ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Testo rielaborato ed ampliato dell’intervento svolto nella tavola rotonda su “I diritti negati “ il 10 ottobre 2025, nell’ambito del Congresso di Area Democratica per la Giustizia che ha avuto luogo a Genova il 10-12 ottobre 2025.
1. La crisi in cui questo Congresso si svolge può forse definirsi come la più drammatica nella storia recente della magistratura italiana e di tutte le istituzioni democratiche.
La violenza di due guerre non lontane dai nostri confini ci ha consegnato fino a ieri immagini di morti, di bambini disperati, di persone affamate che tendevano una ciotola per avere un po' di cibo, di migrazioni di massa verso destinazioni sconosciute e impossibili, di potenti della terra occupati a spartirsi territori del mondo.
Nel circuito impazzito della democrazia che è sotto i nostri occhi una politica cattivista si fa promotrice di un cambiamento fatto di diritti negati, di porti chiusi, di riduzione delle persone a corpi, di infanzia violata, di rimozione di ogni seria politica di genere, di repressione di qualsiasi possibile dissenso, di creazione di nuovi reati privi di pericolosità, in un approccio panpenalista di chiara matrice populista.
Emergono nella realtà dei nostri giorni nuove diseguaglianze, accentuate dalla mancanza di servizi sociali, da moltiplicate povertà, dalla precarietà del lavoro, dal rifiuto del diverso e del migrante, dal riaffermarsi di atteggiamenti culturali di spiccata tendenza sessista, da una concezione patriarcale dei rapporti tra i generi, sulla quale alligna la cultura della violenza fisica e della sopraffazione morale delle donne.
Il tema della sicurezza è divenuto una sorta di brand pubblicitario, secondo la definizione di Armando Spataro, che serve a giustificare qualsiasi violazione dei diritti fondamentali; l’ altro tema della paura, in particolare la paura degli immigrati, è anch’ esso entrato prepotentemente al centro dell’agenda politica, mentre appaiono desolatamente assenti le questioni della sicurezza sociale, del sostegno alle famiglie e alle persone in difficoltà, della sicurezza del lavoro, della salute, del benessere ambientale, della qualità della vita, della casa, della scuola e dell’ educazione affettiva.
Il Parlamento ha perso da tempo le sue prerogative di decisore politico e prima ancora di luogo di confronto e di sintesi tra opzioni diverse per assumere un ruolo subalterno al Governo, di ratifica di decisioni prese altrove, anche quando si tratta di modificare la Costituzione. Viene così a verificarsi una progressiva erosione dei presidi democratici attuata in forme subdole e non sempre riconoscibili.
Viviamo una stagione segnata da una continua lesione dei diritti fondamentali della persona: siamo sospesi in una sorta di limbo fatto di diritti negati o resi ineffettivi, perché le generose aperture della Corte costituzionale, anche attraverso l’ elaborazione di strumenti decisori innovativi, non trovano riscontro e completamento nelle scelte del potere politico, che anzi vive ogni intervento giurisdizionale a tutela dei diritti come un inaccettabile attentato all’ autonomia degli altri poteri, mentre gli obblighi che derivano dai vincoli internazionali e sovranazionali sono vissuti con fastidio o del tutto ignorati.
2. Sono molti i diritti fondamentali che attendono da anni di essere riconosciuti e garantiti, in evidente spregio degli insistiti richiami della Consulta, diritti che è compito dei magistrati tutelare, senza il timore di liste di proscrizione. Procedo ad una loro rapida e non esaustiva elencazione.
A. C’è da completare la disciplina del cognome dei figli nati nel e fuori dal matrimonio, attraverso una legge che realizzi pienamente il principio costituzionale di parità tra i genitori ed elimini ogni traccia di quella storica, orribile discriminazione delle donne, forse la più arretrata in ambito europeo. Come è noto, la sentenza n. 286 del 2016 della Corte Costituzionale - una sentenza per certi aspetti dirompente, nonostante la sua portata limitata - nel dichiarare l’ incostituzionalità della norma non espressa, ma desumibile dal sistema, che non consentiva ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno, ritenne indifferibile un intervento legislativo che disciplinasse organicamente la materia, secondo criteri finalmente consoni al principio di parità tra i genitori, in tutti gli aspetti non coperti dalla pronuncia di incostituzionalità. Successivamente, la sentenza n. 131 del 27 aprile 2022 della stessa Corte delle leggi segnò una vera svolta rispetto al regime precedente dichiarando l’incostituzionalità dell’intero sistema di attribuzione del cognome. In motivazione la Corte definì impellente un intervento del legislatore che dettasse una disciplina coerente ed organica, evitando anche meccanismi moltiplicatori nel succedersi delle generazioni e tutelando l’interesse del figlio a non vedersi attribuire un cognome diverso rispetto a quello dei fratelli e delle sorelle.
Da allora sono passati inutilmente più di 3 anni senza che il Parlamento rispondesse ai pressanti inviti della Consulta a colmare le non poche lacune conseguenti ai suoi interventi.
Attualmente sono all’ esame delle Camere ben nove progetti e disegni di legge, ma l’iter parlamentare sembra ancora ben lontano dalla conclusione.
B. Va disciplinata la condizione dei bambini nati da maternità surrogata. Nonostante i reiterati inviti della Corte Costituzionale ad affrontare il tema, il Parlamento non è stato capace di far altro che configurare una sorta di reato universale, estendendo con la legge n. 169 del 2024 la punibilità della gestazione per altri al caso di surrogazione commessa all’ estero da cittadini italiani, peraltro bypassando disinvoltamente il principio della doppia incriminazione. Questa scelta, di chiara ispirazione propagandistica e di evidente matrice ideologica, adottata nel tripudio generale delle forze di governo, dimostra in modo plateale e con rara finezza l’incapacità della classe politica di distinguere il piano della illiceità penale della condotta degli adulti, che non è in discussione, dal rispetto della vita vera, la quale esige un principio ordinativo nei confronti dei bambini che per effetto di tale pratica sono comunque venuti al mondo e che reclamano uno status, quello stato giuridico di cui l’ art. 315 c.c. ha previsto inequivocabilmente l’ unicità.
C. Va altresì delineato in via legislativa il procedimento per la conoscenza delle proprie origini. Come è noto, la sentenza della Corte Costituzionale n. 278 del 18 novembre 2013 aveva dichiarato l’ incostituzionalità dell’ art. 28, comma 7, della legge n. 184 del 1983 nella parte in cui non prevedeva, attraverso un procedimento stabilito dalla legge idoneo ad assicurare la massima riservatezza, la possibilità per il giudice di interpellare la madre che al momento del parto avesse dichiarato di non voler essere nominata, su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, e aveva demandato al legislatore il compito di introdurre apposite disposizioni volte a consentire la verifica della perdurante attualità della scelta della madre naturale di non voler essere nominata e, nello stesso tempo, a cautelare in termini rigorosi il suo diritto all’ anonimato. Con sentenza n. 1946 del 25 gennaio 2017 le Sezioni Unite, a distanza di oltre 3 anni dalla pronuncia della Consulta, hanno affermato che la norma dichiarata incostituzionale non poteva più trovare applicazione, onde non era più possibile negare a priori al figlio l’ accesso alle informazioni sulle sue origini in forza di un vincolo non più assoluto e immodificabile, ma che il mancato intervento del legislatore nella regolazione del procedimento di interpello non esonerava gli organi giurisdizionali dall’ applicazione diretta dei principi enunciati dalla Corte Costituzionale ed imponeva di interpellare la madre ai fini di una eventuale revoca della precedente dichiarazione, reperendo sussidiariamente nel sistema le regole più idonee ed adottando modalità procedimentali capaci di assicurare la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della donna.
Sono trascorsi da allora quasi 9 anni ed il Parlamento non è stato in grado di offrire soluzioni normative idonee alla composizione degli interessi in gioco.
D. Ed ancora in materia di fine vita le importanti decisioni della Corte Costituzionale che entro determinati limiti hanno sancito la non punibilità del suicidio assistito attendono di essere integrate da scelte politiche di competenza del legislatore. Spetta invero ai nostri rappresentanti politici individuare - completando il disegno con il quale la Consulta, con l’ordinanza n. 207 del 2018 e la successiva sentenza n. 242 del 2019, e poi con le sentenze n. 135 del 2024 e n. 66 del 2025, ha fornito una solida, ma incompleta intelaiatura di una futura legge - un punto di equilibrio tra i vari interessi coinvolti e disciplinare in modo dettagliato l’ambito di liceità dell’aiuto al suicidio. È allora innanzi tutto necessario che in sede parlamentare si definisca la posizione giuridica del soggetto richiedente, ossia che si precisi se nelle situazioni date sia configurabile un diritto soggettivo ad essere aiutati a morire. Di un diritto siffatto nelle motivazioni del giudice delle leggi non vi è menzione, ed anzi pare doversi escludere l’esistenza, parlando esse solo di richiesta di aiuto e lasciando al medico la facoltà di esaudirla, così sembrando voler ridurre la possibilità di morire in modo conforme alle proprie scelte individuali tramite aiuto di terzi a mera libertà di esprimere una istanza non vincolante. È inoltre necessario che il Parlamento stabilisca se le quattro condizioni che nella pronuncia della Corte Costituzionale fissano il perimetro all’ interno del quale si legittima la richiesta di aiuto a morire siano tassative o se costituiscano solo un punto di partenza per ulteriori aperture; in detto ambito dovranno anche fornirsi elementi di chiarezza sul concetto di trattamenti di sostegno vitale. È necessario altresì, ferma la possibile individuazione di garanzie sostanzialmente equivalenti, che sia puntualmente articolata la procedura da seguire, soprattutto in relazione all’ intervento ed al potere di controllo di un organismo terzo e all’obiezione di coscienza da parte del personale sanitario, sommariamente evocati dalla Corte. È ancora importante che sia dettata una disciplina per le fattispecie precedenti la pronuncia del giudice delle leggi, che non possono essere affidate alla discrezionalità dei singoli giudici, stante l’evidente inapplicabilità al pregresso dell’iter configurato dalla Consulta.
Il testo unificato di vari disegni di legge attualmente all’ esame delle Commissioni Giustizia e Sanità del Senato, relatori Zanettin e Zullo, sembra purtroppo del tutto disallineato rispetto alle indicazioni della Consulta.
Va ricordato che di recente sono state intraprese varie iniziative a livello regionale dirette a disciplinare la materia, anticipando i tempi lunghi del Parlamento, e che anzi la Regione Toscana, ed ora anche la Regione Sardegna, si sono date una propria legge. Pur apprezzando lo spirito che anima dette iniziative e pur riconoscendo il ruolo propulsivo che esse possono svolgere nei confronti del legislatore statale, non ritengo percorribile una strada siffatta. La materia di cui si tratta è riservata alla legislazione esclusiva dello Stato (art. 117, comma 2, lett. l della Costituzione ), senza che vi sia spazio per alcuna legittimazione concorrente delle Regioni: spetta unicamente al legislatore nazionale dettare disposizioni su un tema che interseca diritti personalissimi dell’ individuo, applicabili a tutti i cittadini, mentre la legislazione regionale potrà successivamente apprestare una disciplina di dettaglio limitatamente alla fase organizzativa del servizio.
Resta altresì la necessità di una normativa diretta a disciplinare la situazione di chi, pur trovandosi nelle condizioni richieste dalla Corte Costituzionale per rendere non punibile l’aiuto al suicidio, non è in grado di togliersi la vita da solo, per essere privo anche di quel minimo di autonomia che gli consentirebbe - premendo quel pulsante o iniettandosi quel farmaco - di percorrere l’ultimo tratto del cammino verso la morte. L’ esigenza di un intervento del legislatore in tale direzione, da porre in essere con autentico spirito laico, lontano da steccati ideologici e da posizioni preconcette, appare ancor più pressante dopo la recente sentenza della Consulta n. 132 del 2025 che ha dichiarato inammissibili le proposte questioni di incostituzionalità dell’art. 579 c.p.
E. Ed ancora non può non ricordarsi che un’ importante apertura in tema di diritti della persona è stata operata dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 10 del 26 gennaio 2024 sul diritto alla affettività intramuraria dei detenuti, una sentenza destinata a rimanere negli annali della giurisprudenza costituzionale, nella quale è stata evidenziata la necessità che gli istituti di pena diano da subito attuazione a tale diritto predisponendo locali adeguati, in attesa di una legge che disciplini luoghi, tempi e modalità dell’ esercizio di esso. Il tenace ostruzionismo frapposto dalle forze di governo al rispetto delle prescrizioni contenute in detta pronuncia - tanto che le relative linee guida sono state emesse dal DAP solo l’11 aprile 2025, dopo vari interventi dei magistrati di sorveglianza - conferma una volta di più quanto lungo sia il cammino per il riconoscimento e per l’ effettività dei diritti delle persone e quanto sia lontano dalla sensibilità di chi governa il senso del limite che i diritti umani inviolabili impongono alla signoria della pretesa punitiva.
F. Penso infine alla legge n. 40 del 2004 in tema di procreazione medicalmente assistita, una legge chiaramente segnata da una marcata ideologia, ormai ridotta ad un contenitore di pochi residui divieti grazie all’ opera demolitoria della Corte Costituzionale, che richiede una riscrittura che tenga conto dei grandi cambiamenti sul piano culturale che hanno investito negli ultimi anni la famiglia, i rapporti tra i suoi componenti ed il concetto di genitorialità. Mi limito in questa sede a richiamare la recente sentenza n. 68 del 22 maggio 2025 della Corte Costituzionale che ha dichiarato l’ illegittimità costituzionale dell’ art. 8 della legge n. 40 nella parte in cui non prevedeva che anche il nato in Italia da donna che abbia fatto ricorso all’ estero, in osservanza delle norme ivi vigenti, a tecniche di procreazione medicalmente assistita ha lo stato di figlio riconosciuto pure dalla donna che abbia espresso il preventivo consenso al ricorso a dette tecniche e alla correlata assunzione di responsabilità genitoriale. Si tratta di una decisione di grande rilievo, destinata a porre fine alle molte incertezze e a superare le diverse prassi degli ufficiali dello stato civile nella redazione di atti di nascita di minori figli, in tesi, di due donne. È importante sottolineare la centralità del passaggio argomentativo in cui la Consulta ha posto a fondamento del legame genitoriale la responsabilità assunta con il consenso al progetto procreativo, così superando la logica biologistica in favore di una concezione relazionale e volontaristica della genitorialità.
Segnalo altresì che con sentenza n. 15075 del 5 giugno 2025 , di pochi giorni successiva alla decisione della Consulta, la Cassazione, in applicazione dei principi in essa espressi e dissociandosi dai propri precedenti, ha riconosciuto la fondatezza della pretesa delle due madri.
Né appare possibile ravvisare una divergenza tra la richiamata pronuncia della Corte delle leggi e la sentenza della Corte EDU che proprio ieri 9 ottobre ha affermato che l’ Italia non ha violato la Convenzione quando ha annullato l’ iscrizione anagrafica della madre intenzionale nell’atto di nascita di un bambino nato in Italia nel 2018, atteso che detta decisione si riferisce ad eventi verificatisi quando la normativa italiana non consentiva la registrazione delle due madri.
Il Parlamento dovrà pertanto darsi carico di rendere effettivo il diritto alla doppia maternità affermato dalla Consulta dettando una normativa che dia piena tutela alle famiglie omogenitoriali.
3. A fronte di tante assenze del legislatore, del prevalere di politiche sociali discriminatorie anche all’ interno della famiglia e di ideologie lesive dei diritti dei più deboli, del prorompere di nuovi sovranismi e populismi, spetta alla giurisdizione svolgere un ruolo essenziale nella promozione e nella tutela dei diritti fondamentali, ponendosi come scudo per il cittadino, come cerniera attiva tra la vita e il diritto e come sentinella a difesa delle conquiste del passato, nella consapevolezza che i diritti calpestati, come ricordava Stefano Rodotà, sono lo specchio e la misura dell’ ingiustizia.
La politica alza barricate denunciando lo strapotere dei giudici e l’abuso del loro ruolo di supplenza, con il progressivo indebolimento per tale via della funzione legislativa. Ma la politica dimentica che il rapporto tra sentenza e norma non è di rottura, ma di sviluppo del senso e della funzione che la norma trova nella sentenza, e che lì dove la norma manca il giudice ha il dovere di desumerla dai principi costituzionali e dalle fonti sovranazionali. E questo non è fare politica, ma svolgere fino in fondo la funzione che la Costituzione assegna al giudice. Ed è proprio la latitanza della rappresentanza politica su tanti fronti che attengono ad aspetti cruciali della vita delle persone a determinare la crescente richiesta di tutela giurisdizionale e la conseguente doverosità della risposta di giustizia: per tale via la voce della giurisdizione si pone come strumento essenziale per riequilibrare il piano inclinato dei diritti ed arrestare il processo in atto di erosione delle regole della democrazia.
Il prezzo da pagare per questo impegno sarà molto alto: la sistematica delegittimazione, gli attacchi all’ indipendenza, le accuse di protagonismo, il ricorso ad incaute azioni disciplinari. Ma io credo che in difesa della Costituzione e della autonomia e indipendenza della magistratura non si possa arretrare di un passo, pena la perdita di ogni dignità professionale, così come credo che la salvaguardia dei valori universali sui quali si fonda la giurisdizione costituisca il miglior viatico per contrastare la deriva autoritaria populista che ci sovrasta.
*Testo rielaborato ed ampliato dell’intervento svolto nella tavola rotonda su “I diritti negati “ nell’ambito del Congresso di Area Democratica per la Giustizia che ha avuto luogo a Genova il 10-12 ottobre 2025
Intervento del Presidente dell'ANM Cesare Parodi al Congresso di Area DG, Genova 10 ottobre 2025
Buonasera a tutti, io potrei dirvi che dovevo parlare domani – questo è vero – e questa notte contavo di scrivere il mio discorso, infarcendolo di ricche citazioni. Meno male che non l'ho fatto perché le citazioni colte, devo dire, parlo per invidia, le ha fatte tutte il presidente Pinelli. Non sto scherzando, la sua cultura ogni volta che lo sento parlare mi impressiona, però mi ha bruciato tutte le citazioni che stanotte avrei cercato. Quindi devo improvvisare, come sempre peraltro, qualcosa da dire di abbastanza intelligente.
Avevo qualche buona idea da raccontarvi, ma le ha già esposte tutte il professor Romboli, e quindi anche le possibilità che avevo di raccontarvi in qualche modo un po' di spunti orecchiati in tantissimi dibattiti ai quali ho partecipato - anche abbastanza vivaci, con esponenti di idee diverse dalle nostre - ve li ha spiegati benissimo lui.
Allora che cosa mi resta da fare? Un piccolo collage delle esperienze di questi mesi nella speranza che poi voi, parlandone in giro, possiate portarli a chi conoscete, perché credo siano utili alla nostra causa. Sempre con un'idea ben chiara: finiamola di pensare di dover parlare fra di noi, avendo come interlocutori avvocati e professori. Noi dobbiamo parlare alla gente, ai cittadini. E noi non siamo abituati a questo, io per primo sto combattendo dal primo giorno una battaglia perché dobbiamo imparare a comunicare in maniera diversa.
Certo dobbiamo conoscere gli argomenti giuridici del dibattito ma non dobbiamo pensare ‘Eh ma tanto l'Alta corte, i due CSM, come li spiego?’ e rinunciare. Sarebbe un errore.
Io prendo sempre come esempio mia zia. Mia zia è mancata tanti anni fa, era una simpatica signora della provincia di Alessandria, la zia Mariuccia, e io penso sempre a lei quando faccio questi discorsi perché devo parlare alle persone come lei ( le uniche che mi vedono in televisione perché io non esisto sulle reti nazionali quindi vado in onda quando capita dalle 15 alle 18 del pomeriggio e quindi sono abituato a questo genere di pubblico).
Però dobbiamo parlare anche agli altri e allora usare gli stessi discorsi, gli stessi argomenti travasandoli in qualche modo nel contesto degli interlocutori ai quali ci rivolgiamo.
Quando mi hanno detto che avrei dovuto parlare al congresso di Area, come sempre mi sono fidato del primo pensiero che mi viene in mente; io inizio sempre con la prima idea che mi passa per la testa e in questo caso non mi sono venuti in mente Habermas o Zagrebelsky. Mi è venuto in mente Lucio Dalla. Ognuno parla ai livelli che conosce e il primo pensiero è stato una vecchia canzone - qui c'è qualcuno vecchio come me e quindi qualcuno se la ricorda- che diceva: “cosa sarà che fa crescere gli alberi la felicità, che fa morire a vent'anni anche se vivi fino a cento?”
Ecco se parliamo alla gente dobbiamo partire da questo: cosa sarà che spinge tutti questi magistrati con sensibilità così diverse (pensate compresi quelli di MI – state tranquilli, siamo assolutamente convinti che questa riforma come dice il nostro segretario è proprio sgangherata) a condividere questa battaglia di idee e di difesa di valori?
Cosa sarà, allora, ci accomuna tutti quanti?
Spieghiamolo: noi non andremo a guadagnare meno, non avremo meno ferie, non avremo secondo me di più - addirittura forse di meno- da lavorare; spieghiamo che il 99,9 per cento dei magistrati - me compreso - non ho mai pensato di candidarsi a CSM e quindi non siamo spiaciuti di perderemo per sempre questa possibilità; spieghiamo che la maggior parte di noi non ha mai pensato e che pochissimi hanno cambiato funzioni: la cambiano i giovani che vengono mandati da una parte all'altra d'Italia. Diciamolo alla gente che non è la nostra vita che potrebbe cambiare ma che potrebbe essere la loro.
Questo è difficile da far credere; è maledettamente difficile da far credere ma è la chiave di tutto, specie quando alcuni giornali – certa stampa, così come dicono “certi magistrati” che non ci vogliono bene continuano a porci domande del tipo – ‘Ma voi non pensate di difendere i vostri privilegi, il vostro essere una casta ?”
Basta con questa di storia della casta e dei privilegi, perché non è questo il punto. Non è questo il punto ed è difficile farlo capire, perché i tempi sono brevi.
Il quadro generale che si è venuto a formare negli anni e rispetto al quale siamo stati un po' passivi, abbiamo lasciato in qualche modo che l'opinione pubblica venisse modificata un po' strumentalmente un po' accidentalmente. E oggi ci troviamo in difficoltà e abbiamo pochi mesi una nostra credibilità. Noi certo dovremmo parlare della riforma e dovremo affrontare questi temi – vedremo rapidamente magari come - ma dovremmo parlare soprattutto anche di noi di quello che è il significato del nostro lavoro, il significato della nostra presenza nella società, del perché davvero siamo qui.
Cos'è che ci spinge comunque a farci insultare, anche frequentemente? A me è capitato ed è capitato ad altri dell’ANM, con delle accuse - davvero ingiuste- di voler in qualche modo difendere i nostri famosi “privilegi! Per farci capire, andiamo sul piano della logica di base perché è la cosa più facile. Pensiamo davvero al sorteggio senza arrivare all'esempio – che ha fatto pure il professor Gatta, illustre penalista milanese, professore di diritto penale – “Neanche nel condominio noi sorteggiamo l'amministratore!”
Guardate che è un problema di logica generale, tutti possono capirlo: il principio di rappresentatività è un valore assoluto riconosciuto ovunque. Quando un avvocato a Belluno mi ha detto ‘Eh ma no guardi lei si sbaglia, 2500 anni fa ad Atene c’era il sorteggio i direi si rispondere : “Ecco, appunto 2500 anni fa, è passato un po’ di tempo.”
Vogliamo dirlo evidentemente che le cose sono cambiate… E quando gli avvocati in tutti i dibattiti ci dicono ‘C'è il tribunale dei ministri che viene sorteggiato, la corte d’assise è composta da sorteggiati “non è difficile rispondere che sono giurisdizionali non di amministrazione come è, al contrario, il Consiglio superiore della magistratura. Diciamolo questo, chiaramente.
E poi c’è un argomento che vi tireranno fuori sempre e comunque: ‘Se un giudice può mandare in carcere un uomo, se può rovinarlo dal punto di vista patrimoniale, come possiamo pensare che quel giudice non sia adatto a risiedere su uno scranno del Consiglio superiore della magistratura?’. Ribattiamo in modo semplice: “Però non è neanche adatto per votare un suo rappresentante”. Quel giudice può fare tutto ma non può neanche scegliere chi lo rappresenta.
Lo ha spiegato molto bene il professor Romboli prima di me: il Csm non è nato per tutelare i magistrati - che in quell’epoca non godevano di particolare fama visti i rapporti con il potere costituito – ma per difendere la funzione giurisdizionale. Come dice il professor Flick, per garantire non tanto la separazione dei poteri ma la separazione dal potere: questo è il punto.
Il Csm è stato chiamato a garantire la separazione dal potere politico dal potere esecutivo: questo noi dobbiamo assolutamente fare capire alle persone.
La rappresentatività è un valore che tutti, con le parole giuste, possono perfettamente comprendere perché il singolo rappresentante si fa portatore di una serie di esigenze, di criticità, di sensibilità della collettività nemmeno l'interesse solo di quella collettività ma dell'interesse comune. Questo accade in tutti i contesti umani organizzati. L'ho detto agli avvocati al congresso delle Camere Penale: voi siete fortunati avete sorteggiato l’avv. Caiazza e l’Avv. Petrelli, si fa presto a dire va bene il sorteggio. Dopo, privatamente tanti mi hanno detto che forse avevo ragione.
I due Csm. Provate a pensare, come pure alcuni accademici che probabilmente non ci amano tantissimo, hanno tratteggiato in quadro particolare, paragonando i PM separati a 2000 samurai. 2000 PM isolati, con il loro CSM che se la cantano e se la suonano e che si valutano da soli progetti organizzativi delle procure. Attenzione: a me può anche andar bene, ma va bene a tutti il fatto che verrebbe meno il controllo incrociato tra giudici e PM sull'efficienza? È davvero una garanzia migliore il fatto che ognuno valuta e decida fino in fondo sulle proprie scelte o non è meglio un sistema dove si incrociano le valutazioni, dove magari si litigano ma si arriva a un risultato efficace? Questo è un principio basilare: avremmo ai vertici della magistratura due organi che se va bene colloquiano, ma alla fine del confronto si presenta un contrasto sarà il Presidente della Repubblica a doversi impegnare per cercare un accordo? Vi sembra un sistema efficiente? Ed è così difficile da far capire questa logica per cui è proprio il lavoro in comune che è garanzia di efficacia di controllo e quindi in qualche modo di interesse della giustizia?
L’Alta corte. Dividiamo giudici e PM su tutto però l'Alta corte giudica su tutti ugualmente. La riforma separa PM e giudici in tutto ma proprio l'Alta corte è una per tutti. Vi è una logica ? Non solo: un altro argomento logico, secondo me molto forte. La riforma cambia il Csm e le rende un meraviglioso organo in quanto prevede il sorteggio dei componenti (come nel bingo i componenti). Quindi avremo un Csm che funziona benissimo e che può fare tutto ma che non può svolgere la funzione disciplinare. Strano, vero ?
Come la mettiamo: se è composto di sorteggiati quindi dovrebbe funzionare per tutto. O no ? Forse anche questo problema potrei provare a spiegarlo anche a mia zia.
E ancora: non c'è nessuna garanzia che la quota politica abbia una rappresentatività delle minoranze. Voi direte un dettaglio? No, non è un dettaglio perché se modificano questo aspetto, tutti i membri politici che saranno sorteggiati saranno appartenenti alla maggioranza. Vi sembra normale questo? Vi sembra un dato non inquietante? Secondo me lo è.
E poi , ovviamente , bisogna sottolineare che una valutazione disciplinare nasce dalla conoscenza della vita di un ente, di un organo, dei soggetti che in quell’ente lavorano. Per l’Alta Corte avremo dei giuristi magari bravissimi totalmente astratti dal contesto che devono valutare. Io mi sono occupato di difese disciplinare (per adesso per altri, ma non si può mai dire). Può capitare di depositare una sentenza con qualche giorno di ritardo: se noi andiamo ad effettuare una valutazione astratta ci sarà quasi certamente una condanna. Se al contrario si spiega - come a me è capitato - del perché c'è stato questo ritardo, delle ragioni del contesto, ossia se procediamo alla contestualizzazione della valutazione della colpa, potrebbe esserci una assoluzione. È un principio che noi applichiamo a tutti: ai medici, agli ingegneri, ma per i magistrati sarebbe molto difficile farlo applicare in termini generali.
Un ultimo tema: la separazione delle carriere. Questa è stata una straordinaria operazione di marketing del governo, bisogna riconoscere assolutamente questa grande capacità. Hanno intercettato questa volontà ultratrentennale di una parte autorevole dei penalisti italiani, forse neppure di tutti, per instradare tutto un movimento di pensiero che fa capo agli avvocati italiani a favore della riforma. Una riforma che il professor Romboli ci ha detto si poteva introdurre con una legge ordinaria. E ciò, per sfruttare un antico desiderio dell’avvocatura. Anche in questo caso, molti mi hanno detto privatamente “Il sorteggio… beh sì dottore ha ragione però la separazione delle carriere la aspettiamo da trent'anni quindi lei mi capisce che non posso non votare la riforma’.
Lo capisco anche troppo bene questo discorso, ma noi dobbiamo essere pronti a fronteggiare quest'argomento. Non è difficile. Quando vi dicono che esiste un unico modello di processo accusatorio nell'alto dei cieli, che c'è il processo accusatorio dove il giudice è separato dal PM, sarebbe simpatico rispondere che non è così
Non è vero, non esiste un modello ideale, unico garantito in tutto il mondo. Provate a pensare, raccontatelo anche ai vicini di casa ‘Ma lei vorrebbe veramente un processo accusatorio dove le sentenze non sono motivate, dove decide la giuria senza nessuna motivazione?’ Un processo dove se l’imputato vuole rendere interrogatorio deve dire la verità?
Basterebbe questo per capire che il nostro è un altro mondo e- posso dirlo - migliore. Il nostro è un mondo migliore perché ha coniugato esigenze di civiltà giuridica diverse. E spiegate due cose semplicissime: che non esiste da nessuna parte al mondo un processo accusatorio in un paese dove l'azione penale è obbligatoria. Trovatemene uno, perché non può funzionare; nel 1984 l'onorevole Casini commentando quello che sarà poi il progetto del nuovo codice dell'89 ha detto “facciamo questo progetto che sicuramente sarà molto bello e potrà funzionare se la maggior parte dei processi si svolgerà con riti alternativi’.
Noi abbiamo un processo accusatorio – come molti affermano- che tuttavia si regge come sistema sul fatto che la maggior parte dei processi vengono svolti con un rito che non è accusatorio: l'abbreviato non è accusatorio, non lo è il patteggiamento, non lo è decreto penale. Questo è il punto. Diciamo allora chiaramente che il nostro sistema è equilibrato, ma accusatorio all’italiana. Il professor Romboli mi ha fregato la battuta più bella quando ha detto che quando hanno riscritto l’art. 111 nel 1999 – inserendo in Costituzione una norma che in realtà è una norma procedurale- non hanno perlato di separazione delle carriere.
E pure non hanno chiamato mia zia e le sue amiche per riscrivere l’art. 111: han preso di fior di giuristi che però si sono dimenticati di scrivere che bisognava anche separare le carriere. È strano che giuristi raffinati e colti questo dettaglio la hanno dimenticato: chissà come mai. In un dibattito, un giornalista a fronte del fatto che il giudice è già in realtà terzo, ha risposto “Il giudice sì è già terzo, ci vorrebbe un giudice un po’ più terzo” . Avrei dovuto rispondergli: “Guardi facciamo quarto e la chiudiamo qua”.
E allora finisco ovviamente con l'invito che vi ho fatto all'inizio, invito molto difficile. A me è capitato, molti anni fa, come esperienza personale di pronunciare parole per me molto importanti, tre le parole più importanti della mia vita e sentirmi rispondere ‘questa è retorica vuota’
Mi è successo ed è un ricordo terribile ed è il timore che vivo ancora oggi tutti i giorni, quando vado in giro e spiego ai cittadini che noi facciamo tutto questo perché crediamo che quello attuale sia il sistema migliore per voi e non per noi. Temo che molti possano pensare che anche questa è retorica vuota.
E allora io vi chiedo, noi vi chiediamo come ANM, un forte impegno in questo senso. Un impegno di testimonianza, che vada al di là della riforma, che parli veramente di quella che è la nostra vita, del nostro ruolo nella società. Dobbiamo raccontarci, raccontarci in modo diverso un po’ più vero di quanto fanno in tanti in maniera strumentale.
Io amo molto uno scrittore che forse non è più popolare da tanti anni, che ha scritto una volta “la gran cosa è resistere e fare il nostro lavoro e vedere e udire imparare capire; e scrivere, quando si sa qualcosa e non prima e porco cane – lo scrive lui e non io – nemmeno troppo dopo”.
E questo è quello che ci aspetta: noi sappiamo cosa dire, oggi è il momento di dirlo con chiarezza sulla riforma e non solo: parliamo del nostro lavoro, delle nostre fatiche e dei nostri dubbi, perché in questo momento, e non dopo, noi oggi possiamo parlare.
Proveranno a fermare le nostre parole. Già più volte, avrete notato, qualcuno ha detto che si tratta di politica, che, come magistrati dovremmo astenerci dal parlare anche dei temi della riforma, lasciando intendere la possibilità di porre dei vincoli, magari disciplinari, per condizionare la nostra possibilità di esprimerci su questi temi.
Se lo faranno ancora, se proveranno a farlo, sarà un buon segno perché vuol dire che staremo colpendo nel segno. E allora voglio terminare con queste precise parole: se ci sarà - e non posso escluderlo- una volontà di fermare anche le nostre parole magari con una minaccia di legge disciplinare, legata anche al nostro manifestarci su questo tema sul quale abbiamo diritto di parlare prima di tutto come cittadini io sarò il primo a denunciarmi. So anche chi sarà il secondo perché qua in prima fila davanti a me e sono convinto che molti altri lo faranno, magari anche tra quelli presenti in questa sala.
Grazie.
Trascrizione del discorso fatto a braccio a Genova.
Sommario: 1. Premessa - 2. Le ragioni del procedimento ex art. 445 bis c.p.c. - 3. La riforma dell’art. 445 bis - 4. La decorrenza del termine per la formulazione del dissenso - 5. La sospensione del procedimento - 6. Ambito applicativo dell’art. 445 bis c.p.c. riformato - 7. Riflessioni conclusive.
1. Premessa
Il D.L. n. 117/2025, intitolato “Misure urgenti in materia di giustizia”, pubblicato in G.U. l’8/8/2025 ed entrato in vigore il giorno successivo, approvato – come è espressamente dichiarato nel decreto stesso - in ragione della “straordinaria necessità e urgenza di introdurre disposizioni che incidono sull'organizzazione giudiziaria e sul processo civile per agevolare il raggiungimento degli obiettivi previsti dal piano nazionale di ripresa e resilienza entro il termine del 30 giugno 2026”, è intervenuto attraverso l’art. 7 sull’art. 445 bis c.p.c., al fine accelerare il processo civile, eliminando “incombenti non utili rispetto alla definizione dei procedimenti per accertamento tecnico preventivo in materia previdenziale e assistenziale”.
Ebbene, appare opportuno analizzare l’art. 445 bis c.p.c. per comprendere quanto la riforma possa essere utile o meno alla finalità dichiarata.
2. Le ragioni del procedimento ex art. 445 bis c.p.c.
L’art. 445 bis è stato inserito nel codice di procedura civile dall’art. 38, comma 1, lett. b) n. 1) del D.L. 6 luglio 2011, convertito con modificazioni nella L. 15 luglio 2011, n. 111.
La norma così prevede(va):
Nelle controversie in materia di invalidità civile, cecità civile, sordità civile, handicap e disabilità, nonché di pensione di inabilità e di assegno di invalidità, disciplinati dalla legge 12 giugno 1984, n. 222, chi intende proporre in giudizio domanda per il riconoscimento dei propri diritti presenta con ricorso al giudice competente ai sensi dell'articolo 442 codice di procedura civile, presso il Tribunale nel cui circondario risiede l'attore, istanza di accertamento tecnico per la verifica preventiva delle condizioni sanitarie legittimanti la pretesa fatta valere. Il giudice procede a norma dell'articolo 696 - bis codice di procedura civile, in quanto compatibile nonché secondo le previsioni inerenti all'accertamento peritale di cui all'articolo 10, comma 6-bis, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, e all'articolo 195.
L'espletamento dell'accertamento tecnico preventivo costituisce condizione di procedibilità della domanda di cui al primo comma.
L’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto a pena di decadenza o rilevata d'ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il giudice ove rilevi che l'accertamento tecnico preventivo
non è stato espletato ovvero che è iniziato ma non si è concluso, assegna alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione dell' istanza di accertamento tecnico ovvero di completamento dello stesso.
La richiesta di espletamento dell'accertamento tecnico interrompe la prescrizione.
Il giudice, terminate le operazioni di consulenza, con decreto comunicato alle parti, fissa un termine perentorio non superiore a trenta giorni, entro il quale le medesime devono dichiarare, con atto scritto depositato in cancelleria, se intendono contestare le conclusioni del consulente tecnico dell'ufficio.
In assenza di contestazione, il giudice, se non procede ai sensi dell'articolo 196, con decreto pronunciato fuori udienza entro trenta giorni dalla scadenza del termine previsto dal comma precedente omologa l'accertamento del requisito sanitario secondo le risultanze probatorie indicate nella relazione del consulente tecnico dell'ufficio provvedendo sulle spese. Il decreto, non impugnabile né modificabile, è notificato agli enti competenti, che provvedono, subordinatamente alla verifica di tutti gli ulteriori requisiti previsti dalla normativa vigente, al pagamento delle relative prestazioni, entro 120 giorni.
Nei casi di mancato accordo la parte che abbia dichiarato di contestare le conclusioni del consulente tecnico dell'ufficio deve depositare, presso il giudice di cui al comma primo, entro il termine perentorio di trenta giorni dalla formulazione della dichiarazione di dissenso, il ricorso introduttivo del giudizio, specificando, a pena di inammissibilità, i motivi della contestazione.
L’art. 27, comma 1, lett. f) della L. n. 183/2011 ha aggiunto l’ultimo comma “La sentenza che definisce il giudizio previsto dal comma precedente è inappellabile”.
Tale procedimento è entrato in vigore l’1/1/2012 per i giudizi introdotti da tale data in poi.
Il procedimento ex art. 445 bis c.p.c. nasceva dalla consapevolezza che il punctum dolens delle controversie in materia previdenziale ed assistenziale, dove era necessario accertare la sussistenza di un determinato requisito sanitario per fruire di una prestazione, per lo più erogata dall’INPS, riguardava proprio l’accertamento di tale requisito sanitario, sicché, accertato quello, il Giudice, procedeva con l’accertamento degli altri requisiti per fruire di una data prestazione e, in caso di accertamento positivo, condannava l’ente erogatore al pagamento della prestazione.
La domanda era dunque una domanda del ricorrente avente ad oggetto la condanna dell’INPS o di altro ente erogatore al pagamento della prestazione richiesta, previo accertamento della sussistenza di tutti i requisiti per la fruizione della prestazione stessa.
Il procedimento ordinario, prima dell’entrata in vigore dell’art. 445 bis c.p.c., aveva tempi più o meno lunghi a seconda della quantità di contenzioso previdenziale ed assistenziale in ciascun Tribunale; ciò significava che, in non pochi Tribunali soprattutto del Sud, in cui il contenzioso previdenziale contava e conta ancora diverse migliaia di nuovi procedimenti all’anno, per ottenere una sentenza di condanna all’erogazione di una prestazione correlata all’accertamento di uno stato invalidante, un ricorrente poteva dover attendere anche diversi anni.
Sicché il procedimento ex art. 445 bis c.p.c., concentrandosi su una fase di accertamento del solo requisito sanitario e prevedendo, in caso di esito positivo per il ricorrente, una seconda fase di carattere amministrativo in cui l’ente erogatore verifica la sussistenza degli altri requisiti e provvede al pagamento entro 120 giorni, ha senz’altro ridotto i tempi complessivi per l’erogazione della prestazione richiesta.
Al fine di analizzare le modifiche che introdotte dall’art. 7 del D.L. n. 117/2025 appare utile analizzare la struttura del procedimento ex art. 445 bis c.p.c.
Il cuore pulsante del procedimento in parola è la CTU medico-legale disposta per verificare la sussistenza del requisito sanitario per fruire di una prestazione assistenziale o previdenziale, secondo la scansione temporale prevista dall’art. 195 c.p.c., richiamato espressamente dall’art. 445 bis c.p.c.
Il CTU incaricato deve dunque fissare l’inizio delle operazioni peritali, dandone comunicazione alle parti e comunque inviando, entro 15 giorni antecedenti l'inizio delle operazioni peritali, anche in via telematica, apposita comunicazione al direttore della sede provinciale dell'INPS competente o a suo delegato. La comunicazione in parola è prevista a pena di nullità della consulenza ai sensi dell’art. 10, comma 6 bis, del D.L. n. 2023/2005 convertito con modificazioni dalla L. n. 248/2005.
Successivamente il CTU deve trasmettere la relazione (cd. bozza) alle parti costituite nel termine stabilito dal giudice, le parti hanno la possibilità di trasmettere al CTU eventuali osservazioni, sempre in un termine giudizialmente stabilito, quindi il CTU provvede al deposito dell’elaborato peritale, rispondendo alle eventuali osservazioni. Va detto che il CTU deposita telematicamente in cancelleria la relazione, le osservazioni delle parti e una sintetica valutazione sulle stesse, senza obbligo di trasmissione alle parti della risposta alle osservazioni.
Le scansioni temporali della CTU sono indicate espressamente dal Giudice nel provvedimento di conferimento dell’incarico peritale.
Ebbene, secondo l’impostazione originaria dell’art. 445 bis c.p.c., terminate le operazioni di consulenza mediante deposito in cancelleria dell’elaborato peritale, il Giudice con decreto comunicato alle parti, fissava un termine perentorio non superiore a trenta giorni, entro il quale le medesime dovevano dichiarare, con atto scritto depositato in cancelleria, se intendevano contestare le conclusioni del consulente tecnico dell'ufficio.
In caso di contestazione, la parte dissenziente aveva ed ha ancora l’obbligo di introdurre il giudizio di merito di cui al sesto comma dell’art. 445 bis c.p.c. entro il termine perentorio di trenta giorni, decorrente dal deposito del dissenso; viceversa, in assenza di esplicito dissenso, il Giudice procedeva ad emettere il decreto di omologa ovvero ad omologare l’accertamento del requisito sanitario secondo le risultanze della CTU, salva l’applicazione dell’art. 196 c.p.c.
In alcuni Tribunali, applicando alla lettera l’art. 445 bis, comma 4, c.p.c., solo successivamente al deposito della CTU in Cancelleria, il Giudice emetteva un decreto, comunicato alle parti dalla Cancelleria, contenente l’assegnazione del termine perentorio per contestare le conclusioni del CTU.
In tal caso, vi era un lasso temporale tra il deposito della CTU e l’emissione del decreto di cui all’art. 445 bi comma 4 c.p.c., imponderabile nella sua durata.
Già durante la vigenza della suddetta normativa, in diversi Tribunali d’Italia era invalsa la prassi di assegnare, contestualmente al conferimento dell’incarico al CTU (comunicato a mezzo pec dalla cancelleria alle parti e al CTU) il termine per la formulazione del cd. dissenso (termine di massimo trenta giorni), termine che inevitabilmente decorreva dal momento in cui la Cancelleria comunicava alle parti il deposito della CTU.
Su tale modalità di assegnazione del termine per la formulazione del dissenso l’unica pronuncia della Corte di Cassazione che si registra è l’ordinanza n. 9356 del 5/4/2023, che, cassando un decreto di omologa emesso dal Tribunale di Trani, ha così ritenuto: “Il decreto di omologa dell'accertamento tecnico preventivo di cui all'art. 445-bis c.p.c. è ricorribile per cassazione, ai sensi dell'art. 111 Cost., se pronunziato dal giudice senza la previa fissazione - con decreto comunicato alle parti e all'esito delle operazioni di consulenza - di un termine non superiore a trenta giorni per contestare le conclusioni del c.t.u., perché proprio dallo spirare del predetto termine (posto a salvaguardia del diritto di difesa) deriva, in difetto di contestazioni, l'intangibilità dell'accertamento”.
La pronuncia in parola aveva creato allarme fra i giudici di merito, poiché ci si chiedeva se fosse messa in discussione la prassi invalsa, soprattutto in Tribunali con migliaia di nuove iscrizioni all’anno di procedimenti ex art. 445 bis c.p.c., di assegnare - contestualmente al conferimento dell’incarico peritale al CTU – il termine perentorio per il dissenso, salva la decorrenza del termine dalla comunicazione del deposito della CTU.
E ciò in quanto, se ciò che deve essere salvaguardato è il diritto di difesa, si argomentava che tale diritto poteva ritenersi salvaguardato anche quando la decorrenza del termine perentorio sia conosciuta dalle parti in un momento precedente al deposito della CTU e più specificatamente con il conferimento dell’incarico peritale.
Nel caso affrontato dalla Corte di Cassazione non è chiaro se, a fronte della doglianza del ricorrente circa l’omessa concessione del termine da parte del Giudice, la controparte - e cioè l’INPS - abbia dedotto che quel termine era stato assegnato nell’ordinanza di conferimento dell’incarico peritale con decorrenza dal momento di cui si è detto innanzi (prassi seguita dal Tribunale di Trani) ovvero se tale prassi non sia mai stata sottoposta all’attenzione dei Giudici di legittimità.
3. La riforma dell’art. 445 bis
Con l’art. 7 del D.L. 8 agosto 2025, n. 117, sono state apportate modifiche all’art. 445 bis c.p.c.
Il primo comma dell’art. 7 così dispone:
All'articolo 445-bis del codice di procedura civile sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al primo comma, le parole «codice di procedura civile», ovunque ricorrono, sono soppresse;
b) il quarto comma è sostituito dal seguente: «Il conferimento dell'incarico al consulente o, se successivo, il giuramento di quest'ultimo, determina la sospensione del procedimento fino alla scadenza del termine previsto dal quarto periodo. La sospensione non impedisce l'espletamento della consulenza. Il deposito della consulenza tecnica di ufficio è comunicato dalla cancelleria alle parti. Queste ultime, entro il termine perentorio di trenta giorni dalla comunicazione, se intendono contestare le conclusioni del consulente tecnico dell'ufficio, devono depositare la relativa dichiarazione.».
Il secondo comma, riguardante i procedimenti a cui si applica la novella, stabilisce che “Le modifiche di cui al comma 1, lettera b), si applicano anche ai procedimenti pendenti nei quali, alla data di entrata in vigore della presente disposizione, non è stato ancora conferito l'incarico al consulente tecnico di ufficio”.
L’art. 7, comma 1, lettera a) del D.L. 8/8/2025 n. 117, correggendo un refuso presente nell’art. 445 bis, comma 1, c.p.c., stabilisce la soppressione delle parole “codice di procedura civile” ovunque ricorrano.
La parte rilevante della riforma riguarda la riformulazione dell’art. 445 bis, comma 4, c.p.c., in relazione a tre aspetti: la decorrenza del termine per la formulazione del dissenso; la sospensione del procedimento; l’applicazione della riforma non solo ai procedimenti instaurati successivamente alla sua entrata in vigore (9 agosto 2025) ma anche ai procedimenti pendenti, purché non sia stato ancora conferito l’incarico peritale.
4. La decorrenza del termine per la formulazione del dissenso
Per quanto riguarda il primo aspetto, il legislatore del 2025 ha dunque previsto espressamente che, successivamente al deposito della CTU e alla comunicazione della stessa alle parti ad opera della Cancelleria, inizi a decorrere automaticamente il termine di trenta giorni perché le parti depositino un atto di dissenso rispetto alle conclusioni del CTU.
Di fatto la novella sposa la prassi dei Tribunali di merito di cui si è detto prima, eliminando dunque la necessità, successivamente alla comunicazione del deposito della CTU, di un apposito decreto del Giudice, nella sostanza automatico e dalle tempistiche processuali non definite. In tal modo i tempi di durata e di definizione di un procedimento ex art. 445 bis c.p.c. saranno senz’altro ridotti, essendo azzerato completamente il lasso temporale intercorrente tra la comunicazione di deposito della CTU e la decorrenza del termine per il dissenso.
Resta invece invariato, prima e dopo la riforma, il potere del giudice di emettere i provvedimenti di cui all’art. 196 c.p.c. in ordine alla rinnovazione delle indagini e alla sostituzione del CTU, prima di procedere, nel caso in cui alcuna delle parti abbia proposto il dissenso, con l’emissione del decreto di omologa.
5. La sospensione del procedimento
Il secondo aspetto su cui ha inciso la riforma, più significativo e allo stesso tempo più problematico, riguarda la sospensione del procedimento ex art. 445 bis c.p.c.
Il nuovo quarto comma della norma introduce nell’ordinamento una nuova ipotesi di sospensione, prevedendo che il procedimento ex art. 445 bis c.p.c. resti sospeso dal momento del conferimento dell’incarico peritale o del giuramento (se successivo al conferimento dell’incarico) fino alla decorrenza del termine di trenta giorni per la formulazione del dissenso.
In relazione alla decorrenza della sospensione, va detto che non sempre vi è coincidenza temporale tra giuramento del CTU (rectius accettazione dell’incarico del CTU) e conferimento dell’incarico peritale da parte del Giudice.
Infatti, mentre prima dell’era COVID e dell’introduzione del procedimento a trattazione scritta, generalmente in pubblica udienza il Giudice, nel contraddittorio delle parti raccoglieva il giuramento del CTU (precedentemente nominato) e contestualmente conferiva l’incarico peritale al CTU, con la legislazione d’emergenza prima e con l’entrata in vigore dell’art. 127 ter c.p.c. poi i due momenti sono stati sostanzialmente scissi: il Giudice, che dispone la sostituzione dell’udienza di conferimento dell’incarico con il deposito di note di trattazione scritta, può nominare nel decreto di fissazione dell’udienza il CTU, assegnandogli un termine per l’accettazione dell’incarico, e contestualmente fissare il termine alle parti per il deposito di note di trattazione scritta. In tal caso, la sospensione del procedimento inizia a decorrere dal momento in cui il Giudice, in presenza di contraddittorio e di accettazione dell’incarico del CTU ed in assenza di motivi ostativi all’accertamento peritale, emetta il provvedimento di conferimento dell’incarico peritale.
La scissione dei due momenti può verificarsi anche se il Giudice ha fissato l’udienza di conferimento dell’incarico in presenza, avendo già richiesto ed ottenuto in forma scritta (ovvero con atto depositato telematicamente) l’accettazione del CTU. Anche in tal caso dall’udienza del conferimento dell’incarico peritale il procedimento deve considerarsi sospeso.
Può accadere tuttavia che il Giudice, all’esito del contraddittorio delle parti, conferisca l’incarico peritale al CTU, il quale non ha ancora accettato l’incarico, ovvero non ha prestato giuramento: ebbene in tal caso il comma 4 dell’art. 445 bis c.p.c. prevede che la sospensione decorra dal giuramento successivo al conferimento dell’incarico.
La ratio della norma è evidentemente quella di far decorrere la sospensione dal momento in cui tutti i soggetti processuali sono a conoscenza che non vi sono ostacoli all’avvio delle operazioni peritali.
Il termine finale della sospensione è espressamente indicato dalla norma, che rimanda al quarto periodo del comma 4 e dunque alla scadenza del termine perentorio di trenta giorni per la formulazione del dissenso.
Dal tenore letterale della norma sembra che la sospensione del procedimento non necessiti di un provvedimento esplicito del Giudice, così come – successivamente alla scadenza del termine per la proposizione del dissenso – non occorre un provvedimento giudiziale che in qualche modo dichiari o certifichi che il procedimento non è più sospeso.
L’aspetto più rilevante della norma - e certamente quello più attenzionato - riguarda la previsione espressa per cui “La sospensione non impedisce l'espletamento della consulenza”.
Si tratta in sostanza dell’introduzione di una nuova forma di sospensione prevista dal legislatore, perché, mentre in linea generale se un processo è sospeso non può essere svolta alcuna attività processuale nel giudizio, se non il deposito di un atto di riassunzione, nel caso in esame è esattamente l’opposto: l’introdotta sospensione non modifica di una virgola le modalità di espletamento delle operazioni peritali, che si dovranno svolgere esattamente come prima della riforma, secondo le scansioni temporali previste dall’art. 195 c.p.c., a cui va aggiunta l’automatica decorrenza del termine di trenta giorni per la formulazione del dissenso introdotta dalla novella.
Le ragioni che hanno spinto il legislatore dell’emergenza ad una siffatta previsione sono dichiarate nel preambolo del D.L. n. 117/2025: “la straordinaria necessità e urgenza di introdurre disposizioni che incidono sull'organizzazione giudiziaria e sul processo civile per agevolare il raggiungimento degli obiettivi previsti dal piano nazionale di ripresa e resilienza entro il termine del 30 giugno 2026”.
Le misure previste nel decreto-legge sono dunque tutte dichiaratamente volte al raggiungimento degli obiettivi previsti dal PNRR; per quanto riguarda nello specifico in relazione al procedimento ex art. 445 bis c.p.c., le misure previste hanno il dichiarato fine di intervenire a fini acceleratori sul processo civile per eliminare incombenti non utili rispetto alla definizione dei procedimenti per accertamento tecnico preventivo in materia previdenziale e assistenziale.
Mentre la modifica sulla decorrenza del termine per la formulazione del dissenso è una misura che in concreto ridurrà le tempistiche di un accertamento tecnico preventivo ex art. 445 bis c.p.c., la sospensione del procedimento prevista dalla novella – a ben riflettere – non ridurrà in concreto alcuna durata del procedimento, se per durata del procedimento si intende il tempo necessario per l’accertamento del requisito sanitario utile a fruire di una prestazione assistenziale.
E allora l’unica ipotizzabile ragione della prevista sospensione non può che risiedere nel predetto fine di raggiungimento degli obiettivi del PNRR, nel caso specifico nel raggiungimento dell’obiettivo del Disposition Time (DT). Tale dato misura la durata media dei processi e che è calcolato come rapporto tra i procedimenti pendenti e quelli definiti in un anno, moltiplicato per 365 giorni.
Considerato che l’Italia ha concordato la riduzione del 40% del Disposition Time entro il 30 giugno 2026 e che ad oggi è ancora ben lontana dal raggiungimento di tale obiettivo, la sospensione del procedimento ex art. 445 bis c.p.c. durante il tempo di espletamento della CTU costituisce di fatto un escamotage statistico per espungere dalla durata del procedimento tutto il tempo occorrente per l’espletamento della CTU e per la formulazione del dissenso. Il risultato sarà inevitabilmente la significativa riduzione del DT nelle decine se non centinaia di migliaia di procedimenti ex art. 445 bis c.p.c. pendenti in tutti i Tribunali d’Italia.
Non essendo necessario un provvedimento giudiziale che sospenda il procedimento, la riuscita della riforma dipenderà essenzialmente dalla rapidità e dalla correttezza con cui gli operatori di cancelleria registreranno sui sistemi informatici l’evento della sospensione.
Va detto che, in attesa dell’aggiornamento dei sistemi informatici – in particolare dell’applicativo SICID - il Ministero della Giustizia – Dipartimento per gli affari di Giustizia congiuntamente al Dipartimento per l’Innovazione tecnologica, in data 18/8/2025 ed in data 1/9/2025 ha diramato istruzioni operative, al fine di fornire indicazioni omogenee al personale di cancelleria per annotare tempestivamente e correttamente l’evento della sospensione, con la versione dell’applicativo in uso e in via provvisoria, fino all’adeguamento dell’applicativo alla disposizione in parola.
Tali istruzioni riguardano sia le modalità di annotazione della sospensione, con l’inserimento di un’annotazione obbligatoria uguale per tutti, sia le modalità di registrazione di eventi che in via ordinaria si verificheranno, ad esempio il deposito della CTU.
L’aggiornamento del sistema informatico in relazione alla modalità di registrazione del giuramento con contestuale sospensione del procedimento è stato effettuato in data 26/9/2025. Tuttavia non ogni problematica è stata risolta.
Alla registrazione del giuramento del CTU e del deposito dell’elaborato peritale potrà doversi aggiungere la registrazione di altre operazioni (quali il deposito di documentazione sopravvenuta con conseguente autorizzazione giudiziale ex art. 149 disp. att. c.p.c., la rinuncia all’incarico peritale con sostituzione del CTU), dalla cui correttezza dipenderà la durata stessa del procedimento in termini statistici.
Senza tralasciare l’eventualità che il Giudice abbia la necessità di dover sollecitare il CTU al deposito dell’elaborato peritale perché sono decorsi i termini stabiliti nel provvedimento di conferimento dell’incarico peritale ovvero di dover adottare i conseguenti provvedimenti, a seguito dell’eventuale inerzia del CTU nonostante il sollecito. Durante il compimento di tutta questa attività, sembrerebbe che il procedimento debba considerarsi comunque sospeso, ai sensi dell’art. 445 bis c.p.c., senza che sia necessario alcun provvedimento giudiziale sulle sorti della sospensione. Anche se, quanto meno nelle ipotesi in cui l’incarico peritale cessi per varie ragioni (se il CTU rinunci all’incarico dopo il regolare conferimento dello stesso o il ricorrente non si sia presentato a visita peritale ed il CTU abbia rimesso gli atti al Giudice) il procedimento dovrebbe non ritenersi più sospeso, almeno fino ad un nuovo conferimento di incarico.
6. Ambito applicativo dell’art. 445 bis c.p.c. riformato
L’art. 2, comma 7, del D.L. 8/8/2025 n. 117 delinea l’ambito di applicazione delle modifiche apportate all’art. 445, comma 4, c.p.c., prevedendo che la novella si applichi non solo ai procedimenti instaurati successivamente all’entrata in vigore del Decreto-Legge, bensì anche ai procedimenti pendenti. In relazione a questi è tuttavia necessario che non sia stato conferito ancora l’incarico peritale al consulente tecnico d’ufficio ovvero, se conferito, il CTU non abbia ancora prestato giuramento.
Rientrano dunque nell’ambito applicativo della riforma i procedimenti, instaurati anteriormente al 9/8/2025, se: 1) il Giudice non ha ancora nominato il consulente tecnico d’ufficio; 2) il Giudice, pur avendo nominato il consulente tecnico d’ufficio, non ha ancora conferito l’incarico peritale a quest’ultimo; 3) il Giudice ha conferito l’incarico peritale al consulente tecnico d’ufficio, ma quest’ultimo non ha ancora prestato giuramento.
Non rientrano invece nella riforma quei procedimenti nei quali alla data del 9/8/2025: 1) il Giudice ha conferito l’incarico peritale al consulente tecnico d’ufficio e questi abbia già prestato giuramento; 2) la Consulenza Tecnica d’Ufficio è stata già depositata ed il fascicolo è in attesa della concessione del termine per il dissenso; 3) il termine per il deposito del dissenso è in corso; 4) il termine per il dissenso è decorso ed il fascicolo è in attesa di emissione del decreto di omologa da parte del Giudice.
Potrebbe dubitarsi dell’applicazione della novella nell’ipotesi in cui, prima del 9/8/2025, sia stato conferito l’incarico peritale al consulente tecnico d’ufficio, ma gli atti sono stati rimessi al Giudice perché il consulente ha rinunciato all’incarico o perché il ricorrente non si è presentato alle operazioni peritali: in tal caso, qualora successivamente al 9/8/2025 sia nuovamente conferito l’incarico peritale al medesimo Consulente o sia conferito l’incarico peritale ad altro consulente il comma 4 riformato dovrebbe trovare applicazione, dovendosi fare riferimento – per l’applicazione della novella - al conferimento di ogni singolo incarico peritale.
7. Riflessioni conclusive
La riforma dell’art. 445 bis c.p.c., in particolare del comma 4, rientra tra le varie misure che il legislatore d’urgenza ha emanato attraverso il D.L. n. 117/2025 per raggiungere gli obiettivi del PNRR in relazione allo smaltimento dell’arretrato civile.
Se la decorrenza cd. “automatica” del termine per la formulazione del dissenso è una misura che consentirà una effettiva accelerazione processuale, per le ragioni innanzi illustrate, forti dubbi residuano sulla necessità di sospendere i procedimenti ex art. 445 bis c.p.c. durante la fase delle operazioni peritali e fino alla scadenza del termine per la formulazione del dissenso.
Tale sospensione – come si è detto – produrrà certamente effetti sul piano statistico, in quanto i giorni di sospensione non saranno rilevanti e rilevati ai fini della durata del procedimento e dunque vi sarà inevitabilmente una riduzione del Disposition Time, la cui riduzione rientra fra gli obiettivi del PNRR; tuttavia si ritiene che, tale misura, non incidendo sulla durata effettiva del procedimento, non ridurrà i tempi di attesa di giustizia del cittadino, perché la consulenza tecnica d’ufficio dovrà comunque seguire il suo corso.
Peraltro, non si comprende la scelta di applicare la sospensione ai soli procedimenti ex art. 445 bis c.p.c. e non anche a tutti i procedimenti civili che richiedono l’espletamento di una consulenza tecnica d’ufficio.
Ciò che invece resta fondamentale è che a qualsiasi riforma legislativa siano affiancate adeguate modifiche degli applicativi ministeriali, al fine di consentire una corretta ed uniforme applicazione delle norme in tutti i Tribunali d’Italia da parte dei Magistrati e del personale di Cancelleria.
Gli accordi di coesione: profili di sistema e tutela a fronte dell’inerzia (nota a Cons. Stato, sez. IV, 14 maggio 2024, n. 4321)
di Simone Franca
Sommario: 1. Lo svolgimento del processo. 2. Accordi di coesione e riflessi sulla competenza del giudice. 3. La natura giuridica dell’accordo di coesione. 4. L’esperibilità dell’azione avverso il silenzio. L’obbligo di provvedere. 4.1. L’obbligo di provvedere e le peculiarità della tutela a fronte di obblighi inadempiuti in materia di accordi. 4.2. L’obbligo di provvedere nel prisma del principio di buona fede. 4.3. Il decorso del termine e l’enucleazione della disciplina procedimentale. 5. Conclusioni.
1. Lo svolgimento del processo.
La pronuncia in commento affronta il tema della coercibilità dell’obbligo di concludere un accordo di coesione ex art. 1, comma 178, legge 30 dicembre 2020 n. 178, con particolare riguardo alla possibilità di attivare i rimedi avverso l’inerzia da parte dell’amministrazione statale rimasta inadempiente. Nella specie, la sottoscrizione dell’accordo rappresentava un presupposto fondamentale per il sostegno a un programma unitario di interventi nell’ambito della Regione Campania.
La controversia è sorta dopo alcune interlocuzioni tra l’amministrazione statale (in particolare, il Ministro senza portafoglio per gli affari europei, il Sud, le politiche di coesione e il PNRR) e il Presidente della Regione Campania, in relazione ai contenuti e alla stipula dell’Accordo di coesione di cui all’art. 1, commi 177 e178, l. 30 dicembre 2020, n. 178. Nella specie, in risposta all’urgenza palesata dal Presidente campano in ordine alla conclusione dell’accordo, il Ministro evidenziava una serie di criticità sul piano dei contenuti (ad esempio, la non congruità dei tempi rispetto all’espletamento delle procedure di aggiudicazione o le perplessità rispetto a specifiche linee di azione, come quella in materia ambientale), richiedenti ulteriori approfondimenti istruttori.
Gli scambi tra Ministero e Regione si protraevano vanamente dal settembre 2023 al dicembre 2024. Nel gennaio 2024, la Regione proponeva ricorso per l’accertamento del silenzio inadempimento a fronte dell’inerzia del Ministero rispetto alla conclusione dell’accordo.
Il T.a.r. Campania accoglieva il ricorso, dichiarando l’obbligo del Dipartimento per le politiche di coesione e il sud di ultimare l’istruttoria e predisporre lo schema di accordo, entro il termine di 45 giorni decorrenti dalla comunicazione della pronuncia.
Successivamente, la Presidenza del Consiglio dei Ministri (presso cui è istituito il Dipartimento per le Politiche di Coesione) e il Ministro senza portafoglio per gli affari europei, il Sud, le politiche di coesione e il PNRR hanno proposto congiuntamente appello, affidandolo a due motivi: l’uno con cui si contesta l’erroneità della sentenza gravata nella parte in cui ha respinto il difetto di incompetenza territoriale del T.a.r. Campania; l’altro, con cui si censura il rigetto dell’eccezione di inammissibilità del ricorso introduttivo, giusta l’impossibilità di configurare un silenzio inadempimento rispetto ad un procedimento che si conclude con un accordo.
Il Consiglio di Stato ha respinto il primo motivo rilevando che l’efficacia dell’accordo di coesione è limitata al territorio campano; conseguentemente, la censura di difetto di competenza del T.a.r. Campania in favore del T.a.r. Lazio si è rivelata infondata.
Quanto al secondo motivo, il collegio ha svolto una articolata disamina dedicata, in primo luogo, alla natura degli accordi di coesione e, in secondo luogo, alla sussistenza dell’obbligo di provvedere a fronte del procedimento preliminare alla stipula dell’accordo.
Nella pronuncia in esame, dunque, il Consiglio di Stato ha l’occasione di affrontare tre snodi relativi agli accordi di coesione tanto rispetto alla natura sostanziale di essi, quanto alle implicazioni processuali sul fronte della competenza e della tutela in caso di inerzia.
L’esito del giudizio appare in linea di massima condivisibile, ma, come si tenterà di dimostrare, talune delle argomentazioni spese paiono in grado di far sorgere profili di criticità in particolare rispetto al ruolo del giudice amministrativo.
2. Accordi di coesione e riflessi sulla competenza del giudice.
Come chiarito in esordio, il primo motivo di appello attiene all’asserito difetto di competenza territoriale, respinto dalla sentenza del T.a.r. Campania. Più precisamente, gli appellanti annettono alla procedura oggetto del giudizio (e anche all’accordo che dovrebbe concluderla) un’efficacia ultraregionale, in considerazione del coinvolgimento di amministrazioni statali, della necessità di coordinamento con iniziative in territori limitrofi e dell’impiego di fondi strutturali europei.
Il Consiglio di Stato ricorda l’orientamento consolidato secondo cui il criterio della sede dell’organo si integra con quello dell’efficacia dell’atto «secondo una logica di complementarietà e di reciproca integrazione»[i]; orientamento che finisce con il concretare una sostanziale preminenza del secondo sul primo[ii].
Ad ogni modo, nella vicenda in esame la questione che appare controversa, e su cui si appunta l’argomentazione della Quarta Sezione, è la dimensione spaziale degli effetti dell’atto di cui tenere conto in base all’art. 13, co. 3 c.p.a., ovvero, nella specie, l’efficacia regionale o ultra regionale dell’accordo di coesione. Dal momento che l’accordo di coesione stabilisce come impiegare le risorse stanziate, in coerenza con la programmazione nazionale sul territorio campano, secondo il collegio non vi sarebbe motivo di ritenere che sia in grado di proiettare i propri effetti a livello ultra regionale. Né sarebbero rilevanti – al fine di spostare la competenza – gli interessi nazionali ed europei coinvolti nella stipula dell’accordo (ad esempio, gli interessi legati alla coerenza con i documenti di programmazione europea e nazionale) giacché essi si tradurrebbero in «implicazioni di carattere politico o comunque di verifiche istruttorie presupposte […] che non incidono sull’ambito territoriale di efficacia dell’accordo»[iii].
Ciò premesso, riflettendo sul criterio dell’effetto diretto dell’atto previsto dall’art. 13 c.p.a. è d’uopo premettere come tale criterio si mostri particolarmente fluido, giusto l’incerto perimetro del concetto stesso di effetto diretto. Tale criterio è infatti suscettivo di essere piegato entro diverse soluzioni ermeneutiche, causando problemi di tipo applicativo[iv]: si pensi, ad esempio, alle difficoltà legate alla necessità di distinguere, per un verso, ambito di efficacia e ambito di operatività dell’accordo[v] e, per altro verso, effetti dell’accordo e risultato pratico del medesimo[vi]. A questa generale criticità del criterio se ne aggiungono due. In primo luogo, il criterio dell’effetto diretto appare difficilmente compatibile con l’ipotesi del silenzio, dal momento che, declinare la dimensione spaziale degli effetti (art. 13, co. 3 c.p.a.) diventa difficile, considerando la lettera della legge, che fa riferimento solo agli atti, non anche ai comportamenti[vii]. In secondo luogo, l’ulteriore difficoltà è data dal riguardare gli effetti di un atto non unilaterale, bensì consensuale tra due amministrazioni, il quale implica, dunque, l’esercizio combinato di poteri spettanti tanto all’autorità statale quanto a quella regionale e il sorgere di plurime obbligazioni pubbliche.
Tenendo conto di questi diversi profili di criticità si osserva quanto segue.
Nel caso in cui non si addivenga alla stipula di un accordo – dando per assunto, al momento, che tale stipula sia doverosa – ci si trova nella situazione in cui il criterio dell’efficacia diretta deve essere adattato al caso di un comportamento inerte, ossia il silenzio.
L’orientamento giurisprudenziale dominante tende a riconoscere la competenza al T.a.r. che si sarebbe pronunciato in caso di adozione o diniego dell’atto rispetto a cui l’amministrazione è rimasta inerte[viii].
Si tratta di un orientamento che non è imposto dall’art. 13 c.p.a., tanto che in dottrina si è evidenziato come si potrebbe tener conto del luogo in cui ha sede l’ufficio presso cui si è presentata la domanda, dato che l’istanza spesso è trasmessa ad un ufficio che non coincide sempre con l’organo deputato ad adottare il provvedimento[ix]. Si tratterebbe, comunque, di una opzione interpretativa particolarmente complessa nel caso in esame, tenuto conto della laconicità del quadro applicabile agli accordi di coesione[x].
Dovendo dunque seguire l’orientamento dominante ci si deve concentrare sull’efficacia diretta “territorialmente limitata” dell’accordo che sarebbe stato adottato[xi]. Naturalmente, come gran parte degli accordi interistituzionali è difficile localizzare l’efficacia spaziale dell’accordo. Qui soccorre un precedente, in materia di accordi amministrativi, con cui si è posta l’attenzione sugli effetti prevalenti dell’accordo ai fini della competenza, dove la valutazione sulla prevalenza è stata svolta tenendo conto anche del tenore della domanda della parte ricorrente[xii].
Se così è, tenuto conto, in primo luogo, che l’accordo di coesione, una volta stipulato, consente l’adozione della delibera del Cipess di assegnazione delle risorse che a sua volta autorizza all’adozione degli impegni di spesa relativi ai singoli interventi e, in secondo luogo, che la domanda di parte ha ad oggetto la stipula dell’accordo per consentire il trasferimento delle risorse, allora pare difficile superare l’argomento della prevalenza (pure non impiegato, almeno esplicitamente, dal Consiglio di Stato)[xiii], nel senso di affermare la competenza del T.a.r. Campania.
3. La natura giuridica dell’accordo di coesione.
La pronuncia in commento svolge una serie di considerazioni di interesse sulla natura giuridica degli accordi di coesione. La scelta di affrontare direttamente questa complessa tematica non è casuale e l’argomentazione spesa non ha una funzione esornativa, essendo invece, come si vedrà, il presupposto su cui si fonda la coercibilità dell’obbligo di concludere l’accordo di coesione.
Posta questa premessa, una prima operazione, necessaria sul piano metodologico, impone di collocare l’accordo tra amministrazioni la cui natura è oggetto di riflessione all’interno del mosaico di regole rappresentato dagli artt. 11 e 15 della legge n. 241/90, recante la «cornice generale degli accordi tra pubbliche amministrazioni»[xiv].
Il Consiglio di Stato, in linea con tale metodologia, avvia il proprio ragionamento confrontandosi con la disciplina degli accordi contenuta nella l. n. 241/1990, nella specie con gli artt. 11 e 15, rispettivamente dedicati agli accordi tra privati e amministrazioni e agli accordi tra amministrazioni.
Nell’ambito dell’attività di sussunzione della fattispecie concreta entro la composita fattispecie astratta, rappresentata dal combinato disposto tra le norme ricavabili dalle due disposizioni, emerge già un primo elemento critico.
È noto che in base al già menzionato art. 11 gli accordi procedimentali sono suddivisi tra accordi integrativi e accordi sostitutivi, in base a come essi si rapportano a un dato provvedimento integrandone il contenuto o sostituendolo[xv]. Su tale rilievo il Consiglio di Stato opera una distinzione tra “accordi eventuali”, ovvero accordi che possono (ma non devono) essere sottoscritti, in funzione integrativa o sostitutiva del provvedimento, e “accordi necessari” individuati come gli atti «che si connotano per il fatto che la regolazione del rapporto giuridico di diritto pubblico, per le reciproche obbligazioni delle parti, è possibile solo nella forma consensuale e non anche in quella unilaterale»[xvi]. Pur nella consapevolezza della distinzione operata tramite la distinzione tra accordi necessari ed eventuali, riconducibile ad autorevoli ricostruzioni dottrinali[xvii], si rileva che entrambe le tipologie di accordo sono sussumibili entro l’art. 11. L’indicazione non appare irrilevante, giacché, in tal modo, si conferma che gli accordi tra amministrazioni pubbliche trovano la loro disciplina nell’art. 15, ma pur sempre nella cornice dell’art. 11[xviii].
Quanto all’art. 15, il richiamo ad esso da parte del Consiglio di Stato mette in luce la peculiarità degli accordi di diritto pubblico.
Così, si ribadisce la discrezionalità del potere di negoziare ex art. 15 a «precise condizioni per evitare di violare le regole di ricorso al mercato»[xix], rilevando altresì che il legislatore può configurare, settorialmente, ipotesi di “accordi pubblici speciali”, nella cui disciplina sono dedotti poteri peculiari (ad esempio, poteri per superare lo stallo rappresentato da trattative infruttuose), giungendo infine a riconoscere che gli accordi di diritto pubblico implicano una situazione di potere amministrativo e non di autonomia negoziale.
In questo senso, il Consiglio di Stato di fatto conferma gli orientamenti consolidati nella dottrina e nella giurisprudenza su tali figure consensuali, in particolare la natura dell’art. 15 come “norma in bianco”, in quanto integrata da diverse discipline settoriali[xx], e la collocazione del fenomeno degli accordi pubblici entro una categoria differente da quella dei contratti pubblici, in quanto si declina come forma di espressione del potere amministrativo[xxi].
Se ciò può apparire per certi versi scontato, sono comunque rilevanti le conseguenze di ordine precettivo ben poste in luce dal Consiglio di Stato dove afferma che «l’accordo pubblico si inscrive nella funzione amministrativa ed esprime una modalità di svolgimento del potere, attraverso la forma necessaria del procedimento di cui assume i caratteri di doverosità e necessaria funzionalizzazione alla finalità di interesse pubblico indicata dalla norma attributiva del potere»[xxii].
Detto in altri termini, l’accordo di diritto pubblico la cui disciplina è data dalla sintesi tra art. 11 e art. 15, rappresenta un modo attraverso cui si esprime il potere dell’amministrazione, il quale, a sua volta, si manifesta necessariamente secondo una struttura procedimentale. Dunque, non solo gli accordi ex art. 11, ma tutti gli accordi di diritto pubblico si esprimono attraverso una logica procedimentale. Per di più, il fatto che l’accordo sia espressione di un potere amministrativo in forma procedimentalizzata determina altresì che anche l’azione amministrativa strumentale alla stipula dell’accordo si caratterizzi per la conformità ai principi di doverosità e funzionalità[xxiii].
Sulla base di questa ricostruzione della fattispecie astratta “accordo pubblico”, il ragionamento del Consiglio di Stato prosegue attraverso il riferimento alla fattispecie normativa degli accordi di coesione ricavabile dall’art. 1, co. 177 e 178, della l. 30 dicembre 2020 n.178.
Qui emerge che l’accordo di coesione è a pieno titolo speciale, in quanto connotato da una “doppia specialità” rispetto agli accordi ex art. 11 e agli accordi fra amministrazioni ex art. 15. Pur definendo infatti gli accordi di coesione come accordi di diritto speciale procedimentali (dunque integrativi), la specialità degli stessi è rinvenuta in base al fatto che essi sono previsti in base al diritto europeo[xxiv] e inseriti in un quadro di «raccordo istituzionale tra le competenze dello Stato e quelle regionali in materia di programmazione economica».
Rispetto agli accordi ex art. 15, che pure hanno in comune con quelli di coesione il fatto di essere stipulati solo tra soggetti pubblici, questi ultimi sono peculiari per il «particolare atteggiarsi delle scansioni procedimentali»[xxv] e per la «sussistenza di un obbligo di procedere a fronte […] di un potere discrezionale che caratterizza il modello generale degli accordi di cui all’art. 15». Tali rilievi si giustificano sulla scorta della ricostruzione del procedimento sulla base del già citato art. 1, co. 177 e 178, della l. 30 dicembre 2020 n.178, in cui si inserisce la stipula dell’accordo. Il procedimento si articola nelle seguenti fasi: una fase di iniziativa in cui il Cipess avvia il procedimento d’ufficio con una delibera che programma le risorse da assegnare; una fase istruttoria in cui si valutano i cicli precedenti, tenendo conto delle obbligazioni assunte e dell’identificazione di nuovi obiettivi coerenti con la programmazione nazionale da parte di Regioni e Province autonome; infine una fase decisoria che conduce, se c’è accordo tra le parti coinvolte, alla stipula dell’Accordo per la coesione e, successivamente, alla delibera definitiva del CIPESS per l’assegnazione delle risorse.
È in questo snodo, dunque, che il Consiglio di Stato pone le basi per la sussistenza di un obbligo di provvedere, ricavandolo dalla natura giuridica dell’accordo di coesione come accordo di diritto pubblico procedimentale, in ragione anche della sua peculiare collocazione all’interno della scansione procedimentale volta all’erogazione delle risorse nell’ambito degli interventi per lo sviluppo.
4. L’esperibilità dell’azione avverso il silenzio. L’obbligo di provvedere.
In forza della ricostruzione della natura degli accordi di coesione e del loro peculiare regime giuridico occorre valutare l’accoglibilità del petitum condannatorio, sub specie di condanna a provvedere.
Come noto, nel quadro delle azioni di condanna con cui è possibile ottenere tutela a fronte dell’inerzia dell’amministrazione, l’azione avverso il silenzio ha uno spazio peculiare.
Con essa, infatti, il ricorrente ottiene l’accertamento dell’illegittimità dell’inerzia serbata dall’amministrazione, in presenza di un obbligo di provvedere, una volta scaduto il termine del procedimento[xxvi]. Sulla scorta di tale accertamento l’azione avverso il silenzio consente altresì di ottenere una condanna generica a provvedere. Tale condanna non presuppone che l’attività della p.a. sia vincolata, potendo essere discrezionale purché non nell’an[xxvii].
Il Consiglio di Stato deve dunque applicare queste regole a fronte della fattispecie peculiare dell’accordo di coesione, verificando se sia ammissibile e fondata la domanda di condanna alla stipula dell’accordo tra il Ministero e la Regione Campania.
Appurata la giurisdizione del giudice amministrativo[xxviii], il Consiglio di Stato deve concentrarsi, anzitutto, sulla configurabilità di un obbligo di provvedere.
In questi termini, ci sono almeno due profili da considerare rispetto al tenore del ragionamento del collegio, il primo relativo a precedenti orientamenti sull’obbligo di provvedere e alle conseguenze sul fronte della tutela rispetto a obblighi inadempiuti in materia di accordi; il secondo relativo al rilievo del principio di buona fede rispetto alla sussistenza dell’obbligo di provvedere.
4.1 L’obbligo di provvedere e le peculiarità della tutela a fronte di obblighi inadempiuti in materia di accordi
Il primo profilo da considerare attiene al rilievo dei diversi precedenti giurisprudenziali che hanno riconosciuto l’obbligo di provvedere. In questo modo non solo si tiene conto di ipotesi più peculiari rispetto all’attività provvedimentale unilaterale dell’amministrazione – ad esempio, quella degli atti amministrativi generali[xxix] –, ma anche di valorizzare alcuni precedenti relativi ad accordi in cui si era già posto il tema dell’obbligo di provvedere.
Benché i precedenti siano solo menzionati occorre evidenziare che in quelle fattispecie l’integrazione dell’accordo in una logica procedimentale rappresentava un passaggio dirimente per fondare l’obbligo di provvedere.
Nella prima fattispecie considerata[xxx], infatti, riguardante una procedura transattiva per danni da emotrasfusioni (dunque vertente su accordo transattivo tra privati e amministrazione) si valorizzava la «forte procedimentalizzazione del potere di cui è investita l’amministrazione» (sul modello delle procedure ad evidenza pubblica), affermando che non potesse che ritenersi configurabile un obbligo di pronunciarsi sulle istanze di transazione in una «fattispecie procedimentale in senso proprio».
Nella seconda controversia richiamata[xxxi], invece, si trattava di una questione differente da quella appena illustrata e da quella trattata nella pronuncia in commento. La vicenda riguardava infatti non la cogenza dell’obbligo a stipulare un accordo, quanto invece la cogenza di obblighi ricavabili da accordo già sottoscritto tra due amministrazioni[xxxii]. Anche in questo caso, comunque, si valorizzava il fatto che l’accordo si inserisse in una «vicenda procedimentale»[xxxiii].
I precedenti, dunque, appaiono rilevanti non solo per aver riconosciuto l’obbligo di provvedere a fronte di strumenti consensuali, ma anche per la valorizzazione della struttura procedimentale dell’attività che precede la stipula degli accordi.
La scelta argomentativa del collegio non è casuale, ma va compresa alla luce di ulteriori orientamenti, non menzionati nella pronuncia.
L’esperibilità dell’azione avverso il silenzio ha trovato infatti una limitazione in un orientamento più volte ribadito rispetto al mancato adempimento ad obbligazioni dedotte all’interno di accordi amministrativi. Dinanzi queste situazioni di inerzia la giurisprudenza amministrativa ha infatti negato l’ammissibilità dell’azione avverso l’inerzia, rilevando che con il rito speciale sul silenzio si è inteso tutelare il ricorrente solo rispetto al «mancato esercizio di potestà pubbliche discrezionali», ma non a fronte di «qualsiasi tipo di inerzia comportamentale della p.a.»[xxxiv]: tale circostanza impedirebbe di far valere il rimedio anche tenendo conto che esso non potrebbe essere attivato per la tutela di un diritto soggettivo, quale quello leso a causa di un obbligo convenzionale rimasto inadempiuto.
Alla luce di questo orientamento consolidato il precedente prima richiamato, contenuto nella pronuncia in commento, sembra apparentemente minoritario[xxxv]. In compenso, la giurisprudenza ha mostrato di apprestare una diversa forma di tutela a fronte dell’inadempimento di obblighi convenzionali, attraverso il rimedio dell’esecuzione in forma specifica di cui all’art. 2932 c.c.
Per esempio, nel caso di convenzioni di lottizzazione a fronte dell’inadempimento all’obbligo di cessione delle aree da parte dei lottizzanti, la giurisprudenza riconosce in capo al Comune la possibilità di agire ex art. 2932 c.c. per ottenere il trasferimento delle aree oggetto di cessione, tramite una sentenza costitutiva in luogo dell'atto pubblico di cessione gratuita delle aree[xxxvi]. Così, tenuto conto dell’applicabilità dei principi del codice civile in materia di obbligazioni[xxxvii] si riconosce che l’accordo, pur deducendo al suo interno l’esercizio del potere, è fonte di obbligazioni civilistiche[xxxviii] e dunque, anche tenuto conto dei principi di pienezza ed effettività della tutela[xxxix], è esperibile l’azione ex art. 2932 c.c.
Ricapitolando, e tentando di leggere la pronuncia in commento sugli accordi di coesione alla luce di questa giurisprudenza, è possibile affermare quanto segue.
Non pare che i diversi orientamenti possano essere portati a sistema recuperando la teoria del doppio grado[xl], ritenendo che l’azione avverso il silenzio sia esperibile prima della stipula dell’accordo, mentre l’azione ex art. 2932 c.c. solo dopo tale stipula.
Sembra invece che il confine tra i due rimedi riposi sul tenore dell’obbligazione rimasta inadempiuta. In questo modo, peraltro, si spiega il caso della pronuncia isolata menzionata nella sentenza in commento, in cui l’obbligazione rimasta inadempiuta riguardava l’emanazione di un provvedimento.
In omaggio, dunque, alla distinzione contenuta all’art. 1, co. 1-bis della l. n. 241/1990, tenendo conto della distinzione tra atti non autoritativi e atti autoritativi si avranno due ipotesi. Se occorrerà eseguire un’obbligazione in cui prevale l’assetto civilistico[xli] o in cui l’attività sia riconducibile a rapporti di natura paritetica[xlii] il rimedio sarà quello dell’azione ex art. 2932 c.c. Se invece occorrerà fare riferimento ad un obbligo (tendenzialmente un dovere) comportante l’esercizio di un potere (es. obbligo di provvedere), allora si ricorrerà all’azione avverso il silenzio[xliii]. In quest’ultima casistica occorre anche precisare che, sussistendone i presupposti, non pare si possa escludere a priori l’ammissibilità anche di un’azione relativa alla fondatezza della pretesa[xliv].
In questi termini, la pronuncia in commento consente di offrire maggiore chiarezza sul complesso quadro di tutela in materia di accordi.
4.2. L’obbligo di provvedere nel prisma del principio di buona fede
Il secondo profilo dell’argomentazione dei giudici di Palazzo Spada su cui conviene soffermarsi attiene alla lettura del tema dell’obbligo di provvedere alla luce del principio di buona fede.
Il collegio, infatti, a livello di obiter dictum – dal momento che il punto non era peraltro dirimente per la risoluzione della controversia[xlv] – afferma che l’obbligo di provvedere può sussistere anche in assenza di una espressa disposizione di legge che tipizzi il potere di presentare un’istanza; dunque, anche nelle fattispecie in cui si imponga l’adozione di un provvedimento per «ragioni di giustizia e di equità». Tale lettura si fonda sul rilievo del dovere di correttezza della p.a. in uno a quello di buona amministrazione, con l’ulteriore riferimento all’introduzione dell’espresso riferimento al principio di buona fede all’interno della l. n. 241 del 1990, ad opera della l. 11 settembre 2020, n. 120.
Questa riflessione si ricollega ad un orientamento risalente nella giurisprudenza amministrativa[xlvi], ma forse ora maggiormente enfatizzato anche grazie al riferimento espresso al principio di buona fede.
Si tratta di una riflessione molto importante dal punto di vista della tutela del cittadino perché consente a questi di avvantaggiarsi di una più ampia sfera di doverosità dell’azione amministrativa, anche grazie al principio di buona fede. È chiaro che però si genera una tensione piuttosto critica con il principio di legalità e il Consiglio di Stato pare esserne consapevole nella misura in cui afferma che «ciò non significa che non operi il principio di legalità ma che l’obbligo di provvedere, alla luce della buona fede, si desume dal contesto normativo di disciplina del potere pubblico»[xlvii].
Appare apprezzabile l’attenzione alla tutela che emerge da questo snodo, ma non bisogna trascurare i margini di incertezza che potrebbero eventualmente derivare da opzioni ermeneutiche poco sorvegliate tese a non dare dovuto spazio – come pure il Consiglio di Stato ammonisce – al dato positivo[xlviii].
4.3. Il decorso del termine e l’enucleazione della disciplina procedimentale
Infine, il giudice si sofferma sul decorso del termine del procedimento. Benché l’accordo di coesione sia ricondotto, come visto, entro una logica procedimentale, non si ha un termine ricavabile dal diritto positivo. In mancanza di un termine normativamente previsto, il Consiglio di Stato ritiene che si applichi il termine previsto dall’art. 2, co. 2 l. n. 241/1990. Tale termine, in effetti, è previsto, a beneficio della certezza del diritto, proprio nelle situazioni in cui il legislatore abbia riconosciuto (almeno implicitamente) la sussistenza di un obbligo di provvedere, ma non sia stato identificato un termine. L’operazione del Consiglio di Stato non si limita all’individuazione di tale termine, estendendosi altresì all’individuazione di almeno due regole che devono conformare l’azione del Ministero.
In primo luogo, il Consiglio di Stato declina la forma attraverso cui deve esprimersi l’eventuale diniego di stipulare l’accordo. In questo senso, il Consiglio di Stato ritiene che l’eventuale diniego dovrà assumere la forma della determinazione ex art. 11, co. 4-bis l. n. 241/1990, ossia la determinazione che deve precedere la stipula dell’accordo laddove l’amministrazione decida di concludere un accordo e che assumerà il tenore di un atto di «arresto procedimentale».
In secondo luogo, pur ravvisando il decorso del termine di 30 giorni e ritenendo altresì che, in ogni caso, sia trascorso un termine ben più lungo, superiore ai 180 giorni, «reputa equo e ragionevole» disporre la nuova decorrenza del termine in modo da permettere alle parti un’ulteriore fase di confronto «nello spirito di leale collaborazione cui i reciproci rapporti istituzionali devono essere improntati».
Si tratta però di operazioni ermeneutiche che hanno una diversa portata. Nel primo caso, stante la qualificabilità dell’accordo di coesione come accordo amministrativo cui si applica anche l’art. 11, co. 4-bis è chiaro che al dovere di emanare la determina in caso di stipula dell’accordo si accompagna un dovere di adottare una (motivata) determina a contenuto negativo, dato che l’accordo in questione è qualificabile come necessario. In altri termini, il fatto che non vi sia un’alternativa unilaterale alla stipula dell’accordo per lo stanziamento dei fondi e che l’accordo debba sussistere per arrivare alla conclusione della procedura rende necessario individuare un atto con cui l’amministrazione motivi la propria decisione, atto che sarà eventualmente impugnabile qualora ne sussistano le condizioni.
Diverso è il secondo caso in cui il giudice svolge una valutazione dichiaratamente equitativa tramite cui dando rilievo a pur commendevoli esigenze di leale collaborazione fa decorrere nuovamente il termine del procedimento. Si tratta del medesimo approccio che emergeva dall’ordinanza resa all’esito della fase cautelare, con cui il Consiglio di Stato ha sospeso l’esecutività della sentenza oggetto di impugnazione, ove si affermava che «sospesa la sentenza, resta fermo comunque l’obbligo di tutte le parti di proseguire il dialogo – ricorrendo a leali, reali, proficue e reiterate interlocuzioni – per addivenire alla celere definizione dell’accordo nel rispetto del principio di leale collaborazione»[xlix].
È però evidente che si tratta di una tecnica di tutela che sottende margini di discrezionalità, che sarebbero fisiologici nella fase cautelare, in ordine alla valutazione dei presupposti[l]. Tuttavia, tale tecnica solleva maggiori criticità rispetto al ruolo del giudice amministrativo, anche tenendo conto dell’attività integrativa che pure è chiamato ad esercitare[li].
5. Conclusioni
La pronuncia in commento si rivela fondamentale per varie ragioni.
Sul piano dei contenuti essa affronta una serie di snodi fondamentali al fine di identificare la disciplina relativa agli accordi di coesione, giungendo ad una definizione di alcuni tratti rilevanti sul piano sostanziale, con rilevanti implicazioni anche sul fronte processuale.
Tramite una lettura congiunta degli art. 11 e 15 il Consiglio di Stato riesce a sussumere la disciplina degli accordi di coesione entro la figura degli accordi amministrativi (e, in particolare, degli accordi tra amministrazioni), operando un inquadramento di ordine sistematico. L’istituto così ricostruito viene ricostruito in base alla propria disciplina settoriale, ricavando una struttura procedimentale in cui si incastona l’accordo e, per l’effetto, si inserisce nel regime di doverosità proprio del procedimento di erogazione dei fondi di coesione.
Al netto delle implicazioni in termini di competenza del giudice amministrativo la ricostruzione operata consente di giustificare la sussistenza non già di un obbligo a contrarre, bensì di un obbligo ad esaminare la proposta della Regione Campania e, conseguentemente, permette di ritenere fondata l’azione avverso il silenzio promossa dalla Regione.
La pronuncia consente così di favorire un significativo progresso (anche solo sul fronte della certezza) sul piano della sistematica degli accordi e dell’esperibilità dell’azione avverso l’inerzia. In particolare, come si è visto, la pronuncia, se letta alla luce di altri filoni giurisprudenziali, consente di portare a sistema le diverse forme di tutela a fronte di obblighi relativi alla stipula di accordi o obbligazioni convenzionali rimasti inadempiuti. In questo contesto campeggiano, tuttavia, alcuni profili di criticità.
La sentenza del Consiglio di Stato, infatti, mostra una condivisibile valorizzazione dei principi dell’azione amministrativa che però paiono portare il giudice a travalicare, in parte, il proprio ruolo. Se la considerazione del principio di buona fede rispetto all’individuazione dell’obbligo di provvedere causa una tensione solo eventuale con il principio di legalità, maggiori perplessità può suscitare il ricorso a principi che – pur se non impiegati per sostituirsi all’amministrazione, ma, in certo qual modo, per procedimentalizzare l’esercizio del potere susseguente al giudicato – paiono testimoniare un almeno parziale scostamento dalla funzione che è propria del giudice[lii].
[i] P.to 3.1 della pronuncia in commento, ove si menziona Cons. Stato, Ad. plen., 31 luglio 2014, n. 17 (in termini cfr. già Cons. Stato, Ad. plen., 4 febbraio 2013, n. 3, nonché, più recentemente, Cons. Stato, sez. V, 1° dicembre 2022, n. 10561; T.a.r. Lazio - Roma, sez. I-bis, 8 marzo 2025, n. 4957; T.a.r. Lombardia – Milano, sez. IV, 31 marzo 2025, n. 1126).
[ii] Va comunque ricordato quanto affermato da M.M. Fracanzani, La competenza per territorio, materia e grado del giudice amministrativo. Il regolamento di competenza, in Diritto processuale amministrativo diretto da G.P. Cirillo, Milano, Wolters Kluwer, 2017, p. 221, il quale opportunamente osserva che gli effetti diretti sono «effetti comunque concepiti per svilupparsi all’interno della sfera di competenza dell’ente», sicché la normale coincidenza tra sede dell’ente e ambito territoriale di efficacia dei suoi atti porta a considerare che, molto spesso, criterio della sede dell’organo e criterio dell’effetto diretto coincidano.
[iii] P.to 3.2 della pronuncia in commento.
[iv] Sui problemi di ordine applicativo rispetto al criterio dell’efficacia dell’atto già nella disciplina anteriore al codice del processo amministrativo cfr. P. Carpentieri, Le questioni di competenza, in Dir. proc. amm. 4, 2010, pp. 1232-1233; P. Stella Richter, La competenza territoriale nel giudizio amministrativo, Milano, Giuffrè, 1975, p. 19; più recentemente, rispetto alla situazione post-codice, si v. C. Guacci, La competenza nel processo amministrativo Torino, Giappichelli, 2018, pp. 11 ss.; V. Buratti, La difficile delimitazione degli effetti diretti del provvedimento nell’individuazione del giudice competente, in Dir. proc. amm., 1, 2024, pp. 113 ss. Sulle difficoltà derivanti dalla circoscritta attenzione al tema dell’efficacia spaziale degli atti amministrativi si v. A. Andreani, La competenza per territorio dei tribunali amministrativi regionali, Milano, Giuffrè, 1974, pp. 119 ss.
[v] Sul punto cfr. G. Falcon, Lezioni di diritto amministrativo. 1. L’attività, Milano, Wolters Kluwer, 2024, pp. 153-154, il quale peraltro evidenzia che gli effetti dell’atto possono prodursi in luoghi precisi, senza che ciò incida sull’ambito di efficacia dell’atto, potendo essere questo più ampio.
[vi] In tema si v. G. Falcon, voce Esecutorietà ed esecuzione dell’atto amministrativo, in Enc. giur., 1991, ora in Id., Scritti scelti, Milano, Wolters Kluwer, 2015, pp. 241 ss.
[vii] In questo senso si v. anche i puntuali rilievi di S.S. Scoca, Riflessioni critiche sui criteri di individuazione del giudice competente nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 4, 2013, pp. 1137 ss.
[viii] Cfr. Cons. Stato, sez. III, 23 febbraio 2018, n. 1153; T.a.r. Lazio, sez. III-ter, 27 marzo 2019, n. 4041; Cons. Stato, sez. III, 21 dicembre 2012, n. 6655. Già in passato si sono avute incertezze rispetto ad altre tipologie di atti consensuali, come le transazioni. Cfr. in part. Cons. Stato, sez. III, 22 dicembre 2017, n. 6063 dove si privilegia l’effetto giuridico e non economico dell’atto di transazione (in questa prospettiva si v. anche L. Piscitelli, sub art. 13, in G. Falcon, F. Cortese, B. Marchetti (a cura di), Commentario breve al codice del processo amministrativo, Milano, Wolters Kluwer, 2021, pp. 161-162.
[ix] S.S. Scoca, op. cit. pp. 1137-1138.
[x] Benché, come si vedrà, il Consiglio di Stato ritiene che vi sia un obbligo di “esaminare la proposta di accordo” della Regione Campania, dalla disciplina dell’accordo di coesione non pare ricavabile una regola che assegni a quest’ultima il potere di proposta, individuando il Ministero come sede dell’ufficio presso cui presentare l’istanza. D’altronde far discendere la competenza dal solo tenore del comportamento della parte darebbe luogo a una significativa incertezza.
[xi] In ordine agli orientamenti della giurisprudenza sugli atti ad efficacia territorialmente limitata si v. in part. M. D’Orsogna, sub Artt. 13-14, in G. Morbidelli (a cura di), Codice della giustizia amministrativa, Milano, Giuffrè, 2015, pp. 294 ss.; L. Piscitelli, op. cit., pp. 159 ss
[xii] La fattispecie riguardava una convenzione tra più regioni. Ai fini della competenza il Consiglio di Stato ha ritenuto che non essendo localizzabili gli effetti dell’intera convenzione ha fatto riferimento agli effetti prevalenti tenendo conto anche delle pretese dedotte nel ricorso (Cfr. Cons. Stato, sez. V, 13 gennaio 1994, n. 8, in Cons. Stato, I, 1994, spec. p. 29). Rispetto alla valorizzazione della domanda della parte, analogo ragionamento si rinviene quando un provvedimento impugnato opera in più Regioni, la giurisprudenza tende a evocare il principio di scindibilità degli effetti, in base a cui si considerano «i soli effetti interessati dall’azione giudiziale e, quindi, la portata effettuale dell’ipotetica pronuncia di annullamento» (Cons. Stato, sez. III, 15 febbraio 2021, n. 1407; in termini, Cons. Stato., sez. III, 23 giugno 2014, n. 3156).
[xiii] Peraltro, seguire questo percorso argomentativo avrebbe consentito di evitare di discutere della natura politica o meno delle implicazioni derivanti dalla coerenza con i documenti di programmazione o del carattere presupposto delle verifiche istruttorie, argomenti che potrebbero apparire non del tutto condivisibili.
[xiv] Così, F. Giglioni, A. Nervi, Gli accordi delle pubbliche amministrazioni, Napoli, Esi, 2020, p. 100. Come rilevato da G. Greco, Accordi amministrativi tra provvedimento e contratto Torino, Giappichelli, 2003, pp. 177 ss., la norma-base è rappresentata dall’art. 11, contenendo esso una disciplina generale degli accordi amministrativi. Sulla portata generale dell’art. 11 si v. anche N. Aicardi, La disciplina generale e i principi degli accordi amministrativi: fondamento e caratteri, in Riv. trim. dir. pubbl., 1997, pp. 12 ss.; più recentemente anche F. Tigano, Il contenuto degli accordi al vaglio del giudice amministrativo: alla ricerca dell’interesse pubblico, in P. Urbani (a cura di), Riprendiamoci la città. Manuale d'uso per la gestione della rigenerazione urbana, iFEL Fondazione. Anci, 2023, p. 230 che evidenzia anche la centralità dell’art. 11 anche per gli accordi tra amministrazioni. Nondimeno, l’inquadramento degli accordi tra amministrazioni entro il modello dell’art. 11, benché letto in combinato disposto con l’art. 15, non è così agevole, dato che, ad esempio, il rinvio – contenuto nell’art. 15, co. 2 – alle disposizioni previste dall’art. 11, co. 2 e 3 è limitato dall’inciso «in quanto applicabili».
[xv] Peraltro, parte della dottrina ha rilevato che gli accordi ex art. 11 non sono riducibili ai soli accordi integrativi e sostitutivi, facendo riferimento agli «atti convenzionali di esercizio del potere amministrativo del quale l’ordinamento non consente l’esercizio unilaterale ed autoritativo» (così, M. Immordino, Legge sul procedimento amministrativo. Accordi e contratti di diritto pubblico, in Dir. amm., 1, 1997, p. 144).
[xvi] Cfr. p.to 4.1 della pronuncia in commento.
[xvii] In effetti, una contrapposizione tra accordi necessari e facoltativi (invece di eventuali) è presente in P.L. Portaluri, Potere amministrativo e procedimenti consensuali. Studi sui rapporti a collaborazione necessaria, Milano, Giuffrè, 1998 spec. pp. 221 ss. Qui però si tratta di una classificazione impiegata nell’ambito degli accordi ex art. 11, per distinguere le situazioni di disponibilità della fattispecie da parte della p.a., in cui la mancata stipula dell’accordo non lede l’interesse pubblico (accordi facoltativi) e le fattispecie in cui si ha una relazione di strumentalità necessaria fra interesse privato e pubblico, di talché la soluzione consensuale in termini regolativi si impone (accordi necessari). Di accordi “facoltativi” si discute anche in G. Greco, Accordi amministrativi tra provvedimento e contratto, Torino, Giappichelli, 2003, p. 82, sempre rispetto all’art. 11, per alludere al fatto che «l’Amministrazione detiene e conserva pur sempre la possibilità dell’agire unilaterale»; in chiave adesiva, v. anche M.C. Romano, Accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento, in
A. Romano (a cura di), L’azione amministrativa, Torino, Giappichelli, 2016, p. 605.
[xviii] Cfr. quanto rilevato supra sub nota 14. Sul rapporto tra gli artt. 11 e 15 nella disciplina dell’accordo tra amministrazioni si v. in part. R. Ferrara, Gli accordi fra le amministrazioni pubbliche, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, Giuffrè, 2017, pp 787 ss., mentre, sull’unitarietà della nozione di accordo amministrativo, pur nella consapevolezza delle distinzioni tra accordi procedimentali e accordi organizzativi si v. E. Sticchi Damiani, Attività amministrativa consensuale e accordi di programma, Milano, Giuffrè, 1992, pp. 120-123.
[xix] P.to 4.1 della pronuncia in commento. Ivi, peraltro, il collegio richiama l’art. 7 del codice dei contratti pubblici (d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36). Il riferimento è da intendersi all’esclusione degli accordi tra amministrazioni dalla disciplina del codice al sussistere delle quattro condizioni stabilite dall’art. 7, co. 4. In tema cfr., M. Delsignore, sub art. 7, in R. Villata, M. Ramajoli (a cura di), Commentario al codice dei contratti pubblici. D.lgs. 31 marzo 2023, n. 36, Pisa, Pacini Giuridica, 2024, pp. 38-39; H. Bonura, La cooperazione pubblico-pubblico (art. 7, comma 4), in M. Clarich (a cura di), Commentario al codice dei contratti pubblici, Torino, Giappichelli, 2024, pp. 279 ss.; G. Scarafiocca, Il principio di auto-organizzazione amministrativa (Art. 7), in G.F. Cartei, D. Iaria (a cura di), Commentario al Codice dei Contratti pubblici. Dopo il correttivo, I, Napoli, Editoriale scientifica, 2025, pp. 104 ss.
[xx] In questo senso si v. Cons. Stato, sez. IV, Sent., 22 dicembre 2022, n. 11208, anche se la configurazione dell’art. 15 come norma in bianco è già presente in R. Ferrara, Gli accordi fra le amministrazioni pubbliche, cit., p. 782. Come osserva E. Bruti Liberati, Consenso e funzione nei contratti di diritto pubblico. Tra amministrazioni e privati, Milano, Giuffrè, 1996, p. 112, l’esistenza di una disciplina specifica non esclude l’applicabilità della disciplina generale degli accordi che con la prima è in rapporto di coordinazione e integrazione.
[xxi] In particolare, gli accordi tra amministrazioni rappresentano uno strumento per il coordinamento di poteri dato dall’assetto policentrico dell’ordinamento italiano e dalla progressiva maggiore considerazione delle autonomie, nonché della leale collaborazione come principio che ispira i rapporti tra Stato e autonomie. In tema cfr. in part. G. Pericu, L’attività consensuale della pubblica amministrazione, in L. Mazzarolli, G. Pericu, A. Romano, F.A. Roversi Monaco, F.G. Scoca, Diritto amministrativo, II, Bologna, Monduzzi, 1993, pp. 773 ss., che evidenzia l’importanza degli accordi tra p.a. nell’ambito del coordinamento tra competenze amministrative frammentate e per la collaborazione nella migliore gestione dei servizi; E. Bruti Liberati, voce Accordi pubblici, in Enc. dir., Agg. V, 2001, p. 29; A. Contieri, La programmazione negoziata. La consensualità per lo sviluppo. I principi, Napoli, Editoriale scientifica, 2000, pp. 121 ss.; F. Cortese, Il coordinamento amministrativo. Dinamiche e interpretazioni, Milano, Franco Angeli, 2012, pp. 50 ss. P. Forte, Aggregazioni pubbliche locali. Forme associative nel governo e nell’amministrazione tra autonomia, politica, territorialità e governance, Milano, Franco Angeli, 2011, pp. 141 ss.; F. Rota, p. 213. Una prospettiva differente è quella offerta da G.D. Comporti, Il coordinamento infrastrutturale. Tecniche e garanzie, Milano, Giuffrè, 1996, che, in linea con F. Merusi, Il coordinamento e la collaborazione degli interessi pubblici e privati dopo la riforma delle autonomie locali e del procedimento amministrativo, in Aa. Vv., Gerarchia e coordinamento degli interessi pubblici e privati dopo la riforma delle autonomie locali e del procedimento amministrativo, Milano, Giuffrè, 1994, pp. 49 ss., rileva l’importanza di moduli di coordinamento come gli accordi amministrativi per il raggiungimento di risultato utile in termini materiali (p. 359), pur in una configurazione degli accordi tra p.a. come strumenti di paritaria interazione tra portatori di pubblici interessi (pp. 321 ss.). Cfr. anche G. Greco, op cit., pp. 175 ss., secondo cui non è una trascurabile evenienza l’interpretazione di accordi in senso prevalentemente o necessariamente privatistico, ma è chiaro che «il campo per così dire naturale di tali accordi è quello pubblicistico, implicante l’esercizio di potestà amministrative» (p. 185). Non va trascurato il contributo dato al tema degli accordi tra amministrazioni prima della l. 241/1990, rispetto alla configurazione di accordi organizzativi (S. Amorosino, Gli accordi organizzativi tra amministrazioni, Parte I: profili storico-dogmatici, Padova, Cedam, 1984; G. Pastori, Accordi e organizzazione amministrativa, in A. Masucci (a cura di), L’accordo nell’azione amministrativa, ora in G. Pastori (a cura di), Scritti scelti. I. 1962-1991, Napoli, Jovene, 2010, pp. 379 ss.), ma anche di convenzioni pubblicistiche, rispetto a cui sono state approfondite anche le dinamiche collaborative tra diversi livelli istituzionali e tra Regioni, con particolare riguardo alla vincolatività sul piano giuridico (G. Falcon, Le convenzioni pubblicistiche. Ammissibilità e caratteri, Milano, Giuffrè, 1984, pp. 172 ss., pp. 317 ss.; Id., voce Convenzioni e accordi amministrativi. 1) Profili generali, in Enc. giur., ora in Id., Scritti scelti, cit., pp. 205 ss.; rispetto agli accordi tra Regioni si v. pure G. D’Orazio, voce Accordi interregionali, in Enc. giur., I, 1988).
[xxii] P.to 4.1. della pronuncia in commento.
[xxiii] Rispetto alla doverosità legata alla deduzione del potere all’interno dell’accordo cfr. E. Bruti Liberati, op. cit., pp. 85. Più recentemente, rileva A. Moliterni, Amministrazione consensuale e diritto privato, Napoli, Jovene, 2016, p. 344 che «la lontananza della posizione dell’amministrazione da una vera e propria condizione di autonomia e di libertà sarebbe ancor più netta con riguardo ai rapporti negoziali incidenti su funzioni ed oggetti pubblici, rispetto ai quali risulterebbe prevalente la dimensione della doverosità tipica della funzione amministrativa». Rispetto alla doverosità dell’azione consensuale come indotta dall’elemento finalistico cfr. F. Cangelli, Potere discrezionale e fattispecie consensuali, Milano, Giuffrè, 2004, spec. pp. 335 ss. Sul rilievo del principio di funzionalità anche nella lettura contrattualprivatistica degli accordi cfr. G. Manfredi, Accordi e azione amministrativa, Torino, Giappichelli, 2001, pp. 120 ss.; S. Civitarese Matteucci, Regime giuridico dell'attività amministrativa e diritto privato, in Dir. pubbl., 2, 2003, pp. 463 ss. rispetto agli accordi ex art. 11 (ma tenendo conto che una lettura contrattuale degli accordi è stata avanzata dallo stesso A. per gli accordi di programma: cfr. S. Civitarese Matteucci, voce Accordo di programma (dir. amm.), in Enc. dir., Agg. III, 1999, spec pp. 23-24).
[xxiv] P.to 4.1. della pronuncia in commento ove é richiamato espressamente il Regolamento delegato (Ue) n. 240/2014 della Commissione del 7 gennaio 2014 recante un codice europeo di condotta sul partenariato nell’ambito dei fondi strutturali e d'investimento europei. D’altronde il diritto eurounitario si rivela fondamentale anche nello stimolare l’adozione di accordi di tipo orizzontale e verticale anche fra diverse amministrazioni nazionali. Per un inquadramento in tema è ancora di rilievo N. Bassi, Gli accordi fra soggetti pubblici nel diritto europeo, Milano, Giuffrè, 2004,spec. pp. 148 ss. Sulla portata del contributo di Nicola Bassi in merito agli accordi nel diritto europeo, anche alla luce dello studio delle figure tradizionali di accordo, si v. F. Fracchia, Gli accordi amministrativi nella produzione scientifica di Nicola Bassi, in Riv. reg. merc., 2, 2017, pp. 248 ss.
[xxv] P.to 4.1. della pronuncia in commento
[xxvi] Sul fondamento dell’obbligo di provvedere cfr., in part., A. Cioffi, Dovere di provvedere e pubblica amministrazione, Milano, 2005, pp. 89 ss.; F. Figorilli, A. Giusti, Art. 2 conclusione del procedimento, in N. Paolantonio, A. Police, A. Zito (a cura di), La pubblica amministrazione e la sua azione, Saggi critici sulla legge n. 241/1990 riformata dalle leggi n. 15/2005 e n. 80/2005, Torino, Giappichelli, 2005, pp. 136 ss.; A. Police, Il dovere di concludere il procedimento e il silenzio inadempimento, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, Giuffrè, 2017, pp. 275 ss.; N. Posteraro, Domande manifestamente inaccoglibili e dovere di provvedere, Napoli, Editoriale scientifica, 2018, pp. 25 ss.; M. Renna, F. Figorilli, voce Silenzio della pubblica amministrazione. I) Diritto amministrativo, in Enc. giur, XXVIII, 2009, pp. 1 ss.; più recentemente cfr. A. Calegari, sub art. 31, in G. Falcon. F. Cortese, B. Marchetti (a cura di), op. cit., pp. 343 ss.; F. Follieri, Il silenzio nei procedimenti ad iniziativa officiosa, Napoli, Editoriale scientifica, 2023; S. Villamena, Inerzia amministrativa e nuove forme di tutela. Profili organizzativi e sostanziali, Torino, Giappichelli, 2020, pp. 101 ss.
[xxvii] La discrezionalità, infatti, costituisce un limite a fronte dell’esperimento dell’azione di adempimento, presupponendo essa che l’attività sia vincolata (o sia esaurita la discrezionalità) e che non residuino ulteriori adempimenti istruttori. Nondimeno, a queste condizioni, sarebbe profilabile un’azione di adempimento, benché, in situazioni di silenzio, la giurisprudenza non si spinga a pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa (su queste problematiche cfr. M. Ramajoli, Forme e limiti della tutela giurisdizionale contro il silenzio inadempimento, in Dir. proc. amm., 2014, pp. 727 ss.; C. Silvano, Il Consiglio di Stato alla prova del giudizio contro il silenzio: verso una tutela maggiormente effettiva? (nota a Cons. Stato, sez. IV, 30 aprile 2024, n. 3945), in questa Rivista).
[xxviii] Non vi è dubbio in base all’art. 133, lett. a), n. 2. Anche nel caso di accordi tra p.a., in ogni caso, occorre verificare che la controversia abbia come “oggetto immediato” l'accordo medesimo e non vicende a carattere meramente patrimoniale (in tema, Cass., sez. un., 19 settembre 2023, n. 26853; Cass., sez. un., 6 aprile 2022, n. 11252; Cass., sez. un., 5 ottobre 2021, n. 26921
[xxix] Va comunque osservato che la giurisprudenza non è univoca, rinvenendosi un orientamento piuttosto consistente che nega l’esperibilità dell’azione avverso il silenzio a fronte di atti amministrativi generali o atti regolamentari sull’assunto che il rimedio sarebbe «circoscritto alla sola attività amministrativa di natura provvedimentale» (ex multis, Cons. Stato, sez. V, 3 gennaio 2023, n. 76; Cons. Stato, sez. IV, 26 luglio 2021, n. 5539; Cons. Stato, sez. IV, 2 settembre 2019, n. 6048).
[xxx] Cfr. Cons. Stato, sez. III, 24 novembre 2011, n. 6244. Sulla natura non civilistica di questi strumenti consensuali, ma sulla non riconducibilità ad accordi procedimentali transattivi cfr. A. Cassatella, Note in tema di transazione e atti a funzione transattiva nel diritto amministrativo, in G. Falcon, B. Marchetti (a cura di), Verso nuovi rimedi amministrativi? Modelli giustiziali a confronto, Napoli, Editoriale scientifica, 2015, p. 247; Id., La transazione amministrativa, Napoli, Editoriale scientifica, 2020, p. 67.
[xxxi] Cons. Stato, sez. III, 28 agosto 2013, n. 4309.
[xxxii] Va comunque notato che, in passato, la giurisprudenza ha in più occasioni negato l’ammissibilità dell’azione avverso il silenzio in caso di obblighi di fonte convenzionale (nell’ambito di accordi e contratti), ritenendo che essa potesse essere esercitata solo a fronte di attività provvedimentale e per la tutela di interessi legittimi. Sul punto si tornerà infra.
[xxxiii] Per quanto riguarda infine l’ultima pronuncia menzionata nella sentenza in commento (ossia Cons. Stato, sez. IV, 15 maggio 2022, n. 2636), non rintracciabile nelle banche dati, molto probabilmente il riferimento è a Cons. Stato, sez. IV, 15 maggio 2002, n. 2636.
[xxxiv] Così, in part. Cons. Stato, sez. IV, 10 marzo 2014, n. 1087. Cfr. altresì Cons. Stato, sez. VII, 30 maggio 2024, n. 4860; Cfr. Cons. Stato, sez. III, 13 settembre 2021, n. 6265; Cons. Stato, sez. III, 26 ottobre 2015, n. 4902; Cons. Stato, sez. IV, 10 marzo 2014, n. 1087. Cfr. anche A. Calegari, op. cit., p. 342.
[xxxv] V. però la lettura sistematica proposta infra.
[xxxvi] Cfr. recentemente T.a.r. Sicilia Catania, sez. IV, Sent., 5 settembre 2023, n. 2625. In senso affermativo rispetto al ricorso all’art. 2932 c.c. cfr. pure Cons. Stato, ad. plen., 20 luglio 2012, n. 28; Cons. Stato Sez. IV, 7 settembre 2020, n. 5376; Cons. Stato, Sez. IV, 21 aprile 2017, n. 1875; T.a.r. Sicilia - Catania, sez. IV, 5 settembre 2023, n. 2625; In dottrina, affermativamente, si v. M. Renna, Il regime delle obbligazioni nascenti dall'accordo amministrativo, in Dir. amm., 1, 2010, pp. 76-77, ritenendo consumato il potere discrezionale della p.a. una volta stipulato; F. Tigano, Accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento, in M.A. Sandulli (a cura di), op. cit., p. 665, che enfatizza in tal senso il rilievo del rinvio ai principi in materia di obbligazioni del codice civile. più recentemente si v. anche S. Florian, L’azione di adempimento tra rifiuto di provvedimento e silenzio dell’amministrazione, Torino, Giappichelli, 2022, pp. 144-145.
[xxxvii] Il punto è evidenziato in Cass. civ., sez. un., 5 dicembre 2023, n. 33944.
[xxxviii] In questo senso, cfr. in part. T.a.r. Toscana - Firenze, sez. III, 27 novembre 2018, n. 1552.
[xxxix] Cass. civ., sez. un., 9 marzo 2015, n. 4683.
[xl] D’altronde la negoziabilità stessa del potere nell’ambito degli accordi amministrativi postula il superamento di questa impostazione (in questo senso E. Bruti Liberati, voce Accordi pubblici, cit., pp. 5 ss.; E. Bruti Liberati, Consenso e funzione, cit., pp. 47 ss.; A. Moliterni, op. cit., p. 104), senza contare che pure la giurisdizione esclusiva in materia di accordi, rispetto alle diverse vicende di formazione e di esecuzione dell’accordo, fa perdere la valenza sistematica della teoria del doppio grado (E. Bruti Liberati, voce Accordi pubblici, cit., pp. 5-6; sul rilievo della giurisdizione esclusiva in rapporto alla diversa disciplina dei contratti pubblici cfr. anche M. Ramajoli, Gli accordi tra amministrazione e privati ovvero della costruzione di una disciplina tipizzata, in Dir. amm., 4, 2019, pp. 686-687). Sulla teoria del doppio grado, pure con rilievi critici, si v. G. Falcon, Le convenzioni pubblicistiche, cit., pp. 287 ss.; F. Ledda, Il problema del contratto nel diritto amministrativo, ora in Id., Scritti giuridici, Padova, Cedam, 2002, pp. 121 ss.; A. Masucci, Trasformazione dell’amministrazione e moduli convenzionali. Il contratto di diritto pubblico, Napoli, Jovene, 1988, pp. 51 ss.
[xli] Appare difficile rilevare l’esistenza di obbligazioni tout court civilistiche. D’altronde, già in Cons. Stato, ad. plen., 20 luglio 2012, n. 28 si era rilevato come l’atto d’obbligo di un consorzio relativo alla cessione di aree e all’assunzione a proprio carico di oneri di urbanizzazione non fosse qualificabile come una obbligazione meramente privatistica, essendo invece atto privato accessivo all’assegnazione nel piano di zona.
[xlii] Rispetto a questi rapporti, infatti, Cons. Stato, sez. VII, 30 maggio 2024, n. 4860 esclude l’applicabilità dell’azione avverso il silenzio e, dunque, dovrebbe prospettarsi l’esperibilità dell’azione ex art. 2932 c.c. Di tutta evidenza, bisognerà tener conto delle peculiarità ulteriori della disciplina generale (ed eventualmente settoriale) dell’accordo se stipulato tra amministrazioni.
[xliii] Peraltro, a tutela del ricorrente, si ritiene che sia possibile la conversione dell’azione in queste ipotesi, come già osservato in altra sede (sia consentito il rinvio a S. Franca, La conversione dell'azione tra potere ufficioso e principio della domanda: dal criterio della continenza alla centralità della vicenda sostanziale, in Dir. proc. amm., 1, 2024, p. 174.
[xliv] Non esclude, a fronte di inerzia provvedimentale nella materia degli accordi, l’esperibilità dell’azione di adempimento ex art. 31, co. 3 e 34, co. 1, lett. c) c.p.a., oltre al ricorso alla tutela ex art. 2932 c.c. anche S. Florian, op. cit., spec. p. 145. In questa ricostruzione, tuttavia, il problema che si può porre attiene alla tutela a fronte di gruppi di obbligazioni di tipo diverso. Non appare comunque da escludere una soluzione che si basi sul cumulo tra azione di adempimento e azione ex art. 2932 c.c.
[xlv] Cfr. p.to 4.2.1.della pronuncia in commento ove si afferma che «L’obbligo di provvedere, in coerenza con il principio di legalità, è previsto da una specifica disposizione di legge (art. 1, comma 178, lett. d, legge n. 178 del 2020, cit.) che disciplina un apposito procedimento di assegnazione delle risorse ed in cui la Regione, dopo il provvedimento Cipess del 3 agosto 2023 n. 25, è sicuramente titolare di una posizione differenziata che la legittima ad agire contro l’inerzia della Presidenza del Consiglio. Rispetto alla formulazione dell’art. 15 della legge n. 241 del 1999, la suddetta norma, sul piano letterale, è chiara nel prevedere che le parti «definiscono d’intesa un accordo» e, dunque, contempla un obbligo procedimentale di provvedere».
[xlvi] L’orientamento era già stato individuato in A. Cioffi, op. cit., pp. 97 ss., ma, rispetto al più recente impiego della clausola delle «ragioni di giustizia ed equità» si v. S. Villamena, Inerzia amministrativa e nuove forme di tutela. Profili organizzativi e sostanziali, Torino, Giappichelli, 2020, pp. 126 ss. In senso contrario all’orientamento che fondava semplicemente su ragioni di giustizia ed equità l’obbligo di provvedere, prima ancora della l. n. 241/1990, per ragioni di indeterminatezza si v. A. Angiuli, Studi sulla discrezionalità amministrativa nel quando, Bari, Cacucci, 1988, p. 101.
[xlvii] P.to 4.2. della pronuncia in commento.
[xlviii] Sui problemi dati dagli orientamenti tesi a superare la rigidità della norma come fondamento dell’obbligo di provvedere cfr. D. Marrello, Le prospettive dell'azione avverso il silenzio fra la salvaguardia dell'obbligo di provvedere e la valorizzazione dell'art. 2 della legge n. 241/1990, in Dir. proc. amm., 4, 2020, spec. pp. 1057 ss.; G. Tropea, Spunti sull’azione di condanna a fronte dell’inerzia della pubblica amministrazione nel rapporto fra amministrazione e giurisdizione, in P. Cerbo, G. D’Angelo, S. Spuntarelli (a cura di), Amministrare e giudicare. Trasformazioni ordinamentali, Napoli, Jovene, 2022, p. 110. Il vaglio relativo alla legittimazione può in questo ambito assumere particolare importanza (cfr. S. Franca, L’azione di condanna a fronte dell’inerzia nel rapporto fra amministrazione e giurisdizione, ivi, p. 83), giacché orienta la valutazione sull’obbligo di provvedere alla sussistenza di una pretesa normativamente tutelata che pare suscettiva di guidare il sindacato nel giudice, ove ve ne siano i presupposti, verso una pronuncia sulla fondatezza della pretesa. In questo senso, effettivamente, il richiamo al principio di buona fede potrebbe avere un rilievo maggiormente significativo, proprio nella prospettiva di un’azione di adempimento.
[xlix] Ord. Cons. Stato, sez. IV, 12 aprile 2024, n. 1325.
[l] Il fatto che il giudice abbia discrezionalità nella valutazione dei presupposti è un dato pacifico e, anzi, sorgono criticità quando questa legittima discrezionalità venga compressa (F. Saitta, Interprete senza spartito? Saggio critico sulla discrezionalità del giudice amministrativo, Editoriale scientifica, 2023, pp. 249 ss.). Tuttavia, occorre osservare che solleva maggiori criticità la discrezionalità esercitata dal giudice cautelare quando la valutazione sulla sussistenza dei presupposti si traduce in un bilanciamento degli interessi delle parti. In tema cfr. già C. Cacciavillani, Giudizio amministrativo di legittimità e tutele cautelari, Padova, Cedam, 2002, spec. pp. 163 ss.; più recentemente, anche alla luce dell’esperienza pandemica, cfr. M. Ricciardi Calderaro, La comparazione degli interessi nella valutazione cautelare del giudice amministrativo, Napoli, Jovene, 2023; C.E Gallo, La giurisdizione amministrativa, Torino, Giappichelli, 2024, pp. 293 ss.
[li] Sull’attività integrativa del giudice, come attività tramite cui i giudici sono chiamati a individuare la legalità sostanziale, senza ragionamenti di tipo analogico e senza che l’attività ermeneutica si traduca nella creazione di norme inedite. Per maggiori approfondimenti in tema, cfr. A. Cassatella, L’eccesso di potere giurisdizionale e la sua rilevanza nel sistema di giustizia amministrativa, in Riv. trim. dir. pubbl., 2, 2018, pp. 657 ss.; più recentemente sul ruolo della giurisdizione amministrativa nel quadro della separazione dei poteri (onde contenere il problema del creazionismo giudiziario) si v. Id., Separazione dei poteri, ruolo della scienza giuridica, significato del diritto amministrativo e del suo giudice: osservazioni a margine di "Ogni cosa al suo posto. Restaurare l'ordine costituzionale dei poteri" di Massimo Luciani, in Dir. proc. amm., 1, 2024, pp. 254 ss. Al problema dei limiti dell’attività integrativa può aggiungersi, in altre controversie, il problema del labile confine tra amministrazione e giurisdizione (su cui cfr. L. Saltari, I giudici amministratori, in Riv. trim. dir. pubbl., 1, 2023, pp. 327 ss.).
[lii] Più in generale, sulle criticità legate all’uso di parametri equitativi anche tenendo conto dell’attività integrativa del giudicante spec. G. Tropea, L’effettività “equitativa” della decisione del giudice amministrativo: il caso della modulazione nel tempo degli effetti della sentenza, in Dir. proc. amm., 4, 2023, pp. 711 ss.
V Congresso nazionale di Area DG, 10 ottobre 2025, Genova
Buonasera a tutte e a tutti.
Arriviamo oggi al Congresso dopo giorni intensi, carichi di sollecitazioni, di interrogativi e di pensieri; giorni che ci hanno ricordato e richiamato la serietà e la responsabilità del nostro impegno.
Non è un Congresso che si apre su un terreno neutro: giunge dopo un percorso che ci ha messi di fronte - mai come ora - alle fragilità e alle contraddizioni della nostra società, e che ha chiamato ciascuno di noi a confrontarci con la estrema complessità del contesto in cui ci muoviamo.
Abbiamo seguito con molto interesse la tavola rotonda sui Diritti negati. Un titolo scelto con grande consapevolezza, a distanza di poco più di due anni dal congresso di Palermo in cui avevamo discusso di Diritti sotto attacco, solo qualche giorno prima di quel 7 ottobre 2023 che ha segnato profondamente il corso degli eventi successivi.
Sono i temi appena discussi – i diritti negati- che introducono i nostri lavori.
Abbiamo riflettuto sul lavoro, e lo abbiamo fatto sapendo che esso è il primo fondamento della nostra Repubblica, la base su cui si costruisce la dignità di ogni persona. Ma abbiamo visto anche quanto, oggi, sia vulnerabile, spesso svuotato di garanzie, ridotto a fatica priva di riconoscimento, piegato alla logica del profitto immediato. E quando il lavoro non è più diritto ma precarietà, è il luogo da cui a volte non si ritorna, quando diventa trappola invece che strumento di emancipazione, allora si incrina il patto sociale, ed è necessario restituire equilibrio, difendere la dignità di chi lavora.
Abbiamo discusso di carcere, ricordando che la misura della civiltà di un Paese non si legge nei discorsi e nelle dichiarazioni di intenti, ma nelle condizioni dei luoghi di detenzione.
Il sovraffollamento, la mancanza di servizi, la violazione quotidiana della dignità umana, i suicidi sono ferite che gridano alla coscienza di tutti. Nessuna istanza di sicurezza può trasformare la pena in mera segregazione: la giustizia deve saper custodire la legalità anche dentro le mura del carcere, deve garantire che nessun essere umano venga ridotto a numero e che la speranza non venga cancellata. Senza dignità, la pena diventa vendetta. E la vendetta non appartiene alla giustizia, appartiene al disordine, alla regressione, alla barbarie.
Abbiamo guardato ai minori, ai più fragili, e abbiamo sentito quanto sia urgente custodirli. Ogni volta che un bambino resta senza tutela, ogni volta che un ragazzo cresce senza protezione, è la comunità intera che fallisce. La giustizia deve farsi tutela concreta e ascolto di chi ha meno voce, perché è la Carta costituzionale che ce lo chiede.
Abbiamo perlato delle donne in un racconto che non vorremmo più ascoltare. Vorremmo parlare di dome libere e sicure e non di violenze silenziose e di paure soffocate; di sorrisi e non di lividi nascosti. C’è ancora molto da fare.
Abbiamo parlato di guerra, e in particolare dei conflitti che oggi devastano terre e popoli. La guerra non è mai lontana da noi, porta con sé fratture che attraversano anche le nostre società, riaccende paure, legittima la violenza come strumento politico e di consenso. E allora la giustizia è chiamata a ricordare che nessuna ragione di Stato, nessuna strategia geopolitica, può giustificare la violazione dei diritti fondamentali. La giustizia è presidio non solo entro i confini nazionali, ma nel mondo globale in cui viviamo.
Ultimo, ma non certo ultimo, abbiamo toccato il tema delle povertà e delle disuguaglianze, che si allargano giorno dopo giorno. La forbice tra chi ha molto e chi ha quasi nulla cresce, e con essa cresce il rischio che il vivere civile e in condizioni di dignità diventi privilegio per pochi e chimera per molti. Noi sappiamo che tali disuguaglianze non possono può convivere con uno Stato di diritto. Ogni volta che la mancanza di mezzi esclude qualcuno dalla possibilità di difendere i propri diritti, è come se la luce della Costituzione si affievolisse. La giustizia deve essere la casa di tutti, e non il rifugio di chi può permettersela.
In tutti questi momenti, ciò che è emerso con chiarezza è che la giustizia è il terreno in cui si misura la tenuta della nostra democrazia, perché da come viene amministrata dipende la fiducia collettiva nello Stato di diritto. È il banco di prova della qualità della vita civile, perché non c’è libertà autentica se i diritti non trovano tutela effettiva davanti a un giudice indipendente. Ed è, infine, la cartina di tornasole della credibilità delle istituzioni: se la giurisdizione perde autorevolezza o indipendenza, si incrina l’intero edificio costituzionale, e con esso la possibilità stessa di una convivenza fondata su regole condivise e rispettate.
Il titolo del nostro Congresso – “La forza e il diritto. Il presidio della giurisdizione” – ci restituisce questa consapevolezza.
La forza, nelle sue molteplici forme, rischia di prevalere sul diritto.
La forza della politica, che a volte si piega alla ricerca ossessiva del consenso immediato, sacrificando principi e coerenza. La forza dell’economia, che riduce i diritti a costi, a variabili da comprimere. La forza dell’opinione pubblica, troppo spesso disinformata o manipolata, che invoca risposte rapide, semplificazioni pericolose, capri espiatori. La forza della comunicazione deformata attraverso l’utilizzo di linguaggi violenti, di notizie false, di verità omesse.
Di fronte a tutto questo, il diritto appare fragile. Eppure, è proprio nella sua apparente fragilità che risiede la sua forza più autentica: perché il diritto non è non è prevaricazione e violenza, ma risoluzione del conflitto e garanzia delle libertà.
La giurisdizione ha il compito di difendere questo spazio fragile ma allo stesso tempo potente, senza mai piegarsi alle convenienze o alle contingenze.
Il Congresso è, per sua natura, un momento di confronto prevalentemente interno, in cui il gruppo si interroga sulla propria azione e sui propri obiettivi. Ma sarebbe riduttivo pensare al Congresso come un semplice discutere di noi.
La posta in gioco è alta: c’è la capacità di Area dg di difendere l’autonomia e l’indipendenza della magistratura perché solo così si può immaginare una giustizia che parli ai cittadini e alle cittadine, che sappia riconoscere le trasformazioni della società e rispondervi senza chiudersi in un linguaggio autoreferenziale.
Il dibattito che ora si apre non potrà prescindere da questa tensione: da un lato, la difesa dei principi che garantiscono l’autonomia della magistratura; dall’altro, la necessità di rinnovare il nostro modo di intendere e praticare la giustizia, perché non resti distante, ma viva e percepibile nella vita quotidiana.
Mi auguro che in questi giorni ognuno di noi porti il proprio contributo con franchezza, con spirito critico e con l’ambizione di restituire alla giurisdizione il suo ruolo autentico: non un’entità separata dal contesto sociale, ma un elemento fondante della democrazia.
ll percorso che ci ha condotti qui ci dice che difendere l’autonomia della magistratura è essenziale e non negoziabile. Occorre anche saperla declinare come servizio alla collettività, come strumento di tutela dei più deboli, come garanzia per tutti. L’autonomia è responsabilità. L’autonomia è presidio.
Mi auguro che ognuno di noi, in questo Congresso, porti il proprio contributo con coraggio e spirito critico, con l’ambizione alta che deve sempre accompagnare la nostra funzione.
Con questa convinzione, con questa speranza e con le parole di Michele Serra che ci ha ricordato che il mondo ha bisogno di ragione e, ove possibile, di gentilezza dichiaro aperti i lavori del Congresso nazionale di Area DG.
Egle Pilla
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.
