconoscere al giudice di prevenzione poteri di cognizione pieni, estesi anche all’accertamento della sussistenza dell’agevolazione mafiosa occasionale, escludendo per l’effetto che il Tribunale debba all’uopo «considerare intangibili le valutazioni espresse dall’organo di prevenzione amministrativa»[20].
Tale tesi, sia pur astrattamente idonea a condurre nella prassi a valutazioni divergenti da parte delle diverse Autorità, risulta anzitutto maggiormente conforme al dettato normativo dell’art. 34-bis, che invero impone al giudice della prevenzione di ammettere l’impresa al controllo giudiziario in presenza dei presupposti previsti dal comma 1, senza in alcun modo limitare l’accertamento rispetto ai fatti già valutati dalla Prefettura.
L’orientamento in esame risulta, inoltre, maggiormente in linea con il principio espresso dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, nella misura in cui i giudici di legittimità non avevano affatto espunto dalla valutazione del Tribunale la verifica sulla sussistenza dell’agevolazione mafiosa, affiancando ad essa il momento (ritenuto centrale) della valutazione prognostica di effettiva bonificabilità dell’impresa[21].
Senza considerare che, a seguito dell’introduzione della prevenzione collaborativa di cui all’art. 94-bis, continuare a sostenere l’intangibilità in sede penale della valutazione compiuta dal Prefetto condurrebbe ad un effetto sostanzialmente abrogativo del controllo giudiziario volontario, atteso che il Tribunale dovrebbe limitarsi a prendere atto della valutazione con cui il Prefetto, adottando l’informativa antimafia, ha ritenuto insussistente un’agevolazione solo occasionale in capo all’impresa, in presenza della quale invero avrebbe dovuto adottare la più mite misura della prevenzione collaborativa[22].
Sicché, risulterebbe escluso già a monte il requisito dell’agevolazione occasionale, con la conseguenza che il Tribunale non potrebbe fare altro che rigettare sistematicamente le richieste di ammissione al controllo giudiziario formulate ex art. 34-bis, comma 6, del Codice antimafia.
Si tratta, a ben vedere, di una questione di assoluta rilevanza e tutt’altro che risolta, che lascia aperti risvolti applicativi idonei a mettere in crisi il sistema del doppio binario di prevenzione, per come ad oggi delineato dalla legge.
Invero, ammettere la possibile sovrapposizione (da parte del Tribunale e del Prefetto) nella valutazione del requisito della agevolazione mafiosa (occasionale o meno) conduce a cascata a possibili interferenze anche sul piano giudiziario, in vista del sindacato di legittimità che il giudice amministrativo è chiamato a compiere sull’interdittiva antimafia (la cui impugnazione costituisce un presupposto legale di ammissione al controllo giudiziario volontario)[23].
È chiaro, infatti, che l’ammissione dell’impresa al controllo giudiziario volontario, basato sull’accertamento di un’agevolazione mafiosa solo occasionale, mette in discussione la correttezza della valutazione del Prefetto che, al contrario, abbia negato la sussistenza di tale presupposto provvedendo all’adozione della più grave misura interdittiva. Circostanza di cui il giudice amministrativo non potrà non tener conto[24].
Sul punto, risulta quantomeno non più attuale il principio giurisprudenziale per cui l’ammissione dell’impresa ricorrente al controllo giudiziario volontario non costituisce circostanza rilevante ai fini del sindacato del giudice amministrativo sulla legittimità dell’interdittiva prefettizia, riferendosi a profili d’indagine del tutto distinti[25]. Infatti, tale netta divisione delle valutazioni assunte dal Tribunale di prevenzione e dal giudice amministrativo risulta difficilmente predicabile, sia in concreto che in astratto.
Sotto un primo profilo, è arduo sostenere che le motivazioni addotte dal Tribunale di prevenzione nel disporre l’ammissione dell’impresa al controllo giudiziario volontario non influenzino in alcun modo il giudice amministrativo chiamato a valutare la legittimità dell’interdittiva prefettizia. Tale aspetto è emerso in una recente pronuncia del C.G.A.R.S. che, nel ribadire la piena autonomia tra il giudizio amministrativo (di legittimità sull’interdittiva) e quello penale (di ammissione al controllo giudiziario volontario), ha espressamente considerato «significativi taluni argomenti della parte motiva della pronuncia evocata [del giudice penale, ndr], pur sviluppati ai soli fini del vaglio dei distinti presupposti della misura giurisdizionale di salvataggio. Ciò non deve sorprendere, poiché, per quanto si cerchi, con una certa difficoltà, di distinguere tra i presupposti del controllo giudiziario e i presupposti dell’interdittiva prefettizia, è in qualche misura inevitabile, trattandosi della valutazione degli stessi fatti, che possano esservi di riflesso delle inferenze, sempre che ovviamente il loro apprezzamento sia frutto dell’autonomo giudizio del giudice amministrativo»[26].
Inoltre, la separazione stagna tra le valutazioni assunte dal Tribunale di prevenzione e dal giudice amministrativo non appare più percorribile, nemmeno in astratto, a seguito dell’introduzione della prevenzione collaborativa e del criterio di proporzionalità e progressività che informa il sistema della prevenzione antimafia, per cui il giudice amministrativo può essere chiamato a conoscere dell’illegittimità dell’interdittiva impugnata anche per violazione dell’art. 94-bis del d.lgs. n. 159/2011 e per eccesso di potere, ove sia contestata la mancata adozione, in presenza di una agevolazione solo occasionale, della prevenzione collaborativa in luogo dell’interdittiva impugnata.
Di talché, il punto di equilibrio delineato dalla giurisprudenza, sia pur già difficilmente realizzabile nella realtà, è destinato a sgretolarsi definitivamente a seguito della riforma legislativa del 2021, rendendo così ormai improcrastinabile un intervento legislativo volto a coordinare, già dal momento della definizione e valutazione dei presupposti applicativi, le misure afferenti al complesso e multiforme sistema della prevenzione antimafia.
4. Il problematico coordinamento tra gli istituti in esame nelle successive fasi esecutive.
Le difficoltà di coordinamento tra controllo giudiziario volontario ed interdittiva antimafia non si arrestano al momento della definizione e della valutazione dei relativi presupposti applicativi, proiettandosi alle successive fasi esecutive[27].
Una questione fondamentale, affrontata anche dalla sentenza in commento, ha riguardato le possibili conseguenze derivanti dal rigetto del ricorso proposto avverso l’interdittiva sul controllo giudiziario ancora in itinere e sugli effetti sospensivi previsti dall’art. 34-bis comma 7 del Codice antimafia.
Al riguardo, un punto di partenza fondamentale è costituito dai principi espressi dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con le sentenze nn. 6, 7 e 8 del 2023, laddove i giudici amministrativi, sia pur nella prospettiva processuale di escludere la sussistenza di un rapporto di pregiudizialità necessaria tra controllo giudiziario volontario e giudizio di impugnazione avverso l’interdittiva antimafia, hanno rimarcato l’assoluta autonomia ed indipendenza che connota i due istituti, di tal guisa da escludere che il rigetto dell’impugnativa proposta avverso l’interdittiva antimafia possa interferire sul controllo giudiziario volontario ancora in itinere, facendo venir meno gli effetti sospensivi previsti dall’art. 34-bis, comma 7, del d.lgs. n. 159/2011[28].
A tale impostazione la sentenza in commento ha mostrato piena adesione, valorizzando le ragioni testuali e sistematiche sostenute dalla Plenaria.
È stato all’uopo rimarcato che, sul piano testuale, l’art. 34-bis del Codice antimafia pone l’interdittiva e il controllo giudiziario in un rapporto di sola presupposizione genetica, lasciando aperta la possibilità che i due istituti, riferendosi a momenti[29] e dinamiche[30] diverse di contrasto alla criminalità organizzata, pervengano ad esiti anche divergenti. La disposizione in esame, dunque, non osta a che, pur a fronte di un’interdittiva definitiva e confermata, in punto di legittimità, dal giudice amministrativo, il controllo giudiziario volontario prosegua nel percorso di bonifica dell’impresa, mantenendo i propri effetti sospensivi sull’interdittiva.
Inoltre, sul piano sistematico, è stato osservato che l’art. 34-bis, comma 7, del Codice antimafia non subordina affatto gli effetti sospensivi dell’interdittiva alla perdurante pendenza del giudizio di impugnazione, né tantomeno ne prevede la cessazione immediata in caso di rigetto del ricorso da parte del giudice amministrativo.
Peraltro, ove si ritenesse che dal rigetto del ricorso derivi automaticamente la cessazione degli effetti sospensivi del controllo giudiziario volontario, si rischierebbe di svuotare di contenuto l’istituto previsto dall’art. 34-bis, atteso che l’impresa beneficiaria verrebbe nuovamente ed improvvisamente esposta ai gravi effetti dell’interdittiva proprio durante il percorso di risanamento già intrapreso, magari proprio nella sua fase finale, vanificando i risultati sino a quel momento raggiunti.
Pertanto, la prospettiva di un possibile rigetto del ricorso da parte del giudice amministrativo renderebbe inutile finanche l’avvio del controllo giudiziario volontario, il quale infatti verrebbe a costituire una parentesi (con mera utilità di sospensione cautelare degli effetti) del giudizio amministrativo di impugnazione dell’interdittiva antimafia, sovrapponendosi (inutilmente e, addirittura, pericolosamente) agli strumenti cautelari azionabili in giudizio.
Sulla scorta delle predette argomentazioni, con la pronuncia in commento il Consiglio di Stato ha rilevato l’illegittimità dei provvedimenti impugnati, i quali erano stati adottati in un momento in cui il controllo giudiziario volontario era ancora in itinere, sull’erroneo convincimento che, essendo nelle more intervenuto il rigetto del ricorso proposto avverso l’interdittiva, quest’ultima fosse divenuta nuovamente efficace.
La circostanza per cui i provvedimenti impugnati fossero stati adottati successivamente all’ammissione al controllo giudiziario è stata considerata dal Collegio dirimente per considerare operante l’effetto sospensivo di cui all’art. 34-bis, comma 7, del d.lgs. n. 159 del 2011, «restando del tutto irrilevante, per quanto qui più interessa, che il giudizio amministrativo avente ad oggetto l’informazione interdittiva antimafia si sia [fosse, ndr], nelle more, concluso con sentenza definitiva di questo Consiglio che ha respinto il ricorso proposto avverso di essa»[31].
Pertanto, essendo ancora pendente la procedura di bonifica, le amministrazioni resistenti non avrebbero potuto adottare alcun atto esecutivo di un provvedimento (l’interdittiva) in quel momento non efficace, anche in ragione del fatto che ai sensi dell’art. 21-quater, comma 1, della l. n. 241/1990 «l’efficacia è presupposto per l’esecutività del provvedimento (id est l’attitudine dello stesso ad essere portato ad esecuzione)»[32].
Ciò posto, la pronuncia in commento fornisce talune importanti precisazioni in merito ad un ulteriore profilo controverso, relativo alla portata - retroattiva o pro-futuro - degli effetti sospensivi di cui all’art. 34-bis comma 7 del d.lgs. n. 159/2011.
In passato, la questione è stata a lungo dibattuta in giurisprudenza, soprattutto in riferimento agli effetti prodotti dall’ammissione al controllo giudiziario sulla partecipazione alla gara pubblica dell’impresa già attinta da interdittiva antimafia, trattandosi di verificare se l’ammissione al controllo giudiziario potesse di per se impedire l’esclusione dalla gara dell’impresa ai sensi dell’art. 80, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016 (all’epoca vigente)[33].
In mancanza di una previsione normativa al riguardo, sono emersi in giurisprudenza due diversi orientamenti.
Alla stregua di un primo indirizzo, gli effetti sospensivi di cui all’art. 34-bis, comma 7, del d.lgs. n. 159/2011 si rivolgono soltanto al futuro, non potendo interferire sugli effetti dell’interdittiva già prodottisi in praeterito (ovvero tra l’adozione della misura interdittiva e l’ammissione al controllo giudiziario)[34].
È stato all’uopo rilevato che «il controllo giudiziario […] seppur idoneo a sospendere temporaneamente gli effetti della misura interdittiva, non elimina gli effetti, medio tempore prodotti dall’interdittiva stessa, nei rapporti in corso. Di conseguenza, “l’ammissione (o anche la sola richiesta di ammissione) al controllo giudiziario delle attività economiche e dell’azienda di cui allìart. 34-bis d.lgs. n. 159 del 2011 non ha conseguenze sui provvedimenti di esclusione (anche adottati ai sensi dell’art. 80, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016), i cui effetti contestualmente si producono e si esauriscono in maniera definitiva nell’ambito della procedura di gara interamente considerata, di modo che non vi è possibilità di un ritorno indietro per via della predetta ammissione»[35].
Con la pronuncia in commento, il Consiglio di Stato ha ritenuto che gli effetti sospensivi dell’ammissione al controllo giudiziario agiscono anche retroattivamente, involgendo gli effetti dell’interdittiva prodottisi in praeterito.
A fondamento di tale tesi è stato anzitutto rilevato che, da un punto di vista letterale, l’art. 34-bis, comma 7, del Codice antimafia si limita a prevedere che l’ammissione al controllo giudiziario volontario sospende gli effetti dell’interdittiva antimafia, «senza distinguere tra effetti giuridici prodottisi in praeterito ed effetti giuridici pro futuro (cioè, rispettivamente, prima e dopo la sua adozione)»[36].
Inoltre, sul piano sistematico, è stato evidenziato che «una sospensione ex lege - come quella prevista dal comma 7 dell’art. 34-bis del d.lgs. n. 159 del 2011 - che guardasse, in ipotesi, al solo futuro si discosterebbe in maniera del tutto irragionevole dal suo modello normativo più prossimo rappresentato dalla sospensione cautelare dell’efficacia ex art. 55 e ss. c.p.a. disposta dal giudice amministrativo, la quale, per sua consolidata fisionomia, investe anche (e soprattutto) gli effetti giuridici già prodotti dal provvedimento»[37].
Peraltro, deve rilevarsi che, con precipuo riferimento alle procedure ad evidenza pubblica, l’art. 94, comma 2, del nuovo Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 36/2023) dispone espressamente che la causa di esclusione integrata dall’adozione dell’interdittiva antimafia «non opera se, entro la data dell’aggiudicazione, l’impresa sia stata ammessa al controllo giudiziario ai sensi dell’articolo 34-bis del medesimo codice»[38].
Ciò costituisce un’ulteriore conferma che, anche in riferimento alla partecipazione alle procedure di gara, l’ammissione al controllo giudiziario volontario realizza una «sterilizzazione temporanea degli effetti della misura interdittiva anche prodotti in praeterito (e, segnatamente, tra la data di emissione dell’informazione interdittiva antimafia e l’ammissione al controllo giudiziario)»[39].
5. Conclusioni: problematiche ancora aperte nel coordinamento tra le misure di prevenzione antimafia. La recente rimessione alla Corte Costituzionale della questione di legittimità costituzionale dell’art. 34-bis, comma 7, del d.lgs. n. 159/2011 (TAR Reggio Calabria, Ordinanza n. 646/2024).
La pronuncia in commento assume una rilevanza del tutto significativa nel dibattito dei rapporti tra misure di prevenzione amministrative e penali, riportando taluni principi importanti per la corretta applicazione di istituti solo genericamente disciplinati dal legislatore.
Ciò nonostante, permangono a tutt’oggi alcune questioni aperte che, afferendo soprattutto alla fase finale di esecuzione degli istituti in esame, rischiano di compromettere la stessa efficacia ed utilità delle misure di prevenzione, pregiudicando in nuce la tenuta del sistema antimafia.
Una volta sostenuta la piena autonomia tra controllo giudiziario volontario ed interdittiva antimafia, resta da capire come gli istituti de quibus si coordino nella fase ultima e conclusiva, allorquando cioè – da un lato – l’interdittiva antimafia risulti definitivamente confermata all’esito del giudizio amministrativo di impugnazione e – dall’altro lato – il controllo giudiziario volontario sia concluso (ovvero sia in fase di conclusione), con esiti positivi per l’impresa.
Al riguardo, la pronuncia in commento, muovendo anche dalla natura temporanea e (astrattamente) provvisoria dell’interdittiva antimafia, rimarca la funzione fondamentale e di raccordo dei poteri/doveri di aggiornamento attribuiti al Prefetto ex art. 91, comma 5, del d.lgs. n. 159/2011, per cui l’autorità amministrativa è tenuta[40] a verificare, anche su documentata richiesta dell'interessato, la perdurante sussistenza delle circostanze rilevanti ai fini dell’accertamento dei tentativi di infiltrazione mafiosa, sulla cui scorta era stata adottata l’interdittiva[41].
Invero, la valutazione prefettizia di aggiornamento deve necessariamente tener conto dei risultati del controllo giudiziario, i cui esiti favorevoli, pur non potendo autonomamente rilevare come causa sopravvenuta di illegittimità dell’interdittiva in precedenza adottata[42], rappresentano un elemento fondamentale che il Prefetto è tenuto a considerare nell’accertamento dei presupposti che avevano condotto all’adozione dell’interdittiva[43].
Tuttavia, tali indicazioni, seppur condivisibili in astratto, presentano in concreto una scarsa pregnanza significativa, a fronte della ritrosia sovente mostrata dalle Prefetture nell’esitare tempestivamente le istanze di aggiornamento presentate dalle imprese già attinte da interdittiva e, successivamente, nel concludere le procedure di aggiornamento in senso positivo e liberatorio per l’impresa.
Ne deriva, evidentemente, oltre che una grave aporia del sistema antimafia, un grave vulnus di tutela nei confronti dell’impresa attinta da interdittiva antimafia che, nonostante la positiva conclusione del percorso di bonifica espletato ai sensi dell’art. 34-bis del Codice antimafia, si ritrova assoggettata alla grave misura interdittiva, venendo così nuovamente (e probabilmente, definitivamente) estromessa dal mercato.
Tali profili di criticità risultano vieppiù gravi ed evidenti ove si consideri che il legislatore ha trascurato di disciplinare puntualmente i rapporti tra interdittiva e controllo giudiziario volontario nel periodo compreso tra la cessazione (con esito positivo) del controllo giudiziario volontario e la definizione da parte della Prefettura del procedimento di aggiornamento ex art. 91, co. 5, cod. antimafia (ove eventualmente attivato).
Sicché, a fronte dell’automatica reviviscenza degli effetti dell’interdittiva antimafia, l’impresa viene di fatto a trovarsi in uno stato di impasse difficilmente superabile, se non di vera e propria «incondizionata soggezione al potere pubblico»[44], non avendo a disposizione alcuno strumento di tutela idoneo a contrastare i gravi effetti dell’interdittiva ancora valida e (nuovamente) efficace, pur risultando nelle more sanata dagli elementi di contiguità mafiosa in precedenza addotti dal Prefetto.
Invero, alla luce del quadro normativo vigente, all’impresa è precluso sia impugnare dinanzi al giudice amministrativo l’originaria interdittiva, già coperta da giudicato, sia presentare al Tribunale della prevenzione una nuova istanza di ammissione al controllo giudiziario, non essendo stato possibile, per l’appunto, impugnare (nuovamente) l’interdittiva dinanzi al giudice amministrativo.
Sicché, i gravi pregiudizi derivanti dalla reviviscenza dell’interdittiva potrebbero compromettere irrimediabilmente la prosecuzione dell’impresa, vanificando persino l’eventuale rivalutazione favorevole operata dalla Prefettura in sede di aggiornamento proprio sulla scorta degli esiti positivi emergenti dal controllo giudiziario.
Di recente, tali profili sono stati condivisibilmente valorizzati dal T.A.R. Reggio Calabria nell’Ordinanza n. 646/2024, con cui i giudici amministrativi hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 34-bis, comma 7, del d.lgs. n. 159/2011 proprio nella parte in cui la citata disposizione «non prevede che la sospensione degli effetti dell’interdittiva conseguente all’ammissione al controllo giudiziario perduri anche con riferimento al tempo, successivo alla sua cessazione, occorrente per la definizione del procedimento di aggiornamento ex art. 91, co. 5, cod. antimafia», inferendone perciò la violazione degli artt. 3, 4, 24, 41, 97, 111, 113 e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6, 8 e 13 della CEDU e 1 del primo protocollo ad essa addizionale.
È interessante notare come il giudice a quo, pur auspicando – de iure condendo – un intervento legislativo idoneo a riportare a coerenza il sistema, ritenga che l’aporia costituzionale segnalata possa essere sanata – de iure condito – attraverso una sentenza additiva della Corte Costituzionale, volta a protrarre temporalmente gli effetti sospensivi dell’efficacia dell’interdittiva fino alla definizione del procedimento di aggiornamento prefettizio previsto dall’art. 91, comma 5, del Codice antimafia.
In attesa della pronuncia del giudice delle leggi, non pare vi siano dubbi sull’esigenza che le problematiche inerenti ai rapporti tra misure di prevenzione amministrative e penali, cui la giurisprudenza ha meritoriamente tentato di sopperire in sede applicativa, siano definitivamente risolte dal legislatore, attraverso un intervento di riforma organico sull’intero sistema di prevenzione antimafia.
Anche perché, come si è sopra anticipato, molte delle soluzioni approntate dalla giurisprudenza risultano oggi inidonee a garantire la certezza del diritto nell’applicazione di misure particolarmente restrittive per le imprese destinatarie, soprattutto a seguito dell’introduzione della prevenzione collaborativa di cui all’art. 94-bis, che infatti rende ancor più inestricabile e difficoltoso il quadro normativo vigente.
Come si è visto, uno dei principali profili problematici è costituito dal fatto che la nuova misura collaborativa rappresenta una duplicazione sul piano amministrativo del già vigente controllo giudiziario volontario, fondandosi su medesimi presupposti, effetti e finalità.
Invero, la prevenzione collaborativa viene considerata come «una sorta di controllo giudiziario senza giudice né amministratore»[45], rappresentando una «misura amministrativa, non più statica, com’era per l’informativa, ma dinamica, speculare rispetto a quella penale»[46].
Ne deriva che, in virtù del canone di gradualità e proporzionalità che permea il sistema della prevenzione antimafia, l’interdittiva deve essere definitivamente collocata, anche nell’ambito della prevenzione amministrativa, come misura di extrema ratio, adottabile solo ove la permeabilità mafiosa della compagine societaria travalichi la mera «agevolazione occasionale», assumendo connotati più pervasivi e strutturali[47].
Si impone, dunque, in capo all’autorità amministrativa un puntuale accertamento dei presupposti fondanti l’emissione dell’interdittiva antimafia, da svolgere nel pieno contraddittorio con l’impresa interessata, che devono necessariamente essere esplicitati in motivazione.
Contrariamente a quanto sostenuto in passato in riferimento all’interdittiva antimafia, la valutazione che il Prefetto è chiamato a svolgere non assume di certo una portata esclusivamente diagnostica e statica, dovendo di converso proiettarsi in avanti al fine di valutare l’effettiva idoneità della misura a bonificare l’impresa dagli accertati condizionamenti mafiosi occasionali.
Di qui il rischio, tutt’altro che astratto ed eventuale, che le valutazioni assunte dal Prefetto, culminate nell’adozione dell’interdittiva antimafia sulla scorta dell’asserita sussistenza di una contaminazione mafiosa non solo occasionale, siano smentite dalla decisione del Tribunale di prevenzione che, ripercorrendo il medesimo iter logico-giuridico già seguito dall’autorità prefettizia, ritenga invece di ammettere l’impresa già attinta da interdittiva al controllo giudiziario volontario.
Emerge, inoltre, il possibile contrasto tra pronunce rese da organi giurisdizionali (id est: Tribunale di Prevenzione e giudice amministrativo), ove si consideri che con l’introduzione della prevenzione collaborativa, il giudice amministrativo chiamato a pronunciarsi sul ricorso proposto avverso l’interdittiva vede definitivamente estendersi lo spettro del proprio sindacato di legittimità anche all’eccesso di potere, sub specie di difetto di motivazione e/o violazione del principio di proporzionalità, oltre che alla violazione dell’art. 94-bis del Codice antimafia, ove sia contestata in giudizio la mancata verifica e/o dimostrazione da parte del Prefetto della sussistenza di elementi tali da escludere che l’agevolazione mafiosa fosse solo occasionale[48].
Sicché, in sintesi, ammettendo l’impresa al controllo giudiziario volontario, il Tribunale della prevenzione accerta la sussistenza di un’agevolazione occasionale, smentendo – ipso facto – le valutazioni già svolte dal Prefetto (che ha adottato l’interdittiva) e contrastando – potenzialmente – l’apprezzamento del giudice amministrativo, ove quest’ultimo, accertando la sussistenza di un’agevolazione mafiosa non solo occasionale, ritenga legittima l’interdittiva prefettizia.
La questione, dunque, risulta notevolmente complessa ed inestricabile, in cui il rischio di contrasto tra pronunce rese dai diversi soggetti istituzionali coinvolti nella fattispecie (id est: Prefetto, Tribunale di prevenzione e giudice amministrativo) risulta connaturato alla pura e semplice applicazione degli istituti di prevenzione, per come attualmente disciplinati dal Codice antimafia.
La problematica di fondo appare costituita dal fatto che il legislatore ha sovrapposto due misure di prevenzione (prevenzione collaborativa e controllo giudiziario volontario) sostanzialmente analoghe, quanto a presupposti, ratio e finalità, ma con natura diversa, cui si interseca ulteriormente la più grave misura interdittiva, rispetto alla quale manca un’adeguata disciplina di coordinamento, formando così un groviglio davvero inestricabile.
Si auspica, pertanto, un prossimo intervento di riforma normativa, che – da un lato – risolva la duplicazione esistente tra controllo giudiziario volontario e prevenzione collaborativa, diversificandone i presupposti, coordinandone i relativi effetti, o in extrema ratio abrogando una delle due misure, e – dall’altro lato – disciplini puntualmente i rapporti tra controllo giudiziario volontario ed interdittiva antimafia, nelle diverse fasi comprese tra l’accertamento dei presupposti e la definizione degli effetti, valorizzando e recependo l’importante contributo fornito dalla giurisprudenza (sia penale che amministrativa).
Sempre che, come appare probabile, sulla vicenda non intervenga nelle more la Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla questione di legittimità dell’art. 34-bis, comma 7, del d.lgs. n. 159/2011, sopperendo, ancora una volta, alle lacune ed alle incertezze di una disciplina normativa ancora lontana dal trovare un’adeguata coerenza.
[1] Cfr. Cons. St., Sez. VI, 15 marzo 2024, n. 2515, punto 7 in diritto.
[2] Con precipuo riferimento alle imprese affidatarie di contratti pubblici attinte da interdittiva antimafia, l’art. 32, comma 10, del d.l. n. 90/2014 (conv. in l. 114/2014) prevede misure straordinarie di commissariamento dell’impresa, con efficacia circoscritta all’esecuzione della commessa pubblica già affidata, che il Prefetto può adottare ove «sussista l'urgente necessità di assicurare il completamento dell’esecuzione del contratto ovvero dell’accordo contrattuale, ovvero la sua prosecuzione al fine di garantire la continuità di funzioni e servizi indifferibili per la tutela di diritti fondamentali». Al riguardo, si veda T. Guerini – F. Sgubbi, L’art. 32 del decreto legge 24 giugno 2014, n. 90. Un primo commento, in Dir. pen. cont., 2014.
[3] Per un esame più approfondito dell’istituto dell’interdittiva antimafia, si veda, senza pretesa di esaustività: T. Passarelli, Interdittive antimafia e prevenzione collaborativa: azioni di contrasto al crimine organizzato tra incertezze legislative e discrezionalità applicativa, in Federalismi.it, 10/2024, 150 ss.; M. Cocconi, Il perimetro del diritto al contraddittorio nelle informazioni interdittive antimafia, in Federalismi.it, 2022; F. Figorilli - W. Giulietti, Contributo allo studio della documentazione antimafia: aspetti sostanziali, procedurali e di tutela giurisdizionale, inFederalismi.it, 14/2021; G. Amarelli - S. Sticchi Damiani, Le interdittive antimafia e le altre misure di contrasto all’infiltrazione mafiosa negli appalti pubblici, Torino, 2019; C. Miccichè, L’azione di contrasto preventivo alla criminalità mafiosa e le informazioni antimafia interdittive: tra legalità ed efficacia, in Jus, 2019, 36; F.G. Scoca, Le interdittive antimafia e la razionalità, la ragionevolezza e la costituzionalità della lotta “anticipata” alla criminalità organizzata, in Giustamm.it, 6/2018; N. Durante, L’interdittiva antimafia, tra tutela anticipatoria ed eterogenesi dei fini, in www.giustizia-amministrativa.it, 2018; M. Mazzamuto, Profili di documentazione amministrativa antimafia, in Giustamm.it, 3/2016; 56 ss.; G. D’Angelo, La documentazione antimafia nel D.lgs. 6 settembre 2011, n. 159: profili critici, in Urb. e app., 3/2013, 256 ss.
[4] Di recente è stato ribadito il principio invalso in giurisprudenza, per cui «la verifica della legittimità dell'informativa deve essere effettuata sulla base di una valutazione unitaria degli elementi e dei fatti che, visti nel loro complesso, possono costituire una ipotesi ragionevole e probabile di permeabilità della singola impresa ad ingerenze della criminalità organizzata di stampo mafioso sulla base della regola causale del “più probabile che non”, integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali (quale è quello mafioso), e che risente della estraneità al sistema delle informazioni antimafia di qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2018, n. 2343)» (cfr. T.A.R. Palermo, Sez. I, 22 dicembre 2023, n. 3828; T.A.R. Reggio Calabria, 16 marzo 2023, n. 242).
[5] Al riguardo, Cass. Pen., Sez. I, 8 maggio 2023, n. 19154, ha rilevato che l’interdittiva antimafia determina «una particolare forma di incapacità giuridica ex lege, limitata ai rapporti giuridici con la pubblica amministrazione specificamente indicati dalla legge e prevista a tutela del valore, costituzionalmente garantito, della libertà di impresa e del principio di legalità sostanziale».
[6] Con la sentenza n. 57/2020, la Corte Costituzionale ha sostenuto la conformità costituzionale dell’interdittiva antimafia, in ragione, non solo della centralità che il contrasto del fenomeno mafioso assume nell’ordinamento, ma anche della natura necessariamente provvisoria della misura, circoscritta a 12 mesi, che ne costituisce un correttivo indefettibile, cui discende in capo al Prefetto l’obbligo di aggiornamento ai sensi dell’art. 91, comma 5, del d.lgs. n. 159/2011.
[7] In tali termini, M.A. Sandulli, Rapporti tra il giudizio sulla legittimità dell’informativa antimafia e l’istituto del controllo giudiziario, in www.giustiziainsieme.it, 2022.
[8] Vieppiù ove si consideri che la giurisprudenza amministrativa ritiene diffusamente che dal decorso del termine annuale di cui all’art. 86 non derivi ipso facto la decadenza dell’interdittiva, bensì l’obbligo del Prefetto di procedere ai sensi dell’art. 91 del Codice antimafia ad una nuova verifica sulla persistenza delle circostanze ritenute rilevanti ai fini dell’accertamento dei tentativi di infiltrazione mafiosa (cfr. ex plurimis T.A.R. Palermo, Sez. I, 16 luglio 2024, n. 2247). Peraltro, come rilevato da M.A. Sandulli, Rapporti tra il giudizio sulla legittimità dell’informativa antimafia e l’istituto del controllo giudiziario, op. cit., il quadro è reso ancor più complicato dal fatto che, nella realtà, all’esito delle procedure di riesame avviate ex art. 91, comma 5, le interdittive antimafia vengono tendenzialmente confermate dalle Prefetture.
[9] Disposizione introdotta dall’articolo 11, comma 1, della legge 17 ottobre 2017, n. 161.
[10] Il controllo giudiziario volontario si realizza attraverso la modalità più incisiva, prevista dal comma 2 lett. b) dell’art. 34-bis del d.lgs. n. 159/2011, con la nomina di un amministratore giudiziario con compiti di monitoraggio dell’attività d’impresa e di rendicontazione degli esiti del controllo al giudice delegato ed al pubblico ministero.
[11] Cfr. art. 34-bis, commi 2 lett. b) e 3, del d.lgs. n. 159/2011.
[12] Cfr. T.A.R. Reggio Calabria, 28 ottobre 2024, Ordinanza n. 646.
[13] G. Amarelli, La Cassazione riduce i presupposti applicativi del controllo giudiziario volontario ed i poteri cognitivi del giudice ordinario (a margine della sent. Cass, Pen., II, n. 9122 del 2021), in Sistema penale, 2021, definisce il controllo giudiziario come «un delicatissimo istituto cerniera, in cui trovano risoluzione equilibrata le possibili frizioni tra la giurisdizione amministrativa e la giurisdizione ordinaria».
[14] Si fa riferimento, in particolare, all’articolo 49, comma 1, del d.l. 6 novembre 2021, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 dicembre 2021, n. 233.
[15] Cfr. T.A.R. Reggio Calabria, 3 maggio 2023, n. 392.
[16] Cfr. Cass. Pen., S.U., 11 novembre 2019, n. 46898.
[17] Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 16 luglio 2021, n. 27704, nella parte in cui è stato rilevato che nel decidere sull’istanza di ammissione al controllo giudiziario volontario, il Tribunale penale «deve tener conto dell’accertamento di quello stesso prerequisito effettuato dall’organo amministrativo con l’informazione antimafia interdittiva, che rappresenta, pertanto, il substrato della decisione del giudice ordinario».
[18] Cfr. T.A.R. Napoli, Sez. I, 23 maggio 2023, n. 3125; T.A.R. Palermo, Sez. I, 22 dicembre 2023, n. 3828. In termini analoghi, si è pronunciata anche la giurisprudenza di legittimità, tra cui in particolare: Cass. Pen., Sez. II, 28 gennaio 2021, n. 9122; Cass. Pen., Sez. VI, 2 agosto 2021, n. 30168; Id., 16 luglio 2021, n. 27704.
[19] In tali termini si è espressa anche l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza n. 6/2023, nella parte in cui è stato rilevato che il controllo giudiziario «muove dal presupposto accertato dal Prefetto in sede di informazione antimafia, ma si basa su un’autonoma valutazione prognostica del tribunale della prevenzione penale che si propone di pervenire al suo superamento, quando il grado di condizionamento mafioso non sia considerato a ciò impeditivo».
[20] Cfr. Cass. Pen., Sez. I, 11 aprile 2023, n. 15156. Negli stessi termini, anche Cass. Pen., Sez. V, 9 aprile 2021, n. 13388.
[21] Così, anche E. Birritteri, Accertamento dell’infiltrazione criminale nell’ente e controllo giudiziario volontario, in Giur. it., 2023, 1647 ss.
[22] Cfr. E. Birritteri, Accertamento dell’infiltrazione criminale nell’ente e controllo giudiziario volontario, op. cit., 1654.
[23] Sul tema dei possibili (e reciproci) condizionamenti tra le valutazioni assunte dal Tribunale della prevenzione e dal giudice amministrativo, si veda C. Cappabianca, Gli effetti sul giudizio amministrativo del controllo giudiziario delle aziende ex art. 34-bis, comma 6, d.lg. n. 159/2011: dopo l’Adunanza Plenaria n. 7/2023, in Dir. proc. amm., 4, 2023, 743 ss.; A. Giacalone, Informazione interdittiva antimafia e controllo giudiziario: analisi del rapporto esistente fra i due istituti e demarcazione dei relativi presupposti, in www.giustiziainsieme.it, 2024.
[24] Al riguardo, nella sentenza n. 7/2023, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha sostenuto che «nel sistema amministrativo di prevenzione penale, ora informato al principio di gradualità, l’occasionalità dell’agevolazione mafiosa originaria può in ipotesi costituire ragione di illegittimità dell’informativa a carattere interdittivo, in ragione dell’alternativa costituita dalle misure meno invasive introdotte con il medesimo art. 94-bis».
[25] Cfr. Cons. St., Sez. III, 4 febbraio 2021, n. 1049.
[26] Cfr. C.G.A.R.S., Sez. giur., 4 gennaio 2023, n. 13.
[27] Sul tema, si veda M.A. Sandulli, Rapporti tra il giudizio sulla legittimità dell’informativa antimafia e l’istituto del controllo giudiziario, in L’Amministrativista, 2022.
[28] È all’uopo significativo il passaggio della sentenza n. 6/2023 in cui la Plenaria evidenzia che «Nessuno degli effetti previsti dall’art. 34-bis, comma 7, presuppone tuttavia che il giudizio sull’interdittiva rimanga pendente. Come in precedenza accennato, tali effetti sono del tutto compatibili con la conseguita inoppugnabilità di quest’ultima, all’esito del rigetto della relativa impugnazione. Una volta accertata l’esistenza di infiltrazioni mafiose, quand’anche in via definitiva, si permette nondimeno all’impresa di risanarsi, sotto il controllo dell’autorità giudiziaria penale».
[29] L’una (interdittiva) rivolta al passato; l’altra (controlllo giudiziario) rivolta al futuro.
[30] L’una (interdittiva) volta ad escludere dal mercato l’impresa assoggettata ad inferenze mafiose; l’altra (controllo giudiziario) volta a realizzare la bonifica della compagine aziendale, consentendo la continuazione dell’attività d’impresa.
[31] Cfr. Cons. St., Sez. VI, n. 2515/2024, punto 7 in diritto.
[32] Cfr. Cons. St., Sez. VI, n. 2515/2024, punto 7.1 in diritto.
[33] In particolare, l’art. 80, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016 prevedeva che «Costituisce altresì motivo di esclusione la sussistenza, con riferimento ai soggetti indicati al comma 3, di cause di decadenza, di sospensione o di divieto previste dall’articolo 67 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 o di un tentativo di infiltrazione mafiosa di cui all’articolo 84, comma 4, del medesimo decreto. Resta fermo quanto previsto dagli articoli 88, comma 4-bis, e 92, commi 2 e 3, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, con riferimento rispettivamente alle comunicazioni antimafia e alle informazioni antimafia. Resta fermo altresì quanto previsto dall’articolo 34-bis, commi 6 e 7, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159».
[34] Si tratta del formante invalso in giurisprudenza, soprattutto sotto la vigenza del vecchio codice dei contratti pubblici, cui aveva aderito anche la sentenza di primo grado riformata dalla pronuncia in commento, nella parte in cui era stato sostenuto che «Diversamente opinando, infatti, verrebbe meno la finalità della interdittiva antimafia, che è quella di tutelare il rapporto con l’amministrazione da eventuali e probabili forme di infiltrazioni mafiose che inquinano l’economia legale, alterano il funzionamento della concorrenza e costituiscono una minaccia per l’ordine e la sicurezza pubblica» (cfr. T.A.R. Lazio, Sez. V, 7 giugno 2023, n. 9672).
[35] Cfr. T.A.R. Napoli, Sez. IV, 14 marzo 2023, n. 1669; Cons. St., Sez. V, 22 settembre 2023, n. 8481. Con precipuo riferimento al settore dei contratti pubblici, ne deriva che la sospensione degli effetti dell’interdittiva conseguente all'ammissione al controllo giudiziario «costituisce un rimedio volto a consentire all’impresa che ne beneficia di partecipare alle procedure di appalto successivamente indette, ma non anche a sanare la partecipazione dell’operatore economico non degno di entrare in contatto con la Stazione appaltante per il possibile condizionamento criminale a cui potrebbe essere condizionata la sua offerta contrattuale, atteso che, in caso contrario, si darebbe paradossalmente ingresso, nel mercato degli appalti pubblici, all’apprezzamento di una proposta contrattuale predisposta precedentemente all’insediamento dell'amministratore giudiziario, cioè prima dell'avvio di quel controllo a cui l’art. 34 bis, d.lgs. n. 159/2011 subordina la sospensione degli effetti interdittivi» (T.A.R. Napoli, n. 1669/2023, cit.).
[36] Cfr. Cons. St., Sez. V, n. 2515/2024, punto 7.1 in diritto.
[37] Cfr. Cons. St., Sez. V, n. 2515/2024, punto 7.1 in diritto.
[38] Sul tema, si veda anche R. Rolli, L’interdittiva antimafia: misure di prevenzione connesse e controllo giudiziario, in Dir. dell’econ., n. 2/2024, 31 ss.
[39] Cfr. Cons. St., Sez. V, n. 2515/2024, punto 7.3 in diritto.
[40] Sull’obbligo del Prefetto di esitare l’istanza di aggiornamento proposta dall’impresa ex art. 91, comma 5, del d.lgs. n. 159/2011, si veda T.A.R. Reggio Calabria, 25 gennaio 2024, n. 68, con nota di R. Rolli – M. Maggiolini, Atomo scisso e silenzio prefettizio: tra interdittiva antimafia e controllo giudiziario (nota a TAR Reggio Calabria, 25 gennaio 2024, n. 68), in www.giustiziainsieme.it, 2024.
[41] Si veda, al riguardo, T.A.R. Reggio Calabria, 5 luglio 2023, n. 598, laddove i giudici amministrativi, nel delineare puntualmente i momenti valutativi che connotano il potere prefettizio di aggiornamento dell’interdittiva, hanno rilevato che «il venire meno delle circostanze rilevanti di cui all’art. 91, comma 5, del d.lgs. n. 159 del 2011, non dipende dal mero trascorrere del tempo in sé ma dal sopraggiungere di obiettivi elementi diversi o contrari che ne facciano venire meno la portata sintomatica, in quanto ne controbilanciano, smentiscono o superano la forza indiziante (v. Cons. Stato, sez. III, 21 maggio 2021, n. 3915; TAR Napoli, sez. I, 11 maggio 2021 n. 3113)».
[42] Si veda, tra le tante, T.A.R. Palermo, Sez. I, 22 dicembre 2023, n. 3828, laddove è stato ribadito il principio di diritto per cui «la conclusione favorevole del controllo giudiziario di cui all’art. 34-bis del D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159 non è di per sé ostativa a che il Prefetto, in sede di aggiornamento dell’informativa, possa confermare l’informativa antimafia disposta antecedentemente alla sottoposizione al controllo, poiché non può sostenersi che la pronuncia del giudice della prevenzione penale produca un accertamento vincolante o condizionante sul rischio di infiltrazione dell'impresa da parte della criminalità organizzata (Cons. Stato Sez. III, 4 febbraio 2021, n. 1049, 11 gennaio 2021, n. 319 e 16 giugno 2022, n. 4912)..." (Consiglio di Stato, Sez. III, 8 maggio 2023, n. 4587, punto 7.3.2)». Negli stessi termini, anche il TAR Lazio, Sez. III-ter, 24 ottobre 2023, n. 15775, ha rilevato che anche a seguito della positiva conclusione del controllo giudiziario, il giudizio sulla persistenza dei pericoli di infiltrazione mafiosa continua ad essere rimesso al Prefetto, «il quale, una volta intervenuta la misura del controllo, potrebbe valutare l’esito positivo dello stesso, quale sopravvenienza rilevante ai fini dell’aggiornamento e della rivalutazione dell’interdittiva prefettizia, pur restando libero di confermare il provvedimento interdittivo originario».
[43] Al riguardo, nella pronuncia in commento, i giudici evidenziano che la valutazione svolta dal Prefetto ex art. 91, comma 5, del Codice antimafia «andrà condotta in contraddittorio secondo il canone della collaborazione e buona fede ex art. 1, comma 2-bis, della l. n. 241 del 1990 e dovrà concludersi con una determinazione sorretta da congrua ed adeguata motivazione che prenda in considerazione il novum rappresentato dall’esito della procedura di controllo giudiziario».
[44] In tali termini si è espresso il T.A.R. Reggio Calabria nell’ordinanza 28/10/2024 n. 646, con cui è stata sollevata questione di legittimità Costituzionale dell’art. 34-bis, comma 7, del d.lgs. n. 159/2011 per violazione degli artt. 3, 4, 24, 41, 97, 111, 113 e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6, 8 e 13 della CEDU e 1 del primo protocollo ad essa addizionale.
[45] Cfr. G. Veltri, La prevenzione antimafia collaborativa: un primo commento, in www.giustizia-amministrativa.it, 2022.
[46] Cfr. G. Veltri, La prevenzione antimafia collaborativa: un primo commento, op. cit.
[47] Come sostenuto dal T.A.R. Reggio Calabria nella sentenza 3 maggio 2023 n. 392, con l’introduzione della prevenzione collaborativa di cui all’art. 94-bis del d.lgs. n. 159/2011 viene a delinearsi «un nuovo modello collaborativo con il mondo produttivo che modula l’afflittività della misura preventiva antimafia in relazione all’effettivo grado di compromissione dell’impresa rispetto al contesto criminale».
[48] Al riguardo, si segnala la sentenza del T.A.R. Reggio Calabria, 5/7/2023, n. 598, laddove i giudici amministrativi hanno dichiarato l’illegittimità dell’interdittiva adottata dal Prefetto all’esito dell’aggiornamento di cui all’art. 91, comma 5, ritenendo che in quel caso l’autorità amministrativa non avesse adeguatamente «chiarito se gli elementi valorizzati in sede di riesame dal ricorrente possano valere in subordine a ricondurre, dequotandoli, i tentativi di infiltrazione mafiosa a situazioni di agevolazione non più cronica ma occasionale, favorendo l’avvio di un percorso di “decontaminazione” della società onde restituirla al libero mercato attraverso gli strumenti di controllo, diretti o indiretti, previsti dalla norma recentemente introdotta nell’ordinamento».
Pubblichiamo un contributo dagli Atti del Convegno La magistratura e l’indipendenza. Dedicato a Giacomo Matteotti promosso da Questa Rivista che si è tenuto a Roma il 12 aprile 2024. Il fascicolo è a cura di Sibilla Ottoni, Michela Petrini, Marco Dell'Utri e Angelo Costanzo e si può leggere e scaricare a questo link.
Indipendenza della magistratura e regressione democratica nel contesto europeo
di Simone Pitto
Sommario: 1. Il caso polacco – 2. La risposta delle istituzioni sovranazionali ed internazionali – 3. Problematiche irrisolte e prospettive future.
1. Il caso polacco
La riflessione[1] muove da una questione che mi sembra centrale in questa giornata di studi: come siamo arrivati, nel cuore dell'Europa, culla della democrazia, a una regressione democratica come quella riscontrata in Polonia e in Ungheria, con rapporti della Commissione di Venezia che testimoniano gravi mancanze nelle più basilari garanzie dello stato di diritto e in materia di indipendenza e autonomia della magistratura?
L'esempio polacco ci offre alcune lezioni, anche nell'ottica dell'interpretazione dei segnali di un attacco alle garanzie dello stato di diritto, già evocati nei precedenti interventi. Caratteristica peculiare della regressione democratica attuata in Polonia, infatti, è quella di essere avvenuta a Costituzione invariata. Ciò è stato possibile grazie alla “cattura” – per usare un'espressione invalsa nella dottrina italiana – o “court-packing”, per usare invece l’espressione in uso nel diritto anglosassone, di organi di garanzia di rilievo per il sistema costituzionale, attraverso molteplici interventi successivi del legislatore ordinario.
Anche per questa ragione, nel caso della Polonia è quanto mai opportuno, come accennato dal professor Benvenuti, adottare un approccio non formalista ma attento alle dinamiche della costituzione materiale e all'interazione tra poteri.
Occorre però fare un passo indietro. Per capire come si è arrivati a questa situazione, è necessario tornare al 2015. Alle elezioni di quell’anno per il rinnovo del Parlamento bicamerale polacco, emerse un risultato egemonico in favore del partito ultraconservatore, nazionalista ed euroscettico Diritto e Giustizia (Prawo i Sprawiedliwość, PiS).
Il PiS ha sin da subito avviato un percorso di riforma massiccio di tutto il sistema giudiziario. Il primo organo di garanzia ad essere insidiato è il Tribunale Costituzionale polacco che, già dalla fine del 2015, viene interessato da misure volte a paralizzare la sua funzione antimaggioritaria. È stata ad esempio modificata la disciplina delle maggioranze necessarie per le declaratorie di incostituzionalità innalzando il relativo quorum, con ciò limitando l’effettiva possibilità del Tribunale Costituzionale di esercitare il sindacato di costituzionalità. Questa tecnica ricorda quanto avvenuto in Israele, con il tentativo di limitare il controllo dei tribunali costituzionali sull'azione del legislatore, come esposto dal Prof. Pierdominici.
Altri organi del sistema giudiziario polacco sono stati bersaglio dei tentativi del PiS di “riorganizzare” l'assetto della magistratura. La Corte Suprema è stata ad esempio interessata da un massiccio pensionamento anticipato, conducendo secondo alcune stime a una sostituzione nell’ordine del 40% dei giudici della Corte. Questo meccanismo consentiva una richiesta di proroga da parte dei giudici interessati a restare nelle funzioni. Tuttavia, tale richiesta era soggetta al vaglio del Presidente della Repubblica Andrzej Duda (appartenente al PiS), il quale poteva accoglierla o rigettarla con giudizio discrezionale e senza possibilità di appello, permettendo così una selezione dei giudici più o meno invisi.
La magistratura dei gradi inferiori è stata parimenti interessata da pensionamenti anticipati, con un abbassamento ex lege dell'età di collocamento a riposo ed un meccanismo simile per la proroga nelle funzioni. Trattasi di interventi successivamente oggetto di censura da parte della Corte di giustizia dell’Unione europea, che ne ha sancito la contrarietà al diritto unionale.
Anche il procedimento disciplinare è stato oggetto di significative modifiche. Presso la Corte suprema è stata introdotta una nuova Camera disciplinare (Izba Dyscyplinarna), nonché una Camera per il controllo straordinario e degli affari pubblici, entrambe oggetto di rilievi critici da parte delle corti europee per la radicale assenza di garanzie di indipendenza dall’esecutivo.
Un altro episodio di cattura da menzionare riguarda l’organo di autogoverno, cioè il Consiglio Nazionale della Magistratura. I plurimi interventi di riforma della maggioranza guidata dal PiS hanno comportato la cessazione anticipata dei membri della precedente consiliatura ed una modifica alle modalità di elezione della componente togata, prima eletta da altri magistrati ed in seguito nominata dalla Sejm, la Camera bassa del Parlamento polacco. Ciò ha condotto a un sistema ove, tra nomine parlamentari e presidenziali, la maggioranza governativa espressione del PiS aveva di fatto la possibilità di incidere sulla nomina di circa l'80% dei componenti del Consiglio Nazionale della Magistratura, organismo con rilevanti competenze nel sistema giudiziario.
Per concludere, questo processo di regressione nelle garanzie del giudiziario avvenuto in Polonia desta particolare attenzione proprio perché intervenuto a costituzione invariata, grazie a interventi che hanno semplicemente svuotato di significato garanzie come la separazione dei poteri, rimasta lettera morta nella Costituzione polacca. Come sottolineava il professor Benvenuti, è opportuno interrogarsi sugli elementi che hanno reso possibile questo svuotamento della Costituzione, che, nel caso polacco, sembrano complesse ma possono individuarsi, tra l’altro, in un processo di transizione democratica forse non del tutto completato, nella presenza di riserve di legge molto ampie in Costituzione e nella forzatura dello spirito delle norme costituzionali.
2. La risposta delle istituzioni sovranazionali ed internazionali
Quanto alla reazione delle istituzioni internazionali e sovranazionali rispetto a questo scenario, mi sembra si possa affermare che l’integrazione eurounitaria nel caso della Polonia ha rappresentato un’ulteriore garanzia rispetto alla tutela delle prerogative di indipendenza della magistratura. La risposta delle istituzioni dell’Unione europea è stata diversificata, con strumenti più tradizionali come la procedura di infrazione ma anche con altre modalità.
Riguardo al primo aspetto, varie procedure di infrazione sono state aperte nei confronti di Polonia e Ungheria e sono sfociate in altrettante pronunce della Corte di Giustizia dell'Unione Europea. Sulla base dell'articolo 19 del Trattato sull'Unione Europea e dell'articolo 47 della Carta di Nizza, la Corte di Lussemburgo ha giudicato controversie aventi ad oggetto alcune delle misure di cui abbiamo parlato, ad esempio in materia di pensionamento anticipato e limitazioni delle prerogative dei magistrati, ritenendole contrarie al diritto dell'Unione e, segnatamente, al diritto ad un giudice imparziale e ad una tutela giudiziaria effettiva. La dott.ssa Filippi ha ricordato in apertura come questi valori trovino fondamento nell'articolo 2 del Trattato sull'Unione Europea, il quale stabilisce che lo stato di diritto costituisce un valore fondante dell'Unione.
La risposta giudiziaria e le pronunce della Corte di giustizia sono state, almeno nella prima fase, sostanzialmente ignorate dalle istituzioni polacche. Di contro, si sono registrati da parte della Polonia veri e propri “rigurgiti nazionalisti” da parte di organi giudiziari polacchi, fondati su una presunta identità costituzionale nazionale da proteggere. Il riferimento è, in particolare, alla decisione del Tribunale costituzionale polacco K-3/21, che ha sostanzialmente propugnato un’inversione del principio del primato del diritto dell'Unione Europea, affermando la prevalenza della Costituzione polacca sul diritto eurounitario.
A fronte di queste resistenze e delle limitate misure che le autorità polacche hanno adottato in risposta alle pronunce della Corte di Lussemburgo, l'Unione Europea ha adottato ulteriori contromisure di carattere politico, alcune delle quali senza precedenti. È il caso, in particolare, dell'attivazione dell’articolo 7(1) TUE. Quest’ultimo consente, attraverso una deliberazione a maggioranza del Consiglio, di riscontrare un evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro dei valori fondanti dell'Unione di cui all’art. 2 TUE, tra i quali rientra lo stato di diritto e, dunque, l'indipendenza della magistratura. Tale procedura può anche comportare l'adozione di raccomandazioni formali rivolte allo Stato membro affinché ponga rimedio ai suddetti rischi.
Non è stata invece esperita l’ulteriore opzione dell'attivazione del meccanismo previsto dai successivi commi dell'articolo 7 TUE, il quale consente di sospendere alcuni dei diritti derivanti allo Stato membro dall’applicazione dei trattati ma richiede l'unanimità del Consiglio europeo. Rispetto a tale possibilità, infatti, si è registrato un asse di veti reciproci tra la Polonia e l'Ungheria di Orban che ne ha di fatto reso impraticabile l’utilizzo. Siamo rimasti, quindi, nell’ambito della procedura prevista dall'articolo 7 comma 1, la quale, tuttavia, non era mai stata attivata in passato.
Oltre alla risposta attuata sulla base dei trattati, un altro importante strumento da menzionare è il regolamento 2020/2092 del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 dicembre 2020 sulla condizionalità al bilancio europeo, ricordato in apertura dalla dott.ssa Filippi. Il regolamento condiziona l'erogazione di fondi europei al rispetto dei valori fondanti dell’Unione, tra i quali lo Stato di diritto e, quindi, l'indipendenza della magistratura. Di fronte a riconosciute violazioni della rule of law, la Commissione ha di fatto congelato ingenti fondi del Next Generation EU e del fondo di coesione destinati alla Polonia.
Un'altra risposta di rilievo in ambito eurounitario è stata data dall'ENCJ, la Rete europea che riunisce i Consigli di giustizia degli Stati membri dell'Unione. Tale organo ha tempestivamente escluso il Consiglio Nazionale della Magistratura polacco dalla rete dei Consigli europei, ritenendolo non indipendente dal potere esecutivo a seguito delle riforme portate avanti dal governo guidato dal PiS. Si è quindi potuto assistere ad una ferma reazione in sede sovranazionale anche da parte degli organi di rappresentanza e autogoverno della magistratura europea.
Vale la pena ricordare anche la risposta di altri organi internazionali. La Commissione di Venezia ha espresso rilievi critici in molteplici pareri sulle modifiche legislative polacche, esprimendo preoccupazioni e raccomandazioni specifiche rivolte alla Polonia. Interessante da questo punto di vista, come ricordava la dott.ssa Filippi, è anche la checklist elaborata dalla Commissione di Venezia per riscontrare fattispecie sintomatiche della violazione dello stato di diritto. Si tratta di un ausilio interpretativo molto importante, specie nell’ottica di individuare tempestivamente i segnali propedeutici ad una regressione democratica.
Il GRECO (Gruppo di Stati contro la corruzione), un altro primario organismo del Consiglio d'Europa che si occupa di anticorruzione, ha espresso ulteriori rilievi critici con riguardo alle riforme polacche.
Restando sul piano internazionale, va richiamata inoltre l’ampia giurisprudenza sul punto sviluppata dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. La Corte di Strasburgo ha avuto modo di giudicare alcune controversie aventi ad oggetto fattispecie di lesione dell’indipendenza della magistratura in Polonia, specialmente con riguardo all’articolo 6, comma 1, della CEDU, relativo al diritto a un tribunale indipendente e imparziale (ma non solo).
È interessante notare l’ideale dialogo instaurato sul punto con la Corte di Giustizia dell'Unione Europea. In una importante decisione del novembre 2023 nel caso Walesa c. Polonia (ricorso n. 50849/21), la Corte di Strasburgo ha richiamato integralmente le conclusioni della giurisprudenza della Corte di giustizia sull’assenza delle più basilari garanzie di indipendenza della Camera per il controllo straordinario e gli affari pubblici, ricordando altresì che l'indipendenza della magistratura è un prerequisito e una garanzia fondamentale dello Stato di diritto.
3. Problematiche irrisolte e prospettive future
Mi avvio alla conclusione con un paio di notazioni finali collegate a quest’ultimo tema e ad altri evocati durante il dibattito di questo panel.
In primo luogo, può valere la pena interrogarsi anche sulle ragioni di questi attacchi ripetuti e sempre più frequenti alla magistratura. In Polonia e Ungheria questi fanno apparentemente parte di una sorta di strategia politica per perpetrare un disegno di mutamento dell'ordinamento in senso illiberale. Spesso si tratta di un disegno palesato espressamente come nel caso del primo ministro ungherese Victor Orban il quale, in un discorso del 2014, affermava direttamente di voler costruire uno stato democratico non liberale.
La magistratura rappresenta un bersaglio naturale per i regimi illiberali, specie a fronte del crescente ruolo odierno svolto dal giudice. Un ruolo che emerge specialmente con riguardo alla tutela dei c.d. “nuovi diritti” e alle tematiche di frontiera del diritto che, peraltro, si è ulteriormente accentuato grazie all'integrazione sovranazionale e alla possibilità di disapplicare il diritto nazionale contrario al diritto dell'Unione.
Vediamo che, se in passato le associazioni per la promozione dei diritti collocavano le proprie manifestazioni sotto i palazzi delle assemblee legislative, sempre più spesso oggi le stesse manifestazioni avvengono di fronte ai palazzi ove hanno sede i tribunali costituzionali e le alte corti. La magistratura ha inoltre un fondamentale ruolo di garanzia dei diritti delle minoranze e delle istanze contro-maggioritarie e ciò contribuisce a renderla invisa al disegno di regressione democratica di un regime illiberale.
Non si tratta peraltro di una tendenza nuova: basti pensare al celebre passo in cui, già nell’Enrico VI, parte II di Shakespeare, il villain Dick il Macellaio afferma “The first thing we do, let's kill all the lawyers”, con ciò alludendo – più che ai soli avvocati – ai giuristi in generale come denota il significato letterale di lawyers e, quindi, anche ai giudici. Come riconosciuto dal giudice Stevens della Corte Suprema americana negli anni Ottanta, con tale passaggio, Shakespeare ha perspicacemente chiarito che attaccare i giuristi costituisce la strada maestra verso il totalitarismo (Cfr. Walters v. Nat'l Ass'n of Radiation Survivors, 473 U.S. 305, 371 n. 24 (1985), Stevens, J., opinione dissenziente).
Concludo però con una nota positiva rispetto all’azione degli anticorpi esterni e interni di cui abbiamo parlato. In Polonia questi anticorpi interni hanno operato in modo non trascurabile. C'è stata una opposizione parlamentare, seppur ridotta; ci sono state manifestazioni del giudiziario, come la marcia dei giudici di Varsavia nel 2020 e interventi di associazioni senza scopo di lucro. Dal punto di vista esterno, il congelamento dei fondi dell'Unione Europea ha comportato una forte pressione politica dell’opinione pubblica sul governo guidato dal PiS.
Si tratta di fattori che, se non decisivi, hanno indubbiamente contributo anche all’esito delle ultime elezioni per il rinnovo del Parlamento polacco dell’autunno 2023. Tali consultazioni elettorali hanno infatti visto la prevalenza dell’opposizione pro-europeista guidata da Donald Tusk al quale, dopo alcune tensioni istituzionali, il Presidente Duda ha alla fine attribuito l’incarico di formare un nuovo governo, il quale sembra intenzionato a promuovere un ripristino delle garanzie dello stato di diritto nell’ordinamento polacco. La nuova compagine governativa ha così avviato un dialogo con le istituzioni dell'Unione Europea annunciando un piano di azione per il ripristino dello stato di diritto, anche sul fronte dell’indipendenza della magistratura. Tale apparente nuovo corso dell'agenda politica polacca in materia di giustizia è stato accolto con favore dalla Commissione europea, la quale si è recentemente impegnata a sbloccare i fondi destinati alla Polonia precedentemente trattenuti (complessivamente pari a circa 137 miliardi di euro). Nel maggio 2024, la stessa Commissione ha ulteriormente rivelato l'intenzione di chiudere la procedura dell'articolo 7(1) del TUE contro la Polonia. Si dovrà quindi attendere l’attuazione di queste riforme per valutare l’effettivo ripristino dello stato di diritto in un paese ove molte sono ancora le resistenze al nuovo corso europeista e nel quale restano i segni di anni di giustizia illiberale. Del resto, come insegna la lezione della storia di Giacomo Matteotti, lo stato di diritto – valore che abbiamo forse dato per scontato credendolo immune da involuzioni democratiche – non è una conquista di una notte ma piuttosto un impegno senza fine (M. Cartabia, The rule of law and the role of courts, in Italian Journal of Public Law, 1, 2018, 2).
In conclusione, e raccogliendo gli spunti critici sollevati, parto dal tema dell’importanza dell’apparato sovranazionale rispetto alla risposta ai tentativi di regressione democratica e lo ricollego al tema trattato dal professor Benvenuti, cioè il ruolo della magistratura. Si tratta di un tema senza dubbio delicato. Tuttavia, nel caso polacco, va rilevato che, sin dalle prime fasi di questa regressione democratica, i magistrati polacchi hanno identificato nella Corte di Giustizia un interlocutore naturale per portare gli attacchi alla loro indipendenza su un piano più alto rispetto a quello nazionale. Questo ha innanzitutto consentito quella reazione attuata con gli strumenti più “tradizionali” della procedura di infrazione, contribuendo a sviluppare una giurisprudenza della Corte di Giustizia che ha chiarito la contrarietà al diritto unionale di molte delle misure introdotte dalla Polonia. Concordo sul fatto che questa risposta non si è rivelata del tutto efficace, almeno da sola, tanto che la stessa Unione Europea ha dovuto ricorrere ad altri mezzi. Tra questi assumono particolare rilievo la richiamata procedura di cui all’art. 7(1) TUE ed il regolamento sulla condizionalità europea, che si è in effetti rivelato piuttosto efficace. Lo si vede anche dai toni della campagna elettorale durante le elezioni dell’autunno 2023 in Polonia. Il dibattito, nonostante la propaganda governativa, si è ampiamente focalizzato sulla necessità di sbloccare questi fondi – oltre cento miliardi – che, rispetto al PIL polacco, rappresentano importi davvero rilevanti per l’economia del paese.
In questa dialettica favorita dalle iniziative dei magistrati polacchi che si sono rivolti alla Corte di Giustizia (tanto che il governo guidato dal PiS ha anche cercato di limitare la possibilità del rinvio pregiudiziale) si vede l'importanza della rete di cooperazione giudiziaria europea rispetto ai tentativi di limitare l'indipendenza della magistratura. Questo aspetto emerge in particolar modo nella giurisprudenza della Corte di Giustizia sul mandato d'arresto europeo. Alcuni giudici di Stati membri europei si sono chiesti se potessero fidarsi delle autorità giudiziarie polacche, con le quali devono cooperare, in presenza di evidenze di una situazione di mancata indipendenza della magistratura nel paese. Questo dialogo ha avuto un ruolo non trascurabile ed ha altresì avuto il merito di portare la questione da un piano meramente politico ad uno giuridico. Mentre infatti la Corte costituzionale polacca catturata ha tentato di rivendicare una pretesa identità costituzionale nazionale da far prevalere sul diritto dell’Unione, la giurisprudenza della Corte di giustizia ha chiarito che, dal punto di vista giuridico, l’identità nazionale non può valere come clausola culturale di esonero rispetto al diritto dei trattati. Infatti, lo stato di diritto, oltre a costituire un valore fondante dell’Unione in base a quegli stessi trattati, è parte integrante della cultura giuridica europea e pertanto deve essere garantito senza eccezioni.
[1] Per una compiuta disamina sul tema si rinvia a «Indipendenza della magistratura in Polonia. Lo “strappo nel cielo di carta” della rule of law e l’argomento identitario», in Giustizia Insieme, vol. 3 settembre-dicembre 2023, Dialoghi oltre i confini nazionali, p. 527.
La Corte costituzionale romena di fronte alla “disinformazione” e alle nuove frontiere della pubblicità politica online: fra micro-influencer e ingerenze estere
Sommario: 1. La Corte costituzionale romena e la “disinformazione” russa: il contesto e l’eccezionalità di una decisione – 2. La Legittimità della decisone nel quadro eurounitario: “disinformazione” o finanziamento estero e illecito? – 3. La decisione della Corte costituzionale romena nel quadro della regolazione del digitale in Unione Europea: strumenti vigenti e nuove sfide - Un nuovo passo verso il consolidamento del paradigma europeo di free speech in ambito elettorale e la sfida dei micro-influencer.
1. La Corte costituzionale romena e la “disinformazione” russa: il contesto e l’eccezionalità di una decisione
Con una decisione dalla portata eccezionale, per la prima volta una Corte costituzionale europea ha annullato delle elezioni per l’impatto su di esse avuto dalle campagne di disinformazione online, o meglio per le violazioni delle normative elettorali sui social media. Con la sentenza 32 del 6 dicembre 2024[1], la Corte costituzionale romena ha infatti annullato le elezioni presidenziali, di cui si era svolto il primo turno, e imposto di ripeterle, estendendo il mandato del Presidente in carica. Nell’ambito del costituzionalismo europeo, la protezione del diritto a un voto “correttamente informato” aveva già trovato una prima applicazione in un caso svizzero[2]: il Tribunale federale svizzero aveva, infatti, annullato una votazione su una riforma costituzionale di iniziativa popolare poiché nell’opuscolo informativo distribuito dal Consiglio federale era contenuto un errore macroscopico su alcuni dati, che comprometteva la libertà di voto “correttamente informato” dei cittadini.
Tuttavia, la sentenza della Corte costituzionale romena appare eccezionale anche rispetto a questo precedente caso per vari motivi: è la prima decisione di una Corte costituzionale europea inerente un episodio di “disinformazione” online; è una decisione che impatta notevolmente su un processo elettorale significativo come l’elezione del Presidente in una repubblica semipresidenziale; è una decisione che evidenzia l’importanza della regolazione “positiva” o funzionalista della libertà di espressione[3], soprattutto nell’ambito digitale.
Dal primo punto di vista, occorre evidenziare che – da quanto si apprende dalle fonti giornalistiche che hanno esaminato gli eventi – vi sono state condotte disinformative, come la creazione di finti profili (anche di soggetti statali/partitici) a supporto del candidato Călin Georgescu, però la maggior parte delle condotte violanti le normative elettorali riguarderebbe l’ingente investimento di denaro in maniera non trasparente nella campagna elettorale su TikTok.
Dal secondo punto di vista, non si può invece mancare di sottolineare come questa decisione abbia avuto un impatto enorme nell’ordinamento romeno, interrompendo il processo elettorale e prestando il fianco a polemiche populiste delegittimanti le istituzioni, in primis la Corte costituzionale[4].
Dal terzo punto di vista è possibile infine mettere in evidenza come la Corte abbia applicato il paradigma europeo di libertà di espressione, rimarcando l’importanza di un discorso pubblico libero dalla disinformazione e dalle interferenze estere e caratterizzato da determinate “regole” e obblighi di trasparenza in materia di pubblicità politica online: in questo la Corte ha abbracciato l’idea che le autorità pubbliche abbiano una «positive responsibility» o delle «positive obbligations»[5] anche nel campo della libertà di espressione durante i periodi elettorali.
Nel contesto di un’accesa campagna elettorale presidenziale, il coup de théâtre, ma non certo d’état[6], della disclosure di alcuni documenti dei servizi segreti è stato l’elemento che ha portato alla decisione della Corte. Da quanto si apprende, i servizi hanno sottolineato il trattamento privilegiato riservato da TikTok a Călin Georgescu in violazione della legislazione elettorale, l’attivazione di falsi accounts di origine russa in suo favore, oltre che un finanziamento di messaggi a suo supporto fatto mediante criptovalute da parte di società legate alla Russia[7]. L’intervento della Corte – deputata alla vigilanza sulle elezioni presidenziali – non è nemmeno stato il primo in questa tornata elettorale, fra i precedenti interventi spiccano l’esclusione della candidata Diana Șoșoacă e un riconteggio di voti[8], ma certamente la decisione in esame ha una portata eccezionale.
La Corte ha infatti preso atto delle violazioni della normativa elettorale segnalate dall’intelligence: «[q]ueste violazioni hanno distorto il carattere libero e corretto del voto espresso dai cittadini, compromesso l’uguaglianza di opportunità tra i competitori elettorali, alterato la trasparenza e l’equità della campagna elettorale, e ignorato le disposizioni legali relative al finanziamento della stessa. Tutti questi aspetti hanno avuto un effetto convergente di disprezzo per i principi fondamentali delle elezioni democratiche»[9]. Per queste ragioni la Corte ha deciso di annullare il primo turno elettorale.
Il presente contributo mira ad analizzare la sentenza della Corte costituzionale romena da due prospettive: quella della sua legittimità nell’ordinamento eurounitario (paragrafo 2) e quella delle sfide alla regolazione del discorso pubblico online dell’UE emerse durante le elezioni presidenziali in Romania (paragrafo 3). Nelle conclusioni si svolgeranno alcune brevi considerazioni finali alla luce delle due suddette prospettive.
2. La Legittimità della decisone nel quadro eurounitario: “disinformazione” o finanziamento estero e illecito?
La Corte costituzionale romena con la sua sentenza n. 32/2024 ha rimarcato che «[l]o Stato ha una responsabilità positiva nel prevenire qualsiasi interferenza ingiustificata nel processo elettorale, in conformità ai principi costituzionali. (…) Pertanto, lo Stato deve affrontare le sfide e i rischi derivanti da campagne di disinformazione organizzate, che possono compromettere l’integrità dei processi elettorali [si veda, a tale proposito, anche i paragrafi 14, 17 e 20 della Dichiarazione interpretativa del Codice di buona condotta in materia elettorale sulle tecnologie digitali e sull’intelligenza artificiale, adottata dalla Commissione Europea per la Democrazia attraverso il Diritto (Commissione di Venezia) il 6 dicembre 2024]»[10]. Oltre alle disposizioni interne, la Corte sembra basarsi dunque sia sul recente Regolamento (UE) 900/2024[11], per collegare il finanziamento illecito e non dichiarato alla disinformazione, sia sulla Interpretative declaration of the Code of good practice in electoral matters as concerns digital technologies and artificial intelligence della Commissione di Venezia[12].
Premesso che la costituzionalità interna della decisione appare difficilmente contestabile essendo emessa dal giudice delle leggi romeno[13], appare interessante vedere come questa decisione delle Corte si inserisca, da un lato, nell’ambito del sistema convenzionale, tenendo sempre a mente l’importanza dell’interpretazione della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo per valutare il portato della Carta dei diritti fondamentali dell’UE ex art. 52, comma 3 della stessa, e, dall’altro lato, nell’ordinamento dell’UE.
Rispetto al contesto della CEDU si può innanzitutto rilevare come la Commissione di Venezia abbia emanato una dichiarazione interpretativa al suo “codice” sulle buone pratiche elettorali, partendo dall’assunto che «[t]he freedom of voters to form an opinion includes the right to have access to all kinds of information enabling them to be correctly informed before making a decision, the right to private online browsing, and the right to make confidential communications on the internet»[14]. In particolare, si possono esplicitare i paragrafi citati dalla Corte romena a supporto della sua decisione:
Paragrafo 14, «State authorities should address the challenge posed by organised information disorder campaigns, which have the potential to undermine the integrity of electoral processes».
Paragrafo 17, «The State’s duty of neutrality also includes an obligation to build resilience among voters and to raise public awareness about the use of digital technologies in elections, including through the provision of appropriate information and support».
Paragrafo 20, «The positive responsibility of the State to prevent undue interference with the principles of the European electoral heritage must not lead to undue state intervention»
In questi paragrafi la Commissione di Venezia evidenzia chiaramente la necessità dello Stato di regolamentare la libertà di espressione nelle fattispecie della comunicazione politico-elettorale e della pubblicità politica online onde garantire un voto libero e correttamente informato. Al di là di questi specifici paragrafi, si può anche rilevare come nell’Explanatory report si evidenzi che «[t]he voter’s freedom to form an educated opinion may be affected by online information disorders, including the distribution of false information about election campaigns of political opponents. These phenomena have worsened as a result of the use of digital technologies (sometimes with the use of deep fake audio, photos, and videos, automated generated ‘comments’ under posts to manipulate public opinion, etc.)»[15]. La stessa Commissione di Venezia cita, peraltro, il Regolamento (UE) 900/2024 per rafforzare il collegamento fra campagne di propaganda prive di trasparenza e la disinformazione, evidenziando la necessità di un’azione contro tali manipolazioni disinformative mediante autorità indipendenti[16]. D’altronde la stessa Commissione di Venezia ha recentemente affermato che l’annullamento delle elezioni può avvenire anche a causa di ingerenze estere legate alla propaganda online mediante social media[17]; la Commissione ha, tuttavia, rilevato come le affermazioni politiche non possano essere ricondotte alla categoria della disinformazione essendo value judgments e non facts[18]. È allora evidente che – teoricamente – le azioni della Corte costituzionale romena si pongono in linea con i principi espressi dalla Commissione di Venezia: quello che però si deve considerare è la “proporzionalità” della misura, dando per scontata l’effettiva esistenza delle condotte accertate dai servizi.
In questa prospettiva, com’è rilevabile nella sua giurisprudenza, la Corte EDU ha messo ben in evidenza che anche l’annullamento delle elezioni può essere una conseguenza delle manipolazioni elettorali. In questo senso, il test predisposto dalla Corte di Strasburgo prevede sia la presenza di una “volontà” di manipolazione che un “effetto concreto” sulle elezioni: «[f]or the Romanian election, the evidence at hand appears to clearly demonstrate intentional coordination. The scale of automated accounts, combined with evidence of financial sums originating from Russian sources in South Africa, is very likely to meet the threshold of coordination that the Court has focused on thus far. Secondly, and relatedly, the ECtHR consistently places focus on whether ballot tampering and election irregularities (if proven) are likely to decisively influence voters and election results more broadly. As this question is more closely connected to the positive obligations under Article 3 of Protocol 1, it would appear vital that the decision of the Constitutional Court to annul the election is based on evidence that Russian interference on TikTok was likely to have a decisive effect on election outcomes»[19]. L’elemento che appare dirimere sembra, dunque, quello dell’effettivo impatto delle condotte illecite online sulle elezioni presidenziali.
Nel mentre si può segnalare come la Corte EDU abbia respinto la richiesta di misure ad interim da parte di Călin Georgescu, che chiedeva di sospendere gli effetti della decisione della Corte costituzionale romena, di obbligare il governo a riprendere il processo elettorale e ad adottare misure per rimediare al “danno democratico” prodotto. La Corte, con giudizio unanime dei sette giudici coinvolti, ha respinto il ricorso poiché fuori dall’ambito di applicazione delle interim measures: «Mr Georgescu’s request did not concern an imminent risk of irreparable harm within the meaning of Rule 39 § 1 of the Rules of Court»[20]. Naturalmente la negazione delle misure interinali non conduce a ritenere l’azione della Corte costituzionale romena come legittima alla luce della CEDU, soprattutto in base al profilo della proporzionalità dell’annullamento delle elezioni, ma certamente contribuisce a smorzare le accuse di coup d’état mosse da Călin Georgescu. In questo contesto la Commissione di Venezia ha, recentemente, evidenziato la necessità per le corti costituzionali di essere trasparenti nelle valutazioni circa l’effetto delle condotte manipolative sulle elezioni[21]. La cancellazione delle elezioni dovrebbe attuarsi «only under very exceptional circumstances as ultima ratio and on the condition that irregularities in the electoral process may have affected the outcome of the vote»[22].
Nell’ambito dell’ordinamento dell’Unione Europea, la legittimità di limitare la propaganda russa online come strumento di destabilizzazione dell’Unione e dei suoi Stati membri è stata in passato legata soprattutto alla censura dei discorsi di odio diffusi su canali televisivi[23]. Nel 2022, il Tribunale dell’Unione europea si è invece pronunciato sulla sospensione delle trasmissione dei media legati al governo russo dal mercato delle informazioni europeo, come sancito dal Regolamento (UE) 2022/350. In questa occasione, il Tribunale ha riconosciuto che «[p]er quanto riguarda gli obiettivi perseguiti dal Consiglio, i considerando da 4 a 10 degli atti impugnati si riferiscono alla necessità di tutelare l’Unione e i suoi Stati membri contro campagne di disinformazione e di destabilizzazione condotte dagli organi di informazione posti sotto il controllo della leadership della Federazione russa e che minaccerebbero l’ordine pubblico e la sicurezza dell’Unione, in un contesto caratterizzato da un’aggressione militare all’Ucraina. Si tratta quindi di una questione di interesse pubblico che mira a proteggere la società europea e che fa parte di una strategia globale (v. punti 11, 12, 14 e 17 supra) che mira a porre fine, il più rapidamente possibile, all’aggressione subita dall’Ucraina»[24]. La decisione, come evidenziato in altra sede[25], censurava condotte in parte ascrivibili alla disinformazione e in parte alla propaganda di guerra e, certamente, nella valutazione della legittimità di una misura così pervasiva – come l’esclusione dal mercato delle notizie unionale di canali mediali – è stata proprio la categoria della propaganda di guerra a giocare un ruolo importante nel giudizio di proporzionalità.
Tuttavia, è evidente che nell’ambito dell’Unione Europea le operazioni di manipolazione dei processi elettorali provenienti da paesi esteri è oggetto di una particolare azione di contrasto; com’è stato osservato[26], nel campo della disinformazione e della protezione dei processi democratici, il Democratic Action Plan europeo potrebbe essere rafforzato da un ulteriore piano, il c.d. Democracy Shield.
3. La decisione della Corte costituzionale romena nel quadro della regolazione del digitale in Unione Europea: strumenti vigenti e nuove sfide
«Nella presente causa, la Corte rileva che, secondo le "Note informative" sopra menzionate, i principali aspetti contestati nel processo elettorale per l’elezione del Presidente della Romania del 2024 riguardano la manipolazione del voto degli elettori e la distorsione della parità di opportunità tra i concorrenti elettorali, attraverso l’uso non trasparente e in violazione della legislazione elettorale di tecnologie digitali e di intelligenza artificiale durante la campagna elettorale, nonché il finanziamento non dichiarato della campagna elettorale, anche online»[27]. Dal punto divista tecnologico, occorre dunque domandarsi se l’attuale regolazione del discorso pubblico online predisposta dall’UE sia efficace per rispondere alle sfide emerse nel contesto romeno: in questo senso, si può sottolineare che se il regolamento sulla pubblicità politica online (Regolamento UE 2024/900) troverà piena applicazione nei prossimi mesi, il Digital Services Act – DSA (Regolamento UE 2022/2065) è già teoricamente applicabile.
Il Regolamento (UE) 2024/900 prevede due principali forme di regolamentazione della “pubblicità politica online”. La prima concerne la trasparenza delle comunicazioni politiche, mentre la seconda riguarda il targeting degli utenti. Nello specifico, la disciplina europea si fonda, da un lato, sull’obbligo di identificare i contenuti come pubblicità politica e di rendere chiaramente riconoscibile il partito politico per cui tali contenuti sono diffusi (Artt. 11-12, Regolamento 2024/900) e, dall’altro lato, fatte salve le limitazioni generali in materia di trattamento di dati sensibili di natura politica, introduce uno specifico regime per il targeting degli utenti/elettori sancito dagli Artt. 18 e 19 dello stesso Regolamento.
In questo quadro occorre rilevare come, una delle principali modalità di diffusione di pubblicità politica online nella campagna elettorale romena, ossia il ricorso ai micro-influencers, appaia sfuggire alle norme sulla trasparenza predisposte del Regolamento: non si tratta naturalmente di libere esternazioni politiche di questi micro-influencers, che in tal caso non sarebbero coperte dallo stesso Regolamento in quanto libere espressioni di supporto, ma di finanziamento di micro-influencer per diffondere determinati messaggi. Com’è stato rilevato ad esempio su FrameUp i micro-influencer hanno infatti ricevuto dei veri e propri “copioni” da seguire e sono stati pagati per diffondere i contenuti in favore di Călin Georgescu[28]. «The Romanian TikTok influencers used for Georgescu’s campaign were known for their interest in makeup, cars, fashion, entertainment, Expert Forum explains. They presented themselves online like normal people involved in day-to-day activities. They talk about an ideal candidate for presidency while ironing or applying make-up. We can see them in their car or in their kitchen. They are normal people, just like us, preparing for the voting day. We do not actually know them, but we feel they are our friends –thus, the parasocial relationship we developed with these media characters»[29]. Proprio questa forma di sponsorizzazione indiretta e di pubblicità politica occulta, mediante pagamento di micro-influencers, sembra poter sfuggire alle regole sviluppate dal Regolamento (UE) 2024/900 così come al presunto ban alla propaganda politica su TikTok[30]. Tutto ciò malgrado il Regolamento sia chiaro nei suoi fini: «[è] necessario un livello elevato di trasparenza anche per sostenere un dibattito politico e campagne politiche equi e aperti, come pure elezioni o referendum liberi e regolari, e per combattere la manipolazione dell’informazione e le interferenze, nonché le interferenze illecite anche da paesi terzi. Una pubblicità politica trasparente aiuta l’elettore e gli individui in generale a capire meglio quando è in presenza di un messaggio di pubblicità politica»[31]. D’altronde, il problema dell’impiego di micro-influencer era stato evidenziato anche nell’Explanatory report della Commissione di Venezia «[t]he use of paid influencers’ accounts by government actors and political parties to spread their views or campaign for them is yet another concerning practice»[32]. Come inquadrare e come regolamentare queste attività di promozione occulta non è per nulla scontato. Il ricorso agli influencer è una pratica che assume sempre maggior rilievo in vari settori e che ha visto anche tentativi di intervento da parte dell’AGCOM in Italia. Com’è stato sottolineato[33], tuttavia, l’opzione di creare un parallelismo tra influencer e fornitori di servizi di media audio-visivi, in base al Testo unico dei servizi di media audiovisivi, sembra forse meno incisivo che regolamentarne le attività – nel contesto di quest’analisi in materia di pubblicità politica – nell’ambito della governance digitale.
Appare dunque necessario capire come e quanto potrebbe essere efficace una regolamentazione di tale tipo di condotte in materia di pubblicità politica online. In questo senso, quello che si può rilevare è che alcune forme di sponsorizzazione dei messaggi politici impiegate nella campagna elettorale romena possono sfuggire alle norme sulla trasparenza predisposte dal Regolamento (UE) 2024/900.
Nel contesto delle elezioni presidenziali romene si può, invece, osservare come il DSA avrebbe potuto giocare un ruolo che non pare aver giocato. Dal punto di vista del contrasto alla disinformazione e della protezione delle elezioni, occorre evidenziare come il DSA preveda la necessità per le piattaforme di grandi dimensioni di valutare, a fianco ai rischi legati alla diffusione di contenuti illegali, i rischi che possano condizionare i processi elettorali (terzo rischio). Fra i rischi che sono da valutare e contenere vi è anche la disinformazione: «[t]ali fornitori dovrebbero pertanto prestare particolare attenzione al modo in cui i loro servizi sono utilizzati per diffondere o amplificare contenuti fuorvianti o ingannevoli, compresa la disinformazione»[34]. In quest’ambito il DSA predispone una serie di obblighi di valutazione dei rischi (Articolo 34, Regolamento (UE) 2022/2065) e attenuazione degli stessi (Articolo 35, Regolamento (UE) 2022/2065) che le piattaforme di dimensioni molto grandi come TikTok devono porre in essere.
In questo senso la Commissione, nel suo ruolo di monitoraggio del DSA, ha emesso un “ordine di conservazione” dei dati relativi ai rischi sistemici reali o prevedibili per i processi elettorali nei confronti di TikTok; inoltre sono stati anche attivati i meccanismi di Rapid Response System (RRS) del Code of Practice on Disinformation[35]. Successivamente è stato aperto un procedimento formale contro TikTok[36]: «[t]he proceedings will focus on management of risks to elections or civic discourse, linked to the following areas: TikTok’s recommender systems, notably the risks linked to the coordinated inauthentic manipulation or automated exploitation of the service; TikTok’s policies on political advertisements and paid-for political content»[37]. Il contenuto del procedimento sembra confermare che il caso romeno riguardi non tanto la disinformazione, quanto una serie di comportamenti manipolativi e di finanziamenti illeciti della campagna elettorale. Il meccanismo del DSA è stato dunque attivato anche se occorre rilevare come abbia fallito nel prevenire la manipolazione delle elezioni presidenziali. A tal riguardo è necessario però segnalare che «the risk assessment and mitigation measures contemplated by the DSA have very particular characteristics in terms of enforcement. At this stage, there are still no guidelines or best practices provided by the Commission regarding the “reasonable, proportionate and effective mitigation measures, tailored to the specific systemic risks” that need to be put in place according to the DSA»[38]. Il meccanismo, che fa perno sulla “responsabilizzazione” delle piattaforme digitali, appare ancora non oliato: auspicabilmente il caso romeno porterà a un perfezionamento delle procedure europee in materia. Nell’ambito dell’applicazione del DSA, sono stati espressi anche dubbi sull’efficacia dell’azione della National Authority for Communications Administration and Regulation (ANCOM)[39], il Coordinatore dei servizi digitali romeno, nonché sui servizi di intelligence stessi[40]: a fianco del “fallimento” dei meccanismi preventivi dell’UE si può forse aggiungere anche quello delle autorità nazionali.
In questa prospettiva, si può quindi osservare la non efficace applicazione del DSA, che potrebbe essere meglio implementata dalle autorità nazionali ed europee.
4. Un nuovo passo verso il consolidamento del paradigma europeo di free speech in ambito elettorale e la sfida dei micro-influencer
Sicuramente l’annullamento delle elezioni presidenziali può dire molto internamente all’ordinamento romeno[41] ma «[o]ther countries may look to Romania’s example as a warning to fortify their own electoral processes against similar attacks»[42]. Il caso in esame fornisce molti elementi di interesse. La Corte romena ha avuto modo di ribadire il paradigma europeo di discorso pubblico in ambito elettorale: «[l]a libertà degli elettori di formarsi un’opinione include il diritto di essere correttamente informati prima di prendere una decisione. Più precisamente, tale libertà implica il diritto di ottenere informazioni corrette sui candidati e sul processo elettorale da tutte le fonti, inclusi i canali online, nonché la protezione contro influenze ingiustificate, attraverso atti/azioni illegali o sproporzionate, sul comportamento di voto»[43]; e ancora «[u]n finanziamento legale e trasparente della campagna elettorale è un fattore essenziale per la regolarità del processo elettorale. Anche il finanziamento delle attività online deve essere trasparente, e la pubblicità elettorale online deve sempre essere identificabile e trasparente, sia in relazione all’identità dello sponsor sia alle tecniche di diffusione utilizzate»[44]. Si riaffermano così alcuni capisaldi di quello che ormai appare essere il consolidato paradigma di libertà di espressione del costituzionalismo europeo e dell’Unione Europea che si sta cementando soprattutto nella regolazione del discorso pubblico online[45]. Un paradigma che prevede il diritto a essere correttamente informati – e quindi la non protezione della disinformazione –, la trasparenza della pubblicità politica online – e pertanto gli obblighi di disclosure e disclaimer di tali attività – e, infine, l’esclusione della propaganda esterna all’UE nelle elezioni europee – e dunque l’impossibilità per soggetti esteri di pagare la pubblicità online –.
Naturalmente questa sentenza, descritta anche come «a last resort attempt to prevent a further decline in the rule of law in Romania»[46], non fa venire meno i dubbi sulla tenuta della rule of law in Romania[47]. D’altronde, come sottolineato, «in pochi si sarebbero aspettati che proprio dalla Corte costituzionale romena che, insieme a quella polacca e quella ungherese si è distinta, ultimamente, per mandare segnali di guerra in relazione alla tenuta dello stato di diritto in Europa, provenisse una lezione sui principi guida del costituzionalismo europeo»[48].
Se da questo punto di vista occorre dunque salutare con favore questa “lezione”, com’è stata definita, dal punto di vista tecnologico il caso solleva numerosi interrogativi soprattutto in relazione all’impiego dei micro-influencer nelle campagne elettorali. Questa sembra una nuova sfida alla regolamentazione dell’UE tesa ad applicare il sopravvisto paradigma di libertà di espressione: «[p]arasocial opinion leaders may be used in electoral campaigns, to distribute preexisting electoral content. These parasocial opinion leaders include micro-influencers, trolls and bots, alongside political leaders and normal social media users, that support an idea, a candidate, a political platform or a cause, in an excessive, yet relatable way for other social media users»[49]. La pubblicità politica mediante micro-influencer – al di là dei tentativi di occultarla mediante pagamenti in criptovalute o altre forme non tracciabili – pone infatti una notevole difficoltà dal punto di vista della sua identificazione, sia da parte delle piattaforme che delle autorità pubbliche deputate alla vigilanza sulla corretta applicazione delle normative elettorali, soprattutto perché questo tipo di pubblicità, ove non sia individuato il pagamento, rientra in una forma di supporto politico identificabile pienamente nella libertà di manifestazione del pensiero. Al di là della riaffermazione del paradigma europeo di libertà di espressione, il caso romeno evidenzia quindi le nuove sfide della pubblicità politica online.
[1] Corte costituzionale romena, sentenza n. 32 del 6 dicembre 2024, consultabile in una versione tradotta al seguente link: https://giurcost.org/casi_scelti/AlteCortistraniere/Dec0612104_32.pdf (ultimo accesso 31 gennaio 2025).
[2] Tribunale federale svizzero, sentenze del 10 aprile 2019 (1C_315/2018, 1C_316/2018, 1C_329/2018, 1C_331/2018,1C_335/2018, 1C_337/2018, 1C_338/2018, 1C_339/2018, 1C_347/2018), consultabile al seguente link: https://www.bger.ch/files/live/sites/bger/files/pdf/fr/1C_315_2018_yyyy_mm_dd_T_f_13_11_39.pdf (ultimo accesso 31 gennaio 2025). Su cui si si veda: G. Martinico, Il diritto costituzionale come speranza. Secessione, democrazia e populismo alla luce della Reference Re Secession of Quebec, Giappichelli, Torino, 2019, p. 199 e ss.
[3] Intendendo con “funzionalista” una versione “debole” di tale concetto: «[v]a, quindi, in parte ripensata la premessa metodologica, tuttora accettata da parte della dottrina italiana, che rifiuta qualsiasi ipotesi di funzionalizzazione dei diritti di libertà perché contrastante, in radice, con il principio di libertà individuale. Sul punto è necessario intendersi: se per funzionalizzazione si intende una nozione forte e sostanzialistica, quale subordinazione dell’individuo ai valori imposti dall’ordinamento, è evidente il rischio di trasformare il diritto di libertà in una pubblica funzione, preludio di una torsione del sistema in senso totalitario. Qualora, però, della funzionalizzazione si accolga un significato debole e metodologico, volto a sottolineare la funzione integrativa delle libertà nel sistema costituzionale, la descrizione della funzione delle libertà consente di evidenziare il nesso tra le aspettative soggettive di riconoscimento della persona e l’azione delle istituzioni legittimate dalla Costituzione. […] Anche per questo i diritti di libertà, e la libertà di manifestazione del pensiero in particolar modo, non hanno solo una portata difensiva, ma assumono anche un significato positivo e partecipativo, di riconciliazione tra la dimensione individuale della persona e i rapporti collettivi di natura sociale sino, in alcuni casi, a condizionare le stesse procedure democratiche (si pensi, ad esempio, al diritto di cronaca e alle sue sotto-categorizzazioni, all’assetto dei media radiotelevisivi e non solo)». C. Caruso, La libertà di espressione in azione. Contributo a una teoria costituzionale del discorso pubblico, Bononia University Press, Bologna, 2014, p. 326-327.
[4] A. Carrozzini, Shooting Democracy in the Foot?, in Verfassungsblog, 13 dicembre 2024, consultabile al seguente link: https://verfassungsblog.de/shooting-democracy-in-the-foot/ (ultimo accesso 31 gennaio 2025).
[5] Usando le espressioni della Commissione di Venezia: Commissione di Venezia, Interpretative declaration of the Code of good practice in electoral matters as concerns digital technologies and artificial intelligence, approved by the Council for Democratic Elections at its 81st meeting (Venice, 5 December 2024) and adopted by the Venice Commission at its 141st Plenary Session (Venice, 6-7 December 2024), Opinion No. 1171/2024, CDL-AD(2024)044-e
[6] Come invece dichiarato dal candidato Calin Georgescu: A. Parsons, Calin Georgescu: Politician Who Was on Brink of Becoming Romanian President Attacks ‘Corrupted Regime’, in Sky News, 7 dicembre 2024, consultabile al seguente link: https://news.sky.com/story/calin-georgescu-politician-who-was-on-brink-of-becoming-romanian-president-attacks-corrupted-regime-13268718 (ultimo accesso 31 gennaio 2025).
[7] «Moreover, according to the documents, ‘almost 800 TikTok accounts created by a “foreign state” in 2016 were suddenly activated last month to full capacity’ backing one of the candidates. Another 25,000 TikTok accounts had become active only two weeks before the first round.’ Georgescu is the ‘candidate’ referred to in the documents, and the ‘foreign state’ is Russia». A. Kleczkowska, The Russian Disinformation Campaign During the Romanian Presidential Elections: The Perfect Example of a Violation of International Law?, in Opinio Juris, 27 gennaio 2025, consultabile al seguente link: https://opiniojuris.org/2025/01/27/the-russian-disinformation-campaign-during-the-romanian-presidential-elections-the-perfect-example-of-a-violation-of-international-law/ (ultimo accesso 31 gennaio 2025). «I documenti identificano in particolare un account chiamato “bogpr”, associato a un cittadino romeno, che avrebbe effettuato donazioni su TikTok a queste persone per un totale di oltre un milione di euro. Solo nell’ultimo mese l’account avrebbe effettuato pagamenti per circa 362mila euro a utenti che promuovevano Georgescu. In precedenza Georgescu aveva dichiarato alle autorità romene di aver speso «zero euro» per la sua campagna elettorale e di essere stato aiutato esclusivamente da volontari». Redazione, Le Accuse Di Interferenze Della Russia Nelle Elezioni in Romania, in Il Post, 7 dicembre 2024, consultabile al seguente link: https://www.ilpost.it/2024/12/07/interferenze-russe-romania/ (ultimo accesso 31 gennaio 2025). «Declassified intelligence reports from Romania’s Supreme Council of National Defense (CSAT) and the Directorate for Investigating Organized Crime and Terrorism (DIICOT) revealed a staggering level of interference. A network of over 600,000 bots orchestrated a TikTok campaign for Calin Georgescu, violating electoral law by failing to disclose its political nature. Even more troubling, these operations were funded through €50 million in cryptocurrency, funnelled from a Russian network operating out of South Africa. In the days leading up to the election, as much as €3 million per day was injected into this campaign». M.R. Maftean, A Troubling Triumph in Romania, in Verfassungsblog, 10 dicembre 2024, consultabile al seguente link: https://verfassungsblog.de/triumph-in-romania/(ultimo accesso 31 gennaio 2025).
[8] B. Selejan-Gutan, The Second Round That Wasn’t, in Verfassungsblog, 7 dicembre 2024, consultabile al seguente link: https://verfassungsblog.de/the-second-round-that-wasnt/ (ultimo accesso 31 gennaio 2025).
[9] Corte costituzionale romena, sentenza n. 32 del 6 dicembre 2024, par. 5.
[10] Corte costituzionale romena, sentenza n. 32 del 6 dicembre 2024, par. 10.
[11] «La pubblicità politica può talvolta trasformarsi in un “veicolo di disinformazione, soprattutto quando [...] non dichiara il proprio carattere politico, proviene da sponsor esterni all’Unione o è soggetta a tecniche di targeting o di diffusione del materiale pubblicitario” [si veda anche il Regolamento (UE) 2024/900 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 13 marzo 2024 sulla trasparenza e il targeting nella pubblicità politica, considerando 4]. Di conseguenza, deve essere esclusa l’ingerenza di entità statali o non statali nello svolgimento di campagne di propaganda o disinformazione elettorale». Corte costituzionale romena, sentenza n. 32 del 6 dicembre 2024, par. 13. «La pubblicità politica può essere un vettore di disinformazione, specie se non ne è esplicitata la natura politica, se proviene da sponsor esterni all’Unione o se è oggetto di tecniche di targeting o tecniche di consegna dei messaggi pubblicitari» Considerando 4, Regolamento (UE) 2024/900.
[12] Commissione di Venezia, Interpretative declaration of the Code of good practice in electoral matters as concerns digital technologies and artificial intelligence, cit.
[13]Per brevi considerazioni in materia si rimanda a: B. Selejan-Gutan, cit.; A. Carrozzini, cit.
[14] Commissione di Venezia, Interpretative declaration of the Code of good practice in electoral matters as concerns digital technologies and artificial intelligence, cit., p. 3.
[15] Commissione di Venezia, Interpretative declaration of the Code of good practice in electoral matters as concerns digital technologies and artificial intelligence, cit., p. 7.
[16] « The fight against information disorders, including disinformation explicitly aimed at questioning or misleading about the basic aspects of electoral procedures, calls for regulation by the state and an independent body with adequate resources and powers to enforce such regulation». Idem, p. 11.
[17] «The Venice Commission takes the view that “external influence” – not stemming from the electoral actors – can also be relevant in this context. This applies to the influence of non-governmental organisations, of the media – social media in particular –, especially those sponsored and financed from abroad, and foreign State and non-State actors: External influence, including from abroad, can have the same (or even stronger) effects as internal influence (from State officials or political parties). Therefore, the interference with the electoral process by third parties acting from outside is not less detrimental and can have the same (or even more severe) consequences as a breach of election rules by candidates, political parties and State officials». Commissione di Venezia, Urgent report on the cancellation of election results by constitutional courts, issued on 27 january 2025 pursuant to article 14a, CDL-PI(2025)001, p. 14.
[18] «As concerns, firstly, campaign propaganda, it should be noted that electoral campaigns are in essence information campaigns by the candidates designed to convince the voters. Statements on policy made by candidates in the context of an election may often be regarded by their opponents as disinformation or false information. Regardless of form and medium, political statements in the context of campaigning are typically value judgments or statements that fall under the candidate’s freedom of expression, unless they exceed permissible limits, e.g. in the form of hate speech against political opponents. Considering the ECtHR’s jurisprudence on judicial interference with campaign messaging, it is currently hard to see how the form and content of campaign messaging of candidates could amount to a violation of electoral law that may lead to the annulment of the elections». Idem, p. 15.
[19] E. Shattock, Electoral Dysfunction: Romania’s Election Annulment, Disinformation, and ECHR Positive Obligations to Combat Election Irregularities, in EJIL: Talk!, 6 gennaio 2025, consultabile al seguente link: https://www.ejiltalk.org/electoral-dysfunction-romanias-election-annulment-disinformation-and-echr-positive-obligations-to-combat-election-irregularities/ (ultimo accesso 31 gennaio 2025). Così citando, Krasnov and Skuratov v Russia, Applications nos. 17864/04 and 21396/04, 19 July 2007; Babenko v Ukraine, Application no. 68726/10, 4 January 2012; Kerimova v Azerbaijan, Application no. 20799/06, 30 September 2010; Davydov and Others v Russia, Application no. 75947/11, 30 May 2017. Lo stesso autore segnala come il caso Bradshaw and others v the United Kingdom (Application no. 15653/22) potrebbe condurre a nuove evidenze in questo campo.
[20] ECHR 022 (2025) 21.01.2025 press realise, consultabile al seguente link: https://www.echr.coe.int/w/request-for-interim-measures-refused-concerning-romania (ultimo accesso 31 gennaio 2025).
[21] Commissione di Venezia, Interpretative declaration of the Code of good practice in electoral matters as concerns digital technologies and artificial intelligence, cit., p. 14.
[22] Commissione di Venezia, Urgent report on the cancellation of election results by constitutional courts, cit., p. 19.
[23] Sentenza della Corte (Seconda Sezione) del 4 luglio 2019, Baltic Media Alliance Ltd. contro Lietuvos radijo ir televizijos komisija, Causa C-622/17; Sentenza del Tribunale (Nona Sezione) del 15 giugno 2017, Dmitrii Konstantinovich Kiselev contro Consiglio dell’Unione europea, Causa T-262/15.
[24] Sentenza del Tribunale (Grande Sezione) del 27 luglio 2022, RT France contro Consiglio dell’Unione europea, Causa T-125/22, par. 55
[25] Si permetta un rimando a: M. Monti, Il “Sedition Act” europeo? Spunti dalla comparazione sull’esclusione di Russia Today e Sputnik dal mercato dell’informazione unionale, in Osservatorio costituzionale, 2023. Sul test di proporzionalità applicato: Sentenza del Tribunale (Grande Sezione) del 27 luglio 2022, RT France contro Consiglio dell’Unione europea, Causa T-125/22, par. 148.
[26] D. Vaira, Trick or T(h)reat: disinformazione online e minacce ibride nel panorama europeo. Alcune considerazioni alla luce dell’annullamento delle elezioni in Romania, in SIDIBlog, 29 dicembre 2024, consultabile al seguente link: http://www.sidiblog.org/2024/12/29/trick-or-threat-disinformazione-online-e-minacce-ibride-nel-panorama-europeo-alcune-considerazioni-alla-luce-dellannullamento-delle-elezioni-in-romania/ (ultimo accesso 31 gennaio 2025).
[27] Corte costituzionale romena, sentenza n. 32 del 6 dicembre 2024, par. 11.
[28] R. Radu, Romania: How a Disinformation Campaign Prevented Free Suffrage, in Disinfo-Prompt.Eu, 17 dicembre 2024, consultabile al seguente link: https://disinfo-prompt.eu/posts/6gVQHsgN02LeYCnVzI6wGx (ultimo accesso 31 gennaio 2025).
[29] Ibid.
[30] «Just because a social platform declares allcontent to be entertainment, or a micro-influencer is known for his or her content on makeup and cars, does not mean the platform will never host political content or the influencer will not share political recommendations, for an advertising fee». Ibid.
[31] Considerando 4, Regolamento 2024/900.
[32] Commissione di Venezia, Interpretative declaration of the Code of good practice in electoral matters as concerns digital technologies and artificial intelligence, cit., p. 8.
[33] E. Albanesi, Le Linee-guida dell’Agcom sugli influencer nella prospettiva dell’attività di informazione e del costituzionalismo digitale, in Rivista italiana di informatica e diritto, 1, 2024, p. 82-83.
[34] Considerando 84, Regolamento (UE) 2022/2065.
[35] Commission, online platforms and civil society increase monitoring during Romanian elections, Press release, Brussels, 5 December 2024, consultabile al seguente link: https://digital-strategy.ec.europa.eu/en/news/commission-online-platforms-and-civil-society-increase-monitoring-during-romanian-elections (ultimo accesso 31 gennaio 2025).
[36] Commission opens formal proceedings against TikTok on election risks under the Digital Services Act, Press release, Brussels, 17 December 2024, consultabile al seguente link: https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/ip_24_6487 (ultimo accesso 31 gennaio 2025).
[37] Ibid.
[38] J. Barata, E. Lazăr, Will the DSA Save Democracy? The Test of the Recent Presidential Election in Romania, in TechPolicy.Press, 27 gennaio 2025, consultabile al seguente link: https://techpolicy.press/will-the-dsa-save-democracy-the-test-of-the-recent-presidential-election-in-romania (ultimo accesso 31 gennaio 2025).
[39] Ibid.
[40] «Although a similar pattern of foreign interference was recently observed in neighbouring Moldova, the Romanian public authorities have entirely failed to prevent such a scenario from unfolding domestically. The situation has been exacerbated by investigative reporting revealing that while the court annulled the elections, the head of Romania’s Foreign Intelligence Service was on a publicly funded trip to a Formula One race». A. Damian, The Annulment of Romania’s Presidential Election Reflects Both Foreign Meddling and Domestic Failures, in LSE Blogs - Europp Blog, 13 dicembre 2024, consultabile al seguente link: https://blogs.lse.ac.uk/europpblog/2024/12/13/the-annulment-of-romanias-presidential-election-reflects-both-foreign-meddling-and-domestic-failures/ (ultimo accesso 31 gennaio 2025).
[41] «In Romania, it is evident that legislative gaps (such as the lack of effective procedures to prevent foreign interference via social media), poor communication between state agencies and delayed institutional responses contributed to the situation escalating to a point where the elections were annulled at the last moment, after the voting had already commenced. Urgent legislative changes are needed to tighten regulations of electoral campaigns, social media, and particularly platforms like TikTok that played a significant role in this major crisis. Legal safeguards must be clear, proportional, and designed to protect against abuse while meeting the standards of democratic societies» B. Selejan-Gutan, cit.
[42] Ibid.
[43] Corte costituzionale romena, sentenza n. 32 del 6 dicembre 2024, par. 13.
[44] Idem, par. 17.
[45] C. Caruso, Towards the Institutions of Freedom: The European Public Discourse in the Digital Era, in German Law Journal, (First View), 2024; sulla spinta “federalizzatrice” di questa regolazione si permetta un richiamo a: M. Monti, Towards a Federal-Type Regulation of Online Public Discourse by the EU?, in European Public Law, 4, 2024.
[46] Carrozzini, cit.
[47] D. Kosar, O. Kadlec, Romanian Version of the Rule of Law Crisis Comes to the ECJ: The AFJR Case Is Not Just about the Cooperation and Verification Mechanism’, in Common Market Law Review, 6, 2022.
[48] O. Pollicino, Se la disinformazione condiziona i processi democratici, in Il Sole 24 Ore, 9 gennaio 2025, consultabile al seguente link: https://24plus.ilsole24ore.com/art/se-disinformazione-condiziona-processi-democratici-AGYQYWAC?refresh_ce=1 (ultimo accesso 31 gennaio 2025).
[49] Radu, cit.
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