ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1.Procedimenti di volontaria giurisdizione.- 2. Il ruolo di controllo del PM - 3. Il regime delle autorizzazioni - 4. Conclusioni
1.Procedimenti di volontaria giurisdizione.
Il d.lgs. 149/2022, attuativo della c.d. riforma Cartabia, ha, tra le altre cose, inciso in maniera significativa sulla disciplina dei procedimenti di volontaria giurisdizione.
1.1 In particolare, l’art. 21 d.lgs. 149/2022 ha interessato i provvedimenti autorizzatori di negozi stipulati da soggetti con una ridotta capacità di agire (minori, interdetti, inabilitati e beneficiari di amministrazione di sostegno) e gli atti aventi ad oggetto beni ereditari, per i quali è stata prevista una competenza alternativa del Notaio rogante rispetto a quella tradizionale del Giudice tutelare e del Tribunale, ad eccezione delle “autorizzazioni per promuovere, rinunciare, transigere o compromettere in arbitri giudizi, nonché per la continuazione dell'impresa commerciale” (art. 21 co. 7 d.lgs. 149/2022) che restano riservate in via esclusiva all’autorità giudiziaria.
1.2 Ciò è stato inteso da parte della dottrina come una sorta di liberalizzazione di detta potestà autorizzatoria. A prescindere dalla condivisibilità o meno di tale lettura, la previsione di una competenza alternativa rispetto a quella giurisdizionale – per definizione, maggiormente garantista – impone di porre l’accento sulla componente fondamentale dell’atto autorizzatorio, ossia l’attività di controllo (sia di legittimità sia di merito) sull’atto stipulando, a protezione dell’interesse del soggetto vulnerabile o di creditori e legatari nel caso di eredità beneficiata, eredità giacente o esecuzione testamentaria. Nel nuovo assetto normativo, dunque, tale funzione di controllo è demandata in via alternativa al Giudice tutelare o al Tribunale (monocratico o collegiale) a seconda della competenza ovvero al Notaio e al Pubblico Ministero.
Difatti, la figura del Notaio, per quanto pubblico ufficiale, non è stata ritenuta dal legislatore di per sé sufficiente a tutelare interessi di preminente importanza, anche in considerazione del rapporto contrattuale e fiduciario che lo lega al cliente, il che lo priva della necessaria posizione di terzietà rispetto agli interessi da tutelare. Di conseguenza, ove non si opti per il tradizionale procedimento autorizzatorio davanti al Giudice tutelare o al Tribunale, il vaglio del Pubblico Ministero assume, nella riforma, ruolo di assoluta pregnanza nell’assicurare la tutela di detti interessi, giacché è attraverso il suo intervento che l’atto è sottoposto al vaglio giurisdizionale.
2. Il ruolo di controllo del PM
Tale ruolo di controllo si estrinseca principalmente nella possibilità di proporre reclamo avverso l’autorizzazione concessa dal Notaio per la stipula dell’atto. Il relativo procedimento è regolato dagli artt. 737 ss. c.p.c. relativi ai procedimenti in camera di consiglio e in particolare dall’art. 740 c.p.c. che disciplina i reclami del Pubblico Ministero.
2.1 Vale la pena precisare che si discute principalmente di reclamo avverso l’autorizzazione e non di reclamo avverso il diniego di autorizzazione in quanto quest’ultimo, pur astrattamente possibile sebbene non espressamente previsto, avrà nella pratica un rilievo pressocché nullo, giacché, in caso di diniego del Notaio, esso sarà più plausibilmente espresso in via informale, per cui è improbabile che le parti procedano a richiesta scritta. In ogni caso, anche ove lo facessero, a fronte del diniego nulla impedirebbe loro di effettuare la medesima richiesta ad altro professionista, a meno di voler ipotizzare anche a carico del Notaio un divieto di ne bis in idem e conseguente onere di verifica, presso la cancelleria, di eventuali precedenti autorizzazioni o dinieghi rilasciati da altri Notai per il medesimo atto.
2.2 Occorre rilevare come la competenza del Tribunale o della Corte d’Appello in sede di impugnazione (e di conseguenza quella della Procura a proporre reclamo) rimanga la medesima prevista per le autorizzazioni del Giudice tutelare e del Tribunale (monocratico o collegiale) per le autorizzazioni aventi ad oggetto beni ereditari. Infatti, l’art. 21 co. 4 d.lgs. 149/2022 precisa che “L'autorizzazione è comunicata, a cura del notaio, anche ai fini dell'assolvimento delle formalità pubblicitarie, alla cancelleria del tribunale che sarebbe stato competente al rilascio della corrispondente autorizzazione giudiziale e al pubblico ministero presso il medesimo tribunale”.
Si segnala, tuttavia, che parte della dottrina (sposata altresì dal Consiglio Nazionale del Notariato) è orientata per diversa opzione ermeneutica, secondo cui il dettato normativo (“l’autorizzazione può essere impugnata innanzi all’autorità giudiziaria secondo le norme del codice di procedura civile applicabili al corrispondente provvedimento giudiziale”) dovrebbe essere letto nel senso che il legislatore abbia inteso assoggettare l’autorizzazione del Notaio al medesimo regime impugnatorio dell’autorizzazione del Giudice e dunque il Tribunale competente per il reclamo sia quello nel cui circondario ha sede il Notaio rogante.
In tal caso, oltre a una contraddittorietà rispetto al co. 4 del medesimo articolo, si ravvisa un potenziale rischio di forum shopping, giacché la facoltà di scelta per la parte del Notaio cui affidare l’incarico, che può avere sede anche al di fuori del circondario del Tribunale il cui Giudice tutelare sarebbe competente in via giudiziale, avrebbe l’effetto di consentire alle parti di modificare a piacimento il Tribunale cui eventualmente rivolgersi in sede di impugnazione.
Peraltro, ad eccezione delle istanze ex art. 320 disp. att. c.p.c., la presentazione di un’istanza in un Tribunale diverso da quello in cui è stata aperta la tutela, la curatela, l’amministrazione di sostegno o la successione impedirebbe alle cancellerie di inserirla all’interno del relativo fascicolo, con conseguente parcellizzazione dello stesso, potenzialmente a livello nazionale, e con gravi difficoltà di coordinamento. Pertanto, la prima tesi è da preferirsi.
2.3 Come appena visto, dunque, una volta stilato l’atto e la relativa autorizzazione, il Notaio li comunica alla Procura della Repubblica presso il Tribunale competente. Dalla comunicazione (ossia dalla ricezione da parte della cancelleria civile), decorre il termine perentorio entro il quale il Pubblico Ministero può proporre reclamo.
In dottrina si discute, però, se esso sia di 10 giorni, come previsto dall’art. 740 c.p.c. per tutti i reclami del P.M., oppure di 20 giorni. Quest’ultima interpretazione si fonda sul fatto che l’art. 21 co. 6, primo periodo, d.lgs. 149/2022 dispone che il provvedimento notarile di autorizzazione è inefficace per 20 giorni dalle notificazioni e comunicazioni previste.
Il primo orientamento, peraltro maggiormente rispondente alla lettera della legge, appare preferibile, in quanto lo sfalsamento tra termine per proporre il reclamo e sospensione dell’efficacia dell’autorizzazione è necessaria affinché il Tribunale fissi con decreto la data dell’udienza e che questo sia notificato, unitamente al reclamo, alle parti. Dunque, anche in via precauzionale, appare opportuno individuare in 10 giorni il lasso temporale che ha a disposizione il Pubblico Ministero per svolgere la propria attività di controllo e valutare l’opportunità o meno di proporre reclamo di fronte al Tribunale.
2.4 Tale controllo si sostanzia di due componenti: legittimità e merito.
2.4.1 Per quanto attiene ai profili di legittimità, è necessario verificare, in primo luogo, il rispetto del procedimento previsto dalla legge per il rilascio dell’autorizzazione. L’impegno di verifica più significativo, tuttavia, concerne i profili sostanziali, che possono essere vari e articolati in modo diverso a seconda del tipo di atto da stipulare. Eventuali errori nell’applicazione della legge sostanziale vanno in ogni caso esaminati prendendo le mosse da un’accurata analisi degli elementi fattuali indicati negli atti (autorizzazione e atto stipulando allegato) e dell’eventuale relazione dell’esperto che sovente è posta a corredo, giacché altrimenti non è possibile apprezzare adeguatamente i profili giuridici dell’operazione.
2.4.2 Devono essere oggetto di attento vaglio anche i profili di opportunità, cioè se l’atto sia o meno nell’interesse del soggetto da tutelare – in caso di soggetti con una ridotta capacità di agire – o se leda i diritti di creditori e legatari – nei procedimenti in materia successoria. Tale analisi, estremamente delicata, implica che devono soppesarsi non soltanto gli elementi giuridici ma anche quelli economico-patrimoniali e sociali e, in caso di soggetti fragili, anche pratici.
2.5 Ciò detto sulla natura e sui contenuti del controllo, occorre interrogarsi anche su quali siano gli strumenti a disposizione del Pubblico Ministero per adempiere a tale funzione.
Infatti, l’art. 21 co. 2 d.lgs. 149/2022 prevede che “Il notaio può farsi assistere da consulenti, ed assumere informazioni, senza formalità, presso il coniuge, i parenti entro il terzo grado e agli affini entro il secondo del minore o del soggetto sottoposto a misura di protezione, o nel caso di beni ereditari, presso gli altri chiamati e i creditori risultanti dall'inventario, se redatto. Nell'ipotesi di cui all'articolo 747, quarto comma, del codice di procedura civile deve essere sentito il legatario”, mentre nulla si dice sui poteri in tal senso del Pubblico Ministero.
Viene, dunque, da chiedersi se la Procura possa o meno svolgere una sorta di istruttoria, sebbene gli stretti tempi per proporre reclamo rendano tale eventualità di difficile attuazione pratica. È indiscusso che, per quanto riguarda i poteri da esercitare in corso di giudizio, debba trovare applicazione l’art. 72 c.p.c., che però non può certamente essere invocato per gli accertamenti da svolgersi ante causam, volti soprattutto a determinare l’opportunità e il contenuto del reclamo da proporre.
Ebbene, prima della riforma Cartabia il ruolo del Pubblico Ministero nell’ambito di tali procedimenti non era particolarmente penetrante, riducendosi nella pratica a una mera presenza di fatto (se non addirittura alla totale mancanza di partecipazione al procedimento). L’unica attività possibile, sotto il profilo istruttorio, si concretava dunque nella richiesta di approfondimenti al Giudice tutelare o al Tribunale, da svolgersi in contraddittorio nell’alveo della potestà istruttoria concessa al Giudice in questi casi.
Alla luce delle nuove norme che regolano i procedimenti in materia di persone, di minorenni e di famiglia (artt. 473 bis ss. c.p.c.), invece, emergono notevolissime modifiche al procedimento nel suo complesso. Per quanto qui di interesse, è di precipuo rilievo l’art. 473 bis.3 c.p.c., il quale statuisce che, “nell'esercizio dell'azione civile e al fine di adottare le relative determinazioni, il pubblico ministero può assumere informazioni, acquisire atti e svolgere accertamenti, anche avvalendosi della polizia giudiziaria e dei servizi sociali, sanitari e assistenziali”. Pertanto, deve ritenersi che oggi il Pubblico Ministero, oltre a sollecitare il Tribunale a svolgere gli approfondimenti istruttori del caso, potrà egli stesso introdurre, con il reclamo e nel corso del procedimento, nuovi elementi emersi dagli accertamenti svolti in prima persona.
Dubbi si presentano, però, sull’applicabilità di tale disposizione alle autorizzazioni di atti aventi ad oggetto beni ereditari, giacché il relativo procedimento, disciplinato dagli artt. 747 ss. c.p.c., non rientra nella competenza dell’istituendo Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie.
2.6 Come già accennato, l’art. 21 co. 6, primo periodo, d.lgs. 149/2022 dispone che “le autorizzazioni acquistano efficacia decorsi venti giorni dalle notificazioni e comunicazioni previste dai commi precedenti senza che sia stato proposto reclamo”. Poiché, prosegue la norma, “esse possono essere in ogni tempo modificate o revocate dal giudice tutelare, ma restano salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi in forza di convenzioni anteriori alla modificazione o alla revoca” e, scaduti i termini per il reclamo, l’autorizzazione acquisisce automaticamente efficacia ex nunc, appare opportuno procedere alla notifica (o quantomeno alla comunicazione) del reclamo e del pedissequo decreto di fissazione di udienza anche nei confronti del Notaio rogante, in modo da renderlo edotto dell’intervenuta impugnazione dell’autorizzazione e del correlato effetto sospensivo.
3. Il regime delle autorizzazioni
Qualora non venga proposto reclamo, le autorizzazioni sono comunque insuscettibili di passare in giudicato, così come del resto i decreti del Giudice tutelare e del Tribunale (monocratico o collegiale), e possono sempre essere modificate o revocate (art. 742 c.p.c.).
Sono comunque fatti salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi in forza di convenzioni anteriori alla modificazione o alla revoca (art. 21 co. 6 d.lgs. 149/2022).
3.1 È dibattuto se la modifica o la revoca possano essere disposte d’ufficio. Parte della dottrina, infatti, si orienta in senso affermativo, interpretando la mancanza nell’art. 742 c.p.c. di alcun riferimento alla legittimazione attiva, a differenza di quanto previsto dall’art. 739 c.p.c., nel senso di ritenere che il legislatore abbia voluto disciplinare detta legittimazione esclusivamente con riferimento al reclamo e non rispetto alla revoca o alla modifica del provvedimento. La tesi prevalente, tuttavia, limita tale possibilità ai pochi casi in cui il procedimento è ad iniziativa officiosa. Ciò, del resto, appare coerente anche con la ratio della riforma, introdotta con lo scopo di comportare un alleggerimento del carico del giudice tutelare: se questi fosse gravato dal compito di verificare ogni autorizzazione notarile per valutare l’opportunità di disporne la revoca o la modifica, la mole di lavoro non risulterebbe intaccata e di conseguenza l’obiettivo posto dal legislatore verrebbe apertamente tradito.
3.2 È, invece, del tutto pacifico che la revoca o la modifica possano essere richieste da tutti coloro che sono legittimati ad iniziare il procedimento, incluso il Pubblico Ministero. Pertanto, anche in caso di decorso del termine di 10 giorni sopra indicato come termine di presentazione del reclamo (ovvero del termine dei 20 giorni previsti per l’efficacia dell’autorizzazione, in caso di accoglimento della tesi opposta sopra illustrata), l’attività di controllo del Pubblico Ministero rimane doverosa e, in caso si ritenga viziata o inopportuna l’autorizzazione concessa, dovrà essere proposto un ricorso.
3.3 Occorre rilevare che, a differenza di quanto previsto per il reclamo, ove la competenza viene individuata alle norme del c.p.c. applicabili al corrispondente provvedimento giudiziale, per la modifica e la revoca l’art. 21 co. 6 d.lgs. 149/2022 statuisce che le autorizzazioni “possono essere in ogni tempo modificate o revocate dal giudice tutelare”. Un’interpretazione ancorata al dato letterale della norma (della cui ratio è però lecito dubitare) conduce, quindi, a ritenere che, anche in caso di autorizzazioni aventi ad oggetto beni ereditari, la competenza per la modifica e la revoca sia sempre del Giudice tutelare, al contrario di quanto previsto dal c.p.c.
3.4 Vale la pena di sottolineare, peraltro, come la possibilità di revoca o modifica sia prevista in capo esclusivamente all’autorità giudiziaria, con esclusione della competenza concorrente del Notaio rogante, il quale, una volta concessa l’autorizzazione, non potrà più rivederne il contenuto, a prescindere dal fatto che l’atto sia stato stipulato o meno.
Tale conclusione non è univocamente condivisa in dottrina: vi è chi ritiene che il Notaio rogante possa modificare la propria autorizzazione mediante il rilascio di una nuova che vada a sostituire la precedente. Anche ove tale opzione venisse limitata ai casi in cui l’atto non è stato stipulato, comunque ciò appare in netto contrasto con il dato normativo.
Quanto alla revoca, essa non presenta alcuna utilità per il Notaio, giacché basta che questi ometta di procedere alla stipula dell’atto autorizzato, non avendo la sua autorizzazione validità in altro contesto.
Tuttavia, nulla impedisce alle parti di rivolgersi ad altro professionista per farsi rilasciare un’autorizzazione diversa da quella precedentemente ottenuta o in sostituzione di un eventuale diniego. Pertanto, si pone in capo alle Procure un onere di verifica delle istanze pervenute svolgendo una ricerca nominativa in modo da avvedersi se, con riferimento allo stesso soggetto, siano state comunicate dai Notai più autorizzazioni analoghe o contrastanti tra loro.
4. Conclusioni
In conclusione, laddove la riforma ha inteso sgravare il Giudice tutelare, ha poi spostato parte di tale carico sugli uffici del Pubblico Ministero, imponendo loro un onere di vigilanza rispetto all’attività svolta dai Notai.
Tale scelta si scontra inevitabilmente con le gravi carenze di organico che interessano le Procure, sia nei ruoli della magistratura requirente sia nelle cancellerie. Non stupirà, dunque, se una tempistica così ristretta per la proposizione del reclamo risulterà difficile da rispettare. In tal senso, costituirà sicuramente un aiuto la costituzione di un ufficio della Procura della Repubblica presso il Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie, anche alla luce del fatto che ad oggi non sempre vi è una specializzazione all’interno delle Procure nell’individuazione di magistrati dedicati agli affari civili – con la conseguenza che, laddove tali oneri si sovrappongano con le attività penali, saranno certamente queste ultime a prevalere.
In ogni caso, le novità in materia di procedimenti di volontaria giurisdizione gestiti dal Notaio, inquadrate nel più ampio contesto della riforma Cartabia, dimostrano l’intento del legislatore della riforma di rendere la figura del Pubblico Ministero all’interno del processo civile, specificamente in materia di persone, minorenni e famiglia, di centrale pregnanza, in particolar modo per la tutela dei soggetti più fragili e vulnerabili.
“Perché un’idea generale dovevano pure averla, per compiere il loro lavoro intelligentemente; e tuttavia era meglio che ne avessero il meno possibile, se dovevano riuscire più tardi buoni e felici membri della società. Perché, come tutti sanno, i particolari portano alla virtù e alla felicità; mentre le generalità sono, dal punto di vista intellettuale, dei mali inevitabili.
Non i filosofi, ma i taglialegna e i collezionisti di francobolli compongono l’ossatura della società”.
Aldous Huxley, “Il mondo nuovo”
Non me ne vogliano le due categorie sociali che l’Autore della citazione, con immaginifica esemplificazione, tira in ballo come degni rappresentanti di un mondo nuovo, governato da un razionalismo produttivistico a discapito dell’emozione, del sentimento, del pensiero libero.
Eppure, confesso che – con una tendenza accentuatasi negli ultimi tempi – in questi otto anni esatti di esercizio delle funzioni requirenti minorili mi sono sentito più volte un collezionista di francobolli (la vita dei boschi non è il mio forte).
Parto dalla fine.
Nell’imminenza del mio ritorno a un ufficio requirente ordinario, che maturerà nei prossimi giorni, ho sentito un insistente prurito alle mani. No, non per levarle contro le menti perverse che hanno concepito, progettato e imposto il sistema informatico che attua il processo civile telematico per il rito minorile, con una pervasività delle sue applicazioni che costringe il magistrato a non alzare gli occhi dal monitor per ore intere: ormai, neanche più il tappo alla penna tolgo la mattina.
Era semplicemente per stilare un bilancio consuntivo di questo tempo trascorso tra i figli di un Dio minore, e ciò sia per un intento diaristico che invecchiando mi assale, sia per dare un avviso ai naviganti che verranno – penso con trepidazione al collega m.o.t. che mi succederà – ma anche a quei tanti colleghi che per tutta la carriera si tengono ben lontani da queste lande.
Ecco, vorrei quindi tracciare una riga, e fare un riassunto di quel che è stato il mio lavoro alla Procura per i minorenni di Trento prima di tornare tra i grandi. Una sorta di tema di inizio anno scolastico, dove lo studente riassuma le vacanze appena trascorse. Rimpiante o no, lo dirà il tempo.
Seppur da un osservatorio piccolo e settoriale in rapporto alla gran massa degli uffici giudiziari del paese, in questa sede ho visto e imparato molto.
La cronaca di questi tempi m’impone di iniziare da una considerazione che attiene alla mancanza di consapevolezza, da parte di ragazzi anche ampiamente al di sotto dell’età imputabile, del disvalore sociale del fatto. Inutile girarci intorno: fatti gravi come quelli accaduti di recente, prima a Palermo poi a Caivano, violenze sessuali di gruppo condite di condotte estorsive poste in essere con modi degni di una consorteria mafiosa, e che vedono coinvolti in gran parte giovanissimi tra le vittime e i carnefici, devono interrogare la magistratura minorile tutta sulla efficacia della prevenzione oggi messa in campo dalle diverse agenzie del territorio. Che siano esse i genitori, gli educatori delle comunità di accoglienza, i servizi socioassistenziali, la scuola. E la magistratura stessa, che troppo poco adopera gli strumenti del procedimento civile con la tempestività e il rigore che esso consente (e già prima della riforma del 2022, il magistrato minorile era ampiamente fornito di poteri anche piuttosto incisivi: se non li abbiamo adoperati a dovere è soltanto colpa della nostra inettitudine).
Ho imparato a conoscerli, i giovanissimi protagonisti dei nostri fascicoli. Si tratta di adolescenti che hanno la stessa mia età di quando ancora collezionavo figurine dei calciatori come fossero (ehm…) francobolli, eppure essi sono molto più spudorati di quanto non fossimo noi, di qualche generazione fa, e non è detto che questo sia un male. Anzi.
Quella che apparentemente, specie a un occhio sempre più anziano e pigro, può sembrare sfacciataggine, protervia, o semplicemente maleducazione, tante volte altro non è che una esplicita invocazione di aiuto. Aiuto a essere guidati, letteralmente “educati”, estratti fuori dalle macerie di un mondo schizofrenico, ipertecnologico eppure rarefatto nei rapporti umani. Questi ragazzi – ma prima ancora i loro genitori, quando ci sono – non hanno remore né pudore a condividere sui social network tutto delle loro vite private, eppure fanno fatica a raccontarsi, a guardare negli occhi, ad alzare uno sguardo sempre troppo calato sotto l’ombra di un cappuccio ficcato in testa. Quando poi si passa a dover condividere per davvero, a scambiarsi qualcosa, in real life, che sia un’opinione, un’emozione o semplicemente un saluto, fanno fatica a sapersi destreggiare anche con i più rudimentali convenevoli che la società c’impone da secoli.
Ho visto ragazzi, indagati e imputati anche di gravi delitti, presentarsi all’interrogatorio in ciabatte, pressoché sdraiati dinanzi al pubblico ministero o al giudice con l’aria stufa del protagonista dell’omonimo romanzo di Michele Serra: e quando, invitati ad essere più rispettosi eccetera, ho visto nei loro occhi balenare il lampo della sorpresa, a tradire una verginità dei comportamenti sociali che dovrebbe portare sul banco degli imputati prima di tutto noi stessi, noi grandi.
Non c’è traccia di soggezione e men che meno di rispetto verso l’autorità (questa sconosciuta): c’è noia, c’è indifferenza, c’è il grido arrabbiato di una massa di ragazzi con cui essi rimarcano una distanza abissale nei confronti di un mondo adulto che li ripaga con la stessa moneta. Sono figure sintomatiche di un’assenza, di un vuoto che prima o poi decidono di colmare con il facile ricorso ad altri rinforzi: vuoi le sostanze stupefacenti, vuoi un abuso di alcolici (mai quanto mamma e papà, però), vuoi una sessualità artefatta che non eccita più.
Se tutto questo è fronteggiato con strumenti anacronistici e spuntati, è chiaro che l’effetto dissuasivo – senza scantonare in facili tentazioni generalpreventive – contro certe condotte delittuose risulta insufficiente. Gli istituti del processo minorile necessitano di essere adattati a una platea di giovani più smaliziati, più precoci nell’assumere condotte anche di rilevanza penale con preoccupante disinvoltura, sovente spia di un senso di impunità che è figlia dell’aria che si respira in casa (quando c’è).
Perché, allora, dovremmo pretendere dai ragazzi di riconoscere e rispettare le regole (siano esse leggi, regolamenti, circolari del dirigente scolastico o semplicemente precetti consuetudinari tramandati da sempre) quando noi adulti per primi abbiamo rimosso ogni barriera che imponeva di rispettare ruoli e competenze, professionalità e istituzioni?
“Dove sta scritto?” replicava uno sfacciato studente a un dirigente scolastico che lo richiamava a non assumere comportamenti irrispettosi, contrari alla legge o a qualche altra regola. Ebbene, se siamo, noi adulti per primi, pronti a ricorrere al precetto formale, al divieto imposto per iscritto, notificato urbi et orbi in tutte le sue declinazioni anche più parossistiche, allora non possiamo meravigliarci se un ragazzo, con fare provocatorio, reagisce all’autorità della scuola sfidandola sul suo stesso terreno.
Se per primi i genitori sono pronti a rivendicare i propri diritti tanto che il fantomatico ricorso al T.A.R. è assurto nel tempo a invincibile arma di risoluzione dei conflitti, ecco che risulta difficile conquistarsi la fiducia degli studenti senza dovergli sbandierare sotto il naso l’ennesima circolare del dirigente.
Se il patto educativo tra scuola e famiglia, lungi dal ridursi a principio fondamentale e per questo non scritto – i Romani non le scrivevano, le loro leggi più importanti – diventa un lenzuolo di diverse pagine dove ciascuno sciorina i propri diritti come su un campo di battaglia ci si affila le armi, è chiaro che presto o tardi quel genitore agguerrito farà facile presa sul figlio. Mutatis mutandis, è un fenomeno sociale non molto diverso da quello che infesta la sanità pubblica, e in specie i reparti ospedalieri di pronto soccorso, dove a breve il personale, oltre a indossare il camice, rischia di dover calzare anche l’elmetto in testa.
“Perché scappavi sempre?”
“Perché nessuno mi ha mai fermata.”
Questo, il dialogo che ebbi anni fa con una giovane ospite di una comunità di accoglienza fuori provincia, ivi inserita dopo l’ennesimo allontanamento da diverse case famiglia del territorio.
È un tema, quello della idoneità all’accoglienza delle case famiglia, molto delicato e nel quale influiscono – più che per altri settori della giustizia minorile – la cultura, il retroterra di esperienze non solo professionali, le sensibilità del magistrato.
Nell’esercizio dei poteri che l’art. 9 della legge n. 184/83 attribuisce al procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni, ho raccolto innumerevoli elementi conoscitivi che, pur in un contesto contenuto nei numeri come quello trentino, è emblematico delle condizioni in cui le comunità di accoglienza versano nel nostro Paese e della vocazione che anima il personale educatore.
Ho visto:
- giovanissimi operatori sociosanitari, selezionati sulla base di un semplice colloquio conoscitivo, dover prendersi cura di ospiti minorenni con gravi disturbi comportamentali, senza averne i mezzi e le competenze;
- una platea di personale, dipendente di fatto ma assunto in forza di contratti di collaborazione (spesso dotati di partita Iva), cessare dal servizio dopo pochi mesi, con buona pace delle esigenze di continuità nella presa in carico del minore ospite;
- dipendenti di comunità di accoglienza, al momento dell’ispezione del pubblico ministero, sprovvisti delle più basilari conoscenze sul tema e affannarsi al telefono nel tentativo, spesso vano, di reperire un qualche responsabile che potesse interloquire con cognizione di causa;
- educatori dover fronteggiare, spesso anche fisicamente, gli agiti aggressivi di ospiti che palesemente necessitavano di altre e più idonee strutture: ma ho pure sentito funzionari e dirigenti sociosanitari, e perfino amministratori locali, lamentare una scarsità di risorse e di investimenti;
- operatori con profili professionali inadeguati prendere in carico minorenni con gravi situazioni di disagio personale e familiare;
- l’assenza di politiche unitarie a livello nazionale per l’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati, a differenza di quanto accade da anni in paesi (la Spagna, su tutti) che vivono fenomeni migratori equiparabili ai nostri.
Insomma, quel che ne ho tratto è la percezione di una palese insufficienza delle risorse umane e materiali che gli enti pubblici da anni investono nelle politiche sociali, lasciando spesso allo spirito di iniziativa del cosiddetto terzo settore la responsabilità strategica e gestionale delle comunità di accoglienza: commendevole lo sforzo, ma certo non adeguato in assenza di un coordinamento e, soprattutto, di un costante controllo su tutti gli ambiti (modalità di accreditamento, selezione del personale, idoneità delle strutture, elaborazione dei progetti educativi, interlocuzione con altri enti e organi dello Stato) di un settore nevralgico della giustizia minorile: dalle cui inefficienze dipende, purtroppo, anche una retorica nel dibattito pubblico via via crescente negli anni, secondo cui le case famiglia, i servizi sociali, e la stessa magistratura minorile sortiscono effetti perniciosi e irreparabili sui minori sottratti alle loro famiglie.
La magistratura minorile, appunto. Guardandoci dentro, non posso non indugiare sui caratteri antropologici di questa schiera di giudici e pubblici ministeri sempre un po’ defilati, lontani dal clamore mediatico – salve episodiche quanto effimere ribalte – e forse anche per questo mediamente troppo timidi, adagiati comodamente sulle prassi che, seppur diverse ufficio per ufficio, si sono sedimentate via via nel tempo: complice un legislatore che soltanto occasionalmente si è destato dal torpore per concentrare l’attenzione sulla giustizia minorile, e sempre facendosi dettare l’agenda da un episodio mediaticamente allarmante.
Accusata spesso di essere incline a un approccio troppo indulgente nei confronti di fenomeni devianti anche gravi (prima del mio arrivo nell’ufficio di Trento, l’ultimo arresto risaliva a oltre un anno prima), tuttavia la magistratura minorile è stata ed è tuttora composta di colleghi di competenza professionale non inferiore a quella cosiddetta ordinaria, impreziosita però da una capacità di ascolto e di ponderazione delle umane vicende che, forse, potrebbe essere più orgogliosamente rivendicata (e penso ai corsi di formazione permanente della nostra Scuola Superiore, dove più di un mio collega potrebbe agevolmente insegnare anche su temi apparentemente lontani dalla sua scrivania). Non è un caso che nella sua grande maggioranza essa non si sia fatta trovare impreparata, nel penale, di fronte a fenomeni criminali che imponevano una ferma reazione anche repressiva ma sempre calibrata sull’interesse del minore indagato o imputato e, nel civile, quando le istanze sociali dei nostri tempi annaspavano nel deserto normativo alla ricerca di una regolamentazione giuridica (penso al c.d. gender mainstreaming, all’adottabilità da parte di coppie omosessuali, alla violenza di genere, ecc.).
Un giudice, quello minorile, attento ai fenomeni sociali del tempo come lo furono i nostri antesignani degli anni in cui la produzione giurisprudenziale favorì e tracciò la strada alla grande stagione dei diritti sociali e civili, motore primo della effettiva realizzazione dell’uguaglianza sostanziale imposta dall’art. 3 della Costituzione.
In una visione sinottica degli arnesi a disposizione dell’operatore del diritto, io credo che, così come per il diritto penale debba ricercarsi – in aperta controtendenza allo spirito dei tempi – un approccio “minimo” che ridimensioni lo spazio applicativo del precetto e della sanzione penale, altrettanto debba liberarsi il campo del contenzioso giudiziario da umane vicende che debbono trovare altrove il loro dipanarsi, sul presupposto che nel processo minorile (lì più che altrove) il solo fatto del processo sia di per sé una pena per chi lo vive: le persone minorenni in primis.
Sono ancora persuaso che una coppia di nonni non debba aspettarsi di far visita ai propri nipoti battendo a colpi di ricorso alla porta del giudice; che per accertare il possesso delle capacità genitoriali non debba necessariamente farsi luogo a c.t.u. defatiganti e offuscate da intenti moralistici, quando una lettura sinergica degli atti istruttori risulti più che sufficiente; che una buona casa-famiglia sia sempre da preferire a una sentenza di adozione che faccia credere a quell’aspirante genitore di colmare vuoti esistenziali con un figlio purchessia, salvo poi restituirlo come prodotto difettoso al primo agito oppositivo-provocatorio; che il diritto alla bigenitorialità non sia un principio assoluto, ma debba sempre cedere il passo di fronte a condotte violente di uno o di entrambi i genitori; che una certificazione sanitaria generosamente concessa rischi di alimentare perniciose aspettative – quando non pretese – nei confronti dell’autorità statuale, e costituire comodo alibi per condotte deresponsabilizzanti.
Ma per far questo, è indispensabile restituire all’intervento pubblico la dignità che nel tempo la crisi della statualità e della sovranità (quella di cui all’art. 1 comma 2 della Costituzione, non certo quella dei manifesti elettorali) ha sgretolato. E io credo che la magistratura minorile, più sensibile di altre alla funzione civilizzatrice del diritto, sia in grado di guidare quel riscatto che permetta “alle umane belve esser pietose di se stesse e d’altrui”.
Una premessa doverosa: quello che segue è un tentativo di raccontare parte di cosa è stato ed è - per me - essere una Sostituta Procuratrice della Repubblica[1], ruolo che sembra già dal titolo - che confesso di non utilizzare mai - qualcosa di meno interessante di un Sostituto Procuratore...almeno fino a qualche riflessione fa.
Nessuna pretesa che la mia esperienza sia la stessa di altre, perché siamo diverse, a volte diversissime, come diverse sono le vicende, i caratteri, le sensibilità e, di conseguenza, il modo di essere magistrate, ma credo che almeno alcune delle situazioni che ho vissuto e vivo possano essere comuni ad altre.
Insomma, come ho letto nella bella prefazione di un fumetto illuminante (ma con meno pretese), spero che per alcune di noi vedersi in queste righe possa essere in qualche modo liberatorio e per tutti - forse - un'opportunità: "diventare più consapevoli del dislivello per poterlo affrontare per quello che è, cioè un dato sociale storicizzato e modificabile"[2].
1. La Polizia Giudiziaria
Un collega autorevole e giudice di esperienza, una volta ha scritto in una chat "quello del Pubblico Ministero non è un lavoro per stupidi", ricordo di aver replicato che è una verità che si impara subito dalla Polizia Giudiziaria. Già, la P.G. Universo ancora molto al maschile, non immediato nella sua gestione e direzione per una giovane donna.
Ricordo uno dei primi turni esterni. Tentato omicidio con arresto. Un treno preso al volo per arrivare sul posto e interrogare l'arrestato. Arrivata in caserma ho l'esatto ricordo del "dica" di un capitano ("dica" non "comandi", quello è arrivato dopo, molto dopo). Dentro quel "dica"[3] c'era il concentrato di una messa alla prova, che sarebbe durata molto, molto di più che per un collega. L'arrestato rese un lungo interrogatorio. Il giorno dopo, ricordo lo stesso capitano che mi chiese "non si è sentita osservata ieri dottoressa in mezzo a tutti uomini?". No. Lavoravo. Lavoravo con e come loro. Ma ho imparato che ero stata e sarei stata osservata. Ho dovuto tenerlo in considerazione e dimenticarmene allo stesso tempo.
Difficile e pericoloso ricorrere alla scorciatoia del cameratismo per una donna. Difficile, eppure affascinante e bellissimo, costruire un senso di squadra, oltre il genere.
Difficile far comprendere, in un continuo esercizio di misure da prendere e farsi prendere, che apertura, dialogo e capacità di messa in discussione non significano perdere il senso del ruolo che ciascuno ha, così come la responsabilità della decisione finale, che sia condivisa o meno.
C'è, in fondo, quello che ho sentito dire una volta all'on. Emma Bonino "le donne devono fare qualunque cosa due volte meglio degli uomini per essere giudicate brave la metà"[4].
Troppo spesso è ancora vero[5].
2. Il rischio vigilessa e un po’ di ordinario sessismo
Tempo fa ho letto in un libro questa semplificazione.
"Il genere femminile sconta da secoli una cultura aliena al principio gerarchico, secoli di pregiudizio e di strangolanti incombenti familiari, quindi si trova, del tutto incolpevolmente, talvolta a disagio nella gestione di funzioni di tal tipo. Ciò comporta qualche caso di mammina giudiziaria e alcuni di vigilessa [...] del tipo vigilessa c'è poco da dire. Ognuno di noi, credo, si è imbattuto almeno una volta in tale maschera della commedia dell'arte: la necessità di superare uno strisciante pregiudizio induce talvolta degli atteggiamenti un poco rigidi"[6].
Vero, ma anche - in buona parte - frutto di un pregiudizio.
Ancora. Una donna, un Pubblico Ministero che è (magari a ragione!) in collera, è per definizione emotiva e irrazionale, magari - nella migliore delle interpretazioni - perché è in un periodo particolare del mese. Sarà "isterica"[7], mentre per un uomo il medesimo atteggiamento verrà percepito come autorevole, quella collera un modo per "affermare il suo carisma"[8].
Fino a che non ci penserà un po' di mestiere o di sano disinteresse per i commenti, ci si sentirà facilmente incastrate tra la spinta di essere grintose e attrezzate e le accuse di eccessiva aggressività, caratteristica non considerata in termini negativi per un uomo.
Equilibrio da trovare per tentativi ed errori.
Come imparare a reagire con aplomb ai numerosi "signorina", di testimoni, indagati, imputati, non sempre frutto di ingenuità, né sempre adeguatamente stigmatizzati da chi dovrebbe farlo.
Sessismo che si impara a fronteggiare, anche quando – e si tratta di aneddoto reale – si scopre che le magistrate di una Procura che vede una netta prevalenza di giovani donne sono comunemente definite “le Procurine”, appellativo che molto ha fatto ridere…non solo coloro che si riconoscono apertamente sessisti.
Tutto sommato poca cosa, dato che leggere il tanto discusso libro di Boccassini mi ha aperto prospettive ben peggiori. Si legge, in particolare, in un passaggio de La stanza numero 30, testualmente, “non ho dubbi che l’accanimento nei miei confronti sia stato acuito dal mio essere donna. Solo così si spiegano gli attacchi alla mia femminilità, le critiche all’abbigliamento, alle collane e agli orecchini che indossavo, l’insistenza sul colore dei capelli […] le tante lettere anonime in cui venivo definita troia o zoccola, oppure l’invio di ritagli di giornale pornografici, nei quali avevano sostituito il mio volto a quello della pornostar, o di fazzoletti di carta inequivocabilmente imbrattati di sperma”[9] o, peggio, “penso che le faremo quest’anno il servizietto già riservato alla Franca Rame. PS attenzione ai Ducato”[10].
Leggere queste forme di aggressione mi ha fatto rabbrividire e realizzare che essere un funzionario pubblico, che svolge il suo lavoro con professionalità e rigore, non mette al riparo da attacchi vili, che nulla hanno a che fare con il merito.
Mi ha sorpreso ritrovare le stesse considerazioni in una sentenza della Corte di Cassazione, che in un passaggio evidenzia “qualunque sia il ceto sociale di appartenenza, qualunque sia il grado di istruzione, qualunque sia la natura della discussione, l’uomo di norma non accusa la sua avversaria donna di dire il falso, di essere una imbrogliona, di sopravvalutarsi – tutte accuse nella specie più pertinenti all’oggetto della discussione – ma di essere una puttana, una zoccola – offese del tutto inconferenti rispetto alla contesa verbale. Con ciò non solo offendendo gravemente la reputazione della donna, ma cercando di porla in una condizione di marginalità e minorità”[11].
Purtroppo, peraltro, una quota di misoginia e sessismo non è estranea alle stesse donne, che non così di rado cadono nel rischio della “pick me girl”[12].
Come si legge nella quarta di copertina di un interessante libro sul tema del linguaggio sessista, il rimedio a queste (purtroppo ordinarie) forme di aggressione - anche e oggi soprattutto “social” - non è “il galateo, ma una pratica quotidiana del dissenso e un recupero dell’uso consapevole della lingua come portatrice di significati”[13]… e così si torna alla Sostituta Procuratrice, che forse prima o poi imparerò ad utilizzare.
3. La scoperta di un pregiudizio (che siamo tutti convinti di non avere)
In una delle mailing list di magistrati, in risposta ad una bella e-mail di Paola di Nicola Travaglini, ho letto colleghi ribellarsi all'idea di una perdurante esistenza, nella magistratura, di stereotipi di genere.
Sono in molti ad essere convinti che nel 2023, in magistratura, tra persone istruite e umanisti non ci sia spazio per stereotipi.
E invece sì. Devo a una sorella autenticamente femminista, a qualche lettura e ad un bel progetto di formazione[14] la scoperta degli stereotipi di genere che mi appartenevano, la presa di consapevolezza di una discreta quota di misoginia interiorizzata[15]. Affinando lo sguardo, mi sono resa conto di quanto la visione di genere (o, sarebbe meglio dire, patriarcale) permei ancora tanto il nostro stesso ambiente.
Quella della magistratura, in breve, non è affatto una “torre d’avorio egualitaria”[16], permanendo anche nel nostro ambiente significative differenziazioni, sia orizzontali (per settori) che verticali (per ruoli).
Stranamente, appunto, il settore penale e quello della Procura in particolare, sembra subire più del civile questa distorsione[17], come se - per qualche ragione - per fare bene il Pubblico Ministero fossero necessarie doti tipicamente maschili, che solo eccezionalmente alcune donne possiedono[18].
Siamo talmente immerse in una concezione maschiocentrica, che essere definite - come di recente mi è capitato - un "Pubblico Ministero con barba e baffi" - diventa motivo di orgoglio.
Intendiamoci, va benissimo che una donna si occupi come Pubblico Ministero di reati di codice rosso, anzi il fatto che se ne occupi una donna viene - non sempre a ragione - vissuto come garanzia di maggiore attenzione, sensibilità.
Diverso è, invece, l'ambito dei reati tecnici, come il penale dell'economia dove, almeno per la percezione che ne ho dal mio piccolo osservatorio, si vive ancora una sorta di predominio maschile.
Poche, pochissime le colleghe relatrici in corsi e convegni sulla materia, tanta fatica nel porsi come interlocutrici affidabili[19]. Difficile capire se questo dipenda (solo) da preclusioni mentali femminili[20] o da una sorta di "sindrome dell'impostore", che porta molte colleghe a dubitare delle proprie competenze. Il dato, tuttavia, rimane e rischia di essere scoraggiante.
In un libro interessante, a proposito della presenza femminile nella università italiana, ho letto di un esperimento, che riporto: “a parità di curriculum vitae, sia i docenti che le docenti tendevano a considerare il percorso scolastico degli uomini migliore rispetto a quello delle donne, a proporre loro più spesso una posizione lavorativa ed uno stipendio più alti perché la preparazione degli uomini (di fatto identica, veniva solo cambiato il nome sul curriculum da John a Jennifer) veniva percepita come superiore”[21].
Il sorriso che mi è capitato di incontrare nell'uditorio maschile in occasioni nelle quali non ho potuto o saputo fare a meno di espormi, mi ha, inoltre, a volte restituito la sensazione dello stesso sguardo che si ha su un bambino che ha un'uscita sorprendentemente più intelligente (o simpatica) di quanto non ci si aspettasse[22].
In questo percorso di consapevolezza ho dovuto, però, rendermi conto di come esprimere la percezione di questi permanenti disallineamenti spesso significhi perdere la solidarietà dei colleghi, quasi come se recuperare una visione femminile significasse perdere la loro complicità o quel poco di autorevolezza conquistata con lo studio, il lavoro, il confronto; come se affinare un (recuperato) sguardo "di genere" significasse perdere quel poco di "Pubblico Ministero" che ti veniva riconosciuto di essere.
Ho probabilmente estremizzato alcune percezioni e so di espormi a critiche, più o meno aspre, ma l'ho fatto perché credo fermamente che sia il momento di parlarne, di smettere di farne un tabù.
Il dibattito e la formazione interna su questi temi sarebbe bene fossero seriamente e autenticamente percepiti come una delle priorità, per coltivare consapevolezza, soprattutto nella prospettiva della sempre maggiore femminilizzazione della magistratura. Per noi magistrate - anche e soprattutto - per uscire da una visione individualista, di un "femminismo" che troppo spesso rivendica parità di "posizioni"[23] più che di ascolto, di ammirazione, più che di rispetto[24]. Per creare, tra l’altro, vere “role model”, magistrate, magari con posizioni direttive o semi-direttive, che sappiano segnare realmente una nuova strada per tutte e tutti.
4. La maternità
Torno ad una citazione: "mammina giudiziaria"[25]. Stesso testo, espressione sfortunata, ma ben nota a molti, almeno a tutti quelli che hanno dovuto far fronte alle assenze delle colleghe, magari protrattesi più di quanto si ritenesse necessario.
Eppure, come magistrata, c'è necessariamente un prima e un dopo. Il cosiddetto “maternal wall”[26].
C'è anche il prima del senso di colpa di lasciare il ruolo, le indagini, di far pesare ai colleghi la tua assenza. La smania di definire, organizzare, sistemare. C'è una maternità ancora vista male, perché più che essere vissuta come un serio tema organizzativo, che riguarda tutti e impone un rallentamento (alla società come all'Ufficio), spesso diventa un'occasione per gravare di turni, udienze, fascicoli - ancora una volta - chi non ha esigenze familiari da anteporre (o, semplicemente, non è una mamma, anche se è un papà!).
C'è l'indagine interessante che non "incameri" perché non potrai seguirla, perché "chissà quando rientri" o perché la maternità, almeno nei primissimi anni di vita di un figlio, si porta dietro una percezione di minore affidabilità professionale[27].
C'è il dopo del timore di dover ricominciare tutto da capo. Dei turni che ti mettono la stessa ansia dei primi.
Il disagio (che ho presto scelto di lasciare andare) del classico sottofondo "mammaaaaaaa" al professionale "pronto, sì, sono la dott.ssa Posa, mi dica".
C'è la penna che spesso deve cadere molto prima di quanto non facessi, di quanto non vorresti. Le cose che restano a metà anche quando eri in piena trance agonistica (come la chiama qualcuno che mi conosce molto bene). C'è l'uscire prima, senza lavorare meno[28], anche se in fondo senti di fare mezza giornata quando chiudi la porta dell'ufficio e saluti il collega o rispondi "già" dall'auto[29] alla P.G.
C'è il "ma la mamma non può mai venirlo a prendere questo bimbo?" delle maestre o il "ma non sarebbe meglio che facessi il giudice, così lavoreresti da casa?", di parenti o conoscenti.
C'è il dover conciliare l'aspirazione a crescere professionalmente con le esigenze familiari e di crescita di un figlio - che è una responsabilità sociale[30], prima che individuale - e una sede che resta la stessa più di quanto non avresti immaginato e voluto.
C'è il senso di colpa di non esserci abbastanza, né a casa, né in ufficio. Senso di colpa in gran parte legato al “mito della maternità” che pone sulle spalle delle donne “non solo la cura, ma anche la pressione della perfezione”[31].
Anche quello da imparare a lasciare andare. Ed è un lavoro...l'ennesimo, ma da affrontare con fatica, entusiasmo e passione, come tutti gli altri. Perché, come scriveva Oriana Fallaci, essere donna "È un’avventura che richiede un tale coraggio, una sfida che non annoia mai"[32].
[1] Così “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana” estratto da “Il sessismo nella lingua italiana” a cura di Alma Sabatini per la Presidenza del Consiglio dei Ministri e Commissione Nazionale per la Parità e le Pari Opportunità tra uomo e donna, 1987 e Accademia della Crusca, “Risposta al quesito sulla scrittura rispettosa della parità di genere negli atti giudiziari posto all’Accademia della Crusca dal Comitato Pari Opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione”.
[2] Dalla prefazione di Michela Murgia al libro Bastava Chiedere! 10 storie di femminismo quotidiano, Emma, Laterza, 2020.
[3] Lo dice benissimo Niccolò Fabi nella sua “dica”: “Ma dire "Dica", è un po' una cortesia detta senza umiltà Non sarà mica il solito problema della formalità; "Dica", e non si dice mai dica senza un perché; "Dica", e chi ti dice dica non si fida di te”.
[4] Citazione che, stando al web, sarebbe riferibile a Charlotte Whitton.
[5] Percezione non solo mia - ho scoperto - dato che una collega con un profilo di personalità, esperienza e competenza decisamente non comparabile al mio ha di recente scritto “Essere donna mi ha portato spesso a fare più del necessario, per reggere il confronto con colleghi uomini cui invece nessuno chiedeva di dimostrare nulla. E questo è un dato di fatto”, Ilda Bocassini, La Stanza numero 30, Feltrinelli, Milano 2021. Se si legge la bellissima descrizione che di Ilda Bocassini fornisce l’allora Capitano Ultimo nel libro di Maurizio Torrealta (“perché pur essendo una donna, per noi e come se fosse un soldato”), si fa decisamente fatica a bollare questa percezione come proveniente dalla “solita femmina lamentosa e vittimista”.
[6] A. Marcheselli, Magistrati dietro le sbarre, farsa e tragedia nella giustizia penale italiana, Melampo, Milano 2009, p. 46.
[7] Non serve ne spieghi l’etimologia.
[8] Bastava Chiedere! 10 storie di femminismo quotidiano, Emma, Laterza, 2020.
[9] La Stanza numero 30, Feltrinelli, Milano 2021 p. 194-195.
[10] Ibidem p. 231.
[11] Cass. Penale, sez. V, 5070/2013.
[12] Ovverosia colei che ricade in atteggiamenti misogini al fine di ottenere l’approvazione maschile. Con un respiro più ampio nel testo La volontà di cambiare bell hooks scrive “È necessario evidenziare il ruolo che le donne svolgono nel perpetuare la cultura patriarcale per poter riconoscere il patriarcato come un sistema che uomini e donne sostengono allo stesso modo, anche se per gli uomini è più gratificante” p. 42 e, ancora, “attribuendo la colpa della perpetuazione del sessismo esclusivamente agli uomini, quelle donne [le femministe riformiste] potevano mantenere la loro fedeltà al patriarcato, la loro stessa brama di potere. Mascheravano il loro desiderio di dominare fingendosi vittime”, p. 43.
[13] G. Priulla, Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo, Settenove, Milano 2014.
[14] https://www.vittimizzazionesecondaria.it/
[15] Leggere esempi sul web mi ha squarciato un velo: “giudichi la vita sessuale o il modo in cui le altre si vestono; tendi ad evitare amicizie con le donne perché credi che tutte siano false e/o cattive; provi piacere nello sminuire una donna al fine di avere approvazione maschile; utilizzi slur misogini per insultare: tr*ia, putt*na ecc.… (ricordiamoci che non sono sinonimi di “stronza”; consideri superficiale ogni cosa che sia associata stereotipicamente alla femminilità (passioni, abbigliamento, colore preferito)” – profilo twitter @artemisiait.
[16] Espressione utilizzata in relazione all’ambiente accademico da A. Minello, Non è un paese per madri, Laterza, Bari 2022, p. 101.
[17] Non so quanto simile visione sia connaturata al punitivismo, né ho adeguati strumenti culturali per sostenerlo. Riporto a tale riguardo un passaggio del libro Femminismo giuridico. Teorie e Problemi di A. Simone, I. Boiano, A. Condello, Mondadori 2019, nel quale si legge, a proposito del diritto penale, che sarebbe “un diritto patriarcale per eccellenza, un potere pastorale che ammonisce, disciplina e limita” p. 70.
[18] Interessante come alcune forme di femminismo rischino di accrescere questa visione, proponendo una immagine di donna “di potere” in fondo non lontana dal modello patriarcale, si legge in proposito nel libro di bell hooks, La volontà di cambiare, il Saggiatore, Milano 2022, che “le femministe riformiste […] erano un gruppo di donne (per lo più bianche e privilegiate) le quali sostenevano che tutti gli uomini erano potenti. Per queste donne la liberazione femminista consisteva più nel prendersi una fetta del potere maschile” e, ancora “è stato sbagliato da parte delle femministe riformiste vedere la libertà semplicemente come il diritto delle donne di essere potenti quanto gli uomini patriarcali”.
[19] Per fortuna la PG sembra paradossalmente più egualitaria e, una volta superato lo scoglio di genere, sufficientemente libera nel valutare le competenze: nella loro prospettiva conta il risultato e un magistrato che garantisce loro il risultato è un buon interlocutore, uomo o donna che sia.
[20] Interessante l’ottica proposta da A. Minello nel libro Non è un paese per madri, Laterza, Bari 2022, ove si legge che “Le donne tendono ad essere maggiormente presenti nelle discipline umanistiche e in quelle legate alla cura, mentre gli uomini sono la maggioranza nei corsi cosiddetti Stem (scienza, tecnologia, ingegneria, informatica). Gli stereotipi di genere giocano un ruolo cruciale nella scelta del percorso universitario: per gli uomini come per le donne, contano molto i pregiudizi culturali. A frenare le ragazze nella scelta delle Stem è la percezione che gli studi scientifici siano più difficili, meno adatti a loro”.
[21] A. Minello, ibidem, p. 111. Aneddoto personale anche su questo. Da giovanissimo avvocata in uno studio legale, mi fu chiesto dal socio di riferimento (uomo) di valutare alcuni curricula per nuove candidature, la frase fu testualmente questa “dacci uno sguardo, anche se sono tutte ragazze”. Confesso che all’epoca fu un enorme motivo di orgoglio – quasi come espressione di reale egalitarismo - essere considerata fuori dal genere, ragionevolmente del tutto asessuata.
[22] Lo dico con una buona quota di ironia, che sono consapevole rappresenti una enorme risorsa, anche per evitare il rischio vigilessa… sia mai!
[23] Cfr. nota 19. Interessante anche la considerazione che si trova nel testo La trama alternativa di G. Palombra, minimum fax, Roma 2023, ove l’autrice osserva che “L’ambizione di questo femminismo è l’empowerment, nella sua accezione più individualista, legata a doppio filo al successo economico: la realizzazione sta nella carriera che permette l’accesso agli spazi di privilegio che prima erano negati. Ma questo accesso non è garantito a chiunque. E’ di sicuro più facile a chi si fa portavoce di un femminismo addomesticato, per sempre giovane, sensibile alle ricompense del mercato, avvezzo a smussare gli spigoli e a non avanzare mai critiche troppo scomode” e, poco prima “non importa quali idee incarnino, quali cambiamenti metteranno in atto, non importa se saranno portatrici delle stesse dinamiche oppressive: la sola rappresentazione delle donne di potere nello spazio pubblico è considerata emancipazione”, p.99 e 100.
[24] Citazione di Thomas Bernhard in Antichi Maestri che devo alla lettura della bellissima lettera della giornalista Maria Luisa Busi, all’atto di lasciare il TG1 “scrive decine di volte una parola che amo molto: rispetto. Non di ammirazione viviamo, dice, ma è di rispetto che abbiamo bisogno". Lo stesso concetto viene ripreso da bell hooks, la quale afferma “in un mondo in cui la disuguaglianza di genere è una norma accettata da tutti, gli uomini negano alle donne il loro rispetto. La radice della parola rispetto è il verbo latino respicere che significa guardare” p. 188.
[25] A. Marcheselli, in Magistrati dietro le sbarre, che si esprime testualmente così “La collega del primo tipo è quella che, comprensibilmente e legittimamente, oppone a qualsiasi tentativo di razionalizzazione del calendario giudiziario una batteria di visite pediatriche, ecografie, gravidanze a rischio, otiti, parotiti, febbri di origine non accertata, orari dell’asilo nido e festicciole di compleanno”, p. 46.
[26] Letteralmente "muro della maternità". Un concetto proposto per la prima volta da Faye J. Crosby e colleghi nel 2004 (Journal of Social Issues, 60, 2004, pp. 675-682.
[27] “Ciò avviene alla luce dello stereotipo secondo cui una madre non ha lo stesso tempo e la stessa capacità di dedicarsi al lavoro di un parigrado donna senza figli, o di un parigrado uomo con o senza figli” con messa in discussione dell’affidabilità della donna-madre. Ora se è vero che la categoria delle madri è “più soggetta ad imprevisti”, soprattutto nei primi anni di vita di un figlio, è vero perché il lavoro di cura è spesso (socialmente se anche non a livello familiare) appannaggio delle madri. Una ridefinizione dei carichi, un maggiore coinvolgimento dei padri (anche magistrati!) tramite incentivazione e sensibilizzazione in merito a tutte le forme di co-tutela e gestione dei figli, sarebbero una buona strada per una seria politica di pari opportunità (virgolettato tratto da A. Minello, Non è un paese per madri, Laterza, 2022).
[28] Con una progressiva rinuncia ad ogni spazio di decompressione, compresa la pausa pranzo (come evidenziato con pungente ironia nel fumetto “Bastava chiedere!” già citato).
[29] Causa pendolarismo, tanto per non rispondere al senso di colpa.
[30] Mettere al mondo un figlio non è un affare che riguarda solo i genitori, il desiderio di maternità della donna, ma è azione che riguarda il futuro stesso di una società, sia in termini demografici che di educazione, se di questo acquisissimo una consapevolezza lucida forse smetteremmo di considerare le maternità (e le paternità!) come meri ostacoli ad una buona organizzazione degli uffici, in un’ottica di corresponsabilità e leale collaborazione tra la magistrata madre, il magistrato padre e l’Ufficio.
[31] La citazione è del testo Non è un paese per madri, dove si legge anche “è quindi evidente che qualunque sia la direzione presa, che sia quella dell’abbandonare il lavoro [o ambizioni di carriera in genere n.d.r.] … o che sia invece quella di cercare di avere ne contempo maternità e carriera, in una strada affastellata i fatica e sensi di colpa, sono entrambe frutto di pressioni culturali che vanno in una direzione differente e che sarebbero scelte libere se e solo se i servizi fossero universalmente disponibili, la cura si ricadesse paritariamente sulle spalle di uomini e donne e nessuna delle due portasse con sé il peso del giudizio sociale” (p. 51). Senso di colpa legato al “mito della maternità” cui non sono estranee neppure magistrate di indiscussa professionalità e capacità di lavoro. Nel suo libro La Stanza numero 30 Ilda Bocassini scrive “Mi sono assegnata compiti difficili. E sicuramente uno dei prezzi che ho pagato è stato essere una madre imperfetta, troppo giovane per la prima maternità e con momenti di presenza troppo risicati nella vita di Antonio e di Alice. A volte mi è sembrato impossibile recuperare il tempo che avevo sottratto ai miei figli” e, ancora, “è più giusto dire che mi sono sentita un verme […] fu una delle occasioni in cui mi sembrò che la vita mi stesse sfuggendo di mano. Non sopportavo più il peso delle responsabilità, quell’eterno trovarmi a un bivio, il dover decidere quale direzione prendere: se quella del lavoro, del ruolo pubblico, o quella della sfera privata. Una scelta quotidiana, sofferta, lacerante”.
[32] Oriana Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, BUR, 2007, p. 13.
I due volumi della Nuova Guida al codice di procedura penale (Carabba editore, 2023) di Aniello Nappi ci consegnano l’intero sistema processale penale italiano in tutta la sua complessità, con gli importanti innesti operati dal d.lgs. 150 del 2022 (riforma Cartabia), che ha proceduto ad una vera e propria riscrittura di alcuni istituti processuali.
Il lavoro di Nappi non può definirsi solo un “manuale”, inteso secondo i concetti della manualistica corrente, cioè un libro che espone gli argomenti fondamentali attorno alla materia del processo, ma - appunto - una “guida”, che conduce e segnala al lettore la strada per accedere al sistema del processo. Una strada affatto semplice, rispetto alla quale Nappi non si è sottratto alla sfida di rappresentarne la “complessità”, nel senso che non ha operato scorciatoie o semplificazioni nel descrivere gli istituti, ma li ha esaminati in modo approfondito e critico, soprattutto li ha letti attraverso un continuo confronto con la giurisprudenza e con la dottrina.
Rispetto ai tradizionali “manuali” di procedura penale la Nuova Guida sembra differenziarsi proprio per il rilievo che assegna alla giurisprudenza, che non viene riportata solo in nota, ma che è descritta in tutti i suoi orientamenti, spesso divergenti, per poi essere analizzata, vagliata e discussa all’interno del testo, con l’obiettivo finale di riportare ad un ordine razionale i vari istituti esaminati.
L’impegno di dare razionalità al sistema è il filo rosso che attraversa l’intera opera di Nappi: si percepisce lo sforzo di offrire una ricostruzione logica agli snodi processuali, agli istituti e di leggere le nuove disposizioni, anche quelle introdotte dalla recente riforma del 2022, in modo tale da consentire al “sistema” di funzionare, lontano da quell’atteggiamento, proprio di alcune operazioni interpretative, volto a dimostrare solo le carenze del sistema. Non che manchino nella Nuova Guida accenti di forte critica per alcune scelte, come ad esempio quando, con riferimento alle prove, si rileva uno stato di notevole confusione sul tema della valutazione degli indizi a causa di una ricorrente incertezza della giurisprudenza tanto “da tradursi in un’imbarazzante licenza di arbitrio valutativo”. Tuttavia, prevale sempre un’esigenza di critica costruttiva, che avversa ogni approccio demolitorio, per preferire una paziente e accorta ricerca delle ragioni che hanno spinto il legislatore e la stessa giurisprudenza a fare certe scelte.
Quello della ricerca della soluzione razionale è una esigenza dell’Autore, che deriva dalla sua impostazione di studioso, attento lettore di saggi sulla logica, e anche dalla sua lunga e significativa esperienza di magistrato presso la Corte di cassazione, funzione che ha esercitato nella piena consapevolezza del ruolo della Corte di legittimità, cioè di un giudice che deve dispensare soluzioni interpretative che consentano il funzionamento del processo nel pieno rispetto delle garanzie.
Vi è da dire che l’aspirazione alla ricostruzione razionale del sistema e la continua attenzione all’opera della giurisprudenza possono apparire in qualche modo antitetiche, considerando che il diritto giurisprudenziale procede disordinatamente, per strappi, in un movimento continuo e impetuoso difficilmente governabile, tanto che per descriverlo si è fatto ricorso alla teoria del caos (M. Taruffo): ebbene il lavoro di Nappi raccoglie questa sfida impegnativa, offrendo una rilettura completa e critica del processo, anche attraverso il diritto vivente giurisprudenziale.
La Nuova Guida si compone di due volumi, divisi in tre parti, riprendendo l’impostazione contenuta nella originaria Guida: il sistema, i riti, le implicazioni.
La prima parte si apre con il capitolo (I metodi) in cui sono discussi i problemi generali della giurisdizione penale, evidenziando come il concetto di matiére pénal elaborato dalla giurisprudenza di Strasburgo se, da un lato, aumenta le garanzie anche per illeciti non qualificati come penali dalle leggi nazionali, dall’altro, mette obiettivamente in crisi il nostro principio di legalità.
Questa parte si conclude con un denso capitolo dedicato alla valutazione della prova. Qui Nappi affronta, tra l’altro, il controverso tema del rapporto tra verità storica e verità processuale, non senza confrontarsi con le più recenti teorie filosofiche, per sostenere che “la verità di cui si discute nel processo è la verità di un enunciato singolare posto a base del capo di imputazione, formulato dal pubblico ministero, e la realtà”, avvertendo che “oggetto del processo è pur sempre un problema di verità”, un oggetto che costituisce lo “scopo più autentico di qualsiasi processo”. E’ una affermazione in cui crede fortemente: l’obiettivo del processo è pur sempre la verità, che va intesa come “accertamento attendibile dei fatti”. D’altra parte, Nappi pur dando atto dell’importanza sempre crescente che ha nel processo la conoscenza scientifica con i suoi modelli e strumenti tecnici sofisticati, avverte come l’ingresso della scienza nel processo non può determinare “una sorta di abdicazione del giudice e delle parti”: ad essi rimane la responsabilità della decisione.
Nel mezzo vi sono i capitoli dal II al IV che descrivono le fasi processuali, mentre il V e il VI sono dedicati, rispettivamente, al giudice e al tema della competenza, e all’ufficio del pubblico ministero; il VII riguarda la forma degli atti.
Con la seconda parte si entra nel cuore del processo.
I primi due capitoli sono dedicati alle indagini e all’udienza preliminare.
Sono valutate positivamente le modifiche apportate dal d.lgs. 150 del 2002 (riforma Cartabia) su tempi e controlli dell’iscrizione della notizia di reato; riguardo alla nuova regola di giudizio contenuta nell’art. 425, comma 3, c.p.p., si ribadisce la natura processuale della sentenza di non luogo a procedere, evidenziando che la modifica ha operato una omologazione tra la regola di giudizio dell’udienza preliminare e quella del procedimento di archiviazione.
Grande attenzione è riservata alle intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, comprese quelle tra presenti, eseguite per mezzo di captatori informatici. Con riguardo a questa tipologia di intercettazioni viene operata una distinzione circa le condizioni di ammissibilità, precisando che solo quando si procede per i delitti di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p. le intercettazioni tra presenti sono “incondizionatamente ammesse in ambito domiciliare”, anche se eseguite attraverso l’uso di captatori informatici; mentre in caso di procedimenti di criminalità organizzata per delitti diversi da quelli indicati dall’art. 51 cit. le intercettazioni sono ammesse in ambito domiciliare, ma possono essere eseguite per mezzo di captatori informatici solo se sia in corso un’attività criminosa. Sul punto, recentemente, si è aperto un delicato dibattito sulla nozione di “criminalità organizzata” funzionale all’ammissibilità di intercettazioni tra presenti con l’uso del c.d. trojan horse, questione presa in esame nella versione on line della Nuova Guida, in cui si afferma che non tutti i reati contemplati nell’art. 51, commi 1-bis e 1-quater c.p.p. rientrano nel concetto di criminalità organizzata, ma solo quelli che hanno una base associativa, precisando che il concorso nei delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p. può riferirsi solo a reati diversi da quelli associativi, laddove la condotta finalizzata ad agevolare l’attività, se è riferita all’associazione, può implicare il concorso nel reato associativo e, quindi, è ricompresa nel concetto di delitto di criminalità organizzata. Tali problematiche, sorte soprattutto in relazione alla interpretazione non univoca dei principi desumibili dalla sentenza delle Sezioni unite Scurato, del 28 aprile 2016, sono state rapidamente e, forse, frettolosamente superate dal decreto legge n. 105 del 10 agosto 2023, che ha espressamente incluso i reati commessi ricorrendo alle modalità e condizioni previste dall’art. 416-bis c.p. e quelli finalizzati ad agevolare le associazioni mafiose tra i delitti cui si applica l’art. 13 del decreto legge n. 152 del 1991, così facendoli rientrare nel regime delle intercettazioni tra presenti relativo ai delitti di criminalità organizzata.
Seguono i capitoli (XI e XII) sugli istituti che Nappi colloca all’interno di due distinte partizioni, definite alternativa accusatoria e alternativa inquisitoria: nella prima la prova si forma nel contraddittorio delle parti dinanzi al giudice e gli atti di indagine non hanno, di regola, valore probatorio; nell’altra, invece, gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero senza contraddittorio, assumono valore di prova in funzione di una definizione anticipata e semplificata del giudizio.
L’alternativa accusatoria è quella principale, in cui il processo, passando attraverso l’udienza preliminare o la citazione diretta, si sviluppa e si conclude nel pubblico dibattimento ovvero nei due riti speciali del giudizio direttissimo e del giudizio immediato.
L’altra alternativa comprende il giudizio abbreviato, il c.d. patteggiamento e il procedimento per decreto, riti che consentono alle parti una definizione anticipata del processo con il più rapido metodo inquisitorio, realizzando una deviazione rispetto al modello principale. Nell’ambito di questa alternativa Nappi colloca anche l’oblazione e il nuovo istituto della sospensione del processo con messa alla prova, con proprie caratteristiche.
Il capitolo XIII è interamente dedicato al procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica. Viene preso in esame il nuovo istituto dell’udienza di comparizione predibattimentale a seguito di citazione diretta, introdotto dalla riforma del 2022, evidenziando come in tale udienza, a differenza di quanto avveniva con l’udienza di prima comparizione, al giudice è demandato il compito di verificare l’attendibilità dell’accusa, in base al fascicolo del pubblico ministero, così delimitando anche l’oggetto del giudizio e realizzando una disciplina che riproduce quanto previsto all’art. 423 c.p.p. per l’udienza preliminare.
Il capitolo successivo tratta i procedimenti complementari: il processo penale minorile e quello davanti al giudice di pace. A quest’ultima procedura complementare Nappi dedica una particolare attenzione, evidenziando l’importanza della funzione della giurisdizione onoraria nell’ambito del sistema giudiziario, sottolineando l’originalità di alcune scelte processuali compiute, come quella della citazione a giudizio su ricorso della persona offesa, vera e propria azione penale privata, e, nello stesso tempo, rilevando alcuni limiti su come la giurisdizione di pace è stata realizzata dal legislatore.
La terza parte sulle implicazioni, si apre con il capitolo dedicato alle misure cautelari, personali e reali. Si tratta di un capitolo particolarmente denso, in cui Nappi affronta in modo approfondito tutti i numerosi problemi, interpretativi e applicativi, a cui questa materia ha dato adito, con un supporto notevole, anche per estensione, di note in cui si documenta il travaglio della giurisprudenza e della dottrina sui temi della libertà personale. Basti citare, a titolo di esempio, il paragrafo sulle contestazioni a catena, uno dei temi più complessi e difficili, alla cui confusione interpretativa ha contribuito anche la giurisprudenza, non solo quella di legittimità. Ebbene, la descrizione dinamica degli orientamenti della giurisprudenza, anche costituzionale, e della dottrina sull’art. 297, comma 3, c.p.p. oltre ad essere dettagliata e puntuale, offre una ricostruzione completa e chiara dell’istituto, pur sottolineando alcuni aspetti di non facile interpretazione, come la modifica operata dall’art. 12 legge n. 332 del 1995, che ha stabilito che la disposizione non si applica “alle ordinanze per fatti non desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio disposto per il fatto con il quale sussiste connessione”: qui Nappi, condividendo alcune osservazioni della dottrina, sostiene che “ciò che dovrebbe rilevare ai fini della contestazione a catena è solo la situazione probatoria esistente al momento della richiesta di ciascun provvedimento, non quella esistente al momento del rinvio a giudizio per alcuno dei fatti contestati”.
Medesima accuratezza troviamo nella parte dedicata alle misure cautelari reali. Anche qui massima è l’attenzione alla giurisprudenza, tanto che, con riferimento ai presupposti del sequestro preventivo impeditivo, si dà atto di come, nella giurisprudenza più recente, si stia affermando un orientamento che non si accontenta dell’astratta configurabilità di un’ipotesi di reato, ma richiede un giudizio prognostico in merito alla probabile condanna dell’imputato.
Seguono i capitoli sulle impugnazioni, sull’azione civile, sull’esecuzione e sui rapporti giurisdizionali con autorità straniere
Fondamentale la trattazione sulle impugnazioni, che si apre con una nota critica, rilevando come il codice di procedura del 1988 abbia dedicato scarsa attenzione al tema, una mancanza questa che è continuata negli anni, come se i legislatori non abbiano percepito la decisività ed importanza delle impugnazioni, la cui disciplina tocca questioni cruciali, anche “dal punto di vista politico delle scelte legislative”.
Ritorna il giudizio critico sulla costruzione di un sistema in cui il primo grado si svolge attraverso un procedimento tendenzialmente accusatorio, in cui le prove si formano davanti al giudice, ad opera delle parti, mentre l’appello rimane un giudizio di regola scritto, in cui il convincimento del giudice non si forma nell’immediatezza del contraddittorio orale.
La riforma Cartabia ha lasciato pressoché immutata la struttura del giudizio di appello, intervenendo però sull’inammissibilità e, soprattutto, introducendo il nuovo istituto dell’improcedibilità che mira a garantire la ragionevole durata del processo. Istituto quest’ultimo rispetto al quale Nappi non appare critico, riconoscendo come, attraverso il sistema delle proroghe, si sia raggiunto un equilibrio che ha una sua coerenza, anche in rapporto con la prescrizione che invece governa i tempi del procedimento di primo grado.
Invero, il giudizio di appello avrebbe meritato interventi di maggior respiro, soprattutto coerenti con le caratteristiche accusatorie del processo di primo grado. In più occasioni è stata avanzata la proposta di trasformare l’appello in una impugnazione solo rescindente, attribuendo la fase rescissoria al giudice di primo grado o, secondo altri, ad un diverso collegio della stessa corte di appello (F. Cordero). Si è detto che questa soluzione presenta forti controindicazioni in ordine alla sua compatibilità con la ragionevole durata del processo, tuttavia si è osservato che le corti di appello sarebbero comunque liberate dall’impegno, gravoso, di procedere alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale e, inoltre, l’appello rescindente avrebbe l’effetto di condurre ad un duplice giudizio di fatto, con un doppio accertamento di responsabilità che potrebbe avere l’effetto di “indurre i pubblici ministeri ad esercitare l’azione penale soltanto sulla base di prove consistenti (…) e tali da poter essere confermate nel vaglio dibattimentale”, conseguendo così l’effetto di una riduzione del numero dei processi instaurati (E. Lupo). Peraltro, in considerazione del controllo selettivo esercitato dal giudice di secondo grado vi sarebbero effetti deflattivi sul giudizio di cassazione, con un recupero della vocazione nomofilattica.
Le pagine sul controllo della motivazione in Cassazione ricostruiscono in maniera approfondita e critica il percorso della giurisprudenza e gli interventi del legislatore, con il consueto apparato di note che richiama, puntualmente, anche la dottrina. Le novità apportate dalla riforma c.d. Cartabia alla disciplina del procedimento davanti alla Corte di cassazione, con la valorizzazione del procedimento “cartolare” risultano positivamente valutate. Del resto, la prevalenza del modulo con contraddittorio scritto – oggi superabile dalla semplice richiesta di trattazione orale delle parti - rappresenta, da sempre, il modello “generale” di trattazione dei ricorsi in cassazione e trova una giustificazione nella necessità di avere a disposizione uno strumento processuale agile e capace di incidere efficacemente sull’enorme contenzioso da cui è assediata la Corte (in media, oltre 50.000 ricorsi ogni anno). È stato sottolineato come tale modello procedimentale realizzi una opportuna mediazione tra l’esigenza della massima semplificazione, i caratteri del controllo della Corte di cassazione e l’attuazione del contraddittorio.
E’ infatti il numero abnorme di ricorsi trattati dalla Corte di cassazione che mette a rischio la funzione nomofilattica di questo giudice, che finisce per dedicarsi in prevalenza allo ius litigatoris: di questo Nappi è perfettamente consapevole quando, riconoscendo che la Corte di cassazione assomma due modelli diversi di giudice, afferma che le diverse prospettive dello ius litigatoris e dello ius constitutionis dovrebbero giustificare non metodi diversi di interpretazione, ma semmai “assetti normativi radicalmente diversi sia per la disciplina del processo sia per l’ordinamento giudiziario”, in quanto “è la selezione dei ricorsi in ragione dell’importanza generale delle questioni, anziché degli interessi delle parti, a caratterizzare davvero i modelli a corte suprema, permettendo di limitare sia i carichi di lavoro sia gli organici delle Corti, che possono così esprimersi in un discorso giurisprudenziale unitario, coerente ed efficientemente comunicabile”, per concludere che “non vi può essere un’effettiva funzione nomofilattica senza una selezione dei ricorsi sui quali la corte intende pronunciarsi con piena cognizione”. In poche battute Nappi sintetizza la crisi della Corte di cassazione incapace davvero di avere quella che lui chiama vocazione comunicativa, funzionale cioè a svolgere la funzione di nomofilachia che le assegna l’art. 65 ord. giud.: “solo una corte suprema che riesca ad esprimersi con una giurisprudenza univoca potrà porsi come interlocutrice effettiva della dottrina piuttosto che come riserva di occasionali precedenti utilizzabili a sostegno delle diverse opinioni contrapposte”.
L’attuale crisi che attraversa la Corte di cassazione potrà essere superata quando il rapporto tra i due volti di questo giudice acquisterà un equilibrio sostenibile ed è la sfida che impegnerà la Cassazione del prossimo futuro.
Nelle proposte di legge in discussione non viene fatto alcun cenno alla circostanza che il risicato numero di condanne definitive per abuso di ufficio dipende in buona parte dalla brevità del termine di prescrizione di tale reato. Un termine di 7 anni e 6 mesi dalla consumazione del reato è troppo breve, considerando la complessità e quindi la durata delle indagini e del giudizio che si rendono necessari per la prova di una fattispecie così articolata come quella di abuso di ufficio. La maggior parte dei processi si prescrive quindi già in primo grado. In quei pochi casi in cui si riesce ad approdare in Cassazione, sono più le sentenze di conferma di condanna che quelle di conferma di assoluzione.
L’obbligo di iscrizione nel registro degli indagati
Va in primo luogo evidenziato che:
- le iscrizioni per abuso di ufficio da “conflitto di interessi” sono sempre state pochissime: è ben raro che un pubblico ufficiale abbia adottato un atto omettendo di astenersi a fronte di un interesse proprio o di un proprio congiunto;
- le altre iscrizioni per abuso di ufficio, tradizionalmente molto più numerose, hanno subito un drastico calo a seguito della riforma avvenuta nel 2020, che ha limitato il reato ai casi di violazione di legge; molte di queste, inoltre, si rivelano definibili con richiesta di archiviazione già nella fase delle indagini preliminari, talvolta anche senza approfondimenti investigativi, proprio in virtù del maggior grado di tassatività raggiunto con l’ultima formulazione dell’art. 323 c.p.
In definitiva, le indagini per abuso di ufficio effettivamente espletate riguardano solo quei pochi casi in cui l’abuso appaia avvenuto in una situazione di conflitto di interessi o con violazione di una specifica regola di condotta espressamente prevista dalla legge (o da atti equipollenti) e in relazione alla quale non residuino margini di discrezionalità. Il risicato numero di questi casi dovrebbe scongiurare la “paura della firma”.
Ad ogni modo, il Pubblico Ministero è obbligato alla iscrizione nel registro degli indagati del soggetto individuato come autore della condotta abusiva, e deve farlo fin dal giorno del pervenimento della notizia di reato.
Paradossalmente, molti Pubblici Ministeri si sono trovati a loro volta indagati per abuso di ufficio o omissione di atti di ufficio per non aver proceduto a tempestiva iscrizione di fatti che non apparivano fin da subito penalmente rilevanti.
Quello di immediata iscrizione è divenuto un obbligo più stringente a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs 150/2022 (cd. riforma Cartabia), che ha addirittura previsto un controllo del giudice sulla tempestività della iscrizione dei reati da parte del PM.
Nel valutare l’operato delle Procure, pertanto, non si può non tenere conto del fatto che proprio il legislatore ha inteso disincentivare quella soluzione che veniva spesso adottata in questa materia, sino ad un recente passato, e che consisteva nell’iscrivere nel registro dei “fatti non costituenti reato” (cd. modelli 45) le notizie che si ponevano al limite tra il malaffare amministrativo ed il penalmente rilevante.
Le indagini per abuso di ufficio
Stante l’attuale e complessa formulazione dell’art. 323 c.p., allorquando la fattispecie concreta non risulti già di primo acchito fuori dall’ambito di operatività della fattispecie incriminatrice, dopo l’iscrizione si rendono necessari numerosi approfondimenti investigativi, che implicano spesso l’analisi di una notevole mole di documenti, nonché l’audizione di varie persone informate sui fatti, e che spesso si protraggono dunque, inevitabilmente, per diversi mesi.
A tal proposito, però, merita evidenziare che il d.lgs 150/2022 (cd. “riforma Cartabia”) il primo termine di durata delle indagini preliminari per abuso di ufficio è passato (così come per tutti gli altri delitti) dai precedenti 6 mesi ad 1 anno. Si tratta certamente di un tempo congruo, tale da scongiurare il rischio che il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio sia destinatario di una richiesta di proroga delle indagini che potrebbe avere immediate ripercussioni sulla sua funzione. In altre parole, pur avendo il sopra citato decreto legislativo introdotto regole più stringenti sulla tempestività dell’iscrizione, l’allungamento del primo termine di durata delle indagini preliminari dovrebbe consentire al Pubblico Ministero di pervenire ad una valutazione completa circa la sostenibilità dell’accusa prima che la notizia dell’iscrizione giunga all’indagato o assuma, comunque, rilievo esterno. Anche questa circostanza dovrebbe scongiurare la “paura della firma”.
Nella maggior parte dei casi, all’esito delle indagini appare dubbio che sussistano contemporaneamente tutti gli elementi della fattispecie di cui all’art. 323 c.p., per cui si rende necessario archiviare il procedimento.
Al riguardo, va debitamente focalizzata l’attenzione sui dati statistici che evidenziano l’assoluta preponderanza delle definizioni dei procedimenti iscritti per l’art. 323 c.p. già in fase di indagini preliminari con l’archiviazione, all’esito quindi di un vaglio di infondatezza della notitia criminis, vieppiù corroborato oggi nei sui parametri di giudizio dalla riforma cd. Cartabia con l’introduzione all’art. 408 c.p.p. del criterio della ragionevole previsione di condanna; il che, se per un verso dimostra come la funzione di “filtro” venga efficacemente esplicata dalle Procure rispetto alla maggior parte dei fatti astrattamente ascrivibili come abuso d’ufficio ma risultanti, all’esito delle indagini, non rispondenti ai suoi stringenti presupposti tipici, per altro verso non deve far trascurare la considerazione per cui Procure e Polizia Giudiziaria finiscono per essere impegnati in defatiganti indagini che si protraggono nel tempo ma si risolvono in un nulla di fatto, sottraendo magari risorse ed energie ad indagini di maggior rilievo.
Va anche considerato che a partire dall’1 settembre 2020 è entrata in vigore la novella dell’articolo 270 c.p.p., in base alla quale se nel corso di intercettazioni per un altro reato vengono scoperte prove di un abuso di ufficio, quelle intercettazioni non possono comunque essere utilizzate quale prova di tale reato, trattandosi di delitto non autonomamente intercettabile. Questa considerazione smentisce, dunque, l’idea che l’abuso d’ufficio possa costituire per le Procure un “reato jolly” da contestare laddove vengano meno le imputazioni di corruzione o concussione. E costituisce un ulteriore elemento che dovrebbe scongiurare la “paura della firma”.
Elementi di incertezza nella formulazione dell’art. 323 c.p.
I giudizi aventi ad oggetto il reato di abuso di ufficio hanno esiti imprevedibili perché l’attuale formulazione dell’art. 323 c.p. contiene degli elementi suscettibili di incertezze interpretative:
- il pubblico ufficiale deve aver agito in una non ben definita situazione di “conflitto di interessi” oppure in violazione di non meglio delineabili “specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti avente forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”; espressione quest’ultima che già di per sé contiene un ossimoro, laddove proprio le fonti di rango primario sono per definizione a carattere generale e astratto mentre alla normazione secondaria compete la perimetrazione più puntuale delle condotte nelle quali si deve esplicare l’esercizio delle funzioni pubbliche;
- l’abuso deve essere stato commesso dal pubblico ufficiale “intenzionalmente”, quindi non per perseguire un qualche concorrente o esclusivo pubblico interesse che aveva nella sua mente;
- l’abuso deve aver provocato un “vantaggio patrimoniale” oppure un “danno”, che sono concetti giuridici suscettibili di varie interpretazioni;
- il danno o il vantaggio devono essere “ingiusti”, per cui occorre un apposito accertamento di spettanza del vantaggio e di non spettanza del danno.
Insomma, in molti casi un giudizio per abuso di ufficio comporta la risoluzione di questioni di diritto amministrativo persino più complesse di quelle che si porrebbero innanzi ad un TAR.
Sotto questo profilo, si ritiene che nessun effetto positivo potrebbero esplicare quelle ulteriori specificazioni proposte dalla Proposta di legge Pella, Pittalis, Cattaneo che intenderebbe limitare la rilevanza penale del conflitto di interessi all’omissione “consapevole” (specificazione, questa, inutile, laddove si consideri che l’omissione, in quanto elemento costitutivo della fattispecie, deve necessariamente essere coperta dal dolo del reato) e del danno ingiusto al solo caso del suo essere arrecato ad altri “direttamente” (si tratterebbe, a ben vedere, di un altro elemento dall’interpretazione incerta).
Prima soluzione: ulteriore modifica dell’art. 323 c.p.
Non si può abrogare l’abuso di ufficio in quanto esso è espressamente contemplato dall’art. 19 della Convenzione ONU contro la corruzione del 2003[1]. La norma in questione contempla la figura dell’abuso di ufficio per violazione di legge, produttivo di un vantaggio ingiusto.
Nello stesso solco si colloca la recente proposta di direttiva europea sulla lotta alla corruzione del 03.05.2023, con cui gli Stati membri vengono indirizzati nel senso di presidiare con la sanzione penale le condotte di abuso di vantaggio per il funzionario pubblico o per altri, con la necessità di estendere tale regime normativo anche ai casi di abuso commesso da parte dei privati[2].
Si può allora modificare l’art. 323 c.p. eliminando alcuni di quegli elementi di incertezza interpretativa di cui si è detto in precedenza, limitando quindi il reato al minimo essenziale richiesto dalla Convenzione ONU del 2003 e cioè che l’abuso avvenga in violazione di legge e produca un vantaggio ingiusto.
Ne deriverebbe quindi un testo minimale del genere: Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione della legge procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale, è punito con la reclusione da uno a quattro anni.
Un abuso di ufficio così formulato sarebbe di difficile iscrizione e di agevole interpretazione per cui raramente darebbe luogo a defatiganti procedimenti penali dai risultati incerti, e non esporrebbe in definitiva i pubblici ufficiali alla “paura della firma”.
Nulla vieta che si continui a mantenere in vigore l’abuso di ufficio da “conflitto di interessi”, il quale però – se si vuole scongiurare la “paura della firma” – dovrebbe essere epurato di quel deficit di tassatività di cui soffre attualmente. Non esiste infatti una univoca definizione di cosa costituisca un “interesse proprio o di un prossimo congiunto”.
Si potrebbe colmare questo deficit inserendo nel testo normativo una casistica di obblighi di astensione mutuata dall’art. 7 d.p.r. 62/13 (Codice di comportamento dei dipendenti pubblici). Così potrebbe pensarsi ad una formulazione del genere: Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, omettendo di astenersi dal partecipare all'adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale, ovvero, di soggetti od organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito significativi, ovvero di soggetti od organizzazioni di cui sia tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero di enti, associazioni anche non riconosciute, comitati, società o stabilimenti di cui sia amministratore o gerente o dirigente, procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale, è punito con la reclusione da uno a quattro anni.
Va in ogni caso escluso che l’abuso di ufficio da “conflitto di interessi” possa riferirsi a casi di obbligo di astensione determinato da generiche ed innominate situazioni di “grave convenienza”, espressione che violerebbe il principio di tassatività penale.
Seconda soluzione: abrogazione o depenalizzazione dell’abuso di ufficio
Con riguardo alle proposte C 399 Rossello e C 645 Pittalis, l’eventuale opzione di abrogare l’art. 323 c.p. non persuade e, oltretutto, rischierebbe di esporre l’Italia a una futura procedura di infrazione promossa dall’Unione Europea ove per effetto di tale scelta si venissero a creare vuoti di tutela penale nella lotta alla corruzione, che è un obiettivo ulteriormente ribadito dalla proposta di direttiva europea del 3 maggio 2023, imposto dalle Convenzioni internazionali e dai principi costituzionali del buon andamento della PA, della concorrenza, meritocrazia e trasparenza delle procedure amministrative.
Per le medesime ragioni è da accogliere con sfavore la soluzione di una depenalizzazione dell’abuso d’ufficio evocata dalla proposta di legge C 654 (Costa), che lo vorrebbe sostituire con un illecito amministrativo, dato che anche, da ultimo, le convenzioni internazionali vigenti nonché la proposta di direttiva europea sulla lotta alla corruzione, come anticipato, richiedono che gli Stati membri dell’Unione conferiscano rilevanza penale quantomeno all’abuso di vantaggio patrimoniale per il funzionario pubblico e/o per altri.
Ove si volesse comunque insistere su questa via della abrogazione o depenalizzazione dell’abuso di ufficio, occorrerebbe potenziare le fattispecie penali già esistenti, le quali non sono mai state messe in discussione né hanno mai ingenerato la paura della firma.
Va considerato che nelle Procure la maggior parte dei fascicoli per abuso di ufficio viene iscritta in relazione alle 4 seguenti aree, le quali non possono rimanere sfornite di tutela penale:
a) appalti pubblici: in questa materia gli articoli 353 e 353-bis c.p. apprestano una tutela penale quasi completa. Rimangono fuori da essa gli appalti affidati dal pubblico ufficiale in via diretta e senza gara, nei casi in cui ciò non sia consentito dalla legge: secondo la dizione legislativa e la attuale giurisprudenza, i due articoli in questione si applicano solo alle procedure competitive e non anche agli affidamenti diretti che riceverebbero tutela penale solo grazie all’abuso di ufficio. Occorre quindi intervenire sul tenore letterale degli articoli 353 e 353-bis c.p. in modo da farvi ricadere anche le turbative volte ad affidamenti diretti effettuati contra legem;
b) concorsi pubblici: vari sono i fascicoli per abuso di ufficio iscritti per episodi di favoritismi nei concorsi (universitari, presso gli enti locali etc), predeterminazioni di candidati vincitori, creazione di bandi di concorso su misura etc. Una volta abolito l’abuso di ufficio appare necessario dettare una apposita disciplina per casi del genere, magari estendendo il dato letterale degli articoli 353 e 353-bis c.p.;
c) affidamenti diretti di incarichi fiduciari: una volta abolito l’abuso di ufficio, sarebbe opportuna la creazione di una norma ad hoc che scongiuri l’affidamento di incarichi fiduciari retribuiti (es. consulenziali, di sottogoverno etc.) quando esso avvenga in violazione di legge o di norme secondarie, magari estendendo il dato letterale degli articoli 353 e 353-bis c.p.;
d) liquidazioni non spettanti di denaro: in caso di abrogazione del delitto di abuso di ufficio, è prevedibile che la giurisprudenza (vi è già qualche sentenza in tal senso) allarghi le maglie dell’art. 314 c.p., facendovi rientrare il cd. peculato in favore di terzo (reato più grave dell’art. 323 c.p.). In ogni caso, per episodi del genere appare un valido deterrente quello della responsabilità contabile.
Si propongono quindi le seguenti modifiche:
Art. 353 c.p. – Turbata libertà della gara o del concorso - Chiunque, con violenza o minaccia, o con doni, promesse, collusioni o altri mezzi fraudolenti, impedisce o turba lo svolgimento di concorsi pubblici oppure la gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni private per conto di pubbliche Amministrazioni, ovvero ne allontana i partecipanti, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni(2) e con la multa da euro 103 a euro 1.032.
Art. 353-bis c.p. – Turbata libertà del procedimento di scelta - Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque con violenza o minaccia, o con doni, promesse, collusioni o altri mezzi fraudolenti, turba il procedimento amministrativo diretto ad indire un bando di gara o di concorso o di altro atto equipollente al fine di condizionare le modalità di scelta del vincitore da parte della pubblica amministrazione, oppure elude l’obbligo giuridico di indizione di una gara o di un concorso, al fine di procedere con affidamento diretto ad un soggetto predeterminato, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni e con la multa da euro 103 a euro 1.032.
Si evidenzia infine che l’eventuale abrogazione del reato di abuso di ufficio potrà ragionevolmente comportare una espansione giurisprudenziale del più grave reato di falso ideologico in atto pubblico (art. 479 c.p.): qualora l’abuso avvenga attraverso un provvedimento scritto redatto da pubblico ufficiale, verrebbe data rilevanza al falso consistente nella rappresentazione di inesistenti presupposti di fatto o di diritto del vantaggio attribuito a terzi con quel provvedimento.
Traffico di influenze illecite
In relazione alla proposta C 645 (Pittalis) si osserva quanto segue:
- la specificazione secondo cui l’utilità del trafficante debba essere di tipo “patrimoniale”, contrasta con l’art. 12[3] della Convenzione penale sulla corruzione di Strasburgo del 1999 - il quale discorre di “qualsiasi vantaggio indebito” e con l’art. 18[4] della Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione del 2003 che pure discorre di qualsiasi “indebito vantaggio” – e rischia di frustrare la funzione “ancillare” specificamente riconosciuta alla fattispecie rispetto alla repressione di condotte prodromiche a fatti più propriamente corruttivi , se si pone mente al fatto che la “patrimonializzazione” dell’utilità oggetto dell’accordo/dazione tra il trafficante e il suo cliente sarebbe in controtendenza rispetto ad altre fattispecie più gravi di delitti contro la P.A. (es: corruzione e concussione) dove non è mai stata messa in dubbio la rilevanza tanto del denaro quanto di qualsiasi altra utilità, sia pure non suscettibile di una valutazione patrimoniale, idonea ad arrecare all’agente una qualche forma di appagamento o di beneficio incidente su altre sfere soggettive, che non sia quella economica, comunque rilevanti nella prospettiva dell’agente per fare da contraltare all’esercizio distorto dei propri doveri d’ufficio. Si pone in contrasto anche con la recente proposta di direttiva europea del 3 maggio 2023 in materia di lotta alla corruzione in cui all’art. 10 (Trading in influence) si evoca, nella definizione normativa europea del traffico di influenze illecite, “an undue advantage of any kind” senza, dunque, far alcun riferimento alla patrimonialità che la proposta Pittalis vorrebbe introdurre nell’art. 346 bis c.p. Non può non evidenziarsi, allora, che anche con riferimento a questa proposta di legge potrebbe prospettarsi, ove venisse varata, lo scenario di una procedura di infrazione aperta a danno dell’Italia quando anche la proposta di direttiva europea venisse approvata nel testo attualmente diramato dalla Commissione UE.
- nelle ipotesi di traffico “gratuito” (quello che ricorre quando il trafficante si fa dare utilità per consegnarle al pubblico ufficiale) la proposta di legge fornisce rilevanza penale alla sola condotta del trafficante che si faccia dare l’utilità per remunerare l’agente pubblico “in relazione all’esercizio illecito” delle sue funzioni o dei suoi poteri. In virtù di questa modifica, non costituirebbe più reato la condotta consistente nel consegnare al trafficante delle utilità da impiegare per remunerare il pubblico ufficiale per il compimento di atti di ufficio leciti.
Per cui quest’aggiunta è sostanzialmente inutile e non migliora alcunché sul versante della tipicità: infatti la finalità di “pagare” il pubblico agente rende automaticamente illecita la sua azione amministrativa.
Anzi, a ben vedere questa proposta di modifica legislativa crea un cortocircuito nel codice penale, dato che secondo l’art. 318 c.p. il pubblico ufficiale non può accettare utilità per l’esercizio di potere conforme ai propri doveri di ufficio. Non può allora essere prevista come lecita la mediazione del trafficante che si faccia consegnare delle utilità nella prospettiva di consegnarle al pubblico ufficiale per un atto conforme ai doveri di ufficio.
Sarebbe opportuna una riforma che prenda atto dei più recenti approdi della giurisprudenza di legittimità, la quale ha dato una lettura tassativizzante dell’art. 346-bis c.p., distinguendo il traffico illecito dal lobbismo lecito (Cass., Sez. 6, Sentenza n. 1182 del 14/10/2021, Sez. 6, Sentenza n. 40518 del 08/07/2021 caso Alemanno in procedimento Mafia Capitale; Sez. VI, sent. 14 ottobre 2021 dep. 13 gennaio 2022, n. 1182, caso mascherine commissario Arcuri). In particolare, la Cassazione ha affermato che:
- il traffico “gratuito”, quello che ricorre quando il trafficante si fa dare utilità per consegnarle al pubblico ufficiale, è di per sé illecito perché non è possibile remunerare un pubblico ufficiale;
- il traffico “oneroso”, quello che ricorre quando il trafficante si fa remunerare per la sua opera di mediazione, è illecito solamente ove vi sia l’accordo di indurre il pubblico ufficiale a compiere un atto illecito. Se invece il trafficante viene pagato per indurre il pubblico ufficiale a compiere un atto conforme ai propri doveri, si rientra nell’ambito del “lobbismo” penalmente irrilevante.
Questa interpretazione è peraltro conforme alla Convenzione delle Nazioni Unite, la quale prevede che il traffico “oneroso” rilevi penalmente solo ove miri a far sì che il pubblico ufficiale procuri un indebito vantaggio al privato.
Prendendo atto quindi della indicata evoluzione giurisprudenziale, l’unica ragionevole modifica normativa dovrebbe riguardare il traffico “oneroso” di cui all’art. 346-bis c.p., per cui occorrerebbe eliminare il comma 4 e riscrivere il comma 1 in tale modo: Chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 318, 319, 319 ter e nei reati di corruzione di cui all'articolo 322 bis, sfruttando o vantando relazioni esistenti o asserite con un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all'articolo 322 bis, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione illecita verso un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all'articolo 322 bis, volta a fargli compiere un atto contrario ai doveri di ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio, ovvero per remunerarlo in relazione all'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, è punito con la pena della reclusione da un anno a quattro anni e sei mesi.
L’altra alternativa, pur sempre mossa dall’intento di rendere più tassativa la fattispecie attraverso una migliore delimitazione dell’insieme delle condotte in essa sussumibili, potrebbe essere quella di rendere l’art. 346 bis c.p. un reato a dolo specifico sfruttando l’attuale formulazione della clausola inziale in modo da rendere esplicita la finalità che deve animare il trafficante. In altre parole, si potrebbe inserire nella parte iniziale della disposizione – riformulando quella oggi presente – la seguente clausola: chiunque al fine di commettere i reati di cui agli articoli 318, 319, 319 ter, 322 bis e fuori dal concorso in questi […], elevando il “fine specifico” a elemento essenziale del tipo di reato (traffico di influenza), con l’immediato effetto di restringere l’area del penalmente rilevante lasciando al di fuori di essa, certamente, ogni forma di lobbismo lecito.
[1] Secondo tale articolo: Ciascuno Stato Parte esamina l’adozione delle misure legislative e delle altre misure necessarie per conferire il carattere di illecito penale, quando l’atto è stato commesso intenzionalmente, al fatto per un pubblico ufficiale di abusare delle proprie funzioni o della sua posizione, ossia di compiere o di astenersi dal compiere, nell’esercizio delle proprie funzioni, un atto in violazione delle leggi al fine di ottenere un indebito vantaggio per se o per un’altra persona o entità. Vanno fatte due specificazioni linguistiche a proposito di tale articolo: l’espressione “intenzionalmente” che si trova nelle traduzioni dall’inglese e dal francese, sta semplicemente a significare “volontariamente” o “dolosamente”; l’espressione “ossia” non è disgiuntiva ma esplicativa.
[2] Secondo l’articolo 13 della proposta di direttiva: Member States shall take the necessary measures to ensure that the following conduct is punishable as a criminal offence, when committed intentionally: 1. the performance of or failure to perform an act, in violation of laws, by a public official in the exercise of his functions for the purpose of obtaining an undue advantage for that official or for a third party; 2. the performance of or failure to perform an act, in breach of duties, by a person who in any capacity directs or works for a private-sector entity in the course of economic, financial, business or commercial activities for the purpose of obtaining an undue advantage for that person or for a third party.
[3] Art. 12 Traffico d’influenza
Ciascuna Parte adotta le necessarie misure legislative e di altra natura affinché i seguenti fatti, quando sono commessi intenzionalmente, siano definiti reati penali secondo il proprio diritto interno: il fatto di promettere, offrire o procurare, direttamente o indirettamente, qualsiasi vantaggio indebito, per sé o per terzi, a titolo di rimunerazione a chiunque afferma o conferma di essere in grado di esercitare un’influenza sulla decisione di una persona di cui agli articoli 2, 4–6 e 9–11, così come il fatto di sollecitare, ricevere o accettarne l’offerta o la promessa a titolo di rimunerazione per siffatta influenza, indipendentemente dal fatto che l’influenza sia o meno effettivamente esercitata oppure che la supposta influenza sortisca l’esito ricercato.
[4] Art. 18 Millantato credito
Ciascuno Stato Parte esamina l’adozione di misure legislative e delle altre misure necessarie per conferire il carattere di illecito penale, quando tali atti sono stati commessi intenzionalmente:
a) al fatto di promettere, offrire o concedere ad un pubblico ufficiale o ad ogni altra persona, direttamente o indirettamente, un indebito vantaggio affinché detto ufficiale o detta persona abusi della sua influenza reale o supposta, al fine di ottenere da un’amministrazione o da un’autorità pubblica dello Stato Parte un indebito vantaggio per l’istigatore iniziale di tale atto o per ogni altra persona;
b) al fatto, per un pubblico ufficiale o per ogni altra persona, di sollecitare o di accettare, direttamente o indirettamente, un indebito vantaggio per sé o per un’altra persona al fine di abusare della sua influenza reale o supposta per ottenere un indebito vantaggio da un’amministrazione o da un autorità pubblica dello Stato Parte.
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