ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Perché è importante aderire allo sciopero
Per una scelta valoriale: quella di far sentire la nostra voce critica su questa riforma, perché percepiamo la gravità del momento, non si può aspettare, tergiversare, tentennare, dubitare.
Per una scelta di metodo: perché partecipiamo e aderiamo all'Associazione Nazionale Magistrati, con tutto ciò che questo comporta, anche quando le sue proposte non sono quelle che avremmo preferito. La dimensione collettiva è un valore aggiunto rispetto a quella individuale, che, se le circostanze lo richiedono, può essere messa da parte. Del resto non esisterebbe alcuna dimensione collettiva se dovessero sempre prevalere le scelte individuali, in questo caso "collettivo" significherebbe mera aggregazione di occasionali convergenze anziché progettualità, costruzione, sintesi.
Scioperare può voler dire, nell'immaginario di qualcuno, arroccarsi per la difesa di un interesse personale, usare il disagio creato alla controparte come arma, e allora ecco che è incompatibile col modo in cui alcuni concepiscono il proprio essere magistrati, e in cui da fuori alcuni concepiscono la magistratura tutta.
Ma per altri, e noi siamo tra questi, scioperare vuol dire anche esporsi per una causa, metterci la faccia - noi, oggi - come altri, in altri momenti, ci hanno messo il salario; vogliamo pagarlo questo sciopero non solo con il denaro, ma anche perché sappiamo che ogni singolo rinvio ci costerà uno sforzo di recupero, sappiamo tutti che il lavoro di quel giorno non sparisce, si somma soltanto al lavoro di un altro giorno a venire.
Quindi ritenere lo sciopero incompatibile con la funzione giurisdizionale si riduce ad una questione di apparenza: non voler intaccare l'immagine di magistrato lavoratore, ma anche di magistrato che non è come gli altri lavoratori perché la Funzione viene prima del rapporto d'impiego, di magistrato che non è come gli altri cittadini perché ha un dovere di continenza, di apparenza imparziale, che non contesta le scelte legislative, anche quando le ritiene profondamente sbagliate. E poi sicuramente a qualcuno lo sciopero non piace perché non è chic, a qualcun altro non piace perché non gli piace contestare il governo, qualcuno non ha voglia di ricalendarizzare 40 fascicoli.
Quale che sia la ragione, sfugge a costoro un elemento, e cioè che noi, a differenza di qualsiasi altro lavoratore, non stiamo scioperando per noi stessi ma per la nostra funzione, che preferiamo chiamare servizio in favore dei cittadini, e per tutto il resto dei principi in cui, da cittadini, crediamo, primi fra tutti i principi costituzionali dello stato di diritto che oggi sono minacciati.
E quindi chi teme, scioperando, di non apparire dedito alla funzione, dovrebbe forse prima preoccuparsi di esserlo.
È difficile da spiegare al di fuori, e questo lo sapevamo, ma evidentemente è difficile anche spiegarlo a noi stessi.
Allora diciamo: ognuno in coscienza scelga il proprio modello di magistrato, scelga se lo sciopero gli piace o no come simbolo e come strumento.
Ma tutti chiediamoci se ci piace questa riforma, o se invece è doveroso, per il futuro dell'Italia, manifestare in modo incisivo il dissenso per mettere in primo piano gli effetti della riforma sull'indipendenza del potere giurisdizionale, e se riteniamo giusto farlo in forma collettiva, non in nome proprio ma nel nome del servizio giustizia che collettivamente esercitiamo, aderendo alla chiamata della nostra unica Associazione, già tanto delegittimata da attacchi esterni.
La redazione di Giustizia Insieme ha una specifica visione del magistrato: un magistrato umanista, pensante, attivo, che non cela ma difende il proprio posizionamento valoriale, che in quanto tale domani sciopererà e, come appartenente all'Associazione nazionale magistrati, sosterrà le ragioni, la bellezza, la giustezza di questa idea. Il che passa inevitabilmente per prendere una distanza dall'idea opposta.
Se questo può servire a pungolare qualcuno, ben venga, senza alcun intento derisorio o offensivo, non possiamo rinunciare a dire forte come la pensiamo solo per non rischiare di disturbare chi la pensa diversamente.
La tradizionale apertura della rivista a qualsiasi voce, anche dissenziente, oggi non c'entra nulla.
Questa è la nostra voce, ed oggi intendiamo usarla.
La Redazione
Attestato di libera circolazione di un bene culturale e potere di autotutela. Dubbi sulla legittimità costituzionale dell’art. 21 nonies, c. 1, l. 241/1990 (nota a Cons. Stato, Sez. VI, 16 ottobre 2024, n. 8296)
di Federica Campolo
Sommario: 1. Il caso di specie. 2. I termini per l’esercizio dei poteri di autotutela. 3. Attestato di libera circolazione di un bene culturale ed esercizio dei poteri di autotutela: un’analisi giurisprudenziale. 4. La non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale. 5. Brevi osservazioni conclusive.
1. Il caso di specie.
Nel 2015 l’Ufficio Esportazione di Verona rilasciava, ai sensi dell’art. 68 del d.lgs. n. 42 del 2004, l’attestato di libera circolazione[1] relativo a un olio su tela raffigurante una figura femminile, attribuito alla scuola italiana del XVI secolo, dal valore stimato di € 65.000,00. L’opera veniva, in seguito, venduta ed esportata all’estero.
Nel 2019, all’esito di un restauro, emergeva un elemento distintivo dell’opera, in precedenza almeno parzialmente celato a causa del suo cattivo stato di conservazione, che permetteva a uno studioso – grazie alla lettura del carteggio Vasari - di attribuire proprio al Vasari la sua esecuzione.
Nel 2021, la Direzione generale archeologia belle arti e paesaggio del Ministero della Cultura, venuta a conoscenza di tale circostanza, annullava in autotutela, ai sensi dell’art. 21 nonies, della l. n. 241 del 1990, l’attestato di libera circolazione, reputando che esso fosse viziato da travisamento dei fatti.
In risposta alle osservazioni prodotte dal privato destinatario del provvedimento, l’Amministrazione confermava la propria decisione, giustificando l’esercizio dei poteri in autotutela con l’atteggiamento poco collaborativo e, anzi, omissivo tenuto dalla parte al momento della presentazione dell’istanza, in violazione del dovere di correttezza nei rapporti tra privati e pubblica Amministrazione. Infine, veniva emesso un provvedimento espresso di diniego dell’attestato di libera circolazione, avviando altresì il procedimento per la dichiarazione dell’interesse artistico e storico particolarmente importante, ai sensi dell’art. 68, comma 6, del d.lgs. n. 42 del 2004.
Avverso i citati provvedimenti venivano proposti due distinti ricorsi innanzi al T.A.R. Roma dal privato destinatario dei provvedimenti e dall’attuale proprietario della tela, sorretti da un articolato elenco di motivi. Entrambi i ricorsi venivano respinti[2].
I ricorrenti in primo grado presentavano due autonomi ricorsi in appello, che venivano riuniti dal Consiglio di Stato adito, in quanto aventi a oggetto la medesima vicenda sostanziale.
Per quanto di interesse, le sentenze di primo grado venivano censurate nella parte in cui avevano respinto i motivi di ricorso con cui era stata denunciata l’illegittimità dei provvedimenti in ragione del decorso del termine di dodici mesi previsto dall’art. 21 nonies, comma 1, della l. n. 241 del 1990[3], per l’esercizio del potere di annullamento in autotutela.
In particolare, il Giudice di prime cure, pur ritenendo applicabile al caso di specie il termine di dodici mesi stabilito per gli atti autorizzativi, non aveva reputato fondato il motivo di ricorso, affermando che, nel caso di specie, tale termine avrebbe potuto subire una deroga, in ragione del comportamento omissivo tenuto dal privato, che avrebbe impedito la corretta attribuzione della tela da parte dell’Amministrazione. Secondo l’interpretazione del T.A.R. Roma, avrebbe trovato applicazione la previsione di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis, della l. n. 241 del 1990[4].
Il Consiglio di Stato ha ritenuto condivisibili le censure svolte dagli appellanti con specifico riferimento all’inconfigurabilità, nel caso in esame, di una condotta di “falsa rappresentazione dei fatti”, non potendo esserne raggiunta la piena prova.
A questo punto, il Giudice dell’appello non è addivenuto alla riforma delle sentenze di primo grado, in favore dei privati, ma ha sollevato d’ufficio innanzi alla Corte costituzionale questione di legittimità costituzionale dell’art. 21 nonies, comma 1, della l. n. 241 del 1990, per contrasto con gli artt. 3, comma 1, 9, comma 1 e comma 2, 97, comma 2 e 117, comma 1.
Più precisamente, ad avviso del Collegio, tale previsione, quando riferita ai provvedimenti di autorizzazione incidenti su un interesse sensibile e di rango costituzionale come la tutela del patrimonio storico e artistico sarebbe in contrasto con:
“- il parametro costituzionale di ragionevolezza ex art. 3, comma 1, Cost., quale limite alla discrezionalità del legislatore nella costruzione della disciplina di legge;
- la stessa protezione del primario bene costituzionale della integrità ex art. 9, comma 1 e comma 2, del patrimonio storico e artistico della Nazione;
- la responsabilità individuale e collettiva nei confronti dell’eredità culturale sancita dall’art. 1 lett. b) e d) della Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società firmata a Faro il 27 ottobre 2005;
- l'obbligo dello Stato italiano a ‘riconoscere l’interesse pubblico associato agli elementi dell’eredità culturale, in conformità con la loro importanza per la società’ e ‘promuovere la protezione dell’eredità culturale’ ex art. 5 lett. A) e b) della Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società firmata a Faro il 27 ottobre 2005;
- il valore, pure di rango costituzionale, ex art. 97, comma 2, Cost. Del buon andamento dell’amministrazione”.
Gli argomenti adottati dal Consiglio di Stato per sostenere la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale forniscono l’occasione per svolgere alcune riflessioni in merito all'esercizio del potere di annullamento in autotutela, nel caso in cui i provvedimenti autorizzatori riguardino interessi sensibili, quali la tutela dell’ambiente e dei beni culturali.
2. I termini per l’esercizio dei poteri di autotutela.
Come noto, l’art. 21 nonies della l. n. 241 del 1990 detta la disciplina dell’annullamento d’ufficio, che, insieme alla revoca di cui all’art. 21 quinquies, costituisce una delle forme di esercizio del potere di autotutela della pubblica Amministrazione, previste dal nostro ordinamento[5].
L’art. 21 nonies definisce attentamente le condizioni che possono determinare l’Amministrazione a emanare un provvedimento di secondo grado, capace di travolgere un precedente provvedimento, privandolo ex tunc della sua capacità di produrre effetti giuridici. In particolare, l’Amministrazione può annullare un provvedimento d’ufficio solamente al ricorrere – congiuntamente – dei seguenti presupposti: quando questo sia illegittimo, poiché affetto da uno dei vizi elencati dall’art. 21 octies, quando l’annullamento risponda a un interesse pubblico e, infine, laddove tale potere intervenga entro un determinato lasso temporale. L'annullamento in autotutela, in ogni caso, deve tenere in considerazione gli interessi dei destinatari e dei controinteressati.
In relazione al requisito temporale, la norma in esame detta alcune precisazioni. In via generale, non è stabilito un termine fisso entro il quale può essere emesso un provvedimento di secondo grado, dal momento che il legislatore fa riferimento a un generico “termine ragionevole”. È lasciato, dunque, un certo margine di discrezionalità in capo all’Amministrazione.[6] Tuttavia, quando l'atto di primo grado rientra nella categoria dei “provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici”, viene individuato espressamente dalla norma il termine massimo di dodici mesi dalla sua adozione per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio. In questo modo, come meglio si dirà nel prosieguo, il legislatore ha voluto prestare una particolare tutela al legittimo affidamento risposto dal privato nella validità del provvedimento, in un’ottica di certezza dei rapporti giuridici[7].
Oltre alle ipotesi “ordinarie” sopra richiamate, l’art. 21 nonies ha introdotto al suo comma 2 bis un’eccezione alla regola, ammettendo l’esercizio dell’annullamento d’ufficio anche oltre i termini di cui al comma 1, al ricorre di determinate circostanze.
Più precisamente, i provvedimenti amministrativi possono essere annullati anche dopo la scadenza del termine di dodici mesi qualora siano stati “conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato”.
In accordo con l’interpretazione offerta dalla più recente giurisprudenza amministrativa[8], il comma 2 bis individua due differenti casistiche, in cui l’applicazione del “termine ragionevole” trova giustificazione nel venir meno dell’esigenza di tutela dell’affidamento del privato, ove questo abbia ottenuto i titoli oggetto dell’autotutela in modo fraudolento.
La differenza sostanziale tra le due ipotesi sta nel fatto che nella prima - cioè in caso di false rappresentazioni dei fatti - è possibile superare il limite di dodici mesi a prescindere da qualsivoglia accertamento penale di natura processuale, tutte le volte che l’istante abbia rappresentato dolosamente uno stato preesistente diverso da quello reale. Sarà l’Amministrazione a dover accertare con i propri mezzi, caso per caso e in modo inequivocabile, la falsa rappresentazione. In caso di dichiarazioni sostitutive di certificazioni false o mendaci, se frutto di una condotta di falsificazione penalmente rilevante, invece, sarà necessario l’accertamento definitivo in sede penale[9].
Per i casi descritti dall’art. 21 nonies, comma 2 bis, della l. n. 241 del 1990 – e in particolare per le ipotesi di accertamento penale delle dichiarazioni false o mendaci - dottrina e giurisprudenza hanno adottato l’insidiosa nozione di “autotutela doverosa”. In questa categoria sono state fatte rientrare ulteriori ipotesi sia di elaborazione giurisprudenziale sia normativa[10].
L’autotutela doverosa, la cui esatta portata è a tutt’oggi discussa, contempla ipotesi in cui – al ricorrere di determinate circostanze e anche in deroga ai termini di cui all’art. 21 nonies, comma 1 – l’Amministrazione è tenuta ad annullare ex officio un provvedimento precedentemente emesso.
Secondo parte della dottrina, l’art. 21 nonies, comma 2 bis detterebbe una c.d. autotutela doverosa “parziale”, caso in cui cioè si assiste a una semplice dequotazione del termine per procedere all’annullamento d’ufficio[11].
Simili casistiche sembrano dimostrative di un’insofferenza da parte degli interpreti a una rigida applicazione dei limiti generali per l’esercizio dell’annullamento d’ufficio, dettati a tutela dell’affidamento dei privati, ove la tutela dell’interesse pubblico assume portata prioritaria rispetto all’affidamento dei privati.
3. Attestato di libera circolazione di un bene culturale ed esercizio dei poteri di autotutela: un’analisi giurisprudenziale.
Il Codice dei beni culturali e del paesaggio detta un’attenta disciplina della circolazione dei beni culturali in ambito internazionale, che trova collazione agli artt. 64 bis e ss[12]. Si tratta di un istituto essenziale per la tutela dei beni culturali, dal momento che la fuoriuscita di un determinato bene dai confini nazionali potrebbe compromettere l’integrità stessa del patrimonio culturale. Come stabilito dall’art. 64 bis, comma 3, i beni costituenti il patrimonio culturale, infatti, non sono assimilabili a merci[13].
Per quei beni per i quali il d.lgs. n. 42 del 2004 non stabilisce un divieto di uscita definitiva dal territorio italiano, ai sensi del suo art. 65, questa è possibile previo ottenimento di un attestato di libera circolazione. Il successivo art. 68 del d.lgs. n. 42 del 2004 definisce modalità e tempi per la presentazione dell’istanza volta al rilascio di detto attestato, spettante all’Ufficio esportazione della competente Soprintendenza.
A seguito dello svolgimento del procedimento di cui all’art. 68 citato, l’Ufficio esportazione può proporre al Ministero l’acquisto coattivo della cosa per la quale è richiesto l’attestato di libera circolazione, per il valore indicato nella denuncia, ai sensi dell’art. 69 del d.lgs. n. 42 del 2004, ove sia riconosciuto al bene un interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, bibliografico, documentale o archivistico, ai termini dell’art. 10 del Codice dei beni culturali e del paesaggio.
L’attestato di libera circolazione rientra pacificamente – come riconosciuto nella pronuncia in esame – nella nozione di autorizzazione[14]. Pertanto, ai fini dell’esercizio del potere di annullamento d’ufficio, è assoggettato al limite temporale di dodici mesi dall’adozione del provvedimento.
Le criticità date dalla rigida applicazione di detto termine ai beni culturali si manifestano con tutta evidenza nelle ipotesi, come quella oggetto della pronuncia in esame, in cui solo successivamente al rilascio dell’attestato di libera circolazione – anche a distanza di diversi anni – un bene ritenuto idoneo alla circolazione internazionale, poiché non rientrante nelle ipotesi di “divieto di uscita” ai sensi dell’art. 65 del d.lgs. n. 42 del 2004, si scopre, invece, meritevole di appartenere a questa categoria.
L’ipotesi più insidiosa è proprio quella dell’attribuzione di un dato bene a un determinato autore di fama internazionale, solo a seguito di nuovi studi condotti sull’opera stessa. Così, ad esempio, un quadro per anni attribuito alla scuola/bottega di un certo artista, a seguito di un’attenta attività di restauro viene riconosciuto come di esecuzione diretta del Maestro.
La nuova attribuzione, in questi casi, può incrementare in maniera esponenziale l’importanza, il valore e, di conseguenza, le esigenze di tutela e valorizzazione dello specifico bene culturale.
Negli ultimi anni, sono giunti innanzi al Giudice amministrativo alcuni casi di impugnazioni di provvedimenti di annullamento in autotutela di attestati di libera circolazione, ritenuti illegittimi in ragione del superamento del termine di dodici mesi di cui all’art. 21 nonies, comma 1, che hanno ottenuto una certa risonanza mediatica[15].
Tra questi, appare di rilievo una recente pronuncia del T.A.R. Veneto[16], riguardante l’impugnazione del provvedimento con cui l’Ufficio esportazione di Verona, nel 2023, aveva annullato in autotutela un attestato di libera circolazione rilasciato nel 2019, avente a oggetto un dipinto raffigurante San Francesco in estasi e l’angelo musicante, attribuito al tempo alla bottega del Guercino. L’annullamento trovava giustificazione nella nuova attribuzione dell’opera, avvenuta a seguito di un successivo restauro, al Guercino stesso. Anche in questo caso, l’Amministrazione motivava il superamento del termine di dodici mesi previsto dall’art. 21 nonies, comma 1, della l. n. 241 del 1990 con l’asserita configurabilità dell’eccezione di cui al successivo comma 2 bis, in ragione della condotta omissiva-colposa del privato.
Il T.A.R. Veneto accoglieva il ricorso, affermando che, nel caso di specie, non fosse possibile sostenere la tesi della Soprintendenza, secondo cui il rilascio dell’attestato sarebbe stato indotto da false rappresentazioni e dichiarazioni del denunciante. Sul punto il Giudice ha significativamente evidenziato come “non ogni incompletezza, omissione, errore, imprecisione nella redazione delle istanze può essere valorizzata ai fini del legittimo esercizio dell’autotutela oltre il termine previsto dall’art. 21 nonies, comma 1, legge 241/1990. Occorre, invece, che sussista una “falsa rappresentazione” dei fatti idonea a indurre in errore l’amministrazione, ossia una rappresentazione di fatti divergente dalla realtà (quindi falsa, o anche solo parziale) di cui l’amministrazione non possa avvedersi nel corso di un’ordinaria istruttoria e che disveli, pertanto, un intento fraudolento o malizioso del richiedente, come tale non meritevole di tutela”.
Nei medesimi termini si era in precedenza espresso Cons. Stato, Sez. VI, 21 novembre 2023, n. 9962[17], che aveva ritenuto illegittimo l’annullamento d’ufficio di un attestato di libera circolazione di un dipinto del XVI secolo, attribuito al Bassano, emesso oltre dodici mesi dopo il suo rilascio. L’Amministrazione, anche in questo caso, aveva tentato – senza successo - di sostenere l’applicabilità dell’art. 21 nonies, comma 2 bis.
A pochi mesi fa risale la pronuncia Cons. Stato, Sez. VI, 4 ottobre 2024, n. 8010[18], con cui, invece, è stata confermata la sentenza del T.A.R. Roma, che, in un ulteriore caso di nuova attribuzione di una tela, successivamente al rilascio dell’attestato di libera circolazione, aveva ritenuto legittimo il conseguente provvedimento di annullamento in autotutela dell’Amministrazione, ritenendo configurabile l’ipotesi di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis. Ciò perché, nel caso concreto, la condotta tenuta dal privato è stata valutata come comportante una “lacunosa e ambigua rappresentazione dei fatti, la quale ha impedito all’Amministrazione di formare in maniera pienamente consapevole il proprio giudizio in ordine al valore artistico dell’opera”. Diversi elementi indiziari, infatti, avevano portato il Giudice amministrativo a ritenere che, già al momento della domanda, i proprietari avessero potuto nutrire una qualche aspettativa in ordine all’attribuibilità della tela al Caravaggio, che era stata celata attraverso una condotta tale da impedire all’Amministrazione di disporre di “una piattaforma conoscitiva completa e attendibile su cui fondare la propria determinazione”[19].
Dalle pronunce segnalate – emesse nell’arco di soli due anni – emerge, in primo luogo, che la casistica della nuova attribuzione di un’opera, implicante un incremento del suo valore e della sua importanza per il patrimonio culturale nazionale, a seguito del rilascio di un attestato di libera circolazione, non è un fenomeno statisticamente irrilevante.
In secondo luogo, si comprende come l’orientamento a oggi seguito dalla giurisprudenza sia quello di negare la possibilità per le Amministrazioni di annullare in autotutela, oltre il termine di dodici mesi, gli attestati di libera circolazione previamente emessi. L’unica possibilità per un annullamento tardivo si ha al ricorrere dei presupposti di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis e, in particolare, dando dimostrazione di un quadro indiziario dal quale emerge un comportamento malizioso o fraudolento del richiedente.
È di interesse segnalare che la giurisprudenza sopra richiamata ha messo in allarme il Ministero della Cultura che, con la recente circolare n. 21 del 2024 della Direzione Generale Archeologia Belle Arti e Paesaggio, preso atto dell’orientamento del g.a., ha invitato gli Uffici competenti “per evitare l’irrimediabile uscita dal territorio nazionale di opere d’arte che, onde opportunamente presente agli uffici esportazione, non avrebbero ricevuto l’attestato di libera circolazione” a voler dichiarare l’improcedibilità dell’istanza nei casi in cui “la mancanza o insufficienza di informazioni unitamente alla scarsa leggibilità dell’opera non consentano la adeguata valutazione dell’interesse culturale”[20].
La breve ricostruzione della recente giurisprudenza sul tema di cui si discute chiarisce quale sia lo sfondo su cui la sentenza in commento ha sviluppato le proprie riflessioni, sfondo caratterizzato dall’urgenza di trovare risposta a un sentito problema concreto che investe il mercato dell’arte e le Amministrazioni preposte alla tutela del patrimonio culturale.
Tale situazione critica è stata emblematicamente descritta dal Consiglio di Stato nella pronuncia in analisi, ove ha rilevato che “vi è un ampio ventaglio di casi, tra cui rientra quello concreto in esame, in cui non è configurabile (ovvero non è raggiunta piena prova della configurabilità) una ‘falsa rappresentazione dei fatti’ o non sono intervenute ‘dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato’ e cionondimeno non può ragionevolmente sostenersi l’incondizionata prevalenza dell’interesse privato alla conservazione della situazione di vantaggio solo in ragione del suo consolidamento per decorso del tempo essendosi verificato un vero e proprio ‘aliud pro alio’ suscettibile di recare un nocumento irreversibile al patrimonio culturale della Nazione in un contesto ove l’accertamento della paternità dell’opera si presentava incerto”.
4. La non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale.
Appare di particolare interesse l’esame delle ragioni evidenziate dal Consiglio di Stato nella pronuncia in commento per motivare la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata.
Innanzitutto, la manifesta irragionevolezza della scelta del legislatore, secondo il Collegio, si riscontra nella circostanza che il termine di dodici mesi per l’annullamento d’ufficio si applica indistintamente ai provvedimenti attributivi di vantaggi economici e alle autorizzazioni incidenti su interessi sensibili e primari, quali la tutela del patrimonio culturale, che costituisce un principio fondamentale dell’ordinamento.
Tale previsione, eliminando la discrezionalità dell’amministrazione con riferimento al “quando”, impedisce, secondo il Consiglio di Stato, di soppesare adeguatamente gli interessi contrapposti, attribuendo un’automatica prevalenza a quello del privato alla conservazione del provvedimento. In questo modo, risulta compromesso quel modello delineato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale di continuo e vicendevole bilanciamento tra principi e diritti [21].
Un’ulteriore ragione viene individuata ponendo l’attenzione sulla natura dei poteri di autotutela, i quali, in particolare, presentano una causa mista, a metà strada tra la dimensione giustiziale e quella di amministrazione attiva, grazie alla quale è garantita la cura dell’interesse pubblico sotteso al provvedimento annullato. Una limitazione all’esercizio di tali poteri, in presenza di interessi pubblici tanto rilevanti come quello alla tutela del patrimonio culturale, si traduce nella preclusione alla spendita di altri profili di capacità speciale autoritativa dell’amministrazione.
Un rilevante argomento a sostegno della manifesta irragionevolezza della normativa di cui si discute è individuato effettuando un confronto con ulteriori disposizioni contenute nella l. n. 241 del 1990, che prevedono eccezioni all’applicazione della regola generale, quando entrano in gioco interessi sensibili quali la tutela dell’ambiente e dei beni culturali.
Viene fatto riferimento, più precisamente, alle seguenti disposizioni: l’art. 19, comma 1, che detta l’inapplicabilità della disciplina della SCIA nei casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali; l’art. 20, comma 4, che esclude l’operatività del meccanismo del silenzio assenso per i procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico e, infine, gli art. 14 bis, 14 ter e 14 quinquies che, in materia di conferenza di servizi, prevedono regole speciali relative ai termini del procedimento e al superamento dei dissensi espressi, qualora si tratti di amministrazioni preposte alla tutela ambiente, paesaggistico-territoriale o dei beni culturali[22].
Tutte le ipotesi citate sono accomunate dalla previsione di una dilatazione dei tempi di valutazione riservati all’Amministrazione e si prestano, pertanto, ad essere paragonate all’art. 21 nonies, comma 1, in esame.
Il Consiglio di Stato, dopo aver elencato tale casistica, previene facili rilievi critici, specificando che l’art. 17 bis della l. n. 241 del 1990, disciplinante il silenzio assenso tra le Amministrazioni, applicabile espressamente anche quando oggetto del procedimento sono interessi sensibili quali quelli ambientali e culturali, non è idoneo a svalutare l’argomento sopra richiamato. Ciò perché tale istituto vede il confronto orizzontale tra diversi interessi parimenti pubblici[23].
Ancora, non vale a escludere la manifesta irragionevolezza del limite temporale di cui si discute, ove rapportato a interessi sensibili, l’ampliamento dei termini per l’annullamento d’ufficio previsto dal più volte richiamato comma 2 bis dell’art. 21 nonies della l. n. 241 del 1990. Questo, infatti, come evidenziato dal Consiglio di Stato, ha un ambito di applicazione molto ristretto e manca, in radice, un legittimo affidamento del privato da bilanciare con un dato interesse sensibile.
Come ultimo profilo, viene esaminato quello della discrezionalità, indagato sotto una duplice prospettiva.
Da un lato, il Collegio parla dell’erosione della discrezionalità del legislatore con riferimento alla materia dei beni culturali, in ragione degli impegni assunti dallo Stato a livello internazionale, ai sensi dell’art. 117, comma 1, Cost. In particolare, si fa riferimento agli art. 1, lett. b) e d) e 5, lett. a) e b) della Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società, firmata a Faro il 27 ottobre 2005, i quali sanciscono una responsabilità non solo individuale, ma anche collettiva alla tutela del patrimonio culturale. In questa prospettiva, la promozione della protezione dell’eredità culturale deve essere raggiunta anche “predisponendo soluzioni normative che non siano d’ostacolo alla realizzazione di tale scopo”.
Secondo un’altra prospettiva, viene messo in luce come il procedimento volto al rilascio dell’attestato di libera circolazione sia caratterizzato dall’esercizio di discrezionalità tecnica[24], ove è necessario fare ricorso a conoscenze di settore mobili e in evoluzione, prive di quella certezza propria delle c.d. scienze dure. Anche per questa ragione “manifestamente irragionevole nonché lesivo del valore del buon andamento e dell’obiettivo di tutela del patrimonio storico e artistico della Nazione si rivela, dunque, la previsione di un termine per l’esercizio del potere di autoannullamento rigido e, come tale, assolutamente insensibile all’irriducibilità, importanza e peculiarità del caso concreto”.
Sviscerate le criticità insite nella previsione di cui all’art. 21 nonies, comma 1, della l. n. 241 del 1990, con riferimento al limite rigido di dodici mesi dettato per l’esercizio dell’annullamento in autotutela anche per provvedimenti inerenti ai beni culturali, il Collegio ha concluso il proprio iter argomentativo affermando che sarebbe necessario ripristinare anche in questi casi l’applicabilità del “termine ragionevole”, così da permettere una reale ponderazione degli interessi coinvolti[25].
5. Brevi osservazioni conclusive.
La pronuncia in commento ha il pregio di aver posto in evidenza una fragilità del nostro ordinamento, capace di mettere a rischio l’effettività del principio della tutela del patrimonio culturale, sancito, in primo luogo, dall’art. 9 della Costituzione.
Come sopra evidenziato, le Amministrazioni competenti alla tutela del patrimonio culturale, al verificarsi di ipotesi di veri e propri aliud pro alio, si trovano prive di strumenti idonei a fronteggiare il mutamento della situazione originaria e, quindi, obbligate a tentare non lineari interpretazioni della normativa – come il ricorso all’eccezione di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis, della l. n. 241 del 1990 – al fine di assicurare l’effettività della tutela.
L’introduzione di precisi limiti all’emanazione di provvedimenti di secondo grado risponde con tutta evidenza all’esigenza avvertita nel nostro ordinamento di dare certezza all’affidamento dei privati[26]. La recente restrizione, da diciotto a dodici mesi, del tempo massimo previsto per l’autoannullamento dà ulteriore dimostrazione di come il legislatore voglia evitare che la spada di Damocle dell’annullamento d’ufficio possa fungere da limite per la certezza dei rapporti giuridici. Viene, così, implicitamente dichiarato che tra l’esigenza di ripristino della legalità violata e la tutela dell’affidamento del privato – anche vista in un’ottica di semplificazione giuridica – la seconda, nell'attuale contesto economico-sociale, è considerata prioritaria[27].
L’avversione per una generale applicazione del “termine ragionevole” all’annullamento d’ufficio risiede certamente anche in una tradizionale diffidenza per l’esercizio della discrezionalità da parte delle pubbliche Amministrazioni[28].
Sul punto, sembra di interesse evidenziare che i recenti approdi del nostro legislatore in materia di contrattualistica pubblica - in cui si è assistito a un recupero e a una valorizzazione della discrezionalità amministrativa, considerata quale indispensabile strumento per una buona amministrazione[29] – ma più in generale il consolidarsi delle critiche avanzate dalla dottrina in relazione ai meccanismi di semplificazione introdotti nel procedimento amministrativo – fanno ipotizzare che la riscoperta della discrezionalità possa divenire una nuova tendenza generale per l’intera attività amministrativa.
Il ritorno alla discrezionalità – e quindi anche alla fiducia nell’attività della pubblica Amministrazione – appare indispensabile laddove in gioco vi siano interessi sensibili, che non possono essere sacrificati in via automatica in favore di un legittimo affidamento del privato.
In attesa di conoscere la decisione della Corte costituzionale sulla questione di legittimità sollevata, la pronuncia in esame fornisce, in ogni caso, al legislatore una chiara indicazione sui pericoli determinati dall’eliminazione di ogni possibilità per l’Amministrazione di svolgere un concreto bilanciamento di interessi, quando un determinato procedimento intercetti principi fondamentali, che trovano specifica collocazione e tutela nella Costituzione.
Si noti che l’interesse dei destinatari del provvedimento rimarrebbe, in ogni caso, in forza del testo dell’art. 21 nonies, comma 1, uno dei parametri sui quali l’Amministrazione deve fondare la propria decisione.
Nonostante la generale condivisibilità dei rilievi offerti dalla pronuncia in esame, non va sottaciuto che l’eventuale reintroduzione del “termine ragionevole” non appare priva di profili problematici. Questo, in ragione della sua indeterminatezza e dell’inevitabile soggettività che ne caratterizza l’esercizio, potrebbe generare situazioni di grande criticità nel mercato dell’arte. Il principio di proporzionalità, oltre che gli insegnamenti già elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza con riferimento alla portata del “termine ragionevole” dovranno fungere inevitabilmente da guida nell’esercizio dei poteri di autoannullamento[30].
[1] In termini generali, sulla circolazione internazionale dei beni culturali in dottrina si vedano, ex multis, A. Lanciotti, La Circolazione dei beni culturali nel diritto internazionale privato e comunitario, Napoli, 1996; M. Frigo, La circolazione internazionale dei beni culturali. Diritto internazionale, diritto comunitario e diritto interno, Milano, 2007; F. Lafrange, La circolazione internazionale dei beni culturali dopo le modifiche al Codice, in Aedon, 2009; P. Venditti, La circolazione dei beni culturali in ambito internazionale e la tutela del proprietario in caso di trasferimento illecito o illegale, in Arte e Diritto, 2024, 1, 85 ss. Con specifico riferimento all’attestato di libera circolazione si veda, tra i molti commentari al Codice dei beni culturali e del paesaggio, C. Ferrazzi, Commento all’art. 68, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dei beni culturali e del paesaggio, Milano, 2019, 675 ss.
[2] Cfr. T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II-quater, 19 luglio 2022, n. 10294, in www.giustizia-amministrativa.it.
[3] Di seguito il testo dell’art. 21 nonies, comma 1, della l. n. 241 del 1990: “Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a dodici mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all'adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo”.
[4] Si riporta il testo dell’art. 21 nonies, comma 2 bis, della l. n. 241 del 1990: “I provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall'amministrazione anche dopo la scadenza del termine di dodici mesi di cui al comma 1, fatta salva l'applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445”.
[5] Sull’annullamento d’ufficio si vedano, tra i più recenti contributi dottrinali, M. Sinisi, Autotutela e governo del territorio, in Riv. giur. ed., 2024, 2, 157 ss.; Id., Il potere di autotutela caducatoria (art. 21-quinquies e 21-nonies l. n. 241 del 1990 s.m.i.), in M.A. Sandulli (a cura di), principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, 2023, 543 ss.; M.A. Sandulli, G. Strazza, L’autotutela tra vecchie e nuove incertezze: l’Adunanza plenaria rilegge il testo originario dell’art. 21 nonies, l. n. 241 del 1990, in S. Toschei (a cura di), L’attività nomofilattica del Consiglio di Stato, Roma, 2018; M.A. Sandulli, Autotutela e stabilità del provvedimento nel prisma del diritto europeo, in P.L. Portaluri (a cura di), L’amministrazione pubblica nel prisma del cambiamento: il codice dei contratti e la riforma Madia, Napoli, 2017; C. Deodato, L’annullamento d’ufficio, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017; 1173 ss. e F. Francario, Riesercizio del potere amministrativo e stabilità degli effetti giuridici, in Federalismi.it, 8, 2017; A. Carbone, Il termine per esercitare l’annullamento d’ufficio, in A. Rallo, A. Scognamiglio, I rimedi contro la cattiva amministrazione, Napoli, 2016, 85 ss.
[6] Sulla corretta individuazione del “termine ragionevole” di cui all’art. 21 nonies, comma 1, in giurisprudenza si vedano, ad esempio, Cons. Stato, Sez. IV, 21 agosto 2024, n. 7188, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 18 aprile 2024, n. 7672, in Red. Giuffrè, 2024; T.A.R. Calabria, Catanzaro, Sez. I, 3 febbraio 2023, n. 184, ivi, 2022 e soprattutto, con riferimento al permesso di costruire, Cons. Stato, Ad. plen. 17 ottobre 2017, n. 8, in Riv. giur. ed., 2017, 5, I, 1089, con nota di N. Posteraro.
[7] Uno specifico termine – in origine di diciotto mesi – per l’annullamento d’ufficio dei provvedimenti di autorizzazione e attribuzione di vantaggi economici, come noto, è stato introdotto per la prima volta dalla legge n. 124 del 2015. Questo è stato portato agli attuali dodici mesi dall’ art. 63 del d.l. 77 del 2021, convertito in l. n. 108 del 2021.
[8] In giurisprudenza in questi termini si segnalano, tra le più recenti pronunce, T.A.R. Sicilia Palermo, Sez. III, 10 luglio 2024, n. 2192, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Sez. VI, 27 febbraio 2024, n. 1926, in Riv. giur. ed., 2024, 2, I, 307; Id, Sez. IV, 18 marzo 2021, n. 2392, ivi, 2021, 3, I, 921 e Id, Sez. V, 27 giugno 2018, n. 3940, ivi, 2018, 3, I, 680.
[9] La distinzione è rilevante – ed espressamente menzionata – anche nella pronuncia in commento, riguardante un’ipotesi di potenziale falsa rappresentazione dei fatti, per la quale, tuttavia, come accennato nel primo paragrafo, l’Amministrazione non ha ritenuto sussistente un quadro indiziario univoco tale da provare simile condotta. In questo caso, pertanto, non è stata ritenuta applicabile l’eccezione alla regola generale del limite dei dodici mesi per procedere all’annullamento d’ufficio.
[10] Sull’autotutela doverosa, in dottrina, tra i più recenti contributi, si vedano, ex multis, N. Posteraro, Il dovere di provvedere a fronte di una richiesta di annullamento in autotutela, in M.A. Sandulli (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, cit., 359-361; M. Giavazzi, Legalità, certezza del diritto e autotutela: riflessioni sulla funzionalizzazione dell’annullamento d’ufficio all’effetto utile, in CERIDAP, 4, 2020; F.V. Virzì, La doverosità del potere d’annullamento d’ufficio, in Federalismi.it, 14, 2018; S. Tuccillo, Autotutela: potere doveroso?, ivi, 16, 2016; N. Posteraro, Sulla possibile configurazione di un’autotutela doverosa (anche alla luce del codice dei contratti pubblici e della Adunanza Plenaria n. 8 del 2017), ivi, 20, 2017; G. Manfredi, Annullamento doveroso?, in P.A. Persona e Amministrazione, 2017; C. Deodato, L’annullamento d’ufficio, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, cit., 1190 ss.
[11] Cfr. N. Durante, L’autotutela doverosa, in www.giustizia-amministrativa.it, 2022. Un’attenta ricostruzione dell’autotutela doverosa è stata recentemente svolta da Cons. Stato, Sez. II, 2 novembre 2023, n. 9415, in questa Rivista, 2024, con nota di F. Campolo. Nella citata sentenza il Consiglio di Stato ha chiarito come l’ipotesi di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis costituisca un caso di autotutela doverosa parziale, da intendersi non come individuante un obbligo di emanare senz’altro un provvedimento di secondo grado, ma solo nel senso di imporre la valutazione dell’istanza di autotutela presentata dal privato interessato, oltre i termini di legge, verificando la sussistenza dei presupposti di cui al suo primo comma.
[12] Per i riferimenti dottrinali in materia di circolazione internazionale dei beni culturali e attestato di libera circolazione si rimanda a quanto indicato sub nota 1.
[13] L’art. 64 bis, comma 3 del d.lgs. n. 42 del 2004, più precisamente, stabilisce che “Con riferimento al regime della circolazione internazionale, i beni costituenti il patrimonio culturale non sono assimilabili a merci”.
[14] Si legge nella sentenza in commento che “La nozione tradizionale di ‘autorizzazione’, inteso come provvedimento ampliativo della sfera giuridica del privato beneficiario consistente nella rimozione di un ostacolo all’esercizio di una facoltà spettante allo stesso, è talmente ampia, nell’interpretazione costante della giurisprudenza amministrativa [...] da farvi rientrare anche atti che vanno a influire sulla tutela di interessi di rango super-primario e tendenzialmente poziore rispetto all’affidamento del privato alla stabilità del titolo ottenuto”.
[15] A dimostrazione di come il problema legato alla nuova attribuzione di un’opera solo a seguito dell’avvenuto rilascio dell’attestato di libera circolazione sia molto sentito nel settore del mercato dell’arte si veda M. Lampertico, L. Castelli, I problemi giuridici di maggiore attualità nel mercato dell'arte: dialogo tra un giurista e un gallerista, in Arte e Diritto,1, 2024, 163 ss.
[16] Cfr. T.A.R. Veneto, 31 gennaio 2024, n. 182, in www.giustizia-amministrativa.it. La pronuncia ha avuto un certo risalto mediatico ed è stata commentata, ad esempio, da M. Pirelli, Guercino: il Tar del Veneto sblocca l’uscita. Il MiC non può annullare il via libera all’export perché cambia l’attribuzione, in www.sole24ore.com, 13 febbraio 2024.
[17] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 21 novembre 2023, n. 9962, in Red. Giuffrè, 2024.
[18] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 4 ottobre 2024, n. 8010, in www.giustizia-amministrativa.it.
[19] Nel caso oggetto della pronuncia Cons. Stato n. 8010/2024, cit., è di interesse segnalare le valutazioni svolte dal Collegio, a dimostrazione del comportamento fraudolento della parte: “Basti in proposito osservare che:
- rilevante ai fini della possibile attribuzione al Caravaggio è stata ritenuta, come pure si legge nel catalogo della mostra tenutasi nel settembre 2012 e curata dal Prof. -OMISSIS-, la circostanza, taciuta in sede di istanza, della provenienza del dipinto da una collezione storica polacca nella quale si tramandava il ricordo della provenienza della tela da collezioni della famiglia romana -OMISSIS-;
- parimenti rilevanti ai fini della possibile attribuibilità dell'opera al Caravaggio sono state considerate le dimensioni del dipinto (in quanto analoghe all'opera caravaggesca "La buona ventura"), dati sui quali sono state forniti dall'istante indicazioni ondivaghe ed errate;
- le sopraricordate indagini scientifiche e l'intervento di restauro hanno avuto, con ogni probabilità, costi non trascurabili difficilmente giustificabili dal punto di vista economico con riguardo ad un'opera considerata una copia priva di valore;
- l'organizzazione della prima mostra-convegno in cui è stata pubblicamente affermata l'attribuibilità al Caravaggio dell'opera di che trattasi ha avuto luogo, per stessa ammissione di parte, in Santa Maria Tiberina (PG) dal 29 settembre 2012, a distanza brevissima di tempo (circa tre mesi) dalla presentazione della domanda di rilascio di attestato di libera circolazione (avvenuta in data 14 giugno 2012) il che lascia ritenere, secondo l'id quod plerumque accidit, che la stessa proprietà potesse nutrire, al momento della domanda, una qualche aspettativa in ordine alla attribuibilità al Caravaggio;
- se la proprietà avesse allegato all'istanza del 18 novembre 2014 l'originario attestato di libera circolazione n. 5180 del 2012, l'Ufficio esportazione sarebbe stato messo in condizione di apprezzare il sopravvenuto cambio di attribuzione, prezzo e proprietà dell'opera e, quindi, di prendere in considerazione tale fondamentale aspetto nell'adozione delle determinazioni di competenza”.
[20] La citata circolare n. 21 del 24 maggio 2024, avente ad oggetto “Uscita definitiva dal territorio della Repubblica – Denuncia priva di indicazioni attendibili e presentazione di opere in stato conservativo precario – Improcedibilità” è consultabile in www.dgabap.gov.it.
[21] Viene, in proposito, citata la notissima pronuncia Corte cost., 9 maggio 2013, n. 85, inerente al c.d. “Caso Ilva”, in Giur. cost., 2013, 3, 1424.
Ciò appare, secondo il Giudice, ancora più irragionevole se si considera che "in forza di esso, un interesse pubblico così pregnante e che si lega alla cura di un bene di primario rilievo costituzionale come quello alla tutela del patrimonio storico e artistico si rivela sempre meccanicamente recessivo, per effetto del mero decorso del tempo, rispetto alla tutela di una situazione giuridica a matrice individuale. Tale è, infatti, l’affidamento la cui tutela rafforzata costituisce la ratio del termine annuale ex art. 21 nonies della l n. 241 del 1990. Esso resta, infatti, pur sempre una ’posizione giuridica soggettiva’ che può alternativamente riferirsi ed inerire ad un diritto soggettivo o ad un interesse legittimo e che, nelle sue origini civilistiche, ’risponde all’esigenza di riconoscere tutela alla fiducia ragionevolmente riposta sull’esistenza di una situazione apparentemente corrispondente a quella reale’”.
[22] Con specifico riferimento alle peculiarità del procedimento amministrativo in presenza di interessi sensibili, si vedano, ex multis, R. Leonardi, La tutela dell'interesse ambientale, tra procedimenti, dissensi e silenzi, Torino, 2020; G. Mari, ‘Primarietà’ degli interessi sensibili e relativa garanzia nel silenzio assenso tra pp.aa. e nella conferenza di servizi, in Riv. giur. ed., 2017, 5, 305 ss. e A. Moliterni, Semplificazione amministrativa e tutela degli interessi sensibili: alla ricerca di un equilibrio, in Dir. amm., 2017, 4, 699 ss.
[23] Osserva in proposito il Collegio che il silenzio assenso opera in questo caso, a differenza di quello verticale, non a favore di un privato, ma a favore di una pubblica amministrazione, che dovrà poi comunque farsi carico del bilanciamento degli interessi rilevanti e, in ogni caso, stabilendo un termine più lungo per la formazione del silenzio assenso, e facendo salivi i diversi termini previsti dalle norme speciali.
[24] Sulla discrezionalità tecnica caratterizzate il procedimento di rilascio dell’attestato di libera circolazione, cfr., in giurisprudenza, tra le pronunce più recenti, Cons. Stato, Sez. VI, 19 novembre 2024, n. 9285, in www.giustizia-amministrativa.it; Id., 13 ottobre 2023, n. 8983, ivi; T.A.R. Firenze, Sez. I, 22 marzo 2024, n. 335, ivi; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 1° marzo 2021, n. 2501, in Foro amm. – T.A.R., 2021, 3, 550.
[25] Con specifico riferimento alla controversia oggetto della pronuncia, il Collegio ha sottolineato che “la riespansione – in caso di accoglimento della questione sollevata – del termine flessibile ancorato al parametro generale della ragionevolezza consentirebbe, invece, di valorizzare, ai fini della spendita del potere di ritiro (pur con il limite della durata ragionevole a tutela degli affidamenti privati), ogni aspetto in fatto della singola vicenda indipendentemente da una logica di chiara imputabilità alla parte privata di una falsa rappresentazione dei fatti (spesso difficile da ritenersi come nella specie è evidente, pur in presenza di un oggettivo aliud pro alio e del rischio che possa porsi in essere l’esportazione di un capolavoro ove non sia stato apprezzato compiutamente il valore culturale che sempre inibirebbe l’uscita dal territorio)”.
[26] Sull’affidamento dei privati nei confronti della pubblica Amministrazione, tra i più recenti contributi, si vedano G. Tulumello, La tutela dell’affidamento del privato nei confronti della pubblica amministrazione tra ideologia e dogmatica, in Giustamm.it, 5, 2022 e R. Fusco, I limiti dell'autotutela decisoria in materia edilizia: il difficile equilibrio tra il contrasto all'abusivismo e la tutela dell'affidamento dei privati, in Riv. giur. ed., 2020, 1, 15 ss.
[27] A. Carbone, Il termine per esercitare l’annullamento d’ufficio, cit., 94, evidenzia che la l. n. 124 del 2015 ha introdotto “una decadenza in senso proprio dell’esercizio del potere di annullamento da parte dell’Amministrazione, che trova la propria giustificazione nell’esigenza di garantire per quelle particolari tipologie di atti, l’affidamento del singolo, in maniera più pregnante rispetto al mero contemperamento con gli altri interessi che vengono in rilievo nella specifica fattispecie: detto affidamento, infatti, nel momento in cui è correlato con una preclusione all’annullamento d’ufficio, gode di una tutela in sé considerata”.
[28] S. Toschei, Il recupero del primato della discrezionalità nel nuovo codice dei contratti pubblici del 2023, in F. Francario, M.A. Sandulli (a cura di), Sindacato sulla discrezionalità e ambito del giudizio di cognizione, Napoli, 2023, 387 ss., ha in proposito emblematicamente evidenziato che la discrezionalità “viene posta sul banco degli imputati come se costituisse uno strumento di debolezza dell’esercizio del potere e, al tempo, un meccanismo diabolico di proliferazione del malaffare, atteso che nelle pieghe della discrezionalità non si nasconde soltanto il rischio di comportamenti viziati da accesso di potere ma soprattutto di interventi deviati da obiettivi oppositivi rispetto alla cura dell’interesse pubblico, con lo scopo di conseguire soddisfazioni personali e illegali”.
[29] Tra i molti contributi recentemente elaborati in merito al recupero della discrezionalità nel nuovo Codice dei contratti pubblici si veda S. Toschei, Il recupero del primato della discrezionalità nel nuovo codice dei contratti pubblici del 2023, cit., 387 ss.
[30]Sul punto si rimanda a M. Sinisi, Il potere di autotutela caducatoria, cit. e alla dottrina e giurisprudenza ivi menzionata.
Una prima soluzione interpretativa potrebbe essere offerta valorizzando i rilievi della citata Adunanza plenaria n. 8 del 2017, espressasi con riferimento all’onere motivazionale cui è tenuta l’Amministrazione nell’autoannullare un provvedimento, dopo che sia trascorso un notevole lasso di tempo dalla sua adozione. “Nella vigenza dell'art. 21 nonies, l. 7 agosto 1990, n. 241 — introdotto dalla l. 11 febbraio 2005, n. 15 — l'annullamento d'ufficio di un titolo edilizio in sanatoria, intervenuto ad una distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato, deve essere motivato in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all'adozione dell'atto di ritiro anche tenuto conto degli interessi dei privati destinatari del provvedimento sfavorevole. In tali ipotesi, tuttavia, deve ritenersi: a) che il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consumi il potere di adozione dell'annullamento d'ufficio e che, in ogni caso, il termine ‘ragionevole' per la sua adozione decorra soltanto dal momento della scoperta, da parte dell'amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell'atto di ritiro; b) che l'onere motivazionale gravante sull'amministrazione risulterà attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati (al punto che, nelle ipotesi di maggior rilievo, esso potrà essere soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che risultano in concreto violate, che normalmente possano integrare, ove necessario, le ragioni di interesse pubblico che depongano nel senso dell'esercizio del ius poenitendi); c) che la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell'atto illegittimo a lui favorevole non consente di configurare in capo a lui una posizione di affidamento legittimo, con la conseguenza per cui l'onere motivazionale gravante sull'amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte” .
Sommario: 1. La questione controversa - 2. La disciplina emergenziale dei termini di decadenza e di prescrizione per la notifica degli atti degli enti impositori statali - 3. La disciplina emergenziale dei termini di decadenza e di prescrizione per la notifica degli atti degli enti impositori territoriali - 4. La disciplina emergenziale dei termini di decadenza e prescrizione per la notifica degli atti da parte dell’Agente della riscossione - 5. Auspicio conclusivo.
1. La questione controversa
La disciplina emergenziale Covid sui termini di decadenza e di prescrizione a carico degli enti impositori e dell’agente della riscossione, con il rincorrersi di scomposti interventi normativi e continue proroghe, ha indubbiamente creato più problemi che risolverne, lasciando malsani strascichi che si trascinano a tutt’oggi.
A fronte delle divergenti interpretazioni del dettato normativo sulla portata della “sospensione” dei termini, ovvero se valevole solo per quelli in scadenza nell’arco temporale individuato dalle norme, o “a cascata”, con spostamento in avanti anche dei termini di mero transito, la Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Gorizia, con ordinanze del 13 e del 18 novembre 2024, e quella di Lecce, con ordinanza del 19 novembre 2024, avevano proposto rinvii pregiudiziali ex art. 363-bis c.p.c. con particolare riferimento alla disciplina prevista dall’art. 67, d.l. n. 18/2020.
Con provvedimento del 23 gennaio 2025, la Prima Presidente della Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibili i rinvii pregiudiziali in quanto la questione dell’interpretazione dell’art. 67 d.l. n. 18/2020 è stata nelle more “affrontata e risolta” dalla Suprema Corte, Sez. I civile, con l’ordinanza 15 gennaio 2025, n. 960. La Corte di Cassazione, nell’ordinanza, ha affrontato il tema in riferimento alla prescrizione di crediti non tributari azionati dall’agente della riscossione tramite l’insinuazione al passivo nel fallimento (liquidazione giudiziale) eccepita rispetto ad avvisi di addebito o intimazioni di pagamento in precedenza notificati. Avendo l’agente della riscossione opposto la sospensione Covid (peraltro ex art. 68, e non 67, d.l. n. 18/2020), la Corte ha ritenuto che, comportando “le disposizioni in materia di sospensione dei termini di versamento dei tributi”, o contributi, a favore dei soggetti interessati da eventi eccezionali, “per un corrispondente periodo di tempo, relativamente alle stesse entrate, la sospensione dei termini previsti per gli adempimenti anche processuali, nonché la sospensione dei termini di prescrizione e decadenza in materia di liquidazione, controllo, accertamento, contenzioso e riscossione a favore degli enti impositori, degli enti previdenziali e assistenziali e degli agenti della riscossione”, come disposto dall’art. 12, comma 1, d.lgs. n. 159/2015 richiamato dal comma 4 dall’art. 67, e dall’art. 68, d.l. n. 18/2020, deve ritenersi applicabile la sospensione dei termini di prescrizione e decadenza, non soltanto in relazione alle attività da compiersi nell’arco temporale normativamente previsto, ma anche alle attività non in scadenza. In sostanza, con uno spostamento in avanti del decorso dei termini per la stessa durata della sospensione.
Se è vero che la questione è stata “affrontata” e “decisa” dalla Prima Sezione della Cassazione, per cui è venuto meno il presupposto del rinvio pregiudiziale, tuttavia non può affatto dirsi che essa sia stata “risolta” con l’ordinanza n. 960/2025.
La questione, infatti, a parere di chi scrive, necessita di migliore approfondimento, in particolare in ambito tributario, rispetto al mero esame letterale, effettuato dalla Suprema Corte, del solo primo periodo del comma 1 dell’art. 12, d.lgs. n. 159/2015, richiamato dall’art. 67, comma 4, d.l. n. 18/2020. Occorre, infatti, sforzandosi di superare la naturale resistenza ad affrontare il ginepraio davanti al quale ci si trova, procedere, con umiltà e pazienza, nell’esame integrale del dato normativo. E, così facendo, comprendere che non si va da nessuna parte se non ci si avvede che la disciplina di riferimento non è affatto una sola, ma ce ne sono almeno tre (la terza, come si vedrà, declinata in una serie di plurime differenziate proroghe).
La prima disciplina riguarda i termini di decadenza[1] e di prescrizione per la notifica degli atti degli enti impositori statali; la seconda concerne i termini di decadenza e di prescrizione per la notifica degli atti degli enti impositori territoriali; la terza, infine, attiene ai termini di decadenza e di prescrizione per la notifica degli atti da parte dell’agente della riscossione. Tutte e tre sono connotate da regole proprie, non confondibili tra loro. L’unico dato parzialmente comune è costituito dal rinvio all’art. 12, d.lgs. n. 159/2015, sebbene ad esso, significativamente, le norme emergenziali Covid facciano rimando in modo assai diverso.
2. La disciplina emergenziale dei termini di decadenza e di prescrizione per la notifica degli atti degli enti impositori statali
Dopo un primissimo intervento sulle misure di gestione del fenomeno pandemico delimitate alla c.d. zona rossa, con l’art. 67 del d.l. 17 marzo 2020, n. 18, intitolato “Sospensione dei termini relativi all’attività degli uffici degli enti impositori”, il legislatore ha stabilito, al comma 1, che “sono sospesi dall'8 marzo al 31 maggio 2020 i termini relativi alle attività di liquidazione, di controllo, di accertamento, di riscossione e di contenzioso, da parte degli uffici degli enti impositori”. Sempre al comma 1, il legislatore ha previsto, per lo stesso periodo, la sospensione di ulteriori termini[2], dettando, poi, al comma 2, altre disposizioni relative agli interpelli e, al comma 3, altre ancora relative alla sospensione, sempre dall’8 marzo al 31 maggio 2020, delle attività non aventi carattere di indifferibilità ed urgenza ivi elencate.
Con il comma 4, il legislatore ha, infine, disposto che, “con riferimento ai termini di prescrizione e decadenza relativi all'attività degli uffici degli enti impositori si applica, anche in deroga alle disposizioni dell'articolo 3, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212, l’art. 12, commi 1 e 3, del decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 159”. Giova subito evidenziare che nell’originaria formulazione il riferimento era tout court all’art. 12, d.lgs. n. 159/2015, e l’espressa indicazione dei soli commi 1 e 3, con esclusione, quindi, del comma 2 del citato art. 12, è stata inserita dalla legge di conversione 24 aprile 2020, n. 27.
Poco dopo, il legislatore è, però, nuovamente intervenuto, prescrivendo, con l’art. 157 del d.l. 19 maggio 2020, n. 34, per quanto qui interessa, al comma 1, che, “in deroga a quanto previsto dall'articolo 3 della legge 27 luglio 2000, n, 212, gli atti di accertamento, di contestazione, di irrogazione delle sanzioni, di recupero dei crediti d'imposta, di liquidazione e di rettifica e liquidazione, per i quali i termini di decadenza, calcolati senza tener conto del periodo di sospensione di cui all'articolo 67, comma 1, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, scadono tra l'8 marzo 2020 e il 31 dicembre 2020, sono emessi entro il 31 dicembre 2020 e sono notificati nel periodo compreso tra il 1° marzo 2021 e il 28 febbraio 2022, salvi casi di indifferibilità e urgenza, o al fine del perfezionamento degli adempimenti fiscali che richiedono il contestuale versamento di tributi”.
Al comma 7-bis, aggiunto all’art. 157 in sede di conversione, il legislatore ha precisato che “le disposizioni contenute nel presente articolo non si applicano alle entrate degli enti territoriali”.
Si è, quindi, realizzata una diversificata disciplina dei termini degli enti impositori, per le entrate erariali, da un lato, e per le entrate degli enti locali, dall’altro.
Con riguardo alle prime, l’art. 157, comma 1, d.l. n. 34/2020, ha inequivocabilmente portato al superamento del periodo di “sospensione” (dall’8 marzo al 31 maggio 2020, che, inclusa la data iniziale, è pari a 85 giorni) di cui all'articolo 67, comma 1, d.l. n. 18/2020, del quale, infatti, è espressamente indicato nello stesso art. 157 di non doversi tenere conto per il calcolo del termine di decadenza.
Deve, dunque, ritenersi che, in forza di quanto disposto dal subentrato art. 157, per gli atti di accertamento, di contestazione, di irrogazione delle sanzioni, di recupero dei crediti d'imposta, di liquidazione e di rettifica e liquidazione relativi a tributi erariali, per i quali i termini di decadenza andavano a scadere tra l'8 marzo e il 31 dicembre 2020, la regola sia che, esclusa la rilevanza del periodo di sospensione indicato nell’art. 67, essi andavano “emessi”[3] entro il naturale termine di decadenza del 31 dicembre 2020, e, poi, dovevano essere “notificati, successivamente, nel periodo compreso”, all’esito di proroghe, “tra il 1° marzo 2021 e il 28 febbraio 2022”.
Siffatta conclusione, che circoscrive la disciplina emergenziale per il termine decadenziale di notifica degli accertamenti tributari dell’ente impositore erariale a quanto prescritto dall’art. 157 comma 1, d.l. n. 34/2020, discende, sia dalla compiuta disciplina ivi contenuta, con la chiara ed espressa esclusione, per il calcolo del termine, del periodo di sospensione di 85 giorni previsto dall’art. 67, d.l. n. 18/2020, sia dall’ovvia considerazione di inverosimiglianza dell’ipotesi che il legislatore emergenziale abbia, nel contempo, imposto il rispetto del termine decadenziale ordinario per gli atti di accertamento in scadenza il 31 dicembre 2020, anno di pandemia, con mera proroga del termine di notifica, ai sensi del citato art. 157 del d.l. n. 34/2020, e lo abbia, invece, tout court differito di 85 giorni per gli accertamenti degli anni a venire, i cui termini di decadenza andavano, o andranno, a scadere quando l’emergenza è ormai largamente superata[4].
Tant’è vero che la stessa Agenzia delle entrate pare aver provveduto con nota interna della Direzione centrale di Roma[5] a invitare gli uffici a non considerare più la proroga degli 85 giorni, ma a fare riferimento alla scadenza ordinaria del termine di decadenza, e che, comunque, il contenzioso con l’Agenzia delle entrate non risulta neppure significativo, avendo, evidentemente, i funzionari preposti assunto un atteggiamento prudenziale notificando gli atti nei termini decadenziali ordinari, o superato la questione in ragione del differimento dovuto alla realizzazione del contraddittorio endoprocedimentale obbligatorio, per il quale, nell’imminenza della scadenza, è prevista la proroga di 120 giorni.
3. La disciplina emergenziale dei termini di decadenza e di prescrizione per la notifica degli atti degli enti impositori territoriali
Come detto, la disposizione sopra esaminata non si applica agli atti degli enti territoriali. Per essi vale, dunque, quanto disposto dall’art. 67, d.l. n. 18/2020.
Come sopra riportato, il comma 1 dell’art. 67 si limita a individuare nel periodo dall’8 marzo al 31 maggio 2020 il termine di “sospensione” delle attività di liquidazione, di controllo, di accertamento, di riscossione e di contenzioso. Ai fini che ne occupa rileva il comma 4, che, “con riferimento ai termini di prescrizione e decadenza relativi all’attività degli uffici degli enti impositori” (territoriali), rimanda, in deroga all’art. 3, comma 3, dello Statuto dei diritti del contribuente, e, quindi, al divieto ivi contenuto di proroghe dei termini, a quanto disposto dai soli commi 1 e 3 dell’art. 12, d.lgs. n. 159/2015.
Pare utile, prima di procedere all’analisi dei citati commi 1 e 3 dell’art. 12, d. lgs. n. 159/2015, rimarcare che la norma è stata introdotta con la finalità, come si legge nella Relazione di accompagnamento, di dettare una disciplina generale e uniforme per eventi eccezionali, in precedenza diversamente articolata dagli interventi normativi via via occasionati dalle varie situazioni di emergenza[6].
Alla luce di questa finalità è quindi possibile leggere il comma 1 dell’art. 12 del d.l. n. 159/2015 quale regola generale che impone la stessa durata del periodo emergenziale di fermo attività (da individuare, poi, nella sua specificità temporale, tramite le singole disposizioni emergenziali), sia a favore dei soggetti tenuti a versare tributi o contributi, sia a favore degli enti impositori per le attività ad essi spettanti, sia in relazione ai termini processuali in favore di entrambi. La norma, infatti, incentra il suo contenuto precettivo nella correlazione del periodo rilevante per tutti gli adempimenti, stante la disposta uniformità temporale tra le disposizioni in materia di sospensione dei termini per il versamento con la sospensione, “per un corrispondente periodo di tempo, per le stesse entrate”, dei termini previsti per gli adempimenti processuali e per i termini di prescrizione e decadenza a carico degli enti impositori. Come, dunque, si evince dal testo e com’è stato, infatti, rilevato, la ratio posta a fondamento di tale disciplina è quella di realizzare “una sorta di simmetria dei regimi di sospensione o di proroga dei termini connessi a fatti straordinari”[7], sia per le incombenze a carico del contribuente, sia per quelle a carico degli enti, oltre che per i termini processuali.
Tale parallelismo è stato evidenziato nell’ordinanza n. 960/2025, facendone derivare che, come sono sospesi i termini di versamento, così sono sospesi i termini di prescrizione e di decadenza, per arrivare a concludere che la sospensione di questi ultimi si applica anche agli anni intermedi di decorrenza del termine.
Il combinato disposto dell’art. 67, commi 1 e 4, del d.l. n. 18/2020 e dell’art. 12, commi 1 e 3, del d.lgs. n. 159/2015, però, non dice questo.
Innanzi tutto, il comma 1 dell’art. 67 d.l. n. 18/2020 non si occupa dei versamenti. Se mai, se ne occupa l’art. 62 del d.l. n. 18/2020, che, al comma 1, indica il medesimo periodo dall’8 marzo al 31 maggio 2020.
In ogni caso, quanto ai versamenti, lo stesso art. 12, d. lgs. n. 159/2015, dopo aver disposto il parallelismo evidenziato dall’ordinanza n. 960/2025, sempre al comma 1, aggiunge che, “salvo diverse disposizioni, i versamenti sospesi sono effettuati entro il mese successivo al termine del periodo di sospensione”. Corrispondentemente, l’art. 62, d.l. n. 18/2020 nel dettare la specifica disciplina emergenziale Covid per i versamenti, prevede, al comma 6, che gli adempimenti del contribuente “sospesi” ai sensi del comma 1 “sono effettuati entro il 30 giugno 2020 senza applicazione di sanzioni”. Quindi, entro il mese successivo alla fine della “sospensione”, come prescritto dalla normativa generale dell’art. 12.
Derivandone, in base alla lettera della legge, la conclusione esattamente opposta a quella affermata dalla Suprema Corte. E cioè che, come non opera per le annualità successive a quella incisa dalla finestra temporale intercorrente dall’8 marzo al 31 maggio 2020 la ripresa degli adempimenti tributari e dei pagamenti, da effettuare entro il 30 giugno 2020, ovvero 30 giorni dopo la fine della sospensione, del pari, non può essere consentito agli uffici di estendere la sospensione della loro attività per 85 giorni in più, al di là dell’anno di riferimento del 2020[8].
Dovendosi aggiungere, quanto ai termini processuali, che la normativa emergenziale Covid, con l’art. 83 del d.l. n. 18/2020 e, poi, con l’art. 36, comma 1, d.l. 8 aprile 2020, n. 23, ha, pur essa, contenuto la sospensione nel perimetro dell’anno pandemico, dall’8 marzo 2020 fino all’ultima proroga dell’11 maggio 2020.
Che il legislatore abbia voluto circoscrivere entro l’anno pandemico (2020), oltre agli adempimenti di spettanza del contribuente e ai i termini processuali, anche la dilazione dei termini di decadenza e di prescrizione a carico degli uffici impositori, risulta, vieppiù, dimostrato dal fatto che, in sede di conversione del d.l. n. 18/2020, è stato eliminato dall’art. 67 il riferimento al comma 2 dell’art. 12, d.lgs. n. 159/2015. Se tale eliminazione non fosse avvenuta, sarebbe stata, infatti, operante, per i termini di decadenza e di prescrizione scadenti entro il 31 dicembre dell'anno o degli anni durante i quali si verifica la sospensione (nel caso solo il 2020), la “proroga” ivi prevista fino al 31 dicembre del secondo anno successivo alla fine del periodo di sospensione.
Pertanto, nella disciplina emergenziale Covid in esame, proprio lo stretto parallelismo tra i termini per i versamenti, i termini processuali e i termini di prescrizione e di decadenza di cui trattasi, a differenza di quanto affermato dalla Suprema Corte con l’ordinanza n. 960/2025, comporta che, scadendo il termine dei versamenti il 30 giugno 2020, riprendendo i termini processuali l’11 maggio 2020, si debba escludere, anche per i termini di prescrizione e decadenza a carico degli uffici qualsivoglia “spostamento in avanti del decorso dei termini”, al di là delle attività da compiersi nel periodo temporale dall’8 marzo al 31 maggio 2020, con estensione per gli anni da accertare il cui termine era, in quel periodo, di mero passaggio.
Il fatto è, com’è stato segnalato in dottrina[9] e da una parte della giurisprudenza di merito[10], che quanto disposto dall’art. 67 del d.l. n. 18/2020, per l’emergenza pandemica, non è una vera e propria “sospensione” in senso tecnico, ma una “proroga” del termine. Così come non si riferisce ad una “sospensione” in senso tecnico quanto disposto dall’art. 12 d.lgs. n. 159/2015, a cui l’art. 67 rimanda.
Il termine, infatti, non viene “congelato”, come accade con le sospensioni dei termini, ma solo “spostato”, tant’è vero che “i versamenti oggetto di sospensione devono poi essere effettuati, in unica soluzione, entro il mese successivo”, cioè 30, e non 85, giorni dopo. Mentre, ripetesi, se di vera e propria “sospensione” si trattasse, il parallelismo agevolativo disposto tanto per gli adempimenti del contribuente, quanto per le attività degli uffici (come per i termini processuali) comporterebbe che l’identico meccanismo, ritenuto valevole per gli uffici dall’ordinanza dalla Suprema Corte in commento e da parte della giurisprudenza di merito[11], dovrebbe, evidentemente, valere anche per gli adempimenti dei contribuenti e per i termini processuali. Circostanza, invece, expressis verbis esclusa dal dettato normativo. Sicché manca del tutto proprio il parametro della “sospensione”, intesa in senso tecnico, del termine per i versamenti, sul quale la Suprema Corte ha fondato l’affermata sussistenza di una (pari) sospensione per i termini di decadenza e di prescrizione.
Deve, allora, ritenersi che il legislatore, quando ha utilizzato la parola “sospensione”, lo ha fatto in senso atecnico, con il mero significato di fermo delle attività, da valere, per lo stesso identico periodo di tempo, sia per quelle a carico dei contribuenti, sia per quelle di competenza degli uffici, con ripresa, poi, variamente declinata.
Siffatta conclusione risulta, altresì, confermata dal richiamo, contenuto nell’art. 67 d.l. n. 18/2020 al comma 3 dell’art. 12, d.lgs. n. 159/2015. In tale comma, ribadendosi il più volte evidenziato parallelismo del periodo di fermo attività, sia in favore dei contribuenti, sia in favore degli uffici, viene specificato che anche “l'Agente della riscossione non procede alla notifica delle cartelle di pagamento durante il periodo di sospensione di cui al comma 1”.
La previsione, se, a un primo sguardo, pare nulla aggiungere al tema che ne occupa, riferendosi alla notifica delle cartelle di pagamento, contiene, invece, un dato assai significativo, sempre al fine di una corretta interpretazione delle norme, costituito dall’indicazione del comportamento che l’ente, nel caso l’agente della riscossione, deve tenere “durante il periodo di sospensione di cui al comma 1”, ovvero quello di non procedere. A riprova che la parola “sospensione” utilizzata dal legislatore va intesa nel senso di fermo attività e nulla più.
Di conseguenza, per i tributi locali, non interessati dal disposto dell’art. 157, d.l. n. 34/2020, la lettura dell’art. 67, d.l. n. 18/2020, in relazione ai richiamati commi 1 e 3 dell’art. 12 d.lgs. n. 159/2020 porta a concludere che l’ente locale ha semplicemente avuto un periodo di ulteriori 85 giorni rispetto alla scadenza del 31 dicembre 2020 per notificare gli atti impositivi che sarebbero scaduti a quella data.
4. La disciplina emergenziale dei termini di decadenza e prescrizione per la notifica degli atti da parte dell’Agente della riscossione
Passando, infine, all’art. 68, d.l. n. 18/2020, che specificamente attiene alla fattispecie trattata dall’ordinanza n. 960/2025, relativa all’eccepita prescrizione di crediti (non tributari) azionati dall’ente riscossore in sede di insinuazione al passivo nel fallimento (ora liquidazione giudiziale), va subito detto che la sua formulazione è assai diversa dal precedente art. 67, relativo alle attività degli uffici degli enti impositori, del cui esame si è, invece, inconferentemente interessata la Corte.
L’art. 68, al comma 1, si occupa, infatti, della sospensione dei termini dei versamenti “in scadenza” nel periodo dall’8 marzo 2020 al 31 agosto 2021 (spostato in avanti a più riprese), derivanti da cartelle di pagamento o avvisi di addebito, ribadendo che “i versamenti devono essere effettuati in unica soluzione entro il mese successivo al termine del periodo di sospensione”, e aggiungendo che “si applicano le disposizioni di cui all’art. 12 del decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 159”. Quindi, anche il comma 2, che, per l’appunto, correlativamente, si occupa dei termini di prescrizione e decadenza a carico dell’agente della riscossione “che scadono” entro il 31 dicembre dell’anno o degli anni durante i quali si verifica la sospensione. Prescrivendo che i detti termini sono “prorogati”, in deroga all’art. 3, comma 3, della legge 212/200, “fino al 31 dicembre del secondo anno successivo alla fine del periodo di sospensione”.
Se già si è detto, quanto al significato da attribuire alla parola “sospensione”, che la disciplina positiva stessa esclude potersi considerare quale sospensione “in senso tecnico”, siffatta constatazione risulta vieppiù rafforzata dalla lettura della disposizione in esame. Atteso che le nozioni di sospensione in senso tecnico e di proroga sono, come noto, diverse e incompatibili tra loro. Per cui vale, o la sospensione del termine (con ripresa, alla fine della sospensione, da conteggiare per lo stesso numero di giorni della durata della sospensione), o la proroga (con ripresa, una volta decorsi i giorni della proroga), mentre non ha alcun senso prorogare un termine già sospeso.
Ai sensi del combinato disposto dell’art. 68, comma 1, d.l. n. 18/2020 e dell’art. 12, commi 1, 2 e 3, d.lgs. n. 519/2015, si deve, dunque, concludere che, per gli atti della riscossione indicati nell’art. 68 i cui termini di decadenza o di prescrizione “scadevano” entro il 31 dicembre 2020 e il 31 dicembre 2021, è stabilita una proroga fino al 31 dicembre del secondo anno successivo[12].
Poiché l’ordinanza n. 960/2025 neppure menziona il comma 2 dell’art. 12 d.lgs. n. 159/2015, richiamato dall’art. 68 d.l. n. 18/2020, e siccome non risultano chiare le date di notifica degli atti presi a parametro per calcolare la prescrizione rispetto alla domanda di insinuazione al passivo avvenuta il 22 luglio 2022, non è dato comprendere se, nella specie, la scadenza della prescrizione cadesse nell’anno 2020 o 2021, come, peraltro, sembrerebbe di capire. Se così fosse, in applicazione del citato comma 2 dell’art. 12, richiamato dall’art. 68, d.l. n. 18/2020, andava, in effetti, applicata la proroga.
Ma non certo una generalizzata “sospensione” del termine per la durata di 542 giorni (corrispondente al periodo dall’8 marzo 2020 al 31 agosto 2021), né, tanto meno, per tutti gli anni di passaggio del termine di decadenza o, ancor peggio, vista la durata ordinariamente decennale, di prescrizione.
Va, poi, aggiunto che la disciplina degli atti di riscossione non si è fermata all’esaminato art. 68.
Successivamente, il legislatore, verosimilmente non reputando che i termini di decadenza per la notifica della cartella di pagamento per i controlli sulla dichiarazione di cui alle lett. a) e b) dell’art. 25, comma 1, d.p.r. n. 602/1973, rientrassero completamente nella proroga sopra vista, ha stabilito, con l’art. 157, comma 3, d.l. n. 34/2020, che i suddetti termini di decadenza sono “prorogati di quattordici mesi relativamente: a) alle dichiarazioni presentate nell'anno 2018, per le somme che risultano dovute a seguito dell'attività di liquidazione prevista dagli articoli 36-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e 54-bis del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633; b) alle dichiarazioni dei sostituti d'imposta presentate nell'anno 2017, per le somme che risultano dovute ai sensi degli articoli 19 e 20 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917; c) alle dichiarazioni presentate negli anni 2017 e 2018, per le somme che risultano dovute a seguito dell'attività di controllo formale prevista dall'articolo 36-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600”. Con scadenza, dunque, per i controlli ex art. 36-bis, d.p.r. n. 600/1973 e 54-bis, d.p.r. n. 633/1972 relativi alla dichiarazione presentata nel 2018, al 28 febbraio 2023 rispetto al termine naturale del 31 dicembre 2021, e con scadenza, per i controlli formali ex art. 36-ter, d.p.r. n. 600/1973 sulle dichiarazioni presentate negli anni 2017 e 2018, rispettivamente, al 28 febbraio 2023, invece che 31 dicembre 2021, e 29 febbraio 2024, invece che 31 dicembre 2022.
Non pago, il legislatore emergenziale Covid, con il d.l. 22 marzo 2021, n. 41[13] ha, poi, introdotto nell’art. 68, d.l. n. 18/2020 il comma 4-bis. In cui, “con riferimento ai carichi, relativi alle entrate tributarie e non tributarie, affidati all'agente della riscossione durante il periodo di sospensione” (dall’8 marzo 2020 al 31 agosto 2021), “e, successivamente, fino alla data del 31 dicembre 2021, nonché, anche se affidati dopo lo stesso 31 dicembre 2021, a quelli relativi alle dichiarazioni di cui all'articolo 157, comma 3, lettere a), b), e c), del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77”, è stata disposta, alla lett. b), la proroga dei termini di decadenza e prescrizione “di ventiquattro mesi, anche in deroga alle disposizioni dell'articolo 3, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212, e a ogni altra disposizione di legge vigente”. Al riguardo, vi è chi ha ritenuto che quest’ultima disposizione, in quanto espressamente derogatoria di “ogni altra disposizione di legge vigente”, dovrebbe aver superato le sopra menzionate prescrizioni dell’art. 157, comma 3, lett. a), b) e c), del d.l. n. 34/2020[14].
Di certo vi è che non risulta affatto semplice il coordinamento delle intervenute varie proroghe. E, altresì, che, trattandosi di proroghe (per di più assai differenziate nella loro durata), non è prospettabile alcuna ipotesi di c.d. “sospensione a cascata”. Sicché pare ovvio concludere che, se il termine di decadenza o di prescrizione non rientra in nessuna delle prefigurate proroghe sopra esaminate, la scadenza resta ferma e non si applica alcuna dilazione del termine, tanto meno di 542 giorni.
5. Auspicio conclusivo
Concludendo, dunque, dall’ordinanza n. 960/2025 della Suprema Corte non si evince alcun dato risolutivo di generale portata ai fini di un chiarimento sulla normativa in oggetto. E sarebbe oltremodo auspicabile che la Sezione tributaria della Suprema Corte approfondisse la questione, per offrire, da par suo, un contributo articolato e appagante su questa problematica, tanto aggrovigliata e complessa quanto delicata, afferendo a termini la cui alterazione va sottoposta al vaglio di attenta ponderazione.
[1] I termini per la notifica degli atti di accertamento o di liquidazione tributari sono di decadenza, sia per gli enti impositori statali, sia per gli enti impositori locali.
[2] Relativi alle istanze di interpello e ai termini di cui all'art. 7, comma 2, d.lgs. n. 128/2015, ai termini di cui all’art. 1-bis d.l. n. 50/2017 e 31-ter e 31-quater del d.p.r. n. 600/1973, nonché ai termini relativi alle procedure di cui all'art. 1, commi da 37 a 43, della legge n. 190/2014.
[3] Fornendo il comma 5 dell’art. 157, d.l. n. 34/2020 le indicazioni ai fini della prova a carico dell’Agenzia delle entrate dell'avvenuta elaborazione e emissione degli atti o delle comunicazioni entro il 31 dicembre 2020.
[4] Considerando i termini di cui art. 43 d.p.r. n. 600/1973 e la modifica che ha portato, a decorrere dall’anno 2016, il termine di decadenza al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione e, per i casi di omessa presentazione o presentazione nulla, al 31 dicembre del settimo anno successivo, a voler aderire alla tesi della c.d. “sospensione a cascata”, la conseguenza sarebbe che, per l’anno 2016, la scadenza si verificherebbe il 26 marzo 2023 per i contribuenti che hanno presentato la dichiarazione e il 26 marzo 2025 per i contribuenti che non l’hanno presentata; per l’anno 2017, rispettivamente, il 25 marzo 2024 e il 26 marzo 2026, e, per l’anno 2018, rispettivamente, il 26 marzo 2025 e il 26 marzo 2027. L’anno 2019 non dovrebbe valere perché la dichiarazione nel periodo dall’8 marzo al 31 maggio 2020 non era ancora stata presentata.
[5] Di cui si è data notizia sulle Riviste specializzate, in particolare in Il Sole 24 ore del 12 marzo 2024.
[6] Come sottolineato da A. Benigni, in A Benigni-R. Maglio, Decadenza e prescrizione nel diritto e nel processo tributario, Torino, 2022,189, citando ivi, 186-187, i pregressi frammentati interventi normativi collegati al sisma del 23 novembre 1980, che aveva interessato la Basilicata e la Campania, e al sisma che aveva colpito nel 1997 i territori dell’Umbria e delle Marche.
[7] A. Benigni, Decadenza e prescrizione nel diritto e nel processo tributario, cit., 190.
[8] Come ritenuto, tra le molte, da CGT I grado Milano, n. 1186/2023, confermata dalla CGT II grado Lombardia, n. 2329/2024; CGT I grado Latina, n. 474/2024, in Fisco, 2024, 3103-3104, con commento di F. G. Carucci, Atti di accertamento in scadenza post 2020: non opera la sospensione di 85 giorni.
[9] A. Carinci, L’azione dell’agente della riscossione ai tempi dell’epidemia di Covid-19, in Pandemia da “Covid-19” e sistema tributario (a cura di A. Contrino – F. Farri), Pisa, 2021, 122. Che si tratti di “proroga” e non di “sospensione” del termine, l’A. lo rileva con riferimento all’azione dell’agente della riscossione, ma tale constatazione vale anche con riguardo all’art. 67 e all’art. 12, d.lgs. n. 159/2015, richiamato, sia dall’art. 67, sia dall’art. 68 del d.l. n. 18/2020. D’altro canto, proprio dal tenore dell’art. 67, ove si parla confusamente di “sospensione”, sia con riguardo a termini (commi 1 e 2), sia ad attività (comma 3), quali quelle “non aventi carattere di indifferibilità ed urgenza”, si evince l’utilizzo atecnico del sostantivo di cui trattasi.
[10] CGT I grado di Prato, 24 settembre 2024, n. 143; CGT I grado di Udine, 23 ottobre 2024, n. 206.
[11] Ad es., CGT I grado Messina, n. 6618/2024; CGT II grado Lazio, n. 6470/2024, che, peraltro, rimanda, in tema di accertamento TASI, al comma 2 dell’art. 12, invece escluso dall’art. 67, d.l. n. 18/2020.
[12] Sebbene non sia chiaro se si tratti sempre del 31 dicembre 2023, sia per i termini di decadenza naturalmente scadenti al 31 dicembre 2020, sia per i termini di decadenza naturalmente scadenti al 31 dicembre 2021, in quanto, se si intende che il termine è sempre prorogato al 31 dicembre 2023, per il 2020 la proroga sarebbe di tre anni.
[13] C.d. “Decreto Sostegni”, convertito dalla l. 22 maggio 2021, n. 69.
[14] In tal senso si esprime A. Benigni, Decadenza e prescrizione nel diritto e nel processo tributario, cit., 205, sostenendo che, in conseguenza dell’introduzione del comma 4-bis nell’art. 68, d.l. n. 18/2020, il legislatore ha introdotto “una proroga di 24 mesi per due distinte tipologie di carichi affidati all’agente della riscossione: a) carichi affidati nel periodo intercorrente tra l’otto marzo 2020 ed il 31 dicembre 2021, a prescindere dalla natura del carico; b) carichi derivanti dalle liquidazioni (ex art. 36-bis, d.p.r. n. 600/1973 e 54-bis, d.p.r. n. 633/1972) relative alle dichiarazioni dei redditi e IVA presentate nel 2018, e carichi per i controlli formali (ex art. 36-ter, d.p.r. n. 600/1973) relativo alle dichiarazioni presentate nel 2017 e 2018, a prescindere dalla data di affidamento all’agente della riscossione”.
Immagine: fotogramma del film Preferisco l'ascensore! di Fred Newmeyer (1923).
La chiamano “separazione delle carriere” ma il disegno di legge costituzionale di riforma della magistratura non prevede una semplice separazione delle carriere.
È uno strappo. È un taglio nella Carta costituzionale voluta e ideata per garantire i diritti della persona, di qualunque persona, dagli eccessi del potere, di qualsiasi potere.
È in questa direzione che la Costituzione affida la tutela dei diritti ai magistrati, giudici e pubblici ministeri, indipendenti e autonomi ed organizzati in un ordine, unico, indipendente e autonomo.
La riforma disgrega la magistratura pensata dal costituente antifascista e rende più fragile ciascuno di noi.
Scinde e svuota l’autogoverno, il C.S.M., chiamato proprio a garantirne quell’autonomia e quell’indipendenza e, al contempo, fonda il “quarto potere” dell’accusa costituito da una manciata di potenti pubblici ministeri guidati, se andrà male, da pochi di loro e, se andrà peggio, dai partiti che di volta in volta guideranno l’esecutivo.
Il progetto di riforma - rafforzando e rendendo manovrabile il pubblico ministero, indebolendo e isolando il giudice - divide e sbilancia l’equilibrio delle garanzie, indebolisce il cittadino, fiacca la giustizia.
Ogni discesa, anche la più profonda, inizia sempre con un primo passo verso il basso.
“La situazione è grave, ma non è seria”. Avrebbe detto, del resto, un grande interprete dell’umore italiano.
È stato detto, invece, che i magistrati-cittadini non hanno il diritto di parlare della riforma, di protestare contro la riforma, che non hanno il diritto di scioperare. Ed hanno ragione: hanno il dovere di farlo (“Ho sempre considerato come massima aggravante il fatto che uno non abbia potuto farci niente”, ha scritto una mente caustica).
Sommario. 1. La disgregazione della magistratura: 1.1 Il primo strappo alla Costituzione; 1.2 Le parole illudono, confondono; 1.3 La disgregazione del potere giudiziario; 1.4 Quattro domande e quattro risposte. 2. Lo svilimento dell’autonomia e dell’indipendenza del magistrato per svuotamento del suo autogoverno: 2.1 La divisione dell’autogoverno; 2.2 L’estrazione a sorte dell’autogoverno (ma non per i componenti di origine parlamentare); 2.3 La perdita del diritto al voto (solo per i magistrati) e la regola “l’uno vale l’altro”; 2.4 Il senso della elezione del C.S.M. prevista dalla Costituzione; 2.5 La perdita del senso 2.6 Un sistema sanzionatorio speciale solo per i magistrati.; 2.7. Il p.m. diventa il giudice disciplinare dei giudici. 3. La pubblica accusa diventa il quarto potere: 3.1 La gerarchia nella pubblica accusa; 3.2 L’accusa come quarto potere; 3.3 Il comando del quarto potere; 3.4 Costruire muri attorno al giudice.
1. La disgregazione della magistratura
È la disgregazione della magistratura.
Chiamiamo con il suo nome il disegno di legge costituzionale - di iniziativa governativa - recante “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare” destinato alla riforma delle norme della Costituzione relative alla magistratura.
1.1 Il primo strappo alla Costituzione
È la disgregazione della magistratura prevista dalla Costituzione della Repubblica Italiana. Costituzione sorta dai resti dell’Italia distrutta, nel corpo e nello spirito, dalla dittatura fascista e dalla guerra, immaginata e scritta da illustri costituenti, uomini e donne di cultura e libertà, costruttori di un sistema di diritti contro l’oppressione dei poteri di ogni forma, dimensione e colore.
È la disgregazione della magistratura figlia di quell’equilibrio costituzionale e istituzionale maturato in ottanta anni di lotta di liberazione dal fascismo prima e dalla cultura fascista poi, di lotta di liberazione dalle mafie, di lotta di liberazione dai terrorismi di ogni colore, di lotta di liberazione dalla corruzione.
I tratti di una storia - gravata dal sacrificio di uomini e donne dello Stato - non comparabile con quella di altri paesi, una storia tutta italiana.
Lo smembramento della magistratura ordinaria è una breccia, la prima breccia, nella Costituzione repubblicana.
No. Non è una separazione di carriere.
1.2 Le parole illudono, confondono
La chiamano, invece, “separazione delle carriere”.
È questa l’illusione ottico-giuridica utilizzata dai proponenti della riforma per far passare l’idea-slogan per cui la riforma - un giudice, reso in realtà più solo e debole, e un pubblico ministero, reso in realtà più potente e manovrabile - sarebbe funzionale alla parità delle parti nel processo penale.
Ed è solo un espediente letterale quello per cui l’attuale art. 104 della Costituzione - “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” - viene riformato ribadendo sì che la magistratura costituisce un solo ordine ma specificando che “è composta dai magistrati della carriera giudicante e della carriera requirente”. L’unico elemento effettivo di comunione tra requirenti e giudicanti sarà infatti il sistema sanzionatorio incentrato sull’Alta corte disciplinare.
Ed è solo un gioco di suggestioni quello secondo cui la riforma sarebbe necessaria perché il giudice, tutti i giudici, sono oggi influenzabili dai pubblici ministeri e tanto perché questi ultimi “dominano” l’autogoverno comune.
Una volta a regime la riforma, ha detto il Ministro, il giudice godrà di maggiore libertà rispetto ad oggi, quando “il pubblico ministero nei consigli giudiziari e anche al Csm dà i voti al giudice davanti al quale va a perorare una causa”, cosa “irrazionale in qualsiasi Paese del mondo”.
Sia chiaro: il C.S.M. è composto da 33 membri e sono solo 5 i pubblici ministeri. Tra i 10 componenti eletti dal Parlamento gli avvocati sono più di 5. E a questo punto coerentemente anche gli avvocati andrebbero esclusi da quel C.S.M. e dai Consigli giudiziari perché, al pari dei p.m., danno “i voti al giudice davanti al quale [vanno] a perorare una causa”.
Sia chiaro: il giudice non ha interesse alcuno, personale, economico o di carriera, a favorire il p.m. Quale sarebbe?
Sia chiaro: le carriere di giudici e p.m. sono già separate nella legge, che prevede un solo passaggio di funzioni nella vita professionale del magistrato, e nei fatti: nell’arco di cinque anni è dello 0,83% la percentuale dei pubblici ministeri passati a fare il giudice; e dello 0,21% la percentuale dei giudici divenuti p.m.
Sia chiaro: è la riforma che assoggetta il giudice al p.m. Con l’Alta Corte disciplinare progettata dalla riforma i giudici saranno gli unici cittadini ad avere, come giudice, proprio i pubblici ministeri.
E si può aggiungere solo una battuta e una notazione: i colleghi, in generale, difficilmente sono amici tra loro e si contano, tra gli amici dei magistrati, più avvocati che magistrati.
No. Non è una separazione di carriere.
1.3 La disgregazione del potere giudiziario
La riforma è lo svilimento dell’autonomia e dell’indipendenza del magistrato - del diritto del cittadino ad avere dinanzi a sé un tale magistrato - per mezzo della scissione e dello svuotamento della forza e del prestigio dell’organo di autogoverno della magistratura, il C.S.M., pensato dai costituenti proprio a garanzia di quella autonomia e di quella indipendenza. Il progetto di riforma frantuma l’unico C.S.M., l’autogoverno pensato dai costituenti, in tre distinti organi; sottrae all’autogoverno stesso, e soltanto ai magistrati, la funzione disciplinare; delegittima, atomizza e indebolisce i magistrati che siedono nell’autogoverno, in favore dei membri di origine parlamentare, sottraendo solo ai magistrati il diritto di voto.
La riforma è la creazione di un nuovo e forte potere autonomo. Si scorpora dalla magistratura la pubblica accusa e si realizza un quarto potere costituito da una manciata di potenti pubblici ministeri guidati, se andrà male, da pochi di loro e, se andrà peggio, dal potere dei partiti che di volta in volta guideranno l’esecutivo.
Frammentazione e svuotamento dell’autogoverno, creazione del “potere dell’accusa”, sono solo i due lati della stessa medaglia: la disunione del potere giudiziario a fronte dell’unione sempre più salda, per mezzo della maggioranza partitica di turno, tra il potere esecutivo e legislativo.
No. Non è una separazione di carriere.
1.4 Quattro domande e quattro risposte
Perché è necessario un unico e solido autogoverno per i giudici e i p.m.?
Perché l’indipendenza del magistrato, il diritto del cittadino ad avere un magistrato non influenzabile dai poteri partitici o economici di qualsiasi colore o forma, è possibile solo se il potere di turno non può minacciare, lusingare o incidere il suo lavoro.
Perché i costituenti hanno fatto tesoro della favola di La Fontaine in cui il vecchio padre insegna ai figli che un fascio di frecce non può essere spezzato a differenza della singola freccia che sola non riesce a opporre resistenza a chi la vuol piegare.
Perché il p.m. non deve essere assoggettato solo a sé stesso?
Perché sarebbe troppo potente e senza controllo, troppo autoreferenziale. “Il potere dello Stato più forte che si sia mai avuto in alcun ordinamento costituzionale dell’epoca contemporanea” ha scritto un illustre giurista.
I sostenitori della riforma spesso ricorrono al Portogallo come esempio virtuoso di indipendenza della pubblica accusa “separata” dal giudice (e dalla cultura garantista del giudice).
Ebbene il Portogallo è l’unico paese europeo in cui, negli ultimi anni (era il novembre 2023), il primo ministro Costa si è dimesso a seguito di una inchiesta dei pubblici ministeri. Costa era stato coinvolto nell’inchiesta stessa per un clamoroso “errore” di trascrizione in una intercettazione emerso appena qualche giorno dopo le dimissioni. Dimissioni che hanno portato a nuove elezioni con la vittoria di una nuova maggioranza.
Perché il p.m. non deve esser assoggettato all’esecutivo?
Perché il p.m. deve garantire che lo stato di diritto non degradi in stato di polizia.
Perché il p.m. non può essere il braccio armato dei partiti della maggioranza, di qualsiasi maggioranza.
In “Io sono ancora qui”, recente film sulla scomparsa di Rubens Paiva, desaparecido durante la dittatura militare brasiliana, la protagonista, moglie di Paiva, si domanda come sia possibile che, in uno stato di diritto, si commettano migliaia di arresti illegali, si torturi, senza che nessuno indaghi sulle sparizioni.
La risposta è che nessuno poteva indagare e cercare la verità, nessun pubblico ministero e nessuna polizia, perché il potere stava tutto dalla stessa parte.
Quel che accadde con il processo Matteotti è memoria, almeno dovrebbe esserlo. Quel che è accaduto con il volo di Stato per Al Masri è un monito, almeno si spera.
Perché la divisione dell’autogoverno e il sorteggio dei suoi componenti del C.S.M. non eliminerà le correnti in magistratura e le loro degenerazioni?
Perché le correnti sono fisiologicamente dei gruppi di pensiero e per eliminarle bisognerebbe vietare il pensiero o vietare l’associazionismo nonché cancellare oltre 120 anni di storia di associazionismo unitario interrotti solo dal regime fascista. Le correnti continueranno ad esistere finché continuerà ad esistere la libertà di pensiero e di associazione.
Perché i sorteggiati nel C.S.M. non saranno magistrati privi di pensiero o di idee, solo che questi non saranno né note né trasparenti.
Perché i sorteggiati potranno esser pescati anche, ma a caso, tra gli iscritti e simpatizzanti alle correnti (e nel paradosso anche, se il caso lo vorrà, solo tra questi e finanche solo tra i membri di una singola corrente).
Perché per evitare le degenerazioni delle correnti e nuovi “casi Palamara” sarebbe sufficiente tornare a scegliere i direttivi degli uffici giudiziari sulla base dell’anzianità.
Non è una semplice separazione di carriere.
2. Lo svilimento dell’autonomia e dell’indipendenza del magistrato per svuotamento del suo autogoverno.
La Costituzione ha assicurato l’autonomia e l’indipendenza dei giudici e p.m. per mezzo di un unico organo di governo autonomo e indipendente dall’indirizzo politico di maggioranza: il Consiglio Superiore della Magistratura, presieduto dal Presidente della Repubblica, i cui componenti eletti sono magistrati e non magistrati (c.d. laici). Al C.S.M. spettano tutte le decisioni più significative sulla carriera e sullo status professionale dei magistrati - compreso il disciplinare - e ha il compito di garantire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura.
2.1 La divisione dell’autogoverno
Il disegno di legge costituzionale spezzetta l’autogoverno.
Se ad oggi il C.S.M. è unico e composto da 33 membri - 20 membri appartenenti alla magistratura (di cui 5 pubblici ministeri) e 10 membri eletti dal Parlamento scelti tra professori ordinari in materie giuridiche o avvocati con almeno 15 anni di esercizio della professione - la riforma prevede una scissione con due distinti organi di autogoverno, uno per i giudici e uno per i p.m.
Ed a questi due nuovi C.S.M. si aggiungerà un terzo organo, frutto di una ulteriore scissione: all’autogoverno viene sottratta la funzione disciplinare e viene istituita una Alta Corte destinata a giudicare (in sede disciplinare) esclusivamente i magistrati ordinari.
2.2 L’estrazione a sorte dell’autogoverno (ma non per i componenti di origine parlamentare)
Secondo la riforma i componenti magistrati dell’autogoverno non saranno più eletti dai magistrati stessi, come accade ora, ma saranno estratti a sorte tra circa 7.000 giudici (per il C.S.M. giudicante) e circa 2.000 pubblici ministeri (per il C.S.M. requirente).
I componenti di origine parlamentare, i c.d. laici, saranno anch’essi sorteggiati dal Parlamento ma non tra le migliaia di soggetti legittimati secondo la Costituzione - ossia tra tutti i professori ordinari di università in materie giuridiche e tra tutti gli avvocati con almeno quindici anni di esercizio - ma da una lista ad hoc, una short list dalla estensione oscura, stilata per l’occasione dalla maggioranza dei partiti di turno.
2.3 La perdita del diritto al voto (solo per i magistrati) e la regola “l’uno vale l’altro”
I magistrati ordinari risulteranno così la prima e unica categoria a perdere il diritto di voto.
Sarà vietata la possibilità di scelta tra i soggetti e i gruppi di pensiero ritenuti idonei a comporre l’autogoverno pensato dai costituenti.
L’autogoverno delle altre magistrature (di quella amministrativa, contabile, tributaria, militare) preserva il voto e l’elezione.
L’autogoverno dell’avvocatura preserva il voto e l’elezione: i consigli degli ordini degli avvocati continuano ad essere eletti e così il Consiglio Nazionale Forense.
L’autogoverno dell’università anche e così come ogni altra aggregazione di persone, fino al condominio.
La regola dell’uno vale l’altro varrà solo per i magistrati e solo per i magistrati dell’autogoverno.
Per ora.
2.4 Il senso della elezione del C.S.M. prevista dalla Costituzione
La Costituzione ha indicato, come metodo di selezione dei componenti magistrati del C.S.M., l’elezione da parte dei magistrati stessi. Una elezione considerata di particolare rilievo come suggerisce il paragone con l’elezione dei membri laici: per questi il Parlamento si riunisce in seduta comune come accade per l’elezione dei giudici costituzionali o la messa in stato di accusa del Presidente della Repubblica.
Il C.S.M., come mostrano la sua composizione e le sue attribuzioni, non è un ufficio tecnico-amministrativo ma il governo dell’autonomia e della indipendenza della magistratura e come tale è chiamato a scelte valoriali che esprimono un modo specifico di preservare l’autonomia e l’indipendenza di giudici e p.m.
Il ragionamento costituzionale è tanto semplice che, come spesso accade con le cose piccole, sembra scivolato dalle tasche.
Se il C.S.M. è un organo autorevole presieduto dal Presidente della Repubblica - chiamato a prendere decisioni generali e puntuali sulla autonomia e indipendenza dei magistrati - allora è necessario che i suoi membri vengano scelti tra personalità, o gruppi di personalità, fornite di un proprio e individuabile bagaglio culturale, che si auspicano di esperienza, autorevoli e capaci di relazionarsi e mediare per operare in un organo collegiale che decide a maggioranza sulle questioni riguardanti l’autonomia e l’indipendenza dei giudici.
Essere dei giudici e dei p.m., avvocati o professori, dei tecnici del diritto penale o civile, non significa esser dei buoni amministratori o dei buoni governanti: esser il migliore dei chirurghi non significa esser un bravo direttore sanitario o un bravo ministro della salute così come esser un bravo magistrato non significa esser un buon componente del C.S.M. o un buon ministro della giustizia.
Se il C.S.M. è un organo di autogoverno democratico della magistratura allora deve avere una legittimazione democratica che proviene dai suoi governati magistrati.
2.5 La perdita del senso
La volontà della riforma è quella di eliminare i corpi intermedi, gli ambiti associativi di discussione e riflessione, di dividere i magistrati tra loro e i magistrati governati dai magistrati governanti, per destrutturare il governo autonomo e indipendente partendo proprio dal pensiero.
Il primo, inevitabile, esito della riforma è così l’indebolimento della componente della magistratura di fronte alla sempre solida componente partitico-parlamentare. Ed una componente togata, atomizzata o incapace, finisce inevitabilmente per squilibrare il peso istituzionale del C.S.M. in favore della componente di origine parlamentare, politicamente più abile, attrezzata e sempre e comunque connotata da vicinanza partitica.
Il secondo, inevitabile, esito del progetto è la strutturazione di maggioranze decisionali fondate non sulla convergenza delle idee dei gruppi ma sulla convergenza degli interessi dei singoli componenti. Convergenza che, se andrà male, sarà episodica e che, se andrà peggio, sarà strutturata in modo oscuro e non trasparente in modo postumo al sorteggio.
L’autogoverno è ridotto a pratica tecnico-amministrativa e sottoposto ad una oscura maggioranza, non quindi vero autogoverno.
Se l’autogoverno assume decisioni automatiche, in modo oscuro, per cui è sufficiente un tecnico delle norme, allora tanto vale farlo guidare da innominati funzionari del Ministero oppure, perché no, da un sistema di intelligenza artificiale.
A questo punto tanto vale farlo guidare da uno solo.
Oppure da nessuno.
A questo punto tanto vale eliminarlo.
2.6 Un sistema sanzionatorio speciale solo per i magistrati
La riforma sottrae all’autogoverno quella giurisdizione disciplinare che i costituenti avevano indicato come uno dei suoi pilastri: “un regime – che si vuol costruire – di assoluta indipendenza del potere giudiziario non è compatibile con la sorveglianza di un organo del potere esecutivo (…) tutta la materia disciplinare deve restare nell’ambito del potere giudiziario, conservando al Ministro la facoltà di richiedere la promozione dell’azione disciplinare” (così un illustre padre costituente).
L’esito del progresso costituzionale è stato così la creazione di una Sezione disciplinare, interna al C.S.M., composta da 4 magistrati (di cui uno solo è p.m.) e 2 laici. L’azione disciplinare è attribuita al Procuratore generale presso la Corte di cassazione e al Ministro della Giustizia.
Le decisioni disciplinari emesse dall’autogoverno possono essere impugnate dinanzi alle Sezioni Unite Civili della Suprema Corte (composta da soli giudici) e tanto per la sola ragione che è l’organo supremo di tutta la giurisdizione italiana.
Sia chiaro un punto: in qualsiasi amministrazione pubblica, così come in ogni altro ente, compresi i consigli dell’ordine degli avvocati, le sanzioni disciplinari sono erogate da soggetti od organi interni all’amministrazione stessa.
Lo smembramento della magistratura previsto dal disegno di legge è completato dalla creazione di un sanzionatore speciale disciplinare dedicato solo ai p.m. e ai giudici: l’Alta Corte composta da 15 giudici (di cui 6 giudici, 3 p.m. e 6 laici).
Anche per l’Alta Corte varrà l’applicazione della estrazione a sorte. E di nuovo, a guardar bene, solo per i magistrati essendo la parte parlamentare estratta sempre da una preconfezionata short list.
I magistrati saranno gli unici a subire sanzioni disciplinari, e la minaccia di sanzioni disciplinari, da un organo esterno.
E se un magistrato sanzionato volesse impugnare la decisione disciplinare emessa dall’Alta Corte? Dovrebbe impugnarla dinanzi alla stessa Alta Corte.
E chi sarà il titolare dell’azione disciplinare? I proponenti governativi, per l’Alta Corte, non hanno avuto cura di indicarlo e, a rigor di logica, spetterà all’esecutivo.
2.7. Il p.m. diventa il giudice disciplinare dei giudici
I giudici saranno gli unici cittadini ad avere, come giudici, i pubblici ministeri e ad esser giudicati da una maggioranza composta da p.m. e laici (9 componenti su 15).
E la riforma, di nuovo, inganna perché cambia totalmente le proporzione nell’organo disciplinare diminuendo le garanzie dei giudici: tra la componente togata e quella laica in favore di quest’ultima (sono 2 i laici su 6 componenti oggi della sezione disciplinare; saranno 6 laici su 15 nell’Alta Corte di domani); tra la componente dei p.m. rispetto a quella dei giudici, in favore della prima (c’è 1 p.m. su 6 componenti oggi nella sezione disciplinare; saranno 3 p.m. su 15 domani nell’Alta corte); con totale eliminazione dei giudici nell’impugnazione delle sanzioni che vengono sottratte alle Sezioni unite.
E le parole, di nuovo, illudono. L’Alta Corte, nonostante sia definita tale, non è destinata ad occuparsi di tutte le magistrature (di quella amministrativa, militare, contabile) ma solo dei giudici ordinari e dei p.m.
3. La pubblica accusa diventa il quarto potere
La disgregazione della magistratura prevista dal disegno di legge costituzionale prevede, dopo lo svilimento dell’autogoverno, lo scorporo dei pubblici ministeri dai giudici con la creazione di un quarto potere esclusivamente dedito all’accusa e, specularmente all’avvocato della difesa, alla vittoria dell’accusa.
3.1 La gerarchia nella pubblica accusa
Lo scorporo dei pubblici ministeri dalla magistratura deve esser letto necessariamente alla luce dell’assetto
organizzativo gerarchico che, ormai dal 2006, caratterizza l’organizzazione dell’ufficio del pubblico ministero.
Il giudice è autonomo dal Presidente del Tribunale e questi non ha possibilità alcuna di incidere sulle sentenze che scrive. Ma i pubblici ministeri non hanno piena autonomia. Il Procuratore della Repubblica è infatti il titolare dell’ufficio della pubblica accusa e vanta un potere sovraordinato rispetto al sostituto procuratore (ossia al singolo pubblico ministero). La potestà direttiva del Procuratore si esprime però per linee di azione generali secondo le direttive delineate dall’autogoverno rappresentato dal C.S.M. (del cui svilimento si è poco sopra scritto).
3.2 L’accusa come quarto potere
I pubblici ministeri, questi pubblici ministeri, escono dalla magistratura ordinaria per andare a costituire un corpo separato da quello dei giudici: la struttura gerarchizzata della pubblica accusa si separa e va a formare un potere a sé stante.
Un sistema verticistico composto da 1 Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, da 25 Procuratori Generali presso le Corti di Appello, da 118 Procuratori della Repubblica e da circa 2.000 sostituti pubblici ministeri.
Un sistema che ha a disposizione la polizia giudiziaria e potenti strumenti di indagine.
Un sistema autogovernato da un Consiglio superiore requirente ad hoc, presieduto dal Presidente della Repubblica, e composto per 2/3 da pubblici ministeri oltre che dal Procuratore Generale presso la Corte di cassazione (e per 1/3 da componenti, avvocati e professori, estratti da un elenco stilato appositamente dal Parlamento).
Spetteranno a tale Consiglio, secondo le regole stabilite dalle leggi ordinarie (che dovranno essere formulate ex novo) tutte le più importanti decisioni sulla carriera e sullo status dei pubblici ministeri.
Saranno solo i pubblici ministeri a nominare il ristretto numero dei vertici delle Procure - i vertici del sistema dell’accusa - e a decidere le forme di esercizio del potere degli stessi vertici.
3.3 Il comando del quarto potere
Se la riforma perseguirà il suo dichiarato obbiettivo, la piena indipendenza della pubblica accusa dagli altri poteri, quel pubblico ministero che “è un super-poliziotto” e che “ha un potere immenso senza controllo” (così il Ministro della Giustizia) sarà sempre più super e avrà sempre meno controllo.
Troppo palese la contraddizione, e troppo rischioso l’esito, per non comprendere che l’obiettivo razionale della riforma è inevitabilmente un altro: un super-potere sì ma destinato ad esser guidato dal potere dei partiti chiamati a turno a guidare l’esecutivo.
3.4 Costruire muri attorno al giudice
A questo primo smembramento - fuori i pubblici ministeri - ne seguiranno altri come la storia, lo studio della storia, ci insegna, con particolare riguardo alla Cassazione e alla divisione tra una magistratura “alta” e una “bassa”.
Se scorporare i pubblici ministeri dalla magistratura serve a garantire “un giudice terzo”, così dicono i proponenti, il prossimo muro verrà eretto tra il primo e il secondo grado di giudizio e tra questi e la Cassazione. Tra i giudici civili e quelli penali. Tra GIP, GUP e giudici del dibattimento.
Se i giudici sono tutti colleghi, e se i giudici devono esser valutati in base a quante sentenze vengono riformate, come fanno a far parte dello stesso ordine?
E poi verrà il turno di erigere il muro tra avvocati (che ad oggi valutano i giudici nei Consigli giudiziari) e giudici, tra avvocati e p.m.: niente porte aperte negli uffici, niente più caffè e convegni, si parlerà solo nel processo.
Si vieterà per legge l’amicizia tra giudici e avvocati.
E così finalmente il giudice, solo, resterà intrappolato tra queste mura erette per assicurarne il candore decisionale.
“Non chiedetevi dove andremo a finire, perché ci siamo già”. Avrebbe detto sempre quel grande interprete dell’umore italiano.
A complete Unknown [1]
Da convinto dylaniano, appena ho letto sui giornali che stava per essere proiettato anche in Italia “A complete unknown”, il film di James Mangold (regista americano nato il 16 dicembre, come me, ma nel 1963), mi sono informato sul primo giorno di proiezione previsto a Milano: il 23 gennaio, peraltro in un cinema molto vicino alla mia abitazione. Ma, ahimè, proprio quel giorno era previsto un mio intervento a Bologna in un convegno sulla “controriforma” della separazione delle carriere: impossibile mancare. Il 22 ho dunque acquistato via web il biglietto per il primo spettacolo del 24 gennaio, alle ore 14,30. Mi sono recato al cinema mezz’ora prima per evitare la prevedibile lunga fila. Ma – mostrato il biglietto alla persona addetta ai controlli – è esploso il dramma: non potevo entrare perché, causa un mio errore, il biglietto era per il giorno 25…inutile implorare comprensione!
Ed eccoci allora al pomeriggio successivo, primo spettacolo, posto centrale in terza fila, finalmente ci sono. L’ho visto poi una seconda volta, tre giorni dopo, ma in quarta fila e lo vedrò ancora una terza volta. Perché? Perché questo film è un capolavoro ed è comunque particolarissimo rispetto ai tanti che riguardano Dylan o che lo vedono protagonista principale o secondario. Penso subito a Pat Garrett e Billy the Kid”, di Sam Peckinpah (1973), interpretato da Kris Kristofferson, James Coburn, Rita Coolidge e Bob Dylan, nella parte del giornalista Alias (una figura inventata): la sua colonna sonora, ed in particolare il famoso brano Knockin’ on heaven’s door (di cui posseggo oltre 300 versioni di cantanti e gruppi di ogni Paese del mondo) ebbero un successo maggiore del film, il che non fu gradito a S. Packinpah. In Masked and Anonymous (2003), il menestrello di Duluth interpreta la rockstar Jack Fate, liberato di prigione apposta per tenere un concerto di beneficenza nel bel mezzo di un Nordamerica molto autoritario. Ma non si può dimenticare un capolavoro come Io non sono qui del 2007 (I’m not there) di Todd Haynes con sei diversi attori (Christian Bale, Cate Blanchett, Ben Whishaw, Marcus Carl Franklin, Richard Gere ed Heath Ledger), ognuno dei quali interpreta le parti in cui il regista divide la vita da artista e l’anima cangiante di Dylan, grazie a sotto-trame diverse che il film presenta con grande maestria.
Tra i docufilm su Bob Dylan, mi limito qui a citare i due di Martin Scorsese: No Direction Home: Bob Dylan (2005) e Rolling Thunder Revue (2019) che si concentrano sugli aspetti multiformi della vita e dell’arte del cantautore, mescolando realtà e fantasia. Martin Scorsese e Bob Dylan sono riusciti a regalare al pubblico una satira affascinante di tutti quei miti che le rockstar finiscono per trovarsi addosso.
Ritorniamo ora a “A complete unknown”. Bob Dylan è nato a Duluth (Minnesota) il 24 maggio 1941 ma il film, che nulla ci dice sulla sua famiglia e su come è nato il suo amore per la musica, si apre con il suo arrivo a New York nel 1961 (con il nome vero di Robert Zimmerman) e finisce dopo il Newport Folk Festival del 1965, ove il 27 luglio il menestrello impugna per la prima volta in un importante concerto la chitarra elettrica confondendo molti suoi fans ma sorprendendone altri positivamente.
Ma sia l’inizio che la fine del film hanno un altro protagonista: Woody Guthrie (interpretato da Scoot McNairy), gravemente malato per un morbo neurogenerativo, eroe di Dylan che lo va a trovare in un ospedale del New Jersey: nella stanza dov’è ricoverato canta per lui e conosce Pete Seeger che assiste il malato. Entrambi (Woody e Pete) riconoscono subito il suo talento – come avverrà poco dopo per Joan Baez - e Seeger lo aiuterà a diventare un fenomeno nei club del Greenwich Village e del centro di New York, quando Dylan “pratica” ancora la musica folk, pur interessandosi ad ogni diverso genere e studiando i diversi modi di suonare e cantare che man mano conosce.
“A complete unknown” non è dunque un film sulla vita intera di Dylan, perché ne narra poco meno di cinque anni, anni importanti per lui e per noi-
Tra le protagoniste, due bellissime attrici: Elle Fanning (che interpreta Sylvie Russo, il cui vero nome – Suze Rotolo – Dylan non ha voluto che si usasse nel film) e Monica Barbaro (che interpreta Joan Baez). È di gran classe il modo in cui il regista descrive il doppio amore di Bob per le due ragazze, la gelosia della prima e la fermezza della seconda, fino alla fine di quegli amori: il film evita qualsiasi scivolata voyeuristica, non c’è una scena di sesso ed i baci sono pochi ed immacolati. Anzi emergono evidenti i tratti duri di Dylan con le sue donne: a Joan Baez, che gli chiede un giudizio su un suo pezzo, risponde, lasciandola senza parole, che “le sue canzoni assomigliano ai quadri nello studio di un dentista”!
Ma anche la narrazione di soli 4/5 anni di vita può essere sufficiente – come in questo caso - a farci comprendere chi era e chi è Bob Dylan... questo film è infatti un inno alla sua libertà ed indipendenza, alla sua indifferenza rispetto agli interessi ed alle aspettative della società che lo circonda.
I film in cui si rievocano biografie di persone realmente esistite vengono chiamati anche biopic. Può essere tale un film che racconta solo cinque anni della vita del protagonista, peraltro famoso anche per la “scorbutica riservatezza” [2]?
Molti grandi artisti ne hanno scritto recensioni entusiaste, come Neil Young, il cui storico brano “Harvest”, costituiva la sigla della trasmissione sulla West Coast Music che ho condotto a Radio Taranto per alcuni anni. Neil Young – che ha un lungo passato di stima reciproca e di collaborazioni con Dylan con cui ha partecipato al celebre film - concerto "The Last Waltz" di Martin Scorsese nel 1978, eseguendo con lui il brano "I Shall Be Released"- ha detto: “Amo da sempre Bob Dylan e la sua musica. Questo film è un tributo meraviglioso alla sua vita e alla sua musica”.
Anche Bob Dylan ha espresso un giudizio positivo sul film, con particolare riferimento a Timothée Chalamet, il protagonista (che ha anche coprodotto il film). “Timmy è un attore brillante, quindi sono sicuro che sarà completamente credibile nei panni di me. O di un me più giovane. O di un altro me”. E secondo un importante critico del New Yorker” è stato capace di “indovinare in modo incredibile la voce e il modo di cantare di Dylan”.
Timothée Chalamet, che ha ringraziato il cantautore americano per le parole di apprezzamento nei suoi confronti, non solo si è calato nei panni del musicista, ma ha anche affrontato il ruolo dal vivo: le sue performance nel film includono decine di brani cantati e suonati in presa diretta, un’impresa che si preannunciava tanto ambiziosa quanto rischiosa.
Del resto, non c’è una sola canzone nel film che sia interpretata da Dylan o Joan Baez o da Pete Seeger in playback: tutto è cantato in modo perfetto dagli attori che, a partire da Chalamet, ne interpretano il ruolo.
A fare da contraltare alla giovane star, un cast di attori cantanti di alto livello: Edward Norton (proposto al golden globe quale migliore attore non protagonista) nei panni di Pete Seeger, figura chiave del movimento folk e testimone dell’impegno e delle tensioni sociali dell’epoca; Monica Barbaro nei panni di Joan Baez ed inoltre Scoot McNairy e Body Holbrook rispettivamente nei panni di Woody Guthrie e Johnny Cash.
Ottima la scelta di far scorrere i testi in italiano di tutti i brani che gli attori cantano. Tra l’altro, leggendo i testi dei brani di Bob Dylan, anche di quelli meno famosi, si può ben comprendere quanto meritata sia stata l’attribuzione a lui del Premio Nobel per la letteratura nel 2016.
Prima o (forse meglio) dopo aver visto il film, è da leggere il libro “Dylan Goes Electric !”, di Elijah Wald del 2015 da cui il film prende ispirazione. Il libro ricostruisce gli anni cruciali in cui il menestrello abbracciò l’elettricità, dividendo pubblico e critica e segnando uno dei punti di svolta più controversi nella storia della musica popolare.
“A Complete Unknown” si inserisce nella lunga tradizione di opere che rileggono la figura di Dylan, ma lo fa con un taglio particolare: unendo fedeltà storica e qualche licenza narrativa, ma il film mira a catturare l’essenza mutevole di un artista che ha fatto della reinvenzione di se stesso il suo manifesto[3].
Questo biopic è molto più di un semplice omaggio all’artista: un viaggio tra i miti del passato e le complessità del presente, con la musica come protagonista assoluta che rende il cinema capace di raccontare storie che risuonano oltre lo schermo.
Mangold ha dichiarato [4] che Dylan ha voluto incontrarlo dopo che la sceneggiatura era ormai conclusa. Dopo averla letta gli ha detto “mi piace”, dandogli anche qualche suggerimento. Mangold è riuscito a far emergere – come lui stesso dice – “l’atemporalità delle sue opere, ancora oggi parte integrante del tessuto americano”. Timothée Chalamet, invece, pur sperando che ciò avvenga, non lo ha mai incontrato: aveva quattro mesi per studiare e prepararsi ad interpretarlo, ma a causa della pandemia, quel periodo si è allargato fino a cinque anni così da permettergli di studiare l’uso della chitarra ed il canto. “Sapevo chi era Bob Dylan, ovvio, avevo sentito le canzoni più famose, ma conoscendolo di più mi sono innamorato profondamente della sua musica, poetica, emotiva fino a diventare devoto discepolo della Chiesa di Bob”.
È verissimo, tanto che, dopo avere visto il film ed al di là di quanto già sapevo, ho condiviso un altro giudizio di Chalamet quando ha affermato che ciò che lo affascina del giovane Dylan è “il fatto che abbia sempre creato arte senza compromessi, facendo quello che voleva..Pur essendo così giovane sapeva esattamente quello che voleva ottenere…si è fidato dell’istinto”. Chalamet ha cioè riproposto sullo schermo un artista già leggendario e ancora mitico perché la forza delle sue liriche hanno oggi la stessa attualità di 50/60 anni fa.
Chalamet ha saputo mostrare anche certi aspetti apparentemente negativi della personalità di Dylan (arroganza, troppo eccentrico, poco conciliante)?
Alla domanda Chalamet risponde che a lui invece “è parso soprattutto stimolante, provocatorio, liberatorio. Un eroe che dà vigore”[5].
Ecco perché ho già definito questo film un inno a quella libertà che ha caratterizzato la vita da artista (e immagino non solo quella) di Bob Dylan: rinunciando agli enormi guadagni che i produttori discografici gli proponevano, Dylan sceglieva da sé cosa e come suonare, i componenti dei gruppi che lo avrebbero accompagnato in concerti e registrazioni, sceglieva quando staccare la spina. E la vicenda del Newport Folk Festival di Newport del luglio del 1965 è emblematica: i produttori e musicisti storici (Pete Seeger incluso) che da anni organizzavano l’evento, lo supplicano – alla fine anche con rabbia - di suonare il folk cui il festival è da sempre dedicato, rinviando l’avventura lungo la strada del rock elettrico. Ma lui non molla di un metro: aveva già selezionato i componenti del gruppo che sarebbe salito sul palco lui e predisposto gli impianti che avrebbero amplificato il volume. Solo Johnny Cash lo sostiene e lo incoraggia.
Partono i suoi pezzi “rock-elettrici”: il pubblico, che lo ha accolto con entusiasmo ed applausi quando è salito sul palco, si divide sorpreso e ad uno spettatore che gli grida “traditore”, Dylan risponde “Non ti credo”.
Seeger tenta anche di tagliare i fili dell’amplificatore ma ad un certo punto i critici come lui iniziano a manifestare curiosità per quella storica svolta.
Dylan interrompe per poco ma ritorna sul palco ed “offre” a tutti “Like a rolling stone”, la canzone più importante nella storia del rock. Alla fine gli applausi superano fischi e proteste e Joan Baez, che ha assistito defilata alle sue performances, si avvicina a Bob Dylan, con cui da tempo ha rotto ogni rapporto sentimentale, lo guarda e gli dice, prima di girarsi ed andarsene via, che ha dimostrato di essere un uomo libero.
Ho visto due volte il film e per due volte mi sono emozionato sentendo T. Chalamet cantare “Like a rolling stone”.
Ho già comprato le versione in vinile rosso della colonna sonora del film (16 brani).
Ed ho già ordinato il relativo CD (23 brani): ci sono i pezzi che dimostrano l’amore di Dylan per il folk, per il blues, per il rock, per la musica popolare degli stati del Sud ed altro, ma anche quelli che rimandano al suo impegno sociale di quegli anni (anni in cui J. Kennedy era morto, Nixon avanzava e la guerra nel Vietnam si espandeva).
Nella colonna sonora c’è anche MASTERS OF WAR, con le cui parole Dylan auspica esplicitamente la morte dei fabbricanti d’armi.
E spero che moriate,
e la morte vi colga ben presto.
Seguirò la vostra bara
in un pallido meriggio,
resterò a vedervi calare
nel vostro letto di morte,
e rimarrò sul bordo della fossa
finché sarò sicuro che sarete proprio morti.
Pare che Joan Baez non abbia mai avuto il coraggio di eseguire l’ultima strofa di Masters of War, non se l’è mai sentita di cantare: “E spero che moriate”.
Comunque, occorre provare e riprovare a sentire quella musica e quelle parole cantate con la voce di Timothée… diventa per tutti una sfida specie guardando il volto di quel giovane che, come un moto perpetuo, canta nel Village cercando di capire gli altri e se stesso.
Ma il film sta ormai per finire: il giovane Dylan va ancora a trovare Woody Guthrie in ospedale ed ancora canta per lui, nonostante il divieto dell’infermiere. Woody se ne andrà il 3 ottobre del 1967.
Ultima scena del film: Dylan, in motocicletta, lascia l’ospedale ed esce dal campo visivo. Dove starà andando? Già verso il futuro che lo porterà fino al Nobel?
Non si può dire! Anni dopo, Joan Baez racconta che provò a parlare con lui della interpretazione che lei dava delle sue canzoni, ma Dylan le disse: “Sai, quando creperò, la gente darà sicuramente un’interpretazione di merda delle mie canzoni. Interpreteranno ogni fottuta virgola. Ma loro non sanno cosa vogliono dire le mie canzoni. Merda, non lo so neanche io”.
Difficile uscire dalla sala cinematografica mentre scorrono i titoli di coda accompagnati da tre pezzi storici.
Quali? Non ve lo dico.
---===oOo===---
Postfazione:
Non ho mai nascosto di essere un appassionato amante di tutto ciò che Bob Dylan canta, suona, scrive e forse pensa. Spesso ho scritto su di lui, anche presentando suoi concerti o con recensioni successive. La mia passione per Dylan si è però arricchita nel tempo grazie ai racconti della sua amica Fernanda Pivano, nonché partecipando a vari eventi dedicati al “menestrello di Duluth”: ad es., nel cortile del carcere di Lodi (2009), quando parlai a detenuti e cittadini del mitico Billy the Kid e di “Knockin’ on heaven’s doors”; nell’università Cattolica di Milano (2011), nella storico Liceo O. Flacco di Bari (2011), nel festival della letteratura a Bologna (2019), e nell’aula magna del Palazzo di Giustizia di Torino (nel corso di un convegno di formazione organizzato dal locale Consiglio dell’Ordine degli Avvocati su “L’ingiustizia nella parole di Bob Dylan”). Sempre a Torino, nel marzo del 2017, ho presentato il film “I’m not there” di Todd Haynes. Ho visto moltissimi concerti di Bob Dylan in tante parti del mondo (in Italia non credo di averne perso alcuno) e ammirato raccolte di sue opere visive (disegni, dipinti sculture), studiando decine di libri che riguardano lui e la sua musica. Soprattutto, ho più volte trattato il tema della giustizia e quello della ingiustizia nelle canzoni di Bob Dylan, anche con un contributo al volume “Giustizia e letteratura I”, a cura di Gabrio Forti, Claudia Mazzuccato, Arianna Visconti, con il Gruppo di Ricerca del Centro Studi “Federico Stella” sulla Giustizia penale e la Politica criminale (Vita&Pensiero, 2012). Proprio il prof. Gabrio Forti spiegò le ragioni del convegno nella Cattolica di Milano del 14 gennaio 2011: “Sono i testi che devono essere studiati e che devono parlare. Essi fanno venire alla luce i fermenti elettivi”. “E quindi – aggiungeva – non chiudiamoci nei recinti del tecnicismo giudiziario”. Ecco perché raccomando a coloro che si avvicinano a Dylan di riuscire ad essere visionari come lui e di usare soprattutto anima e cuore per “tentare di capire” le sue parole e la sua musica. La mente serve meno e lo stesso Dylan non direbbe a nessuno qual era il senso vero dei suoi brani, anzi negherebbe che ve ne sia alcuno. Come Magritte ha fatto con le sue immagini. Il modo di pensare di Dylan, comunque, alla fine influenza i suoi fedeli: nel New Mexico, più di trent’anni fa, avevo cercato la tomba di Billy The Kid nella zona indicata nelle guide, ma pare fosse stata nel frattempo spazzata via dal fiume. In fondo meglio così: nei miei ricordi lo avrei collocato in un posto preciso, mentre lui è dovunque, in ogni parte del mondo e la gente conosce il suo nome, meno quello dello sceriffo suo assassino.
Ciò che di Bob Dylan mi ha sempre affascinato sono stati la sua spasmodica attenzione per l’umanità negletta, il suo inno alla solidarietà tra e verso i deboli; l’esaltazione delle regole che, come le sue parole ci ricordano, sembrano rispettate più dai disperati che da coloro che normalmente definiamo “onesti”. Si tratta, in fondo, di un modo originale di parlare di giustizia. Se Dylan urla che “non c’è un solo uomo giusto” (Ain’t no man righteous, no not one, 1979) è perché ci sogna tutti giusti; se denuncia la giustizia forte coi deboli e debole con i potenti (The lonesome death of Hattie Carroll, 1963) è perché la vorrebbe eguale per tutti. E così ogni sua parola, alla fine, rimanda alla giustizia. La giustizia sociale che invoca chi è respinto dalla metropoli in cui si era trasferito carico di sogni e speranze (Talking New York, 1961) o la giustizia dei Tribunali che spetta a coloro che sono uccisi e torturati per il colore della pelle (The death of Emmett Till,1962) o perché semplici immigrati clandestini. Ma Bob Dylan non si limitò a cantare la giustizia: la praticò con impegno. Fu parte del movimento che, sull’onda della sua Hurricane (1975), ottenne la revisione della condanna per triplice omicidio del pugile nero Rubin Carter e la sua scarcerazione dopo 22 anni di ingiusta detenzione. Dylan lo andò a trovare in carcere, volle conoscere e capire con ostinazione e poi battersi per lui. Non dovrebbero farlo oggi, a difesa della giustizia, tutti gli italiani di buona volontà? Se avessero dubbi, consiglio loro di meditare su queste parole: “E un uomo quante volte può voltarsi e far finta di non avere visto?” (Blowin’ in the wind, 1962). Ed a quanti preferiscono il comodo quietismo per sé anzichè l’impegno per tutti domando, sempre con Dylan, “Cosa mai ci vuole per trovare dignità”? (Dignity, 1994)
E, per finire con questa postfazione, oltre che per giustificare il mio interesse da magistrato per Bob Dylan, mi piace ricordare che Robert Siegel (giornalista e regista newyorkese), in una intervista chiese a Dylan, partendo dalle numerose citazioni di sue parole che figurano in sentenze della Corte Suprema americana, “quante volte può un giudice citare una canzone di Dylan per illustrare qualche punto oscuro di diritto? E quante volte può farlo un avvocato nell’interesse del suo cliente? ” La risposta di Dylan fu “186 volte !”.
[1] Al termine di questo articolo sono leggibili alcune notizie che servono a spiegare la mia “insana ed acritica passione” (come l’ho sempre definita) per Bob Dylan.
[2] Parole di Paolo Mereghetti (Il Corriere della Sera, 18.1.25).
[3] Parole di Claudio Fabretti (Onda Rock, 13.1.2025).
[4] “Il Venerdì” di Repubblica del 10.1.2025.
[5] Intervista ad Alesasandria Venezia su “Io donna”.
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.