ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sulla responsabilità civile dell’avvocato.
Audizione tenuta alla Commissione Giustizia del Senato della Repubblica in data 25 febbraio 2025.
“Se la forza della matematica è quella di non essere un’opinione, la forza del diritto è invece proprio quella di essere un’opinione”.
Salvatore Satta
Sommario: 1. Il disegno di legge che limita la responsabilità civile dell’avvocato alle ipotesi di dolo e colpa grave escludendo parimenti ogni responsabilità per l’attività di interpretazione di norme di diritto. 2. Le ragioni condivisibili di questo progetto di riforma. 3. La rilettura, nei limiti della colpa grave, degli orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità civile dell’avvocato. 4. La rilettura, nei limiti della colpa grave, delle sentenze che chiudono i processi in rito. 5. Conclusioni: l’esigenza che l’avvocato abbia la libertà di difendere i clienti piuttosto che sé stesso per timore della responsabilità professionale.
1. Il disegno di legge che limita la responsabilità civile dell’avvocato alle ipotesi di dolo e colpa grave escludendo parimenti ogni responsabilità per l’attività di interpretazione di norme di diritto
È stato comunicato alla Presidenza del Senato in data 5 giugno 2023 al n. 745 un disegno di legge avente ad oggetto la “Modifica all’art. 3 della legge 31 dicembre 2012 n. 247 in materia di responsabilità per dolo o colpa grave nell’esercizio della professione forense”.
La proposta, composta di un solo articolo, mira ad aggiungere all’articolo 3, comma 2 della legge 31 dicembre 2012 n. 247, in fine, il seguente periodo: “Per gli atti e i comportamenti posti in essere nell’esercizio della professione l’avvocato risponde dei danni arrecati con dolo o colpa grave; non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto”.
Devo dire, in primo luogo, che condivido questa proposta e quindi auspico che essa si trasformi quanto prima in legge.
La legge professionale forense, infatti, al momento attuale, non fornisce una disciplina specifica della responsabilità civile dell’avvocato, e questa carenza ha consentito in questi anni il formarsi di una giurisprudenza che, in taluni momenti, ha ritenuto gli avvocati, in quanto professionisti, responsabili anche solo per colpa lieve (v. già Cass. 4 novembre 2002 n. 15404), con un orientamento che è sembrato in verità superare, sotto un certo profilo, la stessa dizione dell’art. 2236 c.c., per il quale, se la prestazione professionale implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà: “il prestatore d’opera non risponde dei danni se non in caso di dolo o di colpa grave”.
Al riguardo, credo sia infatti necessario ricordare che l’attività difensiva si esplica in un contesto di scontro qual è il processo, e impone agli avvocati delle scelte che si determinano tra l’esigenza di difesa del cliente, l’incertezza del diritto e delle liti, e il dovere del rispetto della legge e della deontologia professionale; proprio per ciò essa è da considerare, quasi sempre, un’attività di speciale difficoltà, o comunque un’attività che, per queste caratteristiche, si differenzia da quelle delle altre professioni intellettuali.
È dunque giustificato che la responsabilità civile degli avvocati trovi una disciplina specifica e differenziata rispetto a quella che genericamente si trova nel codice civile, ed è altresì giustificato che tale responsabilità trovi i suoi presupposti nelle sole ipotesi di dolo o colpa grave.
Ciò, evidentemente, non esclude che l’avvocato sia tenuto ad adempiere il mandato con “la diligenza del buon padre di famiglia” ex art. 1176 c.c., e non esclude che l’avvocato negligente o imperito debba risarcire il cliente dei danni che gli provoca; esclude, però, che la responsabilità dell’avvocato possa discendere da fatti dovuti alla complessità, alla relatività e all’incertezza del diritto e delle decisioni giudiziarie.
E sotto questo profilo non potrà mai costituire fonte di responsabilità civile per il difensore l’interpretazione della legge.
Ed anzi, così come l’interpretazione della legge non costituisce fonte di responsabilità per il giudice ai sensi dell’art. 2 della legge 13 aprile 1988 n. 117, la stessa attività non deve parimenti costituire presupposto di responsabilità per l’avvocato.
Questa riforma, in questo modo, e così come si è scritto nella sua presentazione, è anche finalizzata a: “uniformare il regime della responsabilità civile, quanto meno sotto il profilo dei presupposti, delle due principali categorie di operatori del diritto”.
2. Le ragioni condivisibili di questo progetto di riforma
Sulla base di queste prime osservazioni aggiungerei poi:
a) che questa riforma non può considerarsi inutile in quanto il diritto vivente in materia non sempre risponde ai criteri della colpa grave e/o della libertà della sua interpretazione.
È necessario, così, delineare per legge i limiti della responsabilità civile dell’esercizio della professione forense, creando, se si vuole, una sorte di insindacabilità delle scelte difensive nell’attività giudiziaria.
b) Inoltre aggiungerei che sarebbe semplicistico considerare questa riforma un vantaggio offerto alla classe forense; tutto al contrario essa mira ad assicurare al difensore quella tranquillità e quella indipendenza che è necessaria per esercitare il mandato in modo effettivo e conforme al diritto di azione e di difesa garantiti dall’art. 24 Cost. e dall’art. 3 della legge professionale 31 dicembre 2012 n. 247.
Come, infatti, tutti i cittadini hanno diritto di accesso al giudice e diritto di difendersi in giudizio, allo stesso modo l’avvocato deve avere la possibilità di concretizzare questo diritto costituzionale senza il rischio di risponderne per danni fuori dai casi di comportamenti gravi.
c) Egualmente scorretto sarebbe considerare questa riforma un qualcosa che lega le mani al giudice in ordine all’individuazione delle ipotesi di responsabilità civile per l’avvocato.
La gravità della colpa è un concetto elastico, e come tale consentirà al giudice di discernere in concreto i comportamenti gravi, dei quali l’avvocato debba rispondere, rispetto a quelli non gravi, che non avranno invece rilevanza sul piano della responsabilità civile.
Parimenti, se la legge affermerà che l’interpretazione del diritto non può mai costituire presupposto di responsabilità civile per l’avvocato, al giudice non sarà impedita la possibilità di valutare quando in concreto questa attività rientri veramente nel concetto di interpretazione e quando piuttosto non costituisca comportamento semplicemente e banalmente contra ius.
Restano, dunque, ampi margini di discrezionalità del giudice in relazione alle varie fattispecie.
È tuttavia necessario, e questa proposta di riforma mira infatti a ciò, che la prima fissazione dei limiti di responsabilità per l’attività forense sia però data dalla legge e non rimessa interamente agli orientamenti della giurisprudenza come oggi; e la scelta che questi limiti siano quelli di fissare in modo chiaro che l’avvocato risponde solo per colpa grave e mai per l’attività di interpretazione di norme di diritto, a me sembra condivisibile e corrispondente alle esigenze della funzione giurisdizionale.
3. La rilettura, nei limiti della colpa grave, degli orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità civile dell’avvocato
Dicevo, questa riforma non è inutile perché è finalizzata a contenere nei limiti della colpa grave un diritto vivente che viceversa, in taluni momenti (e ciò, se si vuole, anche diversamente rispetto al passato, v. Cass. 18 novembre 1996 n. 10068), responsabilizza l’avvocato oltre tale barriera, o addirittura lo penalizza per scelte attinenti alla gestione dell’esercizio del diritto di azione e di difesa.
Indico qualche caso:
a) v’è in primo luogo un orientamento della Corte di Cassazione (v. Cass. 30 luglio 2004 n. 14597; Cass. 20 ottobre 2023 n. 29182; Cass. 17 novembre 2021 n. 34993; Cass. 19 luglio 2019 n. 19520), secondo il quale: “Nell'adempimento dell'incarico professionale conferitogli, l'obbligo di diligenza impone all'avvocato di assolvere ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, essendo tenuto a rappresentare a quest'ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi; di richiedergli gli elementi necessari o utili in suo possesso; a sconsigliarlo dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole. A tal fine incombe su di lui l'onere di fornire la prova della condotta mantenuta, insufficiente al riguardo peraltro essendo il rilascio da parte del cliente delle procure necessarie all'esercizio dello ius postulandi”.
Si tratta di un orientamento difficilmente condivisibile, in quanto, se certamente sussiste per l’avvocato il dovere di informazione, non sembra però sussiste il dovere di dissuasione.
Peraltro è immaginario che l’avvocato possa rappresentare al cliente tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, poiché il “tutto” è qualcosa che non esiste nelle dinamiche del processo e, al più, l’avvocato potrà far presente al cliente le questioni che in un dato affare rientrano nell’ambito del id quod plerumque accidit.
Egualmente, e nei limiti del possibile, l’avvocato può e deve rappresentare al cliente i rischi di soccombenza che una lite ha o può avere, ma deve poi lasciare piena libertà al cliente di scegliere come determinarsi e non rientra probabilmente nei suoi doveri di difensore quello di sconsigliarlo dall'intraprendere o proseguire un giudizio, soprattutto quando si tratti di difendersi da un’iniziativa giudiziaria altrui.
Non conforme ai rapporti che devono darsi tra cliente ed avvocato, infine, e ciò anche in base alla legge professionale 31 dicembre 2012 n. 247, è quello di immaginare che in questi casi l’onere della prova circa l’adempimento di questi doveri spetti al difensore (“incombe su di lui l'onere di fornire la prova della condotta mantenuta”), in quanto il rapporto tra cliente ed avvocato è necessariamente un rapporto basato sulla reciproca fiducia, e la fiducia impedisce, o rende difficoltoso, all’avvocato di fornire al cliente sempre ogni informazione in forma scritta per averne la prova.
È evidente che ove passasse la riforma qui immaginata questi orientamenti non potrebbero più darsi, o comunque potrebbero darsi nei limiti di fatti specifici costituenti colpa grave.
Nel caso di Cass. 19 luglio 2019 n. 19520 si è arrivati addirittura ad immaginare una responsabilità dell’avvocato penalista che non abbia consigliato al cliente che aveva subito dei protesti cambiari di rivolgersi ad un avvocato civilista per la cancellazione dei protesti e le relative azioni in ambito civile.
Niente, evidentemente, a che vedere con la colpa grave.
b) V’è poi giurisprudenza per la quale l’avvocato può rispondere civilmente quando non si attenga, nell’intraprendere o proseguire una lite, agli orientamenti consolidati della Corte di Cassazione.
In questo ambito possono essere ricordate le pronunce Cass. 21 luglio 2023 n. 21953; Cass. 27 febbraio 2019 n. 5725; ed anche Cass. 14 ottobre 2021 n. 28226, che immagina addirittura una ipotesi di responsabilità aggravata da lite temeraria quando le tesi giuridiche fatte valere in giudizio si distanziano da quelle della Corte di Cassazione.
Si deve al contrario ritenere che, fermo il dovere di informativa, è diritto costituzionale della parte e del suo difensore quello di intraprendere controversie che non si allineino agli orientamenti della giurisprudenza della Corte di Cassazione, poiché gli orientamenti della giurisprudenza possono mutare nel tempo e i giudici di merito non necessariamente sono tenuti ad uniformarsi ad essi.
Immaginare che la soluzione di una controversia debba invece sempre e comunque darsi sulla base dell’orientamento giurisprudenziale, per quanto consolidato, comporterebbe l’abbandono della nostra civil law, poiché renderebbe (in gran parte) fonte di diritto quello che invece è solamente un indirizzo; in più sottometterebbe gli avvocati ai giudici, perché i primi non avrebbero più né la libertà né l’indipendenza di mettere in discussione il precedente giurisprudenziale, e tenderebbe infine a minare lo stesso principio costituzionale del giusto processo, che deve infatti concretizzarsi nella dialettica e nella libertà delle iniziative.
Con questo, certo, non dobbiamo dimenticare l’insegnamento di Piero Calamandrei, per il quale è buona regola per gli avvocati stroncare: “con saggi consigli di transazione i litigi all’inizio e facendo tutto il possibile affinché essi non raggiungano quel parossismo morboso che rende indispensabile il ricovero nella clinica giudiziaria”; però questa buona regola non può trasformarsi in dovere giuridico se nel comportamento tenuto dall’avvocato non siano riscontrabili gravi e comprovate violazioni della legge o della deontologia.
c) Parimenti vi sono orientamenti della giurisprudenza (per tutti la recente Cass. 17 settembre 2024 n. 25023), in base ai quali: “per garantire il diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale è predisposto un complesso apparato organizzativo (il c.d. servizio giustizia), con un costo per la collettività, la cui attivazione, impegnando una risorsa limitata, non può essere rimessa ad iniziative meramente esplorative, dilatorie o, a maggior ragione, emulative, che non potrebbero dunque essere sorrette da un interesse meritevole di tutela”.
Tutto al contrario, a mio sommesso parere, non può esservi responsabilità dell’avvocato o del cittadino se questi tralascino che il servizio giustizia costituisce una risorsa limitata.
In verità, rendere giustizia è il primo dovere dello Stato se solo si pensa che già prima dell’unità d’Italia, un giurista quale Pasquale Stanislao Mancini, nel Commentario del Codice di procedura civile degli Stati sardi, scriveva che: “l’amministrazione giudiziale e la garanzia dei diritti è il primo e più sacro debito dell’autorità sociale”.
Lo Stato ha così il preciso e contrario compito, rispetto a questo orientamento della giurisprudenza, di evitare che l’apparato organizzativo del servizio giustizia si presenti insufficiente a fronte delle domande che i cittadini rivolgono ai giudici.
Ciò è tanto più doveroso per lo Stato quanto più si pensi che per consentire allo Stato di adempiere a questo suo dovere i cittadini pagano in generale le imposte, e nello specifico pagano altresì elevate tasse, quali il contributo unificato, le marche, e soprattutto l’imposta di registro sui provvedimenti giudiziali.
Pagato tutto ciò, i cittadini hanno il diritto di non sentirsi dire che la giustizia è una risorsa limitata.
d) V’è infine un ulteriore orientamento della Corte di Cassazione per il quale l’avvocato è responsabile se non offre al cliente la soluzione più protettiva dei suoi interessi.
Sono espressione di questo orientamento, da ultimo, Cass. 11 novembre 2024 n. 28903, e precedentemente: Cass. 21 luglio 2023 n. 21953; Cass. 6 giugno 2020 n. 8494; Cass. 19 marzo 2014 n. 6347; Cass. 28 febbraio 2014 n. 4790; Cass. 5 agosto 2013 n. 18612; Cass. 12 aprile 2013 n. 8940; Cass. 18 luglio 2002 n. 10454. La massima è la seguente: “L'avvocato è tenuto ad operare con diligenza e perizia adeguate alla contingenza, così da assicurare che la scelta professionale cada sulla soluzione che meglio tuteli il cliente”.
Certamente questo è auspicabile, ed è compito e dovere dell’avvocato trovare infatti la soluzione che meglio tuteli il cliente; che però questo, quando non si verifichi, possa comportare la responsabilità civile dell’avvocato, appare opinabile.
Di nuovo, l’avvocato ha un dovere di informativa nei confronti del cliente; tuttavia le scelte in concreto e le soluzioni da adottare possono sfuggire al id quod plerumque accidit, e non possono comportare per l’avvocato una responsabilità, poiché questa, altrimenti, si ancorerebbe, prima ancora che nella responsabilità lieve, in una sorta (quasi) di responsabilità oggettiva.
E va invece ribadito, anche sotto questo profilo, che solo comportamenti di colpa grave possono far discendere una responsabilità civile per l’avvocato, non altro.
4. La rilettura, nei limiti della colpa grave, delle sentenze che chiudono i processi in rito
In questo contesto, inoltre, devono sottolinearsi le differenze che, nell’interpretazione e nell’applicazione della legge, corrono fra il diritto sostanziale e il diritto processuale.
Infatti, una errata applicazione e/o interpretazione del diritto sostanziale difficilmente ha conseguenze in punto di responsabilità civile per l’avvocato.
Al contrario, una errata applicazione e/o interpretazione del diritto processuale, attenendo al comportamento che l’avvocato deve tenere nel processo, e riguardano spesso preclusioni, decadenze, improcedibilità, inammissibilità, ecc… avrà invece come normale conseguenza proprio una responsabilità per l’avvocato.
Se la legge non fissa il limite secondo il quale l’avvocato è responsabile solo per colpa grave e non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione della legge, l’avvocato si troverà esposto, per ogni soccombenza relativa al processo, a doverne rispondere.
Questa constatazione è oggi aggravata da due considerazioni:
a) una prima è che il processo, sia civile che penale, si è trasformato in processo telematico, cosicché oggi alle regole proprie della procedura se ne sono addizionate molte altre riguardanti la digitalizzazione delle attività processuali.
Questa svolta costringe gli avvocati ad essere esperti non solo di diritto bensì anche di sistemi informatici, e ha attribuito parimenti agli avvocati compiti che in precedenza erano dei cancellieri e degli ufficiali giudiziari, quali il deposito degli atti e le loro notificazioni.
b) Inoltre, in questi anni sono aumentati considerevolmente i processi che si chiudono con pronunce di rito anziché di merito; e questo fenomeno è del tutto palpabile in Cassazione, dove un numero assai elevato di ricorsi vengono dichiarati inammissibili, e dove ormai non può negarsi che l’oggetto del giudizio di Cassazione cade in gran parte, più che sulla legittimità (o meno) della sentenza di appello impugnata, sulla regolarità formale (o meno) del ricorso con il quale quella sentenza è impugnata.
Dunque: vertiginoso aumento delle cause che si chiudono in rito, aumento dei compiti processuali degli avvocati e digitalizzazione della giustizia costituiscono oggi per gli avvocati fattori di rischio assai consistenti.
E così necessario non solo che la legge prescriva in modo chiaro che gli avvocati rispondono di errori processuali sono se questi abbiano il crisma della gravità, ma anche, tornando ai principi dei nostri padri e all’impostazione del codice di procedura civile del ’40, che: “Le norme processuali, e la loro interpretazione, non devono (non dovrebbero) mai impedire al giudice la pronuncia di merito, se non nei casi di grave violazione del contraddittorio non recuperabile”.
È questa una ulteriore norma che, a mio sommesso parere, andrebbe recepita oltre quella già proposta nel disegno presentato al Senato al n. 745 e qui oggetto di commento.
Virgilio Andrioli, sugli insegnamenti di Giuseppe Chiovenda, scriveva che: “Il processo di cognizione mira a concludersi con pronunce di merito, mentre eccezionali sono le ipotesi in cui la violazione di norme disciplinatrici del processo impone che questo si concluda mediante sentenze assolutrici dell’osservanza del giudizio”.
Oggi, purtroppo, non è affatto così, e l’aumento considerevole di chiusure in rito dei processi non può riversarsi negativamente sugli avvocati in punto di loro responsabilità civile.
5. Conclusioni: l’esigenza che l’avvocato abbia la libertà di difendere i clienti piuttosto che sé stesso per timore della responsabilità professionale
In sostanza, e in estrema sintesi, è bene che la legge limiti la responsabilità degli avvocati alla sola colpa grave, escludendo al tempo stesso ogni responsabilità per l’attività di interpretazione del diritto.
Ciò significherà, contemporaneamente, che in nessun caso un avvocato potrà essere responsabile delle scelte e/o dei comportamenti professionali tenuti se questi rientrino in ipotesi di colpa lieve o addirittura di responsabilità oggettiva; queste ipotesi saranno sempre esclude in base al dettato del nuovo 2° comma dell’art. 3 della legge 31 dicembre 2012 n. 247 se sarà approvato.
Inoltre, sempre il nuovo art. 3, 2° comma, l. 31 dicembre 2012 n. 247 escluderà ogni responsabilità dell’avvocato con riferimento a tutto ciò che è opinabile.
E ancora, la libertà che deve avere l’avvocato nell’interpretazione della legge, e quindi, direi soprattutto, della legge processuale, significherà altresì, a contrario, che nessuna altra diversa interpretazione della legge processuale da parte del giudice, e nessun altra fissazione di comportamenti processuali assunti dal giudice, potranno mai implicare responsabilità civile per l’avvocato, e ciò almeno che, ancora una volta, il comportamento tenuto dal difensore non sia gravemente e palesemente in contrasto con il dettato di legge, tanto che non possa considerarsi come interpretazione ma solo come evidente errore professionale.
In tutti questi ambiti sarà comunque la giurisprudenza a determinare i casi di responsabilità dell’avvocato; ma, nel farlo, dovrà, differentemente da oggi, muoversi entro ben determinati confini.
Altrimenti il rischio, così come si è verificato con riferimento alla responsabilità medica, è quello di creare una giustizia difensiva, dopo una medicina difensiva.
Va evitato che, al fine di scongiurare rischi professionali, l’avvocato sia infatti più improntato a difendere sé stesso che gli interessi dei clienti; ciò costituirebbe grave danno al giusto processo di cui agli artt. 3, 24 e 111 Cost.
Immagine: particolare da Honoré Daumier, Trois avocats causant, olio su tela, 1843-1848.
Sulla responsabilità civile dell’avvocato.
Audizione tenuta alla Commissione Giustizia del Senato della Repubblica in data 25 febbraio 2025.
“Se la forza della matematica è quella di non essere un’opinione, la forza del diritto è invece proprio quella di essere un’opinione”.
Salvatore Satta
Sommario: 1. Il disegno di legge che limita la responsabilità civile dell’avvocato alle ipotesi di dolo e colpa grave escludendo parimenti ogni responsabilità per l’attività di interpretazione di norme di diritto. 2. Le ragioni condivisibili di questo progetto di riforma. 3. La rilettura, nei limiti della colpa grave, degli orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità civile dell’avvocato. 4. La rilettura, nei limiti della colpa grave, delle sentenze che chiudono i processi in rito. 5. Conclusioni: l’esigenza che l’avvocato abbia la libertà di difendere i clienti piuttosto che sé stesso per timore della responsabilità professionale.
1. Il disegno di legge che limita la responsabilità civile dell’avvocato alle ipotesi di dolo e colpa grave escludendo parimenti ogni responsabilità per l’attività di interpretazione di norme di diritto
È stato comunicato alla Presidenza del Senato in data 5 giugno 2023 al n. 745 un disegno di legge avente ad oggetto la “Modifica all’art. 3 della legge 31 dicembre 2012 n. 247 in materia di responsabilità per dolo o colpa grave nell’esercizio della professione forense”.
La proposta, composta di un solo articolo, mira ad aggiungere all’articolo 3, comma 2 della legge 31 dicembre 2012 n. 247, in fine, il seguente periodo: “Per gli atti e i comportamenti posti in essere nell’esercizio della professione l’avvocato risponde dei danni arrecati con dolo o colpa grave; non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto”.
Devo dire, in primo luogo, che condivido questa proposta e quindi auspico che essa si trasformi quanto prima in legge.
La legge professionale forense, infatti, al momento attuale, non fornisce una disciplina specifica della responsabilità civile dell’avvocato, e questa carenza ha consentito in questi anni il formarsi di una giurisprudenza che, in taluni momenti, ha ritenuto gli avvocati, in quanto professionisti, responsabili anche solo per colpa lieve (v. già Cass. 4 novembre 2002 n. 15404), con un orientamento che è sembrato in verità superare, sotto un certo profilo, la stessa dizione dell’art. 2236 c.c., per il quale, se la prestazione professionale implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà: “il prestatore d’opera non risponde dei danni se non in caso di dolo o di colpa grave”.
Al riguardo, credo sia infatti necessario ricordare che l’attività difensiva si esplica in un contesto di scontro qual è il processo, e impone agli avvocati delle scelte che si determinano tra l’esigenza di difesa del cliente, l’incertezza del diritto e delle liti, e il dovere del rispetto della legge e della deontologia professionale; proprio per ciò essa è da considerare, quasi sempre, un’attività di speciale difficoltà, o comunque un’attività che, per queste caratteristiche, si differenzia da quelle delle altre professioni intellettuali.
È dunque giustificato che la responsabilità civile degli avvocati trovi una disciplina specifica e differenziata rispetto a quella che genericamente si trova nel codice civile, ed è altresì giustificato che tale responsabilità trovi i suoi presupposti nelle sole ipotesi di dolo o colpa grave.
Ciò, evidentemente, non esclude che l’avvocato sia tenuto ad adempiere il mandato con “la diligenza del buon padre di famiglia” ex art. 1176 c.c., e non esclude che l’avvocato negligente o imperito debba risarcire il cliente dei danni che gli provoca; esclude, però, che la responsabilità dell’avvocato possa discendere da fatti dovuti alla complessità, alla relatività e all’incertezza del diritto e delle decisioni giudiziarie.
E sotto questo profilo non potrà mai costituire fonte di responsabilità civile per il difensore l’interpretazione della legge.
Ed anzi, così come l’interpretazione della legge non costituisce fonte di responsabilità per il giudice ai sensi dell’art. 2 della legge 13 aprile 1988 n. 117, la stessa attività non deve parimenti costituire presupposto di responsabilità per l’avvocato.
Questa riforma, in questo modo, e così come si è scritto nella sua presentazione, è anche finalizzata a: “uniformare il regime della responsabilità civile, quanto meno sotto il profilo dei presupposti, delle due principali categorie di operatori del diritto”.
2. Le ragioni condivisibili di questo progetto di riforma
Sulla base di queste prime osservazioni aggiungerei poi:
a) che questa riforma non può considerarsi inutile in quanto il diritto vivente in materia non sempre risponde ai criteri della colpa grave e/o della libertà della sua interpretazione.
È necessario, così, delineare per legge i limiti della responsabilità civile dell’esercizio della professione forense, creando, se si vuole, una sorte di insindacabilità delle scelte difensive nell’attività giudiziaria.
b) Inoltre aggiungerei che sarebbe semplicistico considerare questa riforma un vantaggio offerto alla classe forense; tutto al contrario essa mira ad assicurare al difensore quella tranquillità e quella indipendenza che è necessaria per esercitare il mandato in modo effettivo e conforme al diritto di azione e di difesa garantiti dall’art. 24 Cost. e dall’art. 3 della legge professionale 31 dicembre 2012 n. 247.
Come, infatti, tutti i cittadini hanno diritto di accesso al giudice e diritto di difendersi in giudizio, allo stesso modo l’avvocato deve avere la possibilità di concretizzare questo diritto costituzionale senza il rischio di risponderne per danni fuori dai casi di comportamenti gravi.
c) Egualmente scorretto sarebbe considerare questa riforma un qualcosa che lega le mani al giudice in ordine all’individuazione delle ipotesi di responsabilità civile per l’avvocato.
La gravità della colpa è un concetto elastico, e come tale consentirà al giudice di discernere in concreto i comportamenti gravi, dei quali l’avvocato debba rispondere, rispetto a quelli non gravi, che non avranno invece rilevanza sul piano della responsabilità civile.
Parimenti, se la legge affermerà che l’interpretazione del diritto non può mai costituire presupposto di responsabilità civile per l’avvocato, al giudice non sarà impedita la possibilità di valutare quando in concreto questa attività rientri veramente nel concetto di interpretazione e quando piuttosto non costituisca comportamento semplicemente e banalmente contra ius.
Restano, dunque, ampi margini di discrezionalità del giudice in relazione alle varie fattispecie.
È tuttavia necessario, e questa proposta di riforma mira infatti a ciò, che la prima fissazione dei limiti di responsabilità per l’attività forense sia però data dalla legge e non rimessa interamente agli orientamenti della giurisprudenza come oggi; e la scelta che questi limiti siano quelli di fissare in modo chiaro che l’avvocato risponde solo per colpa grave e mai per l’attività di interpretazione di norme di diritto, a me sembra condivisibile e corrispondente alle esigenze della funzione giurisdizionale.
3. La rilettura, nei limiti della colpa grave, degli orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità civile dell’avvocato
Dicevo, questa riforma non è inutile perché è finalizzata a contenere nei limiti della colpa grave un diritto vivente che viceversa, in taluni momenti (e ciò, se si vuole, anche diversamente rispetto al passato, v. Cass. 18 novembre 1996 n. 10068), responsabilizza l’avvocato oltre tale barriera, o addirittura lo penalizza per scelte attinenti alla gestione dell’esercizio del diritto di azione e di difesa.
Indico qualche caso:
a) v’è in primo luogo un orientamento della Corte di Cassazione (v. Cass. 30 luglio 2004 n. 14597; Cass. 20 ottobre 2023 n. 29182; Cass. 17 novembre 2021 n. 34993; Cass. 19 luglio 2019 n. 19520), secondo il quale: “Nell'adempimento dell'incarico professionale conferitogli, l'obbligo di diligenza impone all'avvocato di assolvere ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, essendo tenuto a rappresentare a quest'ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi; di richiedergli gli elementi necessari o utili in suo possesso; a sconsigliarlo dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole. A tal fine incombe su di lui l'onere di fornire la prova della condotta mantenuta, insufficiente al riguardo peraltro essendo il rilascio da parte del cliente delle procure necessarie all'esercizio dello ius postulandi”.
Si tratta di un orientamento difficilmente condivisibile, in quanto, se certamente sussiste per l’avvocato il dovere di informazione, non sembra però sussiste il dovere di dissuasione.
Peraltro è immaginario che l’avvocato possa rappresentare al cliente tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, poiché il “tutto” è qualcosa che non esiste nelle dinamiche del processo e, al più, l’avvocato potrà far presente al cliente le questioni che in un dato affare rientrano nell’ambito del id quod plerumque accidit.
Egualmente, e nei limiti del possibile, l’avvocato può e deve rappresentare al cliente i rischi di soccombenza che una lite ha o può avere, ma deve poi lasciare piena libertà al cliente di scegliere come determinarsi e non rientra probabilmente nei suoi doveri di difensore quello di sconsigliarlo dall'intraprendere o proseguire un giudizio, soprattutto quando si tratti di difendersi da un’iniziativa giudiziaria altrui.
Non conforme ai rapporti che devono darsi tra cliente ed avvocato, infine, e ciò anche in base alla legge professionale 31 dicembre 2012 n. 247, è quello di immaginare che in questi casi l’onere della prova circa l’adempimento di questi doveri spetti al difensore (“incombe su di lui l'onere di fornire la prova della condotta mantenuta”), in quanto il rapporto tra cliente ed avvocato è necessariamente un rapporto basato sulla reciproca fiducia, e la fiducia impedisce, o rende difficoltoso, all’avvocato di fornire al cliente sempre ogni informazione in forma scritta per averne la prova.
È evidente che ove passasse la riforma qui immaginata questi orientamenti non potrebbero più darsi, o comunque potrebbero darsi nei limiti di fatti specifici costituenti colpa grave.
Nel caso di Cass. 19 luglio 2019 n. 19520 si è arrivati addirittura ad immaginare una responsabilità dell’avvocato penalista che non abbia consigliato al cliente che aveva subito dei protesti cambiari di rivolgersi ad un avvocato civilista per la cancellazione dei protesti e le relative azioni in ambito civile.
Niente, evidentemente, a che vedere con la colpa grave.
b) V’è poi giurisprudenza per la quale l’avvocato può rispondere civilmente quando non si attenga, nell’intraprendere o proseguire una lite, agli orientamenti consolidati della Corte di Cassazione.
In questo ambito possono essere ricordate le pronunce Cass. 21 luglio 2023 n. 21953; Cass. 27 febbraio 2019 n. 5725; ed anche Cass. 14 ottobre 2021 n. 28226, che immagina addirittura una ipotesi di responsabilità aggravata da lite temeraria quando le tesi giuridiche fatte valere in giudizio si distanziano da quelle della Corte di Cassazione.
Si deve al contrario ritenere che, fermo il dovere di informativa, è diritto costituzionale della parte e del suo difensore quello di intraprendere controversie che non si allineino agli orientamenti della giurisprudenza della Corte di Cassazione, poiché gli orientamenti della giurisprudenza possono mutare nel tempo e i giudici di merito non necessariamente sono tenuti ad uniformarsi ad essi.
Immaginare che la soluzione di una controversia debba invece sempre e comunque darsi sulla base dell’orientamento giurisprudenziale, per quanto consolidato, comporterebbe l’abbandono della nostra civil law, poiché renderebbe (in gran parte) fonte di diritto quello che invece è solamente un indirizzo; in più sottometterebbe gli avvocati ai giudici, perché i primi non avrebbero più né la libertà né l’indipendenza di mettere in discussione il precedente giurisprudenziale, e tenderebbe infine a minare lo stesso principio costituzionale del giusto processo, che deve infatti concretizzarsi nella dialettica e nella libertà delle iniziative.
Con questo, certo, non dobbiamo dimenticare l’insegnamento di Piero Calamandrei, per il quale è buona regola per gli avvocati stroncare: “con saggi consigli di transazione i litigi all’inizio e facendo tutto il possibile affinché essi non raggiungano quel parossismo morboso che rende indispensabile il ricovero nella clinica giudiziaria”; però questa buona regola non può trasformarsi in dovere giuridico se nel comportamento tenuto dall’avvocato non siano riscontrabili gravi e comprovate violazioni della legge o della deontologia.
c) Parimenti vi sono orientamenti della giurisprudenza (per tutti la recente Cass. 17 settembre 2024 n. 25023), in base ai quali: “per garantire il diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale è predisposto un complesso apparato organizzativo (il c.d. servizio giustizia), con un costo per la collettività, la cui attivazione, impegnando una risorsa limitata, non può essere rimessa ad iniziative meramente esplorative, dilatorie o, a maggior ragione, emulative, che non potrebbero dunque essere sorrette da un interesse meritevole di tutela”.
Tutto al contrario, a mio sommesso parere, non può esservi responsabilità dell’avvocato o del cittadino se questi tralascino che il servizio giustizia costituisce una risorsa limitata.
In verità, rendere giustizia è il primo dovere dello Stato se solo si pensa che già prima dell’unità d’Italia, un giurista quale Pasquale Stanislao Mancini, nel Commentario del Codice di procedura civile degli Stati sardi, scriveva che: “l’amministrazione giudiziale e la garanzia dei diritti è il primo e più sacro debito dell’autorità sociale”.
Lo Stato ha così il preciso e contrario compito, rispetto a questo orientamento della giurisprudenza, di evitare che l’apparato organizzativo del servizio giustizia si presenti insufficiente a fronte delle domande che i cittadini rivolgono ai giudici.
Ciò è tanto più doveroso per lo Stato quanto più si pensi che per consentire allo Stato di adempiere a questo suo dovere i cittadini pagano in generale le imposte, e nello specifico pagano altresì elevate tasse, quali il contributo unificato, le marche, e soprattutto l’imposta di registro sui provvedimenti giudiziali.
Pagato tutto ciò, i cittadini hanno il diritto di non sentirsi dire che la giustizia è una risorsa limitata.
d) V’è infine un ulteriore orientamento della Corte di Cassazione per il quale l’avvocato è responsabile se non offre al cliente la soluzione più protettiva dei suoi interessi.
Sono espressione di questo orientamento, da ultimo, Cass. 11 novembre 2024 n. 28903, e precedentemente: Cass. 21 luglio 2023 n. 21953; Cass. 6 giugno 2020 n. 8494; Cass. 19 marzo 2014 n. 6347; Cass. 28 febbraio 2014 n. 4790; Cass. 5 agosto 2013 n. 18612; Cass. 12 aprile 2013 n. 8940; Cass. 18 luglio 2002 n. 10454. La massima è la seguente: “L'avvocato è tenuto ad operare con diligenza e perizia adeguate alla contingenza, così da assicurare che la scelta professionale cada sulla soluzione che meglio tuteli il cliente”.
Certamente questo è auspicabile, ed è compito e dovere dell’avvocato trovare infatti la soluzione che meglio tuteli il cliente; che però questo, quando non si verifichi, possa comportare la responsabilità civile dell’avvocato, appare opinabile.
Di nuovo, l’avvocato ha un dovere di informativa nei confronti del cliente; tuttavia le scelte in concreto e le soluzioni da adottare possono sfuggire al id quod plerumque accidit, e non possono comportare per l’avvocato una responsabilità, poiché questa, altrimenti, si ancorerebbe, prima ancora che nella responsabilità lieve, in una sorta (quasi) di responsabilità oggettiva.
E va invece ribadito, anche sotto questo profilo, che solo comportamenti di colpa grave possono far discendere una responsabilità civile per l’avvocato, non altro.
4. La rilettura, nei limiti della colpa grave, delle sentenze che chiudono i processi in rito
In questo contesto, inoltre, devono sottolinearsi le differenze che, nell’interpretazione e nell’applicazione della legge, corrono fra il diritto sostanziale e il diritto processuale.
Infatti, una errata applicazione e/o interpretazione del diritto sostanziale difficilmente ha conseguenze in punto di responsabilità civile per l’avvocato.
Al contrario, una errata applicazione e/o interpretazione del diritto processuale, attenendo al comportamento che l’avvocato deve tenere nel processo, e riguardano spesso preclusioni, decadenze, improcedibilità, inammissibilità, ecc… avrà invece come normale conseguenza proprio una responsabilità per l’avvocato.
Se la legge non fissa il limite secondo il quale l’avvocato è responsabile solo per colpa grave e non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione della legge, l’avvocato si troverà esposto, per ogni soccombenza relativa al processo, a doverne rispondere.
Questa constatazione è oggi aggravata da due considerazioni:
a) una prima è che il processo, sia civile che penale, si è trasformato in processo telematico, cosicché oggi alle regole proprie della procedura se ne sono addizionate molte altre riguardanti la digitalizzazione delle attività processuali.
Questa svolta costringe gli avvocati ad essere esperti non solo di diritto bensì anche di sistemi informatici, e ha attribuito parimenti agli avvocati compiti che in precedenza erano dei cancellieri e degli ufficiali giudiziari, quali il deposito degli atti e le loro notificazioni.
b) Inoltre, in questi anni sono aumentati considerevolmente i processi che si chiudono con pronunce di rito anziché di merito; e questo fenomeno è del tutto palpabile in Cassazione, dove un numero assai elevato di ricorsi vengono dichiarati inammissibili, e dove ormai non può negarsi che l’oggetto del giudizio di Cassazione cade in gran parte, più che sulla legittimità (o meno) della sentenza di appello impugnata, sulla regolarità formale (o meno) del ricorso con il quale quella sentenza è impugnata.
Dunque: vertiginoso aumento delle cause che si chiudono in rito, aumento dei compiti processuali degli avvocati e digitalizzazione della giustizia costituiscono oggi per gli avvocati fattori di rischio assai consistenti.
E così necessario non solo che la legge prescriva in modo chiaro che gli avvocati rispondono di errori processuali sono se questi abbiano il crisma della gravità, ma anche, tornando ai principi dei nostri padri e all’impostazione del codice di procedura civile del ’40, che: “Le norme processuali, e la loro interpretazione, non devono (non dovrebbero) mai impedire al giudice la pronuncia di merito, se non nei casi di grave violazione del contraddittorio non recuperabile”.
È questa una ulteriore norma che, a mio sommesso parere, andrebbe recepita oltre quella già proposta nel disegno presentato al Senato al n. 745 e qui oggetto di commento.
Virgilio Andrioli, sugli insegnamenti di Giuseppe Chiovenda, scriveva che: “Il processo di cognizione mira a concludersi con pronunce di merito, mentre eccezionali sono le ipotesi in cui la violazione di norme disciplinatrici del processo impone che questo si concluda mediante sentenze assolutrici dell’osservanza del giudizio”.
Oggi, purtroppo, non è affatto così, e l’aumento considerevole di chiusure in rito dei processi non può riversarsi negativamente sugli avvocati in punto di loro responsabilità civile.
5. Conclusioni: l’esigenza che l’avvocato abbia la libertà di difendere i clienti piuttosto che sé stesso per timore della responsabilità professionale
In sostanza, e in estrema sintesi, è bene che la legge limiti la responsabilità degli avvocati alla sola colpa grave, escludendo al tempo stesso ogni responsabilità per l’attività di interpretazione del diritto.
Ciò significherà, contemporaneamente, che in nessun caso un avvocato potrà essere responsabile delle scelte e/o dei comportamenti professionali tenuti se questi rientrino in ipotesi di colpa lieve o addirittura di responsabilità oggettiva; queste ipotesi saranno sempre esclude in base al dettato del nuovo 2° comma dell’art. 3 della legge 31 dicembre 2012 n. 247 se sarà approvato.
Inoltre, sempre il nuovo art. 3, 2° comma, l. 31 dicembre 2012 n. 247 escluderà ogni responsabilità dell’avvocato con riferimento a tutto ciò che è opinabile.
E ancora, la libertà che deve avere l’avvocato nell’interpretazione della legge, e quindi, direi soprattutto, della legge processuale, significherà altresì, a contrario, che nessuna altra diversa interpretazione della legge processuale da parte del giudice, e nessun altra fissazione di comportamenti processuali assunti dal giudice, potranno mai implicare responsabilità civile per l’avvocato, e ciò almeno che, ancora una volta, il comportamento tenuto dal difensore non sia gravemente e palesemente in contrasto con il dettato di legge, tanto che non possa considerarsi come interpretazione ma solo come evidente errore professionale.
In tutti questi ambiti sarà comunque la giurisprudenza a determinare i casi di responsabilità dell’avvocato; ma, nel farlo, dovrà, differentemente da oggi, muoversi entro ben determinati confini.
Altrimenti il rischio, così come si è verificato con riferimento alla responsabilità medica, è quello di creare una giustizia difensiva, dopo una medicina difensiva.
Va evitato che, al fine di scongiurare rischi professionali, l’avvocato sia infatti più improntato a difendere sé stesso che gli interessi dei clienti; ciò costituirebbe grave danno al giusto processo di cui agli artt. 3, 24 e 111 Cost.
Immagine: particolare da Honoré Daumier, Trois avocats causant, olio su tela, 1843-1848.
È dall’8 marzo 1946 che il rametto di mimosa è stato associato, per iniziativa delle parlamentari comuniste Teresa Mattei e Rita Montagnana, alla Giornata Internazionale della Donna.
La scelta cadde sulla mimosa perché fiorisce nei primi giorni del mese di marzo e, secondo i nativi americani, i fiori della mimosa significano forza e femminilità.
L’Unione delle Donne Italiane scartò prima le anemoni e poi i garofani, perché la mimosa, con i suoi fiori gialli luminosi e profumati, era anche un fiore molto economico e rappresentava la speranza e la vitalità in un momento di rinascita e cambiamento.
Ed è proprio un cambiamento che vogliamo annunciare.
Oggi, in occasione della Giornata internazionale in cui si celebra la forza delle donne, Giustizia Insieme vuole omaggiare tutte le donne protagoniste della Rivista non con un ramoscello di mimosa, ma con una riscrittura al femminile di tutte le biografie delle autrici e delle componenti del comitato scientifico e di redazione
A pensarci bene non si tratta di un regalo o di un omaggio, ma di un dovere culturale, perché non è mai solo una questione di parole: nominare le donne, soprattutto le donne professioniste, può contribuire anche a cambiare la percezione nei loro confronti.
Non si può negare che sia pervasiva e trasversale, anche nel mondo delle donne, una certa resistenza e ritrosia all’uso del femminile.
Lo spiega bene Cecilia Robustelli nel Tema di discussione dal titolo “Infermiera sì, Ingegnera no”, pubblicato nel 2021 sul sito dell’Accademia della Crusca.
«Qual è la ragione di questo atteggiamento linguistico? Le risposte più frequenti adducono all’incertezza di fronte all’uso di forme femminili nuove rispetto a quelle tradizionali maschili (è il caso di ingegnera), la presunta bruttezza delle nuove forme (ministra proprio non piace!), o la convinzione che la forma maschile possa essere usata tranquillamente anche in riferimento alle donne. Ma non è vero perché maestra, infermiera, modella, cuoca, nuotatrice ecc. non suscitano alcuna obiezione: anzi, nessuno definirebbe mai Federica Pellegrini nuotatore.
Le resistenze all’uso del genere grammaticale femminile per molti titoli professionali o ruoli istituzionali ricoperti da donne sembrano poggiare su ragioni di tipo linguistico, ma in realtà sono celatamente, di tipo culturale; mentre le ragioni di chi lo sostiene sono apertamente culturali e, al tempo stesso, fortemente linguistiche.»
L’attenzione alle discriminazioni linguistiche e al coretto uso dei femminili professionali è solo il primo passo verso un diverso approccio culturale al tema; il linguaggio è lo specchio del pensiero e tradisce pregiudizi, paure e anche convinzioni spesso nascoste nei meandri del nostro conformismo culturale.
E allora smettiamo di nasconderci dietro al dito della cacofonia, evitiamo la ricerca spasmodica del neutro impossibile e non esaltiamo la polisemia dei termini.
Care lettrici, cari lettori sappiamo bene che qualcuno di voi storcerà il naso quando leggerà le nostre biografie, ma crediamo che abbia ragione Vera Gheno, in Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole, quando ci invita a riflettere in questo senso: «succede che ciò che non viene nominato tende ad essere meno visibile agli occhi delle persone. In questo senso chiamare le donne che fanno un certo lavoro con un sostantivo femminile non è un semplice capriccio, ma il riconoscimento della loro esistenza: dalla camionista alla minatrice, dalla commessa alla direttrice di filiale, dalla revisora dei conti alla giudice, dalla giardiniera alla sindaca. E pazienza se ad alcuni le parole suonano male: ci si può abituare.»
Immagine: Federico Zandomeneghi (1841-1917), Ragazza che scrive, s.d., olio su tela, cm 46×38, collezione privata.
Rappresento la Fondazione Vittorio Occorsio. Oggi è qui con noi Vittorio, che del nonno porta il nome.
Vengo da una generazione di magistrati che ha dovuto confrontarsi con sfide drammatiche. Vittorio Occorsio e Mario Amato, magistrati della Procura della Repubblica di Roma, affrontarono consapevolmente l'impegno gravoso che imponeva loro la funzione di pubblico ministero, che essi svolsero con grande coraggio e dignità, nonostante i violenti attacchi anche personali e l'isolamento, in alcuni momenti persino tra i colleghi e nel Foro.
La Fondazione Vittorio Occorsio, voluta dai suoi familiari, persegue la memoria di quel sacrificio. Una memoria attiva, che vive nel confronto, aperto ma non neutro. È per questa ragione che oggi sono qui, perché l’ANM è anch’essa aperta e oggi ha invitato i cittadini e le loro rappresentanze a condividere preoccupazioni e proposte.
Essere magistrati richiede coraggio. Oggi anche per decidere sulla richiesta di riconoscimento della protezione internazionale o sull’affidamento di un minore.
È per questo che la soggezione del giudice soltanto alla legge e l'imparzialità del pubblico ministero, rafforzata dal principio di obbligatorietà dell’azione, sono tutelati dalla Costituzione. Quando si mette in discussione pubblicamente e senza fondamento l'imparzialità della decisione del giudice o dell’azione del pubblico ministero, si mettono in crisi i principi costituzionali nel loro reale funzionamento e dunque la Costituzione in atto.
Certo, un così grande potere deve essere bilanciato dalla piena consapevolezza delle conseguenze del proprio agire sulla vita delle persone e quindi da una altrettanto grande professionalità e da responsabilità, in forme compatibili con l’indipendenza.
Per questo la magistratura italiana ha un sistema disciplinare così efficace. Questa affermazione è divenuta controintuitiva perché in contrasto con la falsità continuamente ripetuta, che la definisce spregiativamente come domestica per dire addomesticata (la disciplina è per sua natura domestica, interna al corpo). I dati sono ben diversi e non assimilabili, neppure lontanamente, a quelli assai minori delle altre magistrature o delle professioni a ordinamento pubblicistico. Basti leggere le relazioni del procuratore generale per l'anno 2024 e degli anni precedenti, tra cui anche quelle di chi parla. In esse vi è un’analisi documentata, nella quale si dà conto della gravità delle sanzioni irrogate e delle dimissioni volontarie dall'ordine giudiziario, assai frequenti quando il magistrato si trova a fronteggiare gravi contestazioni disciplinari.
Eppure, sulla falsa costruzione tante volte declamata e per questo solo divenuta vera, si vorrebbe fondare una riforma costituzionale, l'Alta Corte, che rischia di sottrarre il tema della disciplina alla continua elaborazione dei pari, alla piena comprensione del percorso professionale in cui la violazione ipotizzata si inserisce. La giustizia disciplinare è, e deve restare, diversa da un processo penale.
Se vi è da riformare, e la materia non manca, si parta però da un'attenta ricostruzione delle effettive esigenze.
Si parta, e parta anche la ANM, come mi sembra oggi stia facendo con il coinvolgere altri soggetti e interlocutori nel confronto su una riforma considerata rischiosa per gli interessi della collettività, della collettività, non della corporazione - dalla necessità di restituire alla giurisdizione effettività, anche nelle aree apparentemente minori ma che riguardano la vita quotidiana delle persone.
È positivo che finalmente, dopo mesi di chiusura, si avvii oggi il dialogo sulle riforme. Se è possibile che oggi il governo si apra al dialogo non è perché vi è un mutamento nella compagine che regge l'associazione: dopo Santalucia, straordinario presidente, oggi Parodi che con altrettanta determinazione saprà rappresentarla: è per il mandato unitario che oltre l'ottanta per cento dei magistrati, recandosi a votare e votando sulla convergenza nei principi fondamentali, ha dato alla sua dirigenza. In questi tempi difficili si potrebbe dire, con un po’ di esagerazione nell’autostima, che gli elettori dell’Associazione e della Germania tengono alta la rappresentanza elettorale, con percentuali di votanti superiori all’80%…
Un mandato che conferma che l'unità della magistratura non è rivendicazione corporativa, ma interesse della collettività.
Testo del discorso pronunciato da Giovanni Salvi al Cinema Adriano di Roma in occasione dello sciopero dei magistrati in difesa della Costituzione indetto dall'ANM il 27 febbraio 2025.
Dedichiamo l’8 marzo alle Madri Costituenti
In questa stagione difficile, in cui è costante il richiamo alla Costituzione e ai valori in essa scolpiti, è d’obbligo dedicare la giornata dell’8 marzo alle Madri Costituenti, che svolsero un ruolo importante e forse poco noto nei lavori dell’Assemblea, dando il loro fondamentale contributo alla realizzazione di una Repubblica democratica ispirata al principio personalista. Erano soltanto 21 sul totale di 556 rappresentanti eletti; 5 di loro entrarono a far parte della Commissione dei 75; nessuna fu chiamata a comporre il “Comitato di redazione” che aveva il compito di elaborare il testo definitivo della Carta. Più specificamente, Nilde Iotti e Angela Gotelli fecero parte della I Sottocommissione incaricata di occuparsi dei diritti e doveri dei cittadini; Maria Federici, Lina Merlin e Teresa Mattei andarono a comporre la III Sottocommissione, designata a trattare la materia dei rapporti economici e sociali; nessuna donna fece parte della II Sottocommissione incaricata dell’organizzazione costituzionale dello Stato.
Esse appartenevano a schieramenti politici diversi: 9 erano comuniste, 9 democristiane, 2 socialiste, una del Fronte dell’Uomo Qualunque. Erano tutte giovani, alcune giovanissime, e provenivano da diverse regioni d’Italia, così da rappresentare l’intero territorio nazionale. Quasi tutte erano laureate, alcune insegnanti, alcune giornaliste, due sindacaliste. Molte di loro avevano condiviso la militanza nella Resistenza, pagando un prezzo alto per questa scelta di lotta; a tutte era comune un forte impegno nell’associazionismo femminile e poi nella campagna elettorale del 1946.
Non è difficile indovinare il clima di diffidenza, di scetticismo, di odioso paternalismo con il quale esse dovettero da subito confrontarsi: di tale clima è peraltro agevole cogliere numerosi riscontri nei resoconti ufficiali dei lavori.
Fu grande merito delle Costituenti percepire immediatamente la necessità di fare gioco di squadra, nonostante le diversità dello loro storie professionali e delle loro radici culturali, così da formare un sodalizio forte e compatto capace di dar voce con coerenza ed efficacia ad un pensiero femminile nuovo, teso a delineare un ordinamento democratico fondato sulla eguaglianza e sulla tutela dei diritti e della dignità di ogni persona e al tempo stesso a demolire i molti pregiudizi ancorati alla cultura del passato che tuttora allignavano, specie in ordine ad alcuni temi sensibili, nelle idee di molti appartenenti a quel consesso.
Nell’impegno immane di ricostruzione delle fondamenta giuridiche del Paese esse seppero rivendicare il posto che loro spettava, con la stessa quota di responsabilità e di fatica. Con la forza di argomentazioni serrate, con la passione ideale maturata nella loro storia politica e personale esse seppero interpretare e farsi portavoce della legittima aspirazione delle donne italiane di emancipazione, di cittadinanza piena, di rispetto nella famiglia, nella società e nei luoghi di lavoro, facendo così emergere una nuova visione della figura femminile.
Si deve alla determinazione di quelle donne il passaggio da una concezione meramente formale ad una sostanziale del principio di eguaglianza, così chiaramente scolpito in Costituzione: fu grazie ad un intervento di Lina Merlin che l’espressione “di sesso” fu inserita nel primo comma dell’art. 3, nella prospettiva di una piena eguaglianza formale tra tutti i cittadini e le cittadine e nel segno di una decisiva rottura con certi schemi del passato. E fu Teresa Mattei a sollecitare l’inserimento dell’espressione “di fatto” nel secondo comma dello stesso art. 3, così ampliando la natura e la portata degli ostacoli da rimuovere al fine di realizzare il principio di eguaglianza sostanziale.
Soccorrono al riguardo le parole di Teresa Mattei , la più giovane tra gli eletti e le elette, pronunciate nel suo primo bellissimo intervento in Assemblea: «…fra le più solenni dichiarazioni che rientrano nei 7 articoli di queste disposizioni generali, accanto alla formula che delinea il volto nuovo, fatto di democrazia, di lavoro, di progresso sociale, della nostra Repubblica, accanto alla solenne affermazione della nostra volontà di pace e di collaborazione internazionale, accanto alla riaffermata dignità della persona umana, trova posto, nell’ art. 7 (ora art. 3), la non meno solenne e necessaria affermazione della completa eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di condizioni sociali, di opinioni religiose e politiche. Questo basterebbe, onorevoli colleghi, a dare un preminente carattere antifascista a tutta la nostra Costituzione…»
Le Madri Costituenti furono determinanti nell’inserire nell’agenda politica dei lavori aspetti nuovi o fino a quel momento trascurati perché ritenuti marginali, come il valore supremo della persona e della dignità umana, la centralità della dimensione relazionale e delle formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’individuo.
Fondamentale fu l’apporto di Nilde Iotti sui temi della famiglia, sul principio della pari dignità della coppia, sulla protezione dei figli nati fuori del matrimonio, così come a Nilde Iotti si deve la nuova concezione del lavoro femminile come strumento essenziale per la crescita personale e l’autonomia non solo economica delle donne, anche se nella formulazione di alcuni articoli (artt. 29, 30, 37) fu necessario addivenire a faticosi compromessi tra le posizioni ideologiche dei costituenti, al bivio tra il pieno riconoscimento del principio di parità e l’esaltazione di un familismo fondato sul ruolo tradizionale delle donne nello spazio domestico.
Quanto all’impegno nella lotta contro i pregiudizi, è sufficiente la lettura dei verbali dei lavori della III Sottocommissione e dell’Assemblea generale relativi alla possibilità per le donne di accedere a tutti gli uffici pubblici, ed in particolare alla magistratura, per comprendere che i tanti interventi di segno negativo svolti da illustri giuristi non costituivano voci isolate, ma riflettevano orientamenti profondamente radicati nella società, nella classe politica e tra gli operatori del diritto. A fronte di coloro che definivano la partecipazione delle donne all’ordine giudiziario “una innovazione estremamente ardita” o che evocando le parole di San Paolo invitavano le donne a far silenzio nei tribunali si elevava l’ammonimento di Teresa Mattei: «nessuno sviluppo democratico, nessun progresso sostanziale si produce nella vita di un popolo se esso non sia accompagnato da una piena emancipazione femminile».
Grazie dunque alle Madri Costituenti per esserci state.
Immagine: Le 21 donne alla Costituente, in La Domenica del Corriere, 4 agosto 1946, 19, firmato “il cronista di Montecitorio”.
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