ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il contributo analizza i principali metodi per la pesatura dei procedimenti giudiziari finora sperimentati e passa in rassegna le principali esperienze in materia di pesatura italiane ed estere.
Dopo aver evidenziato, attraverso quest’analisi, l’utilità della pesatura per il conseguimento di una pluralità di fini, l’indagine si focalizza sull’importanza della pesatura dei fascicoli per conseguire una più efficiente organizzazione dei tribunali.
Sommario: 1. Introduzione. – 2. La pesatura dei fascicoli per la riduzione dei tempi dei procedimenti: finalità e obiettivi. – 3. Come si pesano i fascicoli: le principali tecniche di pesatura. – 3.1. Il metodo Delphi. – 3.2. Il metodo “Studio dei tempi di lavoro”. – 3.2.1. Il Multi Moment Analysis: la species più moderna di raccolta dei dati nello Studio dei tempi. – 4. Alcune esperienze concrete di pesatura nel sistema giuridico italiano. – 4.1. La classificazione dei fascicoli per elementi di complessità processuali. – 5. Conclusioni.
1. Introduzione.
La rilevanza della questione organizzativa per garantire l’efficiente funzionamento degli uffici giudiziari costituisce da diversi anni un punto fermo nei dibattiti giuridici e politici in materia[1].
Si tratta di un tema quanto mai attuale in quanto strettamente correlato al problema atavico dell’eccessiva lentezza dei processi, che arreca, inevitabilmente, un vulnus alla tutela dei diritti dei cittadini[2]. Per lungo tempo, si è ritenuto che le ragioni delle inefficienze del processo civile andassero rintracciate all’interno dello stesso sistema processuale, intervenendo con massicce riforme processuali riguardanti, in specie, il processo a cognizione piena. Per converso, negli ultimi anni, è maturato sempre più il convincimento che il malfunzionamento del sistema giudiziario dipenda, prima ancora che da inadeguati meccanismi processuali, da una non funzionale e farraginosa organizzazione della giustizia, oltre che da una carenza di risorse[3].
L’interesse per la dimensione organizzativa ha spinto il legislatore ad introdurre, di recente, strumenti e tecniche astrattamente in grado di stabilizzare il sistema in una prospettiva di lunga durata[4].
Una smania eccessiva verso i problemi di smaltimento dell’arretrato, di riduzione dei tempi dei processi rischia di generare un produttivismo fine a sé stesso, a discapito della qualità del servizio reso, qualora non sia accompagnato da mirati interventi organizzativi. Ecco perché, al fine di conciliare quantità e qualità della giurisdizione, consentendo ai magistrati di costruire decisioni in modo accurato e nel più breve tempo possibile, risulta di fondamentale rilevanza “misurare il lavoro giudiziario”, individuano i procedimenti incardinati e non ancora definiti, studiando sia i diversi tipi di procedimento sia la situazione complessiva dell’ufficio in un determinato momento.
In questa cornice, s’inseriscono una serie di criteri appositamente strutturati per valutare il livello di complessità dei fascicoli giudiziari. I sistemi di pesatura nascono, invero, negli Stati Uniti, ma ben presto iniziano a diffondersi anche in numerosi paesi europei. Oggi si stima che ben 23 paesi europei siano dotati di un proprio sistema di pesatura[5]. Di questi, la maggior parte se ne serve per quantificare il numero dei giudici necessari per rispondere in tempi ragionevoli alla domanda di giustizia e per un’assegnazione bilanciata dei procedimenti all’interno dell’ufficio. Non mancano, però, paesi, come la Finlandia, la Danimarca o la Romania, dove la pesatura viene impiegata anche per distribuire i giudici di nuova nomina nei vari uffici giudiziari, per valutare la produttività dell’ufficio o addirittura, come nel caso dell’Olanda, per determinare il costo per singolo procedimento e provvedere allo stanziamento del relativo budget ai singoli enti[6].
Le prerogative della pesatura si possono apprezzare su almeno due dimensioni: a livello macro, ovvero dell’ufficio giudiziario globalmente considerato, laddove la pesatura si pone come uno strumento preventivo di ausilio per le amministrazioni giudiziarie nella distribuzione efficace delle risorse sul territorio[7], evitando che si verifichino situazioni di saturazione e che il numero di giudici in servizio non sia adeguato a rispondere in tempi ragionevoli alla domanda di giustizia[8]. Allo stesso tempo, la pesatura pare rivelarsi funzionale anche, a livello micro, per consentire ai singoli magistrati di programmare in maniera razionale il proprio complessivo carico di lavoro, decidendo a quali casi dedicare maggior tempo ed energie (poiché magari vertenti su questioni controverse, dove non vige un orientamento consolidato) e a quali, invece, dedicare minor spazio, facendosi assistere, ad esempio, dalla collaborazione di un addetto all’ufficio per il processo.
Alla luce degli indubbi vantaggi per gli uffici giudiziari della possibilità di disporre di dati certi e comparabili sui reali carichi di lavoro, appare opportuno offrire una disamina dettagliata di tutti gli aspetti correlati a questa moderna tecnica di misurazione dei fascicoli, nell’auspicio di una sua più viva diffusione anche nei nostri tribunali. Nelle pagine che seguono, si provvederà, pertanto, a fornire una rassegna ordinata dei principali metodi finora sperimentati per la pesatura. Questo ci consentirà, nella parte finale dello scritto, di trarre alcuni spunti e fornire qualche indicazione pratica per la creazione di un sistema di pesatura dei fascicoli che sia, al contempo, oggettivo ed efficiente.
2. La pesatura dei fascicoli per la riduzione dei tempi dei procedimenti: finalità ed obiettivi.
Come si è avuto modo di anticipare nel paragrafo introduttivo, la pesatura dei fascicoli costituisce una tecnica di misurazione del grado di difficoltà di varie categorie di procedimenti, che consente di comparare tra loro i fascicoli pendenti sul ruolo di un magistrato e, sulla base dei dati raccolti, operare delle scelte mirate nell’allocazione delle risorse.
Si tratta, tuttavia, di una tecnica ancora oggi molto poco conosciuta. Di fatti, il primo lavoro compiuto sulla pesatura dei fascicoli (tecnica anche nota come “case weighting” o “weighted caseload”) risale al Luglio 2020 ed è stato elaborato dal gruppo Saturn della Commissione per l’Efficienza della Giustizia (CEPEJ) del Consiglio d’Europa[9].
I sistemi di pesatura nascono principalmente dallo sforzo, sicuramente crescente negli ultimi anni, degli Uffici giudiziari e della politica in generale, di rintracciare e sviluppare sempre nuovi e più accurati sistemi per determinare il numero di giudici, p.m., personale di cancelleria necessario per fronteggiare in tempi ragionevoli la domanda di giustizia e, conseguentemente, per allocare il personale giudiziario in maniera bilanciata. La ratio alla base di ogni sistema di pesatura risiede nella considerazione per cui le controversie giudiziarie non presentano tutte le stesse caratteristiche e non richiedono tutte lo stesso sforzo per essere trattate. Al contrario, è pacifico che vi siano procedimenti tendenzialmente più complessi ed altri più agevoli da definire o addirittura del tutto routinari.
Un termine di paragone chiaro e inconfutabile per mettere a confronto categorie di procedimenti anche molto distanti tra loro è sicuramente il tempo. Pesare i fascicoli vuol dire, pertanto, calcolare attraverso una procedura (più o meno strutturata, cfr. infra) il tempo medio che un giudice impiega per risolvere una determinata controversia. Tale valore medio viene utilizzato, in seconda battuta, per effettuare una serie di scelte di politica giudiziaria, anche dette di case management[10]. Tramite i dati raccolti è possibile stimare il numero di giudici necessari a definire i procedimenti in tempi tali da non compromettere il principio della ragionevole durata del processo e la qualità delle decisioni[11]. Analogamente, l’ufficio disporrà di un parametro chiaro, misurabile e affidabile per valutare se il numero di giudici in servizio è adeguato a rispondere in tempi ragionevoli al carico di lavoro. Se la disponibilità è inferiore, è evidente che si verificherà una dilatazione dei tempi di risoluzione delle controversie. Attraverso la pesatura è possibile, inoltre, accorpare procedimenti che in base alla materia trattata risultano completamente distanti, ma che si rivelano simili per quanto riguarda il “peso” loro attribuito. Ad esempio, procedimenti apparentemente molto distanti tra loro come quelli relativi alla “responsabilità contrattuale” e quelli relativi ai “diritti reali” potranno confluire in una medesima macrocategoria qualora a seguito della pesatura emerga che essi hanno tempi di trattazione simili e quindi uno stesso “peso”[12].
La pesatura dei procedimenti giudiziari costituisce, di conseguenza, un prezioso alleato per avere maggiore contezza dei reali carichi di lavoro degli uffici giudiziari, per valutare la loro capacità con le risorse disponibili di rispondere in tempi ragionevoli alla domanda di giustizia e per distribuire equamente ed efficacemente le risorse sul territorio.
3. Come si pesano i fascicoli: le principali tecniche di pesatura
Ad oggi sono conosciute prevalentemente due tecniche per effettuare un’operazione di pesatura dei fascicoli: il metodo Delphi (Delphi method) e il metodo cd. Studio dei tempi di lavoro (Time-study method)[13].
In questi sistemi, differenti sono le modalità per misurare il peso dei procedimenti; comuni sono, invece, le fasi in cui l’operazione di pesatura si snoda. In entrambi i metodi il primo step consiste nell’individuazione delle categorie di procedimenti la cui complessità si vuole misurare e comparare. Il livello di precisione e di accuratezza del risultato finale varia a seconda del numero di procedimenti considerati: quanti più procedimenti saranno coinvolti nello studio, tanto più lo studio risulterà preciso e dettagliato. Successivamente, vi è la fase centrale, vale a dire quella in cui si procede alla stima o misurazione dei tempi (che, come avremo modo di approfondire più avanti può avvenire con diverse modalità). In ultimo, si procede ad un nuovo raggruppamento “per peso”, ossia si formano classi di procedimenti omogenee sotto il profilo dei tempi di definizione[14].
Generalmente l’attività di pesatura viene effettuata prendendo come parametro di misurazione i procedimenti sopravvenuti. Tutti i sistemi finora sperimentati prendono come base di misurazione del tempo medio impiegato per ciascun procedimento i processi decisi ovvero quelli sopravvenuti, ma mai i pendenti.
Ma come si svolge in concreto un’operazione di pesatura? Ebbene, ciò che contraddistingue queste due principali metodologie sono proprio le modalità con cui si procede alla raccolta dei dati.
Come si avrà modo di osservare più nel dettaglio nei paragrafi che seguono, nel metodo Delphi il peso dei fascicoli viene determinato sulla base di autovalutazioni dei giudici fornite ex post, in risposta a questionari che vengono poi discussi in un ambiente di gruppo e si basano sulle nozioni soggettive e sulle percezioni degli intervistati. Viceversa, il metodo Studio dei tempi di lavoro si fonda su una documentazione fornita in tempo reale del flusso di lavoro dei partecipanti in un modo continuo, ininterrotto e meticoloso. Cambia, pertanto, il modo in cui vengono raccolte le informazioni. In alcuni casi viene effettuata una sorta di osservazione esterna sull’attività svolta dai magistrati nel corso della giornata lavorativa e le autovalutazioni dei giudici costituiscono la principale fonte di informazioni richiesta per determinare il peso dei processi; in altri, le autovalutazioni dei giudici sono utilizzate solo in un secondo momento, con il solo scopo di validare i pesi precedentemente determinati.
3.1. Il metodo Delphi.
Il primo dei due summenzionati metodi, il metodo Delphi (Delphi method), è un metodo di tipo euristico-induttivo che si avvale direttamente delle esperienze concrete dei giudici per stimare il tempo medio di trattazione di un fascicolo. Nasce come strumento per individuare i possibili obiettivi strategici di un eventuale attacco nucleare dell’Unione Sovietica, ma ben presto viene adattato per risolvere un problema tutte le volte in cui o non si hanno a disposizione dati, o quest’ultimi sono poco attendibili oppure quando essi siano particolarmente difficoltosi ed onerosi da reperire[15]. Nel metodo Delphi, l’attribuzione del “peso” a ciascun procedimento viene effettuata da un panel di esperti (quasi sempre giudici), i quali, attraverso una procedura più o meno strutturata, devono pervenire ad una stima condivisa del tempo necessario per l’esaurimento dei diversi procedimenti esaminati.
Esistono tre sottotipi del metodo Delphi (metodo Delphi con stima dei tempi e/o conversione dei tempi in punteggi; Delphi con solo punteggi di complessità; Delphi con iniziale stima dei tempi e integrazione con fattori di complessità), che si distinguono a seconda dell’unità di misura utilizzata per esprimere il peso del procedimento[16].
Uno dei vantaggi del metodo Delphi è senza dubbio l’efficacia in termini di costi e il tempo relativamente breve necessario per sviluppare le stime del personale. Un suo difetto, tuttavia, è che si basa sulle previsioni e sui punti di vista di un numero limitato di esperti, che raramente possono rappresentare l’universo di giurisdizioni e situazioni lavorative che devono essere prese in considerazione. Mentre i giudici, gli amministratori giudiziari e i pubblici ministeri con una larga esperienza professionale sono in grado di stimare in modo abbastanza accurato quanto tempo possono impiegare loro ed eventualmente il loro personale per trattare certi tipi di casi in relazione alle principali fasi del processo, analoghe considerazioni non possono essere effettuate, allo stesso modo, da quelli che possiedono una minore esperienza, o che lavorino in contesti organizzativi di piccole dimensioni e, pertanto, meno specializzati[17]. Per questo motivo, sarebbe preferibile che il gruppo Delphi abbia una composizione mista, formato cioè da giudici esperti che abbiano maturato esperienze professionali in vari uffici, su varie materie, e provenienti da diverse aree geografiche del Paese[18]. È fondamentale, inoltre, che si tratti di giuristi che operano sulle materie selezionate e che dispongano di buone capacità relazionali, indispensabili per confrontarsi in un gruppo Delphi[19].
Il metodo Delphi si presta ad essere valorizzato, per giunta, anche per un’ulteriore valida applicazione. Dal momento che gli studi sulla pesatura rilevano il tempo che i giudici, in sedi diverse, dedicano a ciascun tipo di caso, le informazioni risultanti mostreranno molto probabilmente delle differenze nel tempo impiegato. I dati ottenuti, pertanto, sono rilevanti anche per indagare il motivo di tali differenze tra i differenti uffici giudiziari esaminati (cioè, se sono dovute, ad esempio, al mix di casi, alle differenze di risorse, ecc.).
3.2. Il metodo “Studio dei tempi di lavoro”
L’altra tecnica utilizzata, il metodo “Studio dei tempi di lavoro” (Time-study method), consiste nella misurazione del tempo impiegato per esaurire il procedimento da parte di osservatori terzi (consulenti, esperti, ecc.) o degli stessi magistrati impegnati nel trattamento della controversia. Il punto di partenza è costituito dalla selezione di un campione di corti da esaminare e si decide quali e quante categorie di procedimenti valutare, soppesando i vantaggi in termini di dettaglio e precisione nel disporre di numerose categorie di procedimenti e gli svantaggi in termini di costi e di tempo che questo comporta[20]. A differenza del metodo Delphi, questo metodo si basa sull’osservazione empirica dei tempi medi effettivamente impiegati attraverso l’annotazione da parte dei singoli giudici dei tempi dedicati per l’esaurimento delle controversie. Annotazione che può essere effettuata, come si vedrà in seguito, con diverse modalità.
Come nel metodo Delphi, anche in questo caso, esistono diverse articolazioni dello studio dei tempi: studio dei tempi di lavoro per eventi; studio dei tempi di lavoro per procedimento (black box); studio dei tempi di lavoro e valutazione qualitativa.
Nello “studio dei tempi di lavoro per eventi” si individuano tutte le potenziali attività del giudice associate a ciascun tipo di procedimento e si classificano in una serie di “eventi principali” (ad esempio, l’udienza preliminare, il dibattimento dinanzi la giuria, l’udienza in cui è pronunciata la sentenza, ecc.). Per ciascun tipo di “evento” si misura dunque il tempo che richiede e la frequenza con cui ricorre nel procedimento (espressa con un valore compreso fra zero e uno) e se ne calcola il prodotto, che viene chiamato task weight. La somma dei task weights di tutti gli “eventi” associati ad un procedimento rappresenta l’ammontare di tempo richiesto per il suo trattamento[21]. Per questo tipo di studio, tuttavia è indispensabile che il sistema elettronico di gestione dei procedimenti (electronic case management system, ad esempio, in ambito civile in Italia SICID e SIECIC) sia in grado di estrarre automaticamente le frequenze dei singoli eventi[22]. Nel caso in cui ciò non fosse possibile, si dovrebbe optare per uno studio sui tempi che non somma i tempi dei singoli eventi ma calcola la durata media dedicata a quel procedimento dalla sua assegnazione alla sua definizione in maniera complessiva (si tratta dello studio dei tempi di lavoro per procedimento, c.d. black box)[23].
3.2.1. Il Multi Moment Analysis: la species più moderna di raccolta dei dati nello Studio dei tempi
Come anticipato, nel metodo cd. studio dei tempi di lavoro, la raccolta dei dati, relativi al tempo dedicato a ciascun evento processuale, può avvenire con diverse modalità.
La più tradizionale è quella cartacea, ovvero i singoli giudici devono annotare su un apposito foglio allegato ad ogni fascicolo le varie attività svolte ed i corrispondenti tempi impiegati per svolgerle (questo, ad esempio, è il sistema di raccolta dei dati utilizzato nell’ordinamento giuridico tedesco, c.d. Pebbsy[24]). Viceversa, la tecnica più moderna di raccolta dei dati, sviluppata dal sistema olandese, è il Multi-Moment-Analysis (MMA)[25]. In questo caso, l’elaborazione dei dati avviene automaticamente, ovvero tramite un apposito applicativo informatico installato sul telefono o tablet che, in vari momenti della giornata, domanda ad un campione di giudici cosa stanno facendo in quel preciso momento, proponendo una serie di opzioni a tendina per agevolare la risposta. Addentrandoci più nel vivo di questo sistema, emerge che non è necessario registrare la durata o gli orari di inizio/fine di ogni singola attività poiché i dati vengono elaborati statisticamente in forma aggregata, in una fase successiva, per determinare il tempo dedicato dal giudice al compimento degli svariati adempimenti in cui si snoda un procedimento. I dati vengono, poi, anonimizzati per non consentire la riconducibilità degli stessi ai singoli giudici. La raccolta dei dati tramite la time-app, nel caso olandese, è stata effettuata, segnatamente, da una società di consulenza esterna utilizzando un’applicazione installata sullo smartphone o tablet dei partecipanti. Essa ha coinvolto ciascun partecipante per una sola settimana di ricerca, per un totale complessivo di 61 settimane di ricerca per la conclusione dell’intera operazione, da gennaio a dicembre 2017. Infine, l’analisi condotta ha consentito di stimare non solo il tempo dedicato a specifiche attività giuridiche, ma anche di determinare i tempi spesi per lo svolgimento di attività extra, come la formazione, le riunioni organizzative ecc. Questo è stato possibile poiché l’app, nel momento in cui interrogava l’utente, gli consentiva di scegliere una tra le tre seguenti opzioni:
1. Non sto lavorando (non sto svolgendo un’attività giudiziaria in questo momento); 2. Sto svolgendo un’attività non strettamente correlata alla trattazione del procedimento ovvero … (selezionala da un elenco predefinito di attività, come ad esempio la partecipazione a riunioni di lavoro, formazione e istruzione professionale, attività di gestione e compiti amministrativi ecc.); 3. Sto svolgendo un’attività legata alla trattazione del caso … (selezionala da un elenco predefinito di casi che sono stati raggruppati in sette aree/categorie giuridiche per il primo grado di giudizio (ovvero penale, famiglia, immigrazione, tributario, commerciale, amministrativo e controversie di modico valore) e in quattro aree giuridiche per l’appello (penale, famiglia, tributario e commerciale)[26].
4. Alcune esperienze concrete di pesatura nel sistema giuridico italiano
L’utilizzo più significativo delle tecniche di pesatura nel nostro ordinamento giuridico si riscontra, ad oggi, prevalentemente nel settore penale. I sistemi informatici attualmente in uso, infatti, si avvalgono di un applicativo informatico, Giada-2[27], in grado di assegnare in maniera del tutto automatica i fascicoli della prima udienza dei dibattimenti (collegiali e monocratici) alle sezioni penali del Tribunale. La peculiarità del sistema è insita nei criteri di cui il sistema si avvale per garantire una distribuzione equa dei carichi di lavoro fra le diverse sezioni. In specie, Giada calcola in automatico, con parametri predeterminati, il “peso” di ciascun fascicolo di nuova introduzione, che rappresenta il carico di lavoro stimato per il procedimento. La determinazione del peso attribuito al singolo procedimento dipende da una serie di informazioni che vengono inserite dal Pubblico Ministero o dal gip/gup nel momento in cui effettuano la richiesta di fissazione udienza al Dibattimento. Spetta a ciascun Tribunale in autonomia e, segnatamente, al Presidente del Tribunale determinare, in sede di configurazione il numero e la consistenza delle classi di peso. Potrà così essere attribuito ad esempio il punteggio 1 per ciascun imputato libero e 2 per ciascun imputato detenuto; un parametro di 1 per ogni capo di imputazione; potrà assegnarsi un punteggio standard per ciascun reato del processo ed un altro maggiore per determinati reati (ad esempio reati associativi). Quindi, per esempio, un fascicolo con 2 imputati, di cui uno detenuto, e 1 capo di imputazione avrà un peso complessivo di 4. Tutti i punteggi configurati andranno a formare dei panieri che rappresentano appunto le classi di peso. Ad esempio: I classe di peso da 0 a 2 (1 imputato libero e 1 imputazione); II classe di peso da 3 a 6; etc. Infine, sulla base dei dati inseriti dal magistrato richiedente l’assegnazione, i processi sono associati ad una determinata classe di peso e, all’interno della stessa, sono assegnati a rotazione a un giudice/collegio.
Un ulteriore riscontro pratico dei sistemi di pesatura è alla base dei criteri di cui si avvale la Corte Suprema di Cassazione per l’assegnazione degli affari civili e penali ai collegi[28]. Nel procedere allo spoglio di tutti i ricorsi già pendenti o sopravvenienti in sezione, l’Ufficio Spoglio presso la Corte di Cassazione, si occupa di classificare i procedimenti attribuendo a ciascuno un determinato valore ponderale. Quest’ultimo varia a seconda delle caratteristiche specifiche e dal grado di maggiore o minore complessità che caratterizza ogni singolo procedimento. Ad esempio, il valore massimo, pari a 5, viene assegnato a tutti i ricorsi di eccezionale difficoltà per la complessità della materia e/o del quadro normativo di riferimento; viceversa, il valore più basso, pari a 1, si attribuisce a tutti i ricorsi aventi ad oggetto questioni di diritto già decise; vizi di motivazione; numero di motivi di ricorso non superiore a tre. La Cassazione si avvale di questo sistema anche per determinare il carico massimo di lavoro che, in occasione di ciascuna udienza, il singolo magistrato può sostenere[29].
Seppur le esperienze applicative concrete di utilizzo dei sistemi di pesatura nel nostro Paese siano ancora poche, non mancano numerosi studi e progetti, portati avanti da associazioni e gruppi di lavoro ministeriali, che hanno tentato di teorizzare e delineare dei veri e propri iter pratici da percorrere per procedere alla pesatura. Solo per citarne alcuni, si ricorda il progetto condotto nel 2019 dall’ANM[30]. Secondo tale proposta, occorrerebbe affidare alla stessa magistratura il compito di determinare in maniera empirica il peso da attribuire al singolo procedimento. I punteggi attribuiti ai singoli procedimenti potrebbero essere individuati attraverso il raffronto tra quest’ultimi e un provvedimento decisorio assunto come “base”. In questo modo a ciascun procedimento saranno attribuiti valori variabili a partire da una percentuale minima pari allo 0,05. Sommando i pesi di ciascuno dei provvedimenti emessi, adeguati con specifici “parametri correttivi”, è possibile individuare poi un “punteggio complessivo”, che rappresenta il carico massimo esigibile, inteso come soglia di impegno lavorativo oltre il quale si corre il rischio che l'attenzione cali e il lavoro perda di qualità. In questo modo è possibile determinare non solo il limite massimo, bensì una fascia di produttività racchiusa tra un minimo e un massimo pretendibile. Più di recente, l’ANM si è spinta ben oltre, andando a descrivere dettagliatamente le diverse fasi attraverso le quali procedere alla determinazione del carico massimo esigibile[31]. Si tratta di un procedimento che ricalca, in buona sostanza, un tradizionale metodo Delphi dal momento in cui si prevede che siano gli stessi magistrati a quantificare il tempo di lavoro necessario per espletare le diverse controversie attraverso la somministrazione di un questionario[32].
4.1. La classificazione dei fascicoli per elementi di complessità processuali
Nel dibattito sulle concrete modalità operative di pesatura, vi è chi propone di soppesare il livello di complessità dei singoli fascicoli in considerazione di elementi di complessità schiettamente processuali[33].
Quest’impostazione richiede di individuare tutti quei fattori (come ad es. il valore della causa, il numero di testimoni previsti, l’assunzione di prove particolarmente complesse, la necessità di un interprete, il numero di udienze previste ecc.) che incidono sulla complessità dell’iter processuale, aggravandolo. Esistono infatti alcuni fattori che possono rendere più o meno complesso un certo procedimento, tra cui, ad esempio[34]: l’alto numero di rapporti processuali coinvolti derivanti da un cumulo oggettivo di cause (creatosi ab origine o in corso di causa per effetto, ad esempio, della proposizione di domande riconvenzionali); la molteplicità di parti coinvolte; l’alto numero delle questioni controverse; l’elevato ammontare delle prove da assumere. Parallelamente, bisogna tener conto di ulteriori elementi come: la materia controversa; il valore economico della causa; la presenza di indici di mediabilità della lite; l’effettiva costituzione delle parti o l’eventuale loro contumacia; la necessità di applicare una legge straniera o sovranazionale e, in generale, la presenza di un collegamento con ordinamenti stranieri; la sopravvenienza di un accordo transattivo; la natura delle questioni di fatto o di diritto; la presenza di orientamenti giurisprudenziali consolidati o oscillanti; la chiarezza o l’oscurità della normativa o della riflessione dottrinale e giurisprudenziale; il maggiore o minore tecnicismo di un istituto.
È evidente che si tratta di elementi variabili, che potrebbero emergere anche in un momento successivo a quello dell’introduzione del giudizio. L’intervento di un eventuale terzo non è un elemento preventivabile, così come, ad esempio, il numero di testimoni da ascoltare e quindi l’effettiva entità dell’istruttoria. Ne consegue la necessità di aggiornare, al verificarsi di talune circostanze, i valori attribuiti in prima battuta alla causa.
5. Conclusioni
In un’epoca in cui si va affermando sempre più l’idea della giurisdizione quale struttura organizzativa complessa, fondata sull’azione concentrica di più attori[35](giudici, dirigenti, avvocati, personale amministrativo, processualisti, studiosi di statistica e management), assumono un ruolo decisamente centrale tutte quelle tecniche e procedimenti per programmare in maniera razionale il lavoro dei magistrati.
La funzione giudiziaria, infatti, non consiste soltanto nell’esercizio professionale della funzione giurisdizionale, ma questa è resa possibile e sostenuta dall’esistenza di una adeguata organizzazione delle varie fasi del lavoro di realizzazione ed attuazione del servizio giustizia[36].
Quantificare la complessità del lavoro giudiziario permetterebbe, pertanto, alle corti di effettuare delle scelte mirate per la suddivisione dei procedimenti tra i magistrati in servizio, bilanciando risorse disponibili e carico di lavoro[37].
Come si è avuto modo di osservare nel corso dell’indagine, attraverso la pesatura dei fascicoli si tenta di dotare l’ufficio giudiziario di uno strumento di rilevazione del “peso” delle controversie (cioè, della complessità del singolo fascicolo) che sia in grado di fornire dati sempre più analitici e dettagliati, onde consentire una migliore ripartizione dei ruoli e delle risorse. A queste finalità, che si collocano su una dimensione più ampia, correlata sostanzialmente alla corretta gestione dell’ufficio giudiziario[38], se ne affianca un’altra, insita nella pesatura, che si colloca su una dimensione più interna, vale a dire quella di consentire ai singoli magistrati di gestire in maniera ottimale il proprio specifico lavoro. In quest’ottica, la pesatura potrebbe, ad esempio, agevolare il giudice nell’esercizio dei propri poteri di direzione delle udienze ex art. 127 c.p.c. e, in generale, delle singole controversie, oltre che nella programmazione razionale delle proprie attività (si pensi, a quest’ultimo riguardo, al calendario del processo di cui all’art. 183, comma 4, c.p.c., che dovrebbe essere redatto in ragione della complessità della causa)[39].
Sotto quest’aspetto, la rilevazione qualitativa dell’effettivo grado di complessità della controversia si mostra di notevole aiuto per il magistrato lungo tutte le fasi del processo a cognizione piena. Si pensi, solo per fare un esempio, alla nuova fase decisoria come riformata dalla l. n. 206/2021 e dal d.lgs. n.149/2022, laddove conoscere il grado di complessità della controversia sarebbe fondamentale per il magistrato per valutare, ad esempio, la maturità o la rimessione anticipata della causa in decisione; per scegliere il modello di decisione da adottare tra quello più semplice della decisione a seguito di discussione orale e quello più complesso della decisione a seguito dello scambio di memorie; o ancora per fissare l’udienza di rimessione della causa in decisione, da cui decorrono i termini per la redazione e il deposito della sentenza[40]. Conoscere il peso delle singole controversie, potrebbe consentire, ancora, al magistrato di valutare se disporre o meno il mutamento dal rito ordinario a quello semplificato di cognizione ex art. 281-decies c.p.c. o viceversa.
Se questi sono gli obiettivi, certamente di non trascurabile rilievo, che caratterizzano la pesatura, del pari significative sono le concrete modalità applicative con cui procedere all’attribuzione del peso al singolo procedimento. L’indagine condotta ha mostrato l’esistenza di due principali tecniche per procedervi: il metodo Delphi e il metodo Studio dei tempi di lavoro[41]. Metodi che differiscono tra loro nelle concrete modalità applicative di raccolta delle informazioni. Mentre, come si è visto, con il primo dei seguenti metodi, il metodo Delphi, si procede ad una raccolta immediata dei dati, coinvolgendo direttamente i magistrati, i quali sono chiamati a raggiungere, a seguito di ripetuti e successivi confronti tra loro, una stima condivisa dei tempi medi di trattazione dei procedimenti. Con il secondo dei metodi sopradescritti, lo “Studio dei tempi”, si effettua, invece, un’osservazione esterna sull’attività dei magistrati. Attività che può essere monitorata in vario modo (o in forma cartacea o tramite un apposito applicativo informatico installato sul telefono o tablet dei partecipanti), al cui esito si procede ad un’elaborazione in forma aggregata dei dati raccolti e si stimano i valori ponderali delle controversie. Sicuramente, il costo di uno studio analitico dei tempi di lavoro è molto più elevato rispetto all’utilizzo di un metodo Delphi, che richiede un numero inferiore di partecipanti, un minor coinvolgimento dei giudici e dovrebbe raggiungere risultati in tempi più rapidi, in condizioni normali. Nel compiere la scelta sullo specifico metodo da seguire occorre, però, tenere presente che il risultato finale del metodo Delphi è una stima, lo “Studio dei tempi di lavoro” fornisce invece un calcolo empiricamente fondato dei tempi medi “reali” di trattazione dei procedimenti[42].
Vantaggiosa e probabilmente più rapida, parrebbe essere anche una misurazione dei fascicoli che si basi sull’individuazione degli elementi di complessità schiettamente processuali. In questo caso, ci si potrebbe avvalere, infatti, di un apposito applicativo informatico che associ in maniera del tutto automatica un certo peso al fascicolo ogni qual volta presenti determinate caratteristiche (come il valore della causa, il numero di testimoni previsti, l’assunzione di prove particolarmente complesse, la necessità di un interprete, il numero di udienze previste ecc.)[43].
La pesatura rappresenta certamente un’innovativa modalità di misurazione dell’attività giudiziaria, che si fonda sull’analisi delle caratteristiche intrinseche dei singoli fascicoli, finalizzata a rilevare ed affrontare le criticità ex ante, prima che diventino irreparabili[44].
L’emersione del grado di complessità della controversia potrebbe imprimere, come si è visto, un’accelerazione non indifferente ai processi decisionali, agevolando il giudice nella programmazione delle proprie attività.
Sarebbe auspicabile, pertanto, che, quanto prima, anche il nostro ordinamento giudiziario si avvalga di un sistema di pesatura, cui tutti gli uffici giudiziari possano ispirarsi seppur con le opportune diversificazioni. Si potrebbe pensare di mettere a punto alcune linee guida, a livello centrale, cui i tribunali possano adeguarsi per operare una pesatura a livello locale (eventualmente coinvolgendo dapprima singole sezioni e solo successivamente l’intero ufficio).
Gli studi in materia, ampiamente esaminati nei paragrafi precedenti, ci forniscono non pochi suggerimenti al riguardo. In primo luogo, occorre individuare i procedimenti “campione”, ovvero quelli da sottoporre alla misurazione. Successivamente, ponderando attentamente alcuni fattori (quali, le finalità per cui si vuole procedere alla misurazione; le risorse umane e materiali disponibili; il grado di coinvolgimento dei magistrati; le peculiarità di ciascun sistema giudiziario e in particolare del suo personale[45]), si effettua una scelta sul criterio da seguire (tra l’utilizzo di un classico metodo Delphi, di un dettagliato Studio dei tempi o se, infine, procedere ad una valutazione basata sugli elementi di complessità processuali). Una volta raccolta i dati, sarà possibile determinare l’ammontare di ore mediamente richieste per emettere ogni singolo provvedimento e, di conseguenza, il peso medio ponderato per tipologia di provvedimento. In ultimo, si tenga presente che, essendo la situazione di un ufficio giudiziario costantemente variabile e in divenire, occorrerà monitorare periodicamente il sistema adottato, apportando all’occorrenza delle rettifiche e/o integrazioni in base ai feedback dei magistrati e alle esigenze del sistema giudiziario.
[1] I protagonisti di questo mutamento culturale sono prevalentemente giuristi ma non solo. Ad oggi è sempre più diffusa la consapevolezza che il tema dell’efficienza del servizio giustizia debba essere studiato aprendosi al dialogo anche con discipline specialistiche diverse da quelle strettamente giuridiche, quali quelle economiche, organizzative e informatiche. Cfr. M. SCIACCA, Gli strumenti di efficienza del sistema giudiziario e l’incidenza della capacità organizzativa del giudice civile, in Riv. dir. proc., 2007, pp. 643-661; L. VERZELLONI, Qualità ed efficienza della giurisdizione, in Giustizia insieme, 2022; S. ZAN, Fascicoli e tribunali. Il processo civile in una prospettiva organizzativa, Bologna, 2003; F. AULETTA, Per una nuova educazione al diritto giudiziario, in Foro it., 2019.
[2] G. ESPOSITO, S. LANAU e S. POMPE, Judicial System Reform in Italy - A Key to Growth, 2014. Nello studio citato viene messa in evidenza la stretta correlazione tra efficienza di un sistema giudiziario e crescita economica di un Paese; A. COSENTINO, Misure organizzative e buone prassi nella gestione del contenzioso, in Questione Giustizia, 2017.
[3] Particolarmente pregnante risulta la considerazione di M. SCIACCA, Gli strumenti di efficienza del sistema giudiziario e l’incidenza della capacità organizzativa del giudice civile, in Riv. dir. proc., 3/2007, p. 159, in base a cui «Un’organizzazione che funzioni male vede moltiplicate le disfunzioni in modo progressivo e proporzionale all’aumento degli organici, di, pur pregnanti e rilevanti, modifiche alla legge processuale, di interventi di informatizzazione che si limitino a tecnologizzare e consacrare il disordine organizzativo, dando vita ad una paradossale burotelematica».
[4] Si pensi, da ultimo, all’introduzione dell’Ufficio per il processo, quale struttura stabile di affiancamento al giudice per sgravarlo dal compimento di attività routinarie, come: attività di studio dei fascicoli, compimento di attività di pratico/materiale o di facile esecuzione, verifica di completezza del fascicolo, predisposizione di bozze di provvedimenti etc. Cfr. d.l. n. 80/2021; l. n. 206/2021; d.d.l. n. 151/2022; V. anche, O. CIVITELLI, L’affanno della giustizia, in Md, Intervento al Consiglio nazionale di Md, 2021. S. ZAN, Fascicoli e tribunali. Il processo civile in una prospettiva organizzativa, Bologna, 2003, p. 10 ss; G. DI FEDERICO, Scienza dell’amministrazione e ordinamento giudiziario. Stato degli studi e metodo della ricerca sul campo, Roma, 1974, p. 9 ss; F. AULETTA, Una lezione di analisi economica del diritto processuale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2007, p. 633 ss..
[5] Questi dati sono il risultato di uno studio che ha visto coinvolti 47 rappresentanti nazionali della CEPEJ, ai quali tra i mesi di marzo e maggio 2019 è stato somministrato un questionario sui sistemi di pesatura, a cui hanno fatto seguito interviste telefoniche e seminari di approfondimento. Cfr. M. FABRI, Metodi per la pesatura dei procedimenti giudiziari in Europa, 2020, in Questione Giustizia, p. 8 e ss.; CEPEJ, S. BENKIN and M. FABRI, Case weighting in European Judicial Systems, Strasburgo, 2020, p. 7 e ss.
[6] Sul punto, v. M. FABRI, op. cit., pp. 2 e 10; CEPEJ, S. BENKIN and M. FABRI, op. cit., p. 5, pp. 8-9, tabella n. 1, p. 11 ss. e pp. 21 e 31.
[7] Questa la definizione di “peso dei procedimenti” messa a punto dalla CEPEJ, in CEPEJ, S. BENKIN and M. FABRI, Case weighting in European Judicial Systems, Strasburgo, 2020: “Scoring system to assess the degree of complexity of case types based on the understanding that one case type may differ from another case type in the amount of judicial time required for processing”, ovvero “Sistema di punteggi per valutare il grado di complessità di varie categorie di procedimenti, basato sull’assunto che ogni categoria di procedimenti differisce da un’altra per l’ammontare di tempo necessario per la sua trattazione”.
[8] Tra i principali studi in materia di pesatura si ricordano: CEPEJ, S. BENKIN and M. FABRI, Case weighting in European Judicial Systems, Strasburgo, 2020; H. GRAMCKOW, Estimating Staffing Needs in the Justice Sector, World Bank, Washington DC; M. KLEIMAN, R.Y. SCHAUFFLER, B.J. OSTROM, C.G. LEE, Weighted caseload: a critical element of modern court administration, in International Journal of the Legal Profession, 2019, vol. 26, n. 1, p. 22.; M. FABRI, Metodi per la pesatura dei procedimenti giudiziari in Europa, 2020, in Questione Giustizia.
[9] Lo studio in questione rappresenta un prezioso contributo per tutti coloro che vogliono avvicinarsi al tema della pesatura ed approfondirne gli aspetti più salienti. È disponibile al sito: https://rm.coe.int/study-28-case-weighting-report-en/16809ede97.
[10] Cfr. A. COSENTINO, Misure organizzative e buone prassi nella gestione del contenzioso, in Questione Giustizia, 2017.
[11] La formula per il calcolo consiste nel sommare al numeratore i procedimenti sopravvenuti, suddivisi in macrocategorie, moltiplicati per i vari “pesi” attribuiti agli stessi, più le ore di attività extra non collegate alla trattazione dei procedimenti (es. corsi di formazione). Successivamente il numero ottenuto viene diviso per il prodotto delle ore standard lavorate in un anno e il numero dei giudici effettivamente in servizio. Tramite questa divisione si determina il numero di giudici che sarebbero necessari per rispondere in un arco temporale di un anno alla domanda di giustizia rispetto ai procedimenti iscritti.
[12] M. FABRI, Metodi per la pesatura dei procedimenti giudiziari in Europa, 2020, in Questione Giustizia, pp. 3 e ss.
[13] Nello studio più volte citato della CEPEJ viene menzionato un terzo metodo chiamato “Work-sampling method”, utilizzato nel sistema olandese, che si basa sulla combinazione di più metodi. Ciò che cambia è il modo in cui vengono raccolte le informazioni. In questo caso, i dati vengono raccolti interrogando i partecipanti, in vari momenti casuali, sulle attività che stanno compiendo in quel preciso momento. Si tratta del Multi-Moment-Analysis (MMA). I dati raccolti vengono poi affinati con il metodo Delphi.
[14] Cfr. E. BORSELLI – L. DANI, L’organizzazione del lavoro del giudice alla luce della riforma del processo civile. Pesatura dei fascicoli e gestione della complessità delle controversie, in Judicium, 2023. Gli autori propongono di creare un sistema di pesatura che si fondi sulla classificazione dei procedimenti non in ragione della materia oggetto della controversia, bensì proprio sugli “elementi di complessità” schiettamente processuali.
[15] M. FABRI, op. cit., pp. 4 e ss.
[16] Più specificatamente, nel primo metodo, il tempo stimato per la definizione di un procedimento costituisce il peso da assegnarvi; nel secondo, al procedimento viene attribuito un punteggio che classifica il procedimento in termini di complessità rispetto agli altri, ma non equivale direttamente al tempo; infine, l’ultimo sottotipo si basa sull’attribuzione di un peso “primario” che subisce delle modifiche nel corso del tempo al verificarsi di determinati “fattori di complessità”, quali, ad esempio, il numero di testimoni, la necessità di un interprete, il numero di udienze ecc.
[17] H. GRAMCKOW, op. cit., pp. 9 e ss.
[18] Cfr. M. FABRI, op. cit., pp. 4 e ss.
[19] Per arrivare ad un consenso fra gli esperti, è necessario individuare, inoltre, un coordinatore che sia dotato di specifiche competenze per la gestione di gruppi. Per raggiungere il consenso all’interno del gruppo è possibile anche sfruttare alcune piattaforme we-based come Welphi platform.
[20] M. FABRI, op. cit. pp. 7 e ss..
[21] Cfr. Gruppo di lavoro per la individuazione degli standard medi di definizione dei procedimenti, CSM, Quarta Commissione, Relazione finale – Settore civile, Catania – Roma, 2009, p. 37; P. SIGNIFREDI, Misurare la produttività dei giudici: il caso spagnolo, paper presentato alla Conferenza Annuale della Società Italiana di Scienza Politica, Bologna, 12-14 Settembre 2006.
[22] M. FABRI, op. cit., pp. 7 e ss.
[23] Infine, il terzo sottotipo, lo studio dei tempi e valutazione qualitativa, prevede che, una volta individuati i pesi attraverso i metodi sopradescritti, quest’ultimi vengano sottoposti ad una posteriore valutazione qualitativa (attraverso un gruppo Delphi o con altre modalità) per validarne l’affidabilità e l’attendibilità.
[24] Il sistema di pesatura tedesco Pebbsy è stato sviluppato da una società di consulenza estera nel 2002 ed è stato aggiornato nel 2004 coinvolgendo oltre 16.000 persone, tra cui giudici, unità di personale di cancelleria, p.m. appartenenti a ben 14 lander diversi. I soggetti coinvolti nello studio hanno trascritto per sei mesi su un apposito foglio allegato ad ogni fascicolo le varie attività ed i corrispondenti tempi impiegati per svolgerle. Successivamente, i dati sono stati elaborati in forma aggregata (garantendo l’anonimato dei giudici) e i procedimenti sono stati classificati in tre classi di peso “A-B-C”. Soltanto alle categorie di procedimenti delle classi A e B è stato poi effettivamente attribuito un peso.
[25] In un primo momento, è stata utilizzata la tecnica del cd. shadow research (osservatore ombra), ovvero i giudici selezionati sono stati “osservati” nello svolgimento delle loro attività da alcuni studenti di giurisprudenza che hanno annotato di volta in volta le attività svolte e i tempi necessari per svolgerli.
[26] Per un ulteriore approfondimento del Multi-Moment Analysis, cfr. CEPEJ, S. BENKIN and M. FABRI, Case weighting in European Judicial Systems, p. 31 e ss.
[27] Con l’acronimo G.I.A.D.A. si intende Gestione Informatica Automatizzata Assegnazioni Dibattimento.
[28] Cfr. tabelle di organizzazione Corte di Cassazione, triennio 2020-2022, pp. 27 e ss., https://www.cortedicassazione.it/cassazioneresources/resources/cms/documents/Tabelle_di_organizzazione_triennio_2020-2022.pdf; nonché tabelle di organizzazione Corte di Cassazione, triennio 2009-2011, https://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Tabella_di_organizzazione.pdf.
[29] «A ciascun componente del collegio vengono assegnati ricorsi per un valore ponderale complessivo indicativamente non superiore ad 8 per ogni udienza, comunque superabile nel caso di ricorsi inammissibili o seriali, tali da richiedere una motivazione standard, ovvero per ragioni eccezionali», Tabelle di organizzazione Corte di Cassazione, triennio 2009-201, cfr. par. 31.5.
[30] Cfr. Dettaglio proposta ANM sui “Carichi di lavoro” dei magistrati italiani e Documento sui carichi esigibili, Progetto di lavoro approvato dal Cdc, 2023, in https://www.associazionemagistrati.it/. Studio citato anche da D. CARLINO, La possibile individuazione dei carichi sostenibili: un percorso di approfondimento tra standard di rendimento e carichi esigibili, in Il diritto vivente, 2021.
[31] Per un approfondimento, cfr. Documento sui carichi esigibili, in https://www.associazionemagistrati.it/doc/3968/il-cdc-su-i-carichi-esigibili.htm.
[32] Ulteriori studi interessanti in materia di pesatura sono il cd. Tempo Tecnico Minimo (TTM) in Commissione Flussi di Milano, 16 marzo 2007, Relazione sulle metodologie di analisi dei dati e dei flussi, p. 14; le analisi svolte per la determinazione delle piante organiche, lo studio del CSM sui cosiddetti “canestri”, lo “Studio sul peso del processo” a cura di Giorgia Telloli e Claudio Nunziata (Corte di Appello di Bologna, 2004), le implicite analisi condotte sulla complessità dei procedimenti per la redazione degli art. 37.
[33] Cfr. par. 3, E. BORSELLI – L. DANI, L’organizzazione del lavoro del giudice alla luce della riforma del processo civile. Pesatura dei fascicoli e gestione della complessità delle controversie, in Judicium, 2023.
[34] Cfr. la classificazione proposta da E. BORSELLI – L. DANI, L’organizzazione, cit. Particolarmente interessante, nel citato studio, è, inoltre, l’individuazione delle specifiche finalità che potrebbe assolvere la pesatura in relazione a ciascuna fase processuale post-riforma Cartabia.
[35] M.G. CIVININI, Il “nuovo ufficio per il processo” tra riforma della giustizia e PNRR. Che sia la volta buona!, in Questione Giustizia.
[36] M.ORLANDO – G. VECCHI, Il controllo di gestione negli uffici giudiziari: il “laboratorio” di Livorno, in Questione Giustizia, 2020.
[37] Cfr. M. FABRI, Metodi per la pesatura dei procedimenti giudiziari in Europa, 2020, in Questione Giustizia; CEPEJ, S. BENKIN and M. FABRI, Case weighting in European Judicial Systems, Strasburgo, 2020.
[38] A livello di organizzazione dell’ufficio giudiziario, i dati emergenti dalla pesatura possono essere sfruttati dai dirigenti nell’ambito dei loro poteri di riorganizzazione dell’ufficio e delle sezioni come, ad esempio: a) per elaborare un piano di rientro sostenibile, a fronte di un carico di lavoro del magistrato che si riveli eccessivo (art. 172, co. 2, Circolare CSM sulle tabelle triennio 2020/2022; b) per prevedere un esonero temporaneo dall’assegnazione di nuovi affari o di nuove attività, sempre qualora il magistrato si trovi in affanno (art. 173, comma 1 della Circolare CSM sulle tabelle triennio 2020/2022); c) per valutare il collocamento di nuovi giudici o il ricollocamento dei giudici all’interno delle articolazioni dell’ufficio; d) per sopperire all’assenza di un magistrato in caso di maternità o malattia. Cfr. nota 27, par. 3, E. BORSELLI – L. DANI, L’organizzazione del lavoro del giudice alla luce della riforma del processo civile. Pesatura dei fascicoli e gestione della complessità delle controversie, in Judicium, 2023.
[39] Sul punto, E. BORSELLI – L. DANI, op. cit., in Judicium, 2023.
[40] Cfr. par. 4, E. BORSELLI – L. DANI, op. cit, in cui gli autori forniscono una chiara indicazione di tutti i momenti processuali, dalla fase introduttiva alla fase decisoria del processo a cognizione piena (con un breve accenno anche al giudizio d’appello), in cui l’utilizzo della pesatura potrebbe rivelarsi di massima utilità per il giudice, consentendogli di arrivare preparato in coincidenza dei principali snodi processuali.
[41] Cfr, ivi, parr. 3.1 e 3.2.
[42] In merito, v. M. FABRI, op. cit., p. 16 e ss.
[43] In una maniera analoga, ad esempio, a quanto avviene con l’applicativo Giada, operativo nel settore penale. Per un approfondimento, ivi, par. 4.
[44] M. FABRI, op. cit., p. 15 e ss.
Chi era il Priore di Barbiana?
Don Lorenzo Milani (Firenze,27 maggio 1923-Firenze, 26 giugno 1967), all’anagrafe Lorenzo Carlo Domenico Milani Comparetti, era figlio di Alice Weiss e Albano Milani Comparetti, ebrei, liberali conservatori, fortemente antifascisti. Nella formazione del giovane Lorenzo la famiglia aveva privilegiato la crescita culturale rispetto ad altri aspetti; come ha ricordato, in più occasioni, anche Mario Lancisi, colpisce l’importanza della chiarezza e della logica della parola, elementi importanti della sua esperienza pedagogica insieme alla conoscenza delle lingue.
Il 10 novembre 1943 entra in seminario. La sua è una vocazione da adulto; passa dall’ateismo alla conversione e alla vocazione, dopo un travaglio non breve né semplice. Ne segue una attività intensa, nello svolgersi di una stagione breve dal 1947, anno dell’ordinazione sacerdotale, all’anno della morte,1967, con tre tappe fondamentali, scandite dalle sue opere: Esperienze pastorali (1958), L’obbedienza non è più una virtù (1965), Lettera a una professoressa ( 1967) [1].
Con Esperienze pastorali, don Lorenzo Milani anticipa, in qualche modo, la riforma del Concilio Vaticano II, avviata da Giovanni XXXIII con il solenne discorso di apertura dell’11 ottobre 1962.
Ho qualche perplessità su questa affermazione. A me sembra che la grandezza del messaggio contenuto in quel libro, come poi anche in Lettera a una professoressa, non stia in una “riforma religiosa” o “ecclesiale” in qualche modo assimilabile a quella recata dal Concilio Vaticano II: lo stesso don Milani si definiva, sul piano ecclesiale, come un sacerdote “pre-conciliare” e diceva di essere stato “scavalcato a sinistra” dal Papa, Giovanni XXIII, e dalla Chiesa stessa con il Concilio. Penso invece che il contenuto rivoluzionario della sua predicazione si collochi su un piano assai diverso: non tanto su quello della riforma ecclesiale – questa sì recata dal Concilio –, quanto su quello della teologia morale. Su questo terreno la sua predicazione conserva tuttora una portata rivoluzionaria anche rispetto al contenuto – pur molto incisivo rispetto al recente passato pacelliano – della Gaudium et Spes: un significato di rottura rispetto a una tiepida morale cattolica diffusa che neppure il Concilio Vaticano II ha saputo scuotere altrettanto.
Fatto sta che il 15 dicembre 1958 Esperienze Pastorali fu disapprovato dal Sant’Uffizio, che chiese il suo ritiro dal commercio, vietandone ristampe e traduzioni. Questo vincolo fu rimosso soltanto nel 2014, dopo ripetute richieste, da ultimo da parte del Cardinale Giuseppe Betori.
Strana vicenda, questo ritardo, se si pensa che già Papa Montini aveva manifestato disagio per il “cordone sanitario” che era stato attivato per impedire la circolazione di quel libro. Che sia dovuto passare più di mezzo secolo è davvero un po’ scandaloso. E incomprensibile, anche mettendo nel conto tutte le vischiosità dell’apparato ecclesiastico.
Risale invece al 1965 la Lettera ai cappellani militari che costò un processo penale per incitamento alla diserzione e vilipendio delle Forze Armate: questa Lettera – che, dopo essere stata diffusa in varie forme il 23 febbraio 1965, fu pubblicata il 6 marzo dello stesso anno su Rinascita, settimanale comunista diretto da Luca Pavolini – fu inserita, insieme alla Lettera ai giudici, datata 18 ottobre 1965 e assai più lunga della prima, nel libro uscito in quello stesso anno con il titolo L’obbedienza non è più una virtù.
Ricordo che don Lorenzo inviò a mio padre una minuta della lettera ai giudici, chiedendo il suo parere e consiglio in proposito. Lui gli rispose approvandola, anche da un punto di vista tecnico-processuale.
In questi scritti venivano affrontati i temi della pace, della coscienza civile e dell’obiezione di coscienza, molto discussi in quegli anni.
Il 15 febbraio 1966 don Milani, insieme al coimputato Luca Pavolini, fu assolto con formula piena, “perché il fatto non costituisce reato”. Nel processo di appello il Pubblico Ministero all’udienza del 28 ottobre 1967 chiese per Don Milani, anche se morto, la condanna a 4 anni di reclusione, ma la Corte di Appello di Roma, correttamente, dichiarò di non doversi procedere nei suoi confronti perché il reato si era estinto per morte dell’imputato (fu invece condannato, e amnistiato solo in Cassazione, Luca Pavolini).
Fa impressione che cinquant’anni fa in Italia si potesse essere condannati per aver espresso le tesi contenute in quella lettera di don Milani: solo dieci anni dopo, non si sarebbe trovato più neanche un solo giudice disposto a firmare una sentenza di quel genere.
È infine del 1967, essendo uscita qualche mese prima della sua morte, la Lettera a una professoressa, che ci riguarda più da vicino e che affronta i temi della scuola. Scritta con i suoi allievi, secondo lo schema della scrittura collettiva, questa Lettera anticipa il ’68, contestando il carattere classista della scuola.
Per un aspetto è vero che Lettera a una professoressa anticipa il ’68; per altro verso questa affermazione può alimentare qualche equivoco, che invece va evitato: se don Milani fosse vissuto un anno di più, in modo da assistere all’esplosione della protesta studentesca, penso che ne avrebbe disapprovato una parte rilevante dei contenuti. Per dirne solo uno: un contenuto essenziale di quel movimento fu la contestazione dell’autorità del docente, della sua capacità di dirigere il percorso di acculturazione dei propri allievi; nulla di più distante dall’idea della funzione dell’insegnante che don Milani ha professato e incarnato.
A ben vedere, è anche quello che dice il Presidente Sergio Mattarella, nel discorso pronunciato a Barbiana in occasione delle celebrazioni del centenario della nascita: «Testimone coerente e scomodo per la comunità civile e per quella religiosa del suo tempo. Battistrada di una cultura che ha combattuto il privilegio e l’emarginazione, che ha inteso la conoscenza non soltanto come diritto di tutti ma anche come strumento per il pieno sviluppo della personalità umana. Essere stato un segno di contraddizione, anche urticante, significa che non è passato invano fra noi ma, al contrario, ha adempiuto alla funzione che più gli stava a cuore: fare crescere le persone, fare crescere il loro senso critico, dare davvero sbocco alle ansie che hanno accompagnato, dalla scelta repubblicana, la nuova Italia. Don Lorenzo avrebbe sorriso di una sua rappresentazione come antimoderno se non medievale. O, all’opposto, di una sua raffigurazione come antesignano di successive contestazioni dirette allo smantellamento di un modello scolastico ritenuto autoritario. Nella sua inimitabile azione di educatore – e lo possono testimoniare i suoi “ragazzi” – pensava, piuttosto, alla scuola come luogo di promozione e non di selezione sociale. Una concezione piena di modernità, di gran lunga più avanti di quanti si attardavano in modelli difformi dal dettato costituzionale».
Ecco: anche Mattarella mette in guardia contro la raffigurazione di don Milani “come antesignano di successive contestazioni dirette allo smantellamento di un modello scolastico ritenuto autoritario”.
Don Lorenzo Milani è stato un privilegiato o un predestinato? Anche il percorso che lo ha portato a scegliere l’abito talare sembra un segno del destino.
Mah… più che un percorso predeterminato dal destino, in questa vicenda vedrei semmai il trionfo della libertà etica della persona umana: la forza morale, la volontà che consente di superare tutti i condizionamenti derivanti dall’educazione ricevuta e dalle altre circostanze sociali. Tutta la vita e l’opera di don Milani è un monumento alla capacità dell’uomo di liberarsi dai condizionamenti esterni e di determinare il proprio destino, la propria sorte.
Certo, nulla nel primo ventennio di vita di Lorenzo Milani poteva far pensare a una scelta religiosa così fortemente caratterizzata: aveva ricevuto il battesimo cristiano per evitare le persecuzioni fasciste per la discriminazione razziale. Nelle sue biografie si legge che si fece prete per colpa del “latte pessimo” della sua balia, Carola Giuliani Galastri, di Poppi: anche lei aveva avuto un figlio che si era fatto frate. Nessuno della sua famiglia partecipò alla cerimonia per la sua ordinazione sacerdotale.
Non è il solo caso conosciuto di conversione, in quegli anni, di una persona di origine ebraica a un cristianesimo integrale. Vedo qualche analogia, per questo aspetto, tra la vicenda di don Lorenzo Milani e quella di Etty Hillesum: una chiesa che curasse di più l’essenza del messaggio evangelico dovrebbe assumerli entrambi come esempi straordinari di incarnazione di quel messaggio nel secolo XX. Ma vedo anche qualche analogia con la vicenda umana di Simone Weil.
Il centenario della nascita di Lorenzo Milani ha visto la pubblicazione di numerosi libri. Tra questi: Riccardo Cesari, Hai nascosto queste cose ai sapienti. Don Lorenzo Milani, vita e parole per spiriti liberi (Giunti Editori, Firenze, 2023); Adolfo Scotto di Luzio, L’equivoco don Milani (Einaudi, Torino, 2023); Mario Lancisi, Don Lorenzo Milani. Vita di un profeta disobbediente. A cento anni dalla nascita(TS Edizioni, Milano, 2023). Le Edizioni San Paolo hanno pubblicato, nel mese di febbraio 2023, in una versione aggiornata, con la prefazione del Cardinale Matteo Maria Zuppi, una raccolta di Lettere a cura di Michele Gesualdi.
Su quest’ultima pubblicazione, però, si registra una controversia circa la titolarità dei documenti contenuti nel volume, che la Fondazione Don Lorenzo Milani rivendica, a mio avviso con pieno fondamento, mentre il libro viene pubblicato sulla base di un atto di disposizione della moglie e della figlia di Michele Gesualdi. La raccolta di tutti questi documenti è stata compiuta dagli allievi di Barbiana uniti nella Fondazione; e lo stesso Michele Gesualdi, che è stato il primo presidente della Fondazione, in diverse pubblicazioni precedenti lo dichiara esplicitamente.
Merita anche segnalare: Lorenzo Milani, Duecento lettere. Nel centenario della nascita (a cura di Adele Corradi, Josè Luis Corzo e Federico Ruozzi) EDB, Bologna 2023. Tu che lo hai conosciuto e frequentato personalmente, che bilancio trai dal rinnovato fervore degli studi su questa figura di primo piano del Novecento italiano?
Il bilancio, pur tra alti e bassi, è complessivamente positivo: alcuni scritti, veramente importanti, fanno fare un passo avanti molto rilevante per una conoscenza più approfondita di quello che sono state la vita e la predicazione di don Milani nella storia recente della Chiesa e nella cultura europea. E anche di quello che ne è conseguito sul piano socio-politico a partire dagli anni Sessanta. Considero tra le pubblicazioni più importanti il libro di Riccardo Cesari – economista e statistico: di tutt’altro mestiere, quindi, rispetto agli altri studiosi della vita e dell’opera del Priore di Barbiana – che fornisce una chiave di lettura in gran parte nuova dell’intera sua eredità; mentre la biografia di Mario Lancisi riorganizza il frutto di diversi suoi studi precedenti, dando conto anche delle diverse fasi della formazione e dell’opera di don Milani. Per altro verso e in altro modo, è importante anche il saggio di Adolfo Scotto di Luzio – storico della pedagogia, delle istituzioni educative e scolastiche –, anche se questo contiene una critica molto corrosiva della predicazione del Priore di Barbiana.
Condivido quello che dici. Quella di Cesari è una «completa, lucida e appassionata ricostruzione della vita del priore», come ha scritto Eraldo Affinati (che ha dedicato, anche lui, studi significativi ai temi trattati in occasione del centenario: primo fra tutti, L’uomo del futuro. Sulle strade di don Lorenzo Milani, Mondadori, Milano, 2017). Molto attento ai particolari e ben documentato (fin troppo, direi), questo libro, trovando il suo autore un filo conduttore tra tutti gli scritti nella denuncia dello scandalo della povertà e della miseria che don Milani aveva scoperto negli occhi dei bambini che frequentavano la scuola di Barbiana.
Il libro di Cesari ha anche il merito di approfondire il confronto tra la predicazione di don Milani e la realtà sociologica ed economica dell’Italia degli anni ’50 e ’60.
Il libro di Scotto di Luzio (che è tornato sul suo pensiero, e su quanto ha scritto, nella video-intervista rilasciata il 9 giugno 2023 a Norberto Gallo per La Voce della scuola e in un’altra intervista rilasciata il 28 giugno 2023 a Tiziana Morgese, per Orizzontiscuola.it), però, contiene una critica molto corrosiva della predicazione di don Milani: a parte il titolo – L’equivoco don Milani –, che sembra giocare sulla possibilità di intendere la parola “equivoco” come sostantivo o come aggettivo, nella parte finale l’autore trae un bilancio pesantemente negativo dell’eredità politico-sociale riconducibile, in particolare, alla Lettera a una professoressa.
Al netto del titolo, questo libro è molto importante innanzitutto perché rispecchia una conoscenza approfondita di tutti gli scritti di e su don Milani, giungendo a mettere in luce anche alcuni aspetti della sua vicenda intellettuale che nessun altro – per quel che mi risulta – aveva rilevato; inoltre, perché propone un ragionamento originale e molto intelligente sul rapporto tra scuola e cultura (popolare e no). La critica che mi sento di muovere alla tesi svolta nella seconda metà del saggio è che essa, a ben vedere, ha per oggetto non tanto la predicazione del Priore di Barbiana, quanto semmai l’uso che ne è stato fatto sul piano politico e sul piano amministrativo, cioè su quello della concreta riforma della scuola media inferiore, dal ’68 in poi.
Puoi spiegare meglio questo punto?
L’intendimento originario di tutta l’opera di don Milani è di natura essenzialmente teologico-evangelica (l’amore per il prossimo come manifestazione di Dio su questa terra) ed etica: non c’è una sola parola di argomento politico, detta o scritta da lui, che non si collochi nell’ambito di un discorso eminentemente etico e di fede cristiana. Non è sbagliato affermare che nella sua predicazione sono espliciti il contenuto “classista” e anche quello lato sensu “comunista”; ma il suo classismo è di natura etica, prima e più che politica: risponde al dovere di dividere il pane con chi non ce l’ha; e il “comunismo” di don Milani, molto più radicale di quello predicato e praticato dallo stesso Partito comunista, non è un progetto politico di organizzazione della società: è la conseguenza rigorosa, applicata al comportamento di ogni persona, di un precetto della più genuina morale cattolica. A chi gli obiettava che la morale cattolica riconosce il diritto di proprietà privata, don Lorenzo rispondeva con la massima di Tommaso d’Aquino: «In extremis omnia sunt communia»; e – l’ho sentito dalle sue labbra – aggiungeva: «Tutto sta nello stabilire qual è l’extremum; non puoi stabilirlo stando al calduccio a casa tua; il Vangelo ti impone di stabilirlo mettendoti nei panni del prossimo, di chi soffre, di chi non ha nulla, di chi ha paura; solo così ti accorgi che l’extremum è qui e ora».
Innamorato di Dio e dei poveri, un prete “disubbidiente”, un maestro straordinario (per usare alcuni concetti espressi da Lancisi). Ma di quale scuola? A Scotto di Luzio fa scandalo la sua scuola, ma non la povertà e l’arretratezza dei parrocchiani di Barbiana. È, questo, un giudizio, che mi sembra di poter riservare anche alle due recensioni, adesive, che hanno accompagnato il libro di Scotto di Luzio, enfatizzando la sua analisi: quella apparsa sul Corriere della Sera del 1° giugno 2023, a firma di Ernesto Galli della Loggia, Don Milani capovolto, e quella pubblicata sul Il Sole 24 Ore dell’11 giugno 2023, a firma di Gabriele Pedullà, Don Milani al di là del conformismo.
È facile “capovolgere” don Milani, confrontando il suo messaggio con il modo in cui è stato recepito e attuato; confrontando cioè il suo ideale di uguaglianza e la sua idea di scuola come strumento per costruirla con il degrado e l’inadeguatezza della scuola pubblica italiana a svolgere questa funzione, a più di mezzo secolo dalla pubblicazione di Lettera a una professoressa. Ma questo paradosso non è la conseguenza di un difetto dell’idea fondamentale predicata dal Priore di Barbiana; è la conseguenza di una riforma della scuola gravemente carente sotto il profilo della formazione dei docenti e del monitoraggio dei risultati dell’insegnamento: difetti che non vedo come possano essere addebitati a quell’idea originaria. Si è pensato – come troppo spesso accade nel nostro Paese – che bastassero le norme sulla riforma scolastica pubblicate nella Gazzetta Ufficiale: il problema maggiore è invece l’organizzazione amministrativa e la strumentazione del nuovo colossale organismo cui la riforma intendeva dare vita. È stato gravemente sottovalutato il problema dell’implementazione. Il solo egualitarismo che si è attuato in concreto è quello che riguarda il trattamento degli insegnanti, indipendentemente dalla loro competenza, dal loro impegno personale, dalla loro diligenza, intesa nel senso originario del diligere, ovvero dell’amare il proprio lavoro e i suoi destinatari.
Sul tema della riforma della scuola, però, Scotto di Luzio muove a don Milani una contestazione radicale: per svolgere la propria funzione di equalizzazione delle dotazioni di partenza, la scuola pubblica, per sua stessa natura, deve trasmettere una cultura “altra” rispetto a quella originariamente propria dei figli del popolo. Negando questa funzione della scuola, pretendendo che la scuola coltivi solo la “cultura dei poveri”, cioè le risposte che il popolo dà ai problemi della vita quotidiana, la predicazione milaniana si contrapporrebbe radicalmente all’idea stessa che è alla base della scuola pubblica.
Questa critica coglie nel segno soltanto in riferimento ad alcuni passaggi, alcuni argomenti utilizzati in modo un po’ provocatorio in Lettera a una professoressa per evidenziare certe astrattezze dei contenuti dell’insegnamento impartito nella scuola pubblica. Ma non sta lì la parte essenziale né del messaggio contenuto nella Lettera, né del modello di scuola cui don Milani ha concretamente dato vita a Barbiana: una scuola, la sua, nella quale si imparava, sì a usare la pialla, la sega e il tornio, ma si studiavano – oltre all’italiano e alla matematica – anche l’astronomia, la musica classica, la pittura, le lingue straniere; si leggevano i giornali per confrontarne criticamente i contenuti; si consultavano i dizionari alla ricerca del significato di parole inusuali; si esercitava la curiosità in tutte le direzioni. Certo, era un insegnamento “classista”, nel senso che era fortemente ispirato dall’intendimento di tirar fuori gli appartenenti alla classe più povera dalla loro condizione di inferiorità, liberarli dalla timidezza rispetto alla classe privilegiata, dotarli degli strumenti necessari per emanciparsi. Prima fra tutti questi strumenti la padronanza del linguaggio. Ma non per questo il contenuto di ciò che si insegnava nella piccola aula della pieve di S. Andrea era meno universale. Se la cultura è la risposta di una società ai problemi della propria esistenza, quella che don Milani trasmetteva a Barbiana era “cultura” nel senso più pieno e universale del termine.
Sta di fatto che lui imputava alla cultura trasmessa nella scuola pubblica di essere concepita per escludere e non per rendere eguali. Scotto di Luzio sostiene che questa tesi di don Milani finisce col negare alla radice la funzione della scuola pubblica, cioè quella di trasmettere una cultura nazionale tendenzialmente universale.
Se riferita al nucleo essenziale della tesi sostenuta in Lettera a una professoressa, mi sembra che questa critica non tenga conto di che cosa era realmente la scuola media prima della riforma avviata nel 1963. Chiunque l’abbia frequentata, come è accaduto a me (e proprio negli anni immediatamente precedenti a quelli in cui è nato quel libro), sa quanto essa fosse ferocemente classista, fatta per selezionare e non per equalizzare le dotazioni di partenza degli allievi. La mia classe era composta da 31 ragazzi in prima media, dei quali solo 13 arrivarono alla fine della terza. Di “Gianni” bocciati dalle mie severissime professoresse di lettere e di matematica ne ho conosciuti personalmente 18 e ho ancora ben presenti i loro volti e le loro condizioni sociali: erano il figlio della portinaia di piazza Conciliazione, del ciabattino di via Marghera, della lattaia di via Pier Capponi e così via. Non solo le materie insegnate, ma anche il metodo dell’insegnamento pareva studiato in funzione della selezione: presupponeva che l’allievo avesse alle spalle una famiglia colta, genitori che lo aiutassero nei compiti, una casa dotata di libri e adatta allo studio pomeridiano. Per questo mi sembra davvero sbagliato sostenere, come fa Scotto di Luzio a conclusione del suo saggio, che – morto don Milani – della Scuola di Barbiana non sia rimasto nulla; la nostra scuola dell’obbligo è in gran parte figlia di quella esperienza, quanto meno nel suo intendimento fondamentale, cioè quello della costruzione della parità delle opportunità. Che poi questo intendimento sia stato e venga tuttora di fatto diffusamente tradito per il modo in cui la scuola media unificata effettivamente funziona, per come i suoi dirigenti e i suoi insegnanti interpretano la loro missione, questo davvero non può essere imputato a don Milani.
Dunque, non condividi la tesi conclusiva del saggio di Scotto di Luzio secondo cui, dopo la morte del maestro, della Scuola di Barbiana non è rimasto nulla e i suoi allievi si sono ridotti ad amministrarne la memoria, un perenne e nostalgico amarcord?
Non vorrei che il mio dissenso possa apparire come una svalutazione di questo saggio, che – lo ripeto – considero tra gli studi più acuti e stimolanti usciti su don Milani in questo anno del centenario della sua nascita, scritto da uno tra i maggiori conoscitori della sua vita e della sua opera. E tuttavia, proprio per il carattere radicale della critica che contiene, esso ci aiuta a liberare il discorso sul Priore di Barbiana dai toni agiografici che prevalgono in tanti altri scritti, a rivivere per intero le asprezze e le durezze della sua predicazione; e anche a metterne a fuoco i limiti e i difetti: lo stesso don Milani era ben consapevole del nesso che legava strettamente la sua predicazione al suo tempo. Però la tesi conclusiva di Scotto di Luzio secondo cui dell’esperienza della Scuola di Barbiana non sarebbe rimasto in piedi nulla e il messaggio di Lettera a una professoressa si sarebbe rivelato del tutto sterile mi sembra davvero non sostenibile. È vero che a quel messaggio non ha giovato la lettura prevalente che ne è stata data nel Sessantotto e poi nel corso degli anni Settanta: in altre parole, non gli ha giovato un certo “donmilanismo” che è venuto diffondendosi. Ma non mi sembra che si possa ragionevolmente negare il valore e la modernità della tesi fondamentale di don Milani: quella secondo cui la vera emancipazione dei poveri sta nell’apprendimento della lingua, nell’appropriarsi della cultura e dei suoi strumenti, più e prima che nell’appropriarsi dei mezzi di produzione. Non mi sembra che si possa ragionevolmente negare l’impatto dirompente che questo messaggio ha avuto sulla cultura dell’intera Europa: prova ne sia la citazione che ne ha fatto ultimamente la Presidente della Commissione UE Ursula Von der Leyen. Del resto, quel messaggio non riguarda soltanto la missione fondamentale della scuola dell’obbligo; esso ha anche un contenuto particolare riguardante gli insegnanti e il loro compito, che conserva per intero la sua attualità.
A che cosa ti riferisci?
Tutta la vita di don Lorenzo, prima ancora che i suoi scritti, è dedicata a porre in evidenza un carattere essenziale proprio del buon insegnamento: l’amore dell’insegnante per gli allievi, che deve essere almeno pari a quello di un genitore per il proprio figlio. Non è l’amore universale per il genere umano: il Priore di Barbiana chiarisce più volte di essere capace di un amore molto più “piccolo”, limitato ai suoi ragazzi; ma è quello che genera in essi la motivazione a impegnarsi, a superare la fatica, a fare tutto quanto è nelle loro possibilità per soddisfare le attese del maestro. Qui, sì, potrebbe apparire che il messaggio di Lettera a una professoressa sia incompatibile con le caratteristiche della scuola pubblica, la quale è per definizione un’istituzione laica, fondata su meccanismi amministrativi, non su precetti etici. E invece, sorprendentemente, proprio questo aspetto essenziale dell’esperienza della Scuola di Barbiana esprime alla perfezione quello che dovrebbe costituire il nucleo essenziale del compito dell’insegnante nella scuola pubblica.
Stiamo parlando dell’amore evangelico?
No, qualche cosa di più specifico e al tempo stesso più universale; qualche cosa che l’umanità ha conosciuto perfino prima dell’amore evangelico. Parlo dell’amore del genitore per i propri figli. Pochi sanno che già nel diritto romano antico la parola “diligenza”, usata per indicare l’atteggiamento che deve connotare il comportamento di chi adempie una obbligazione contrattuale – quale è anche l’obbligazione lavorativa ed è in particolare quella dell’insegnante – è parola derivata dal verbo diligere, che – come accennavo poc’anzi – significa “amare”; già il diritto romano antico stabiliva che l’adempimento dell’obbligo deve essere ispirato non a una “diligenza” generica, bensì a quella “del buon genitore” (bonus pater familias).Non per un comandamento evangelico, dunque, ma perché lo richiede molto laicamente l’ordinamento dei rapporti civili, ciò che deve animare l’insegnante nei confronti dei suoi allievi è un amore simile a quello che un genitore nutre per i propri figli; e non l’amore di un genitore qualsiasi, ma quello di un buon genitore.
Puoi spiegare meglio questo aspetto?
Per mettere a fuoco la distanza che separa di fatto ancora la scuola dell’obbligo realizzata nell’ultimo mezzo secolo nel nostro Paese dal modello della Scuola di Barbiana da cui come si è visto in qualche modo essa trae origine, basta confrontare la “diligenza” mediamente profusa dagli insegnanti nell’adempimento della loro missione con quella del Priore di Barbiana nell’insegnare ai suoi ragazzi. Sono molti, certo, gli insegnanti che nello svolgere il loro compito esprimono la “diligenza del buon genitore”; ma sono, ahimè, più numerosi gli avari, i pigri, gli sciatti, quelli che coi propri allievi, se va bene, stabiliscono un rapporto di tiepida amicizia ma senza alcun rilevante coinvolgimento emotivo; che non muovono un dito per compensare le disparità profonde tra le famiglie che i loro allievi hanno alle spalle. La scuola stessa, come istituzione, di questo non si mostra preoccupata, non reagisce; non corregge né avarizie, né pigrizie, né sciatterie, bensì accetta che esse appartengano alla propria normalità. Così tradendo la funzione essenziale che le assegna la Costituzione: quella di “rimuovere gli ostacoli” all’eguaglianza sostanziale dei cittadini, quella di costruire la parità delle dotazioni di partenza. In riferimento a questo tradimento ha un senso affermare che della Scuola di Barbiana è rimasto poco; ma solo per dire che, per questo aspetto fondamentale, quel modello è ancora lontano dall’essere realizzato nella maggior parte della scuola pubblica italiana.
Bisogna anche riconoscere il messaggio, fortemente simbolico (anche se, talvolta, politicamente abusato) della cultura solidale espressa dal motto I care, che campeggiava nell’aula di Barbiana: non a caso, come si legge anche nel libro di Lancisi, per Don Milani i luoghi sociali per eccellenza erano, oltre alla scuola, la politica e l’attività sindacale.
“Politica”, per don Milani, è il “venirne fuori insieme” invece che ciascuno per conto proprio. In questo stava il suo “comunismo” e al tempo stesso il nocciolo della sua scuola, del suo insegnamento, che aveva per oggetto essenzialmente il “venirne fuori insieme”, sempre prendendo per mano il più debole, non lasciando indietro nessuno.
Il messaggio di don Milani sulla scuola è rivolto più ai politici che la governano o più agli insegnanti che la fanno vivere giorno per giorno?
È rivolto agli uni e agli altri, a ciascuno per la sua diversa parte di responsabilità. Ma, quale che ne sia il destinatario, il fondamento del suo appello è sempre lo stesso, di natura etica, in difesa dei più poveri e diseredati. E l’indicazione è sempre nel senso di fare della scuola dell’obbligo uno strumento di parificazione delle dotazioni di partenza. Che non significa affatto un pareggiamento del livello dell’istruzione pubblica verso il basso: semmai l’inverso.
Sono, quindi, i presupposti di una scuola laica, che contraddicono le analisi e le valutazioni fatte da Ernesto Galli della Loggia, non solo nella recensione citata all’inizio, ma anche nel suo saggio più importante su questi temi, L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la scuola, Marsilio Editori, Venezia, 2019.
Nel periodo trascorso a Calenzano (quello delle Esperienze pastorali) don Milani guarda alla scuola democratica e popolare secondo il modello fatto proprio dall’ala sinistra della Democrazia Cristiana: è un dossettiano che crede fortemente nella forza trasformatrice del cristianesimo. Qui concordo con Scotto di Luzio e Galli della Loggia. La carica rivoluzionaria e la sua focalizzazione sul ruolo della scuola maturano nell’esilio di Barbiana; ma a questa carica rivoluzionaria – che certamente c’è nell’idea di scuola di don Milani – sarebbe sbagliato attribuire una valenza eversiva nei confronti dell’istituzione scolastica. La “distruzione della scuola” di cui parla Ernesto Galli della Loggia non la ha causata la Lettera a una professoressa, ma l’abdicazione da parte dello Stato alla propria funzione di garante del perseguimento dei propri obiettivi da parte del sistema scolastico.
Insomma, per dirla con le parole utilizzate da Riccardo Cesari (p. 337 e ss.), la scuola di Barbiana è stata «un granello di senape nel deserto». La Lettera a una professoressa fu accolta con grande entusiasmo e condivisione, ma anche con molte critiche, non solo negli ambienti cattolici; più di quanto fosse capitato per gli altri scritti (lo stesso Cesari, alle pp. 524 e ss., elenca un nutrito gruppo di detrattori di don Milani e della sua scuola, con dotte spiegazioni a confutazione dei loro severi giudizi critici). Una serie di critiche che sono continuate, nei tempi a seguire, dopo il ’68. Sono critiche che incidono sulla pedagogia, sull’educazione e il modo di fare scuola, o si tratta, piuttosto, di valutazioni e giudizi di carattere politico?
In questo campo tutto è (anche) politica. È politica la passione per l’emancipazione dei poveri che muove don Milani e che lui si propone di inculcare ai propri seguaci; è politica la lettura parzialmente distorta che del suo messaggio è stata dal movimento studentesco del ’68; è politica la critica di questa lettura parzialmente distorta, che finisce con l’estendersi – indebitamente, a mio avviso – al messaggio originario del Priore di Barbiana. Ed è “politica” anche qualsiasi soluzione del problema di come fare scuola, se si vuole realizzare l’obiettivo di farne il luogo e lo strumento principale di costruzione dell’uguaglianza e della libertà delle persone.
Non può essere rimproverato al don Milani del suo tempo quello che è diventato dopo il suo tempo: mito e simbolo della cultura dell’opposizione e della minoranza; una “presenza postuma”, come la definisce Scotto di Luzio, quella di un don Milani al quale si può far dire qualunque cosa, nell’ambito, però, di un dibattito al quale lui non ha potuto partecipare. Trovo, peraltro, davvero ingenerosa la critica di Scotto di Luzio per il fatto che don Milani (a suo dire citato molto ma letto poco) sia diventato mito dell’ufficialità. I riferimenti, impliciti, sono, di tutta evidenza, a quello che è successo dopo la sua morte: dal costante riferimento al suo modello di scuola nel corso degli anni, alla visita, e al discorso, di Papa Francesco sulla sua tomba nel piccolo cimitero di Barbiana il 20 giugno 2017 (non per caso, risale allo stesso giorno la visita, e il discorso, a Bozzolo, diocesi di Cremona, sulla tomba di don Primo Mazzolari) e alle numerose cerimonie per il centenario della nascita, che hanno visto, il 27 maggio 2023, la presenza a Barbiana, tra gli altri, del Presidente della Repubblica, dell’On. Rosy Bindi (nella sua qualità di Presidente del Comitato per il centenario), dei Cardinali Zuppi e Betori. Ufficialità della Repubblica Italiana, ma anche della Chiesa (dalla quale, comunque, don Milani non è mai uscito).
I profeti sono sempre molto scomodi per le istituzioni finché sono in vita, più facilmente inquadrabili nella cultura istituzionale quando non possono più parlare e della loro predicazione si può fare una citazione selettiva. Non è questo il caso del Papa, né del Presidente Mattarella, nei loro pellegrinaggi a Barbiana del 2017 e del 2023; ma nessuna delle due grandi istituzioni che essi rispettivamente rappresentano può dire di avere per davvero fatto proprio il messaggio cruciale contenuto in quella predicazione.
Tu hai conosciuto e frequentato di persona don Lorenzo Milani. Ci racconti come è accaduto?
Lui da ragazzo frequentò il liceo artistico di Brera, dove incontrò la cugina di mia madre Carla Sborgi, sua coetanea, e attraverso di lei mia madre, con la quale pure ci fu qualche frequentazione fino a quando, dopo lo scoppio della guerra, la famiglia di lei – ebrea – dovette nascondersi in montagna per sfuggire alla deportazione e lui entrò in seminario per farsi sacerdote. In quegli anni Lorenzo si era legato sentimentalmente a Carla, ma forse era stata lei a legarsi di più a lui. Fatto sta che fra di loro rimase una forte amicizia; e sul letto di morte lui la presentò agli allievi che aveva intorno dicendo “Questa è la sola persona a cui ho fatto del male”. Perché lei aveva sofferto molto della sua decisione di entrare in seminario. Quando, nel 1958, era uscito il primo libro di don Lorenzo, Esperienze pastorali, lui ne aveva inviato a lei una copia, che lei aveva prestato a mia madre. I miei genitori, attivi nel mondo cattolico progressista milanese, lessero il libro con entusiasmo e ne acquistarono 250 copie per distribuirle nei gruppi del Gallo, di Adesso e di Rinascita Cristiana, dei quali facevano parte, e nell’ambito dell’associazione Corsia dei Servi (dove qualche anno prima era approdato padre David Maria Turoldo, anche lui esiliato da Firenze su indicazione del Cardinale Alfredo Ottaviani).
Un gesto assai significativo, se si considera la disapprovazione del libro da parte della Chiesa “ufficiale”, condivisa financo da una parte della cultura liberale. Cito, fra tutti, l’articolo L’apocalisse di don Milani, pubblicato sul Corriere della Sera del 28 dicembre 1958 da Indro Montanelli (che molti anni dopo si ricrederà, chiedendosi cosa aspettasse la Chiesa a farlo santo).
Considero quella recensione, nella quale le Esperienze pastorali venivano liquidate come “baggianate, che non vale nemmeno la pena di confutare”, come l’espressione del peggiore giornalismo di Indro Montanelli: superficiale, arroccato in difesa di un quieto vivere borghese metropolitano contro qualsiasi tentativo delle “periferie” di farsi sentire, che non bastano i “dubbi” finali a riscattare. Ma torniamo alla vicenda della “diffusione militante” di quel libro da parte dei miei genitori: l’editore informò l’autore dell’acquisto di molte copie da parte di una lettrice milanese e così, quindici anni dopo la traumatica interruzione della sua relazione affettiva con Carla, mia madre e don Lorenzo tornarono a parlarsi per telefono.
E non solo per telefono, come ho letto.
Lui raccontò del suo esilio a Barbiana a mia madre, che gli chiese che cosa potesse fare per dargli una mano. Don Lorenzo chiese l’invio di libri per la sua scuola; e poco dopo chiese ospitalità per portare i suoi primi sei allievi a visitare Milano. Detto fatto, nell’aprile del 1959 le mie sorelle vennero spedite a dormire dai nonni, a casa nostra venne steso qualche materasso aggiuntivo per terra e una sera don Lorenzo arrivò da Barbiana con Aldo Bozzolini, Agostino Burberi, Giancarlo Carotti, Michele Gesualdi, Silvano Salimbeni e Giancarlo Tagliaferri. Nella settimana che passarono a Milano io venni esentato dalla scuola e mi aggregai a loro nella visita della città e di due delle sue fabbriche, la Pirelli e la Siemens. In seguito, noi andammo a Barbiana più volte e qualche volta anche lui venne a Milano ospite da noi.
La gita a Milano è descritta molto bene da Cesari (pp. 338 e ss.), che riferisce, in un altro passo del suo libro (p. 345) i sentimenti di gratitudine di don Lorenzo per Elena Pirelli Brambilla e i tuoi genitori, per aver aiutato i suoi ragazzi e averli amati «con affetto silenzioso e ritirato».
Sì; ma le sue lettere non esprimevano soltanto questa gratitudine, che pure c’era ed era viva: lui non lesinava mai, neanche nelle occasioni di un ringraziamento per l’ospitalità o il sostegno ricevuto, il sale e il pepe della sua critica nei confronti del nostro “vivere borghese”. Ed era ben consapevole della irritualità di questo coniugare il “grazie” con un “non credete però, con questo, di esservi sdebitati compiutamente”; e si giustificava aggiungendo: “se tacessi perché vi sono grato non vi farei un buon servizio!”.
Il rapporto con i tuoi genitori è legato solo a questi episodi?
No: tra lui e loro si instaurò una corrispondenza abbastanza frequente: per questioni pratiche relative al funzionamento della scuola e ai viaggi dei ragazzi, che lui ha sempre promosso con grande impegno, considerandoli essenziali per la loro formazione; ma anche per qualche grana legale in cui incorrevano i genitori dei ragazzi o altri parrocchiani, per la quale lui chiedeva aiuto a mio padre; e per i guai giudiziari che seguirono alla pubblicazione della sua Lettera aperta ai cappellani militari. Quella, come la Lettera ai giudici sullo stesso tema, noi le leggemmo in anteprima, battute a macchina su fogli di carta velina che lui aveva inviato ai miei genitori per sentirne il parere.
Un manifesto contro la guerra e a favore dell’obiezione di coscienza, che qualche anno dopo diventerà legge dello Stato.
Pensare che una persona ha potuto essere incriminata per aver scritto quello che don Lorenzo scrisse in quella Lettera aperta dà la misura dell’arretratezza politico-culturale in cui versava il nostro Paese negli anni ’60. Gli odierni critici della sua predicazione e del suo operato sembrano non rendersene conto.
Nella scuola di Barbiana eri Pierino, il primo della classe che non ha problemi a scuola; ma il Priore trepidava per Gianni, che veniva immancabilmente bocciato. Per gli studenti di buona famiglia borghese, colta e ricca, vale il punto di arrivo; per quelli poveri, di famiglie contadine e operaie, è sufficiente l’impegno messo per superare il punto di partenza per non essere bocciati. È una semplificazione che troviamo nell’analisi di Scotto di Luzio. È così?
Scotto di Luzio rimprovera al Priore di Barbiana di trepidare, sì, per tutti i Gianni della terra, ma di non avere ottenuto e lasciato loro in eredità niente di concreto che in qualche modo possa migliorare la loro condizione. A me sembra, invece, che quanto don Milani ha fatto e ha scritto abbia contribuito in modo decisivo al superamento del modello di scuola media dominante in Italia ancora alla metà degli anni ’60; che poi il modello costruito in sua sostituzione sia ancora molto difettoso è verissimo, ma non riesco a vedere come i suoi difetti possano essere imputati alle idee di don Milani.
Nel suo libro (p. 16) Lancisi, per meglio far capire il pensiero di don Milani sulla scuola, riporta quanto lui stesso ti disse in una delle vostre frequentazioni: «Scrivi bene, ma usi troppi aggettivi; gli aggettivi sono come il belletto che usano le donne per sembrare più belle; se vieni a Barbiana ti insegno a scrivere acqua e sapone, andando al cuore delle cose, senza belletto». È questo il significato della «scuola» di Barbiana? È questa la lezione di don Milani?
No: questo è soltanto un piccolo dettaglio di quanto lui insegnava. È, però, significativo della differenza tra l’italiano che mi veniva insegnato a scuola e quello che intendeva lui: il primo, una lingua strutturata per costruire belle strutture di parole con cui fare bella figura, mostrando la propria padronanza del lessico in tutta la sua ricchezza; il secondo, una lingua funzionale a comunicare in modo incisivo cose duramente concrete e utili per vivere meglio. Nel primo la ricerca della bellezza della scrittura, nel secondo la ricerca della risposta ai problemi che la vita pone quotidianamente.
Chi legge il tuo libro La casa nella pineta. Storia di una famiglia borghese del Novecento (Giunti Editore, Firenze, 2018) ha la chiara percezione che ci fosse un’affinità di fondo tra la tua famiglia e quella di don Lorenzo Milani. È così?
Certo, di affinità ce n’erano diverse: entrambe famiglie borghesi e benestanti; entrambe molto attente alla questione sociale; entrambe di origine ebraica; mia madre e suo fratello, come lui, battezzati in età adulta. Ma l’affinità che ha più colpito me e le mie sorelle è quella tra un atteggiamento di don Lorenzo subito dopo l’esilio a Barbiana e un insegnamento che la nostra nonna, Paola Pontecorvo, ci ha sempre ripetuto quando ci siamo trovati di fronte a sconfitte, incidenti di percorso, eventi sfortunati: “non puoi sapere se quel che ti accade è per il tuo bene o per il tuo male; anche perché se sarà per te fonte di bene o di male dipende per la maggior parte da te”. Quando venne spedito dall’arcivescovo di Firenze nel “non luogo” di Barbiana, don Milani rifiutò di considerare quell’assegnazione come una pena da scontare nel più breve tempo possibile, per poi voltar pagina: decise invece che lì avrebbe trascorso la parte più importante e più significativa della sua vita; e per porre un sigillo su questa decisione si affrettò ad acquistare dal Comune di Vicchio lo spazio di una tomba nel minuscolo cimitero situato subito sotto la pieve di S. Andrea. Poi fu capace di compiere il miracolo, trasformando il “non luogo” della sua punizione nel luogo di un’esperienza straordinaria, che sarebbe stata conosciuta in tutta Europa e anche oltre oceano. Per noi ragazzini questa sua scelta e il miracolo che ne è seguito era la più straordinaria conferma dell’insegnamento della nonna Paola: “se sarà per il tuo bene o per il tuo male dipende per la maggior parte da te”.
Nel 1959 avevi dieci anni. Quando don Milani è morto ne avevi diciotto. Quanto ha inciso l’averlo conosciuto e frequentato sulle scelte della tua famiglia? E quanto, in particolare, su quelle che tu hai compiuto al termine della tua adolescenza?
Sulle scelte compiute dai miei genitori, da mia madre soprattutto, incise davvero molto e profondamente: subito dopo l’istituzione dell’“adozione speciale”, che avrebbe dovuto svuotare gli orfanotrofi, lei si dedicò anima e corpo, con un gruppo di altre volontarie, al lavoro presso il Tribunale dei Minorenni perché il dettato legislativo venisse attuato effettivamente e alla diffusione dello stesso modello organizzativo presso altri Tribunali in tutta Italia; e in quel lavoro rientrava anche assai spesso il prendersi in casa i bambini che tardavano a essere scelti dalle famiglie adottive o affidatarie. Quanto a mio padre, la svolta nella sua vita in risposta alla predicazione di don Milani fu meno evidente; ma nel libro che hai citato mi sono proposto di mostrare come, per certi aspetti, quella predicazione abbia influito sulle sue scelte di vita non meno incisivamente che su quelle di mia madre.
E sulle scelte tue?
La mia adolescenza è stata segnata profondamente dall’avvertimento che don Lorenzo mi rivolse quando avevo 12 anni, riferendosi alla casa e agli agi in cui vivevo e soprattutto all’abbondanza di libri, di istruzione e di cultura di cui beneficiavo: «Per ora tutto questo non è peccato; ma da quando compirai 21 anni [allora era questa l’età della maturità], se non restituisci tutto diventa peccato»; ed è stata dedicata in gran parte a rimuginare su come adempiere questo comandamento, che lui stesso concretizzava nell’alternativa: «o fai l’insegnante, o il sindacalista». Finii con lo scegliere di fare il sindacalista e a vent’anni andai a lavorare alla Fiom-Cgil, rinunciando a entrare nello studio legale di cui i miei nonni materni e i miei genitori erano titolari. Ma uno dei temi de La casa nella pineta è quello del privilegio dal quale neppure con quella scelta sono riuscito a liberarmi: anche in seno al sindacato io ero il “bun de pena” (buono con la penna), quello che sapeva leggere, scrivere, parlare con i giudici e gli avvocati. Quello che organizzava il corso di diritto del lavoro per i delegati. Di questo privilegio non mi sono mai liberato; e lungo tutto l’arco della vita adulta ogni rinuncia compiuta in funzione del lavoro nel sindacato in quel primo decennio mi è tornata a credito raddoppiata.
Nel 1959 don Milani scrisse a tuo padre una lunga lettera che prendeva spunto dal licenziamento di un operaio della Pirelli per sostenere che il licenziamento doveva essere vietato perché è come una pena di morte; e la pena di morte non si deve infliggere neanche agli assassini. Sembra che l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori abbia costituito la risposta positiva del legislatore all’invettiva di don Milani contro la libertà di recesso del datore di lavoro. Come si concilia questo suo insegnamento con le tesi che tu hai incominciato a sostenere già negli anni ’80 e hai poi sviluppato compiutamente nei due decenni successivi, circa la necessità di superare l’articolo 18 nell’ordinamento italiano?
La risposta a questa domanda si trova nel testo stesso di quella lettera, nella quale don Milani condanna l’istituto del licenziamento: «Un atto feudale. […] Nessun motivo può intaccare i principî che un licenziamento viola. È un processo senza le garanzie che il diritto romano aveva, credo, introdotte già nel periodo repubblicano cioè prima di Cristo (te lo saprai preciso). Ma ora son passati venti secoli e il nostro senso della fraternità evangelica è stato raffinato da Dio in mille maniere. […] Per cui oggi p. es. la pena di morte che san Tommaso giustificava non trova più diritto di cittadinanza né nel nostro cuore né nel nostro cervello. E neanche un’infinità d’altri concetti antichi non valgono più o stanno disgregandosi ai nostri occhi cui Dio paternamente va allargando giorno l’orizzonte. Licenziamento è uno di questi concetti che appartenevano al mondo feudale e derivavano dall’art. 3 del codice di diritto penale della giungla».
Quello di don Milani era il rifiuto dell’assoggettamento della persona che lavora a una forma di arbitrio signorile. E il discorso si collocava in un contesto nel quale la persona licenziata aveva diritto a un’indennità di disoccupazione di entità e durata minime, con una prospettiva di durata lunga della disoccupazione. L’articolo 18 ha avuto il significato di un voltar pagina rispetto a quella situazione, all’indomani dell’autunno caldo del ’69. Ma resto convinto che non fosse quello il modo giusto di voltar pagina; e che quel modo non sarebbe piaciuto neanche a don Milani. Perché il regime di job property che da quella norma è sostanzialmente derivato nel settore privato non era suscettibile di essere esteso a tutti i lavoratori dipendenti: di fatto si è applicato soltanto a una metà di essi, scaricando tutto il peso della flessibilità di cui il tessuto produttivo aveva bisogno sull’altra metà; don Milani non avrebbe mai approvato una norma che opera necessariamente solo a favore di una parte dei lavoratori, gli insider, escludendone un’altra parte, gli outsider. Poi perché l’ingessatura dello stesso tessuto produttivo che ne derivava non faceva bene né alle imprese né ai loro dipendenti.
Oggi si parla molto di «merito», con enfasi valorizzato in ogni occasione (strumentalmente, a mio avviso), tanto da comparire anche nella denominazione dell’attuale Ministero dell’Istruzione, che, non per caso, è stata privata dell’aggettivo “pubblica”. Qual è la tua opinione in proposito?
A questo proposito, però, ricordo che don Milani ha detto: “Cari insegnanti io vi pagherei a cottimo, anzi no! Multa per ogni ragazzo che non impara una materia. Così vi svegliereste la notte a pensare al metodo migliore per insegnare anche ai ragazzi difficili, e se uno di loro non torna a scuola andreste a casa a cercarlo”. Per questo motivo non capisco la levata di scudi dell’opposizione di sinistra contro la rivalutazione del merito nella scuola, nella quale mi è parso di vedere più una reazione faziosa che la difesa di un principio “di sinistra”. È merito degli insegnanti insegnare bene, con passione e amore per i propri allievi; una scuola degna di questo nome non può essere indifferente al merito dei propri insegnanti, non può, per questo aspetto, fare… parti eguali tra diseguali senza tradire la propria missione e infliggere perdite irreparabili ai propri utenti più deboli, ai diseredati dei quali dovrebbe ricostituire l’eredità. È merito degli allievi impegnarsi al massimo delle loro possibilità nello studio, consapevoli di ciò che questo significherà per il loro futuro; una scuola degna di questo nome non può essere indifferente all’impegno dei propri allievi senza venire meno al proprio compito educativo e trasmettere loro un messaggio di disimpegno, sciatteria, disponibilità allo spreco (esattamente il messaggio che troppi insegnanti, ahimè, trasmettono con il loro comportamento quotidiano nella nostra scuola). Per questo motivo, francamente, non ho nulla contro l’inserimento della parola “merito” nel nome del dicastero competente; inserimento che, nella scuola dell’obbligo, non può significare certo una rivalutazione dell’istituto della bocciatura come strumento di selezione. Di selezione, sia pure indirettamente, parla invece l’articolo 34 della Costituzione quando fa riferimento a “capacità e merito” come criteri per l’attribuzione del diritto della persona ad accedere ai gradi più alti dell’istruzione: ma qui si parla, appunto, dell’istruzione superiore, per la quale anche don Milani riconosceva che potesse applicarsi qualche criterio selettivo.
Sei ancora in contatto con i ragazzi di Barbiana con i quali ti incontrasti all’età di dieci anni?
Soprattutto con due di loro: Agostino Burberi e Aldo Bozzolini. Collaboro con loro e con la Fondazione don Lorenzo Milani, cui hanno dato vita. Michele Gesualdi, che ne è stato presidente per molti anni, è morto alcuni anni fa. Ora è sorta la controversia di cui ho fatto cenno sopra, tra la Fondazione e le eredi – moglie e figlia – di Michele, in merito alla titolarità di una parte rilevante dell’archivio. La speranza è che a Barbiana prevalga il buon senso, il rispetto della memoria del Priore, il senso della responsabilità comune di tutti per la conservazione di questo patrimonio culturale per le generazioni future e la diffusione della sua conoscenza.
Nell’introdurre la sua Lettera ai Giudici, il Priore di Barbiana descrive la sua scuola con queste parole: «La mia è una parrocchia di montagna. Quando ci arrivai c'era solo una scuola elementare. Cinque classi in un'aula sola. I ragazzi uscivano dalla quinta semianalfabeti e andavano a lavorare. Timidi e disprezzati. Decisi allora che avrei speso la mia vita di parroco per la loro elevazione civile e non solo religiosa. Così da undici anni in qua, la più gran parte del mio ministero consiste in una scuola. Quelli che stanno in città usano meravigliarsi del suo orario. Dodici ore al giorno, 365 giorni l'anno. Prima che arrivassi io i ragazzi facevano lo stesso orario (e in più tanta fatica) per procurare lana e cacio a quelli che stanno in città. Nessuno aveva da ridire. Ora che quell'orario glielo faccio fare a scuola dicono che li sacrifico. La questione appartiene a questo processo solo perché vi sarebbe difficile capire il mio modo di argomentare se non sapeste che i ragazzi vivono praticamente con me. Riceviamo le visite insieme. Leggiamo insieme: i libri, il giornale, la posta. Scriviamo insieme».
Don Lorenzo Milani. Sacerdote e maestro. Un testimone del suo tempo, che interpella, anche ora, ciascuno di noi.
[1] I tre libri di Don Lorenzo Milani sono stati pubblicati (e continuano ad essere pubblicati) da una piccola casa editrice di Firenze, la LEF-Libreria Editrice Fiorentina dei fratelli Vittorio e Valerio Zani.
A cinquant’anni dalla morte, tutte le opere sono state pubblicate nell’Edizione nazionale diretta da Alberto Melloni, a cura di Federico Ruozzi e di Anna Carfora, Valentina Oldano, Segio Tanzarella, Mondadori, Milano, 2017, in due tomi della prestigiosa collana I Meridiani. Classici dello Spirito.
Nell’infinito dibattito sulla compatibilità della gestazione per altri con il nostro ordinamento è forse giunto il momento di porre un punto fermo. La maternità surrogata, sanzionata penalmente dall’art. 12, comma 6, della legge n. 40, è una pratica che offende, in ogni sua conformazione, la dignità della madre e quella del bambino: della prima, in quanto ridotta a mero contenitore di una vita destinata per contratto ad altri e soggetta ad un controllo proprietario che investe la salute, il vitto, al fumo, lo stile di vita, le frequentazioni, del secondo in quanto reso oggetto di scambio fin dal momento del suo concepimento, gestito alla stregua di un bene cedibile o donabile, mero strumento per soddisfare il desiderio di genitorialità degli adulti, deprivato alla nascita dei suoi dati anagrafici, nonché del diritto fondamentale di conoscere da adulto la propria identità biologica[1].
Come è noto, la Costituzione e le Carte dei diritti attribuiscono al concetto di dignità un contenuto ampio, nel quale coesistono una dimensione soggettiva, ancorata alla sensibilità, alle esperienze ed alla percezione dei singoli individui, ed una oggettiva, che attiene al valore originario e non comprimibile di ciascuna persona; la dignità ferita dalla maternità surrogata chiama in gioco la sua dimensione “oggettiva”, identificata con la dignità innata, che appartiene al patrimonio irrinunciabile di ciascuno e non può essere oggetto di scelte di volontaria rinuncia, perché ogni ferita di quella dignità è una ferita a tutto il genere umano. Nella visione di Kant la dignità di ogni persona, elemento coessenziale al suo status, esprime la dignità dell’intera umanità; ogni essere umano è diverso dagli altri, ma tutti sono eguali in dignità. Soccorre al riguardo l’ esempio del “lancio dei nani”, sparati da un cannone in una gara che vede vincente quello lanciato più lontano, in uno spettacolo praticato in passato nelle discoteche d’ oltralpe, ritenuto dal Consiglio di Stato francese lesivo della dignità umana quale valore innato da riconoscere a quelle persone, utilizzate proprio in quanto portatrici di un handicap che facilitava il loro impiego nel gioco, nonché l’episodio più recente della giovane donna coperta di cioccolato ed esposta in un buffet pieno di dolciumi per il diletto degli ospiti di un hotel della Sardegna.
La lesione del valore supremo della dignità comporta che la trascrizione automatica dell’atto di nascita del bambino nato all’estero da tale pratica illecita, che finirebbe per legittimare in modo indiretto detta pratica, non sia consentita per il suo irriducibile contrasto con l’ ordine pubblico internazionale.
Lo hanno affermato a chiare lettere le Sezioni Unite della Cassazione con le note sentenze n.12193 del 2019 e n. 38162 del 2022, lo ha ribadito la Corte Costituzionale nelle pronunce n. 272 del 2017 e n. 33 del 2021. E’ peraltro evidente che il rilievo giuridico che si pretenderebbe di attribuire con la trascrizione automatica al progetto genitoriale dei committenti implicherebbe necessariamente l’assorbimento dell’ interesse del figlio con quello degli aspiranti genitori.
Tali conclusioni vanno infine assunte come principi definitivamente acquisiti nel nostro ordinamento: lo richiede l’esigenza di certezza del diritto e di stabilità e prevedibilità delle decisioni, lo impone l’urgenza di porre un argine a quella molteplicità di iniziative scoordinate che vanno dalla emissione di circolari ministeriali rivolte ai sindaci, tramite i prefetti, perché non trascrivano certificati di nascita emessi all’estero, alle proposte di “sanatoria” per i bimbi già nati, alle iniziative di alcuni p.m. dirette ad impugnare il riconoscimento di certificati relativi a due madri, in un quadro di notevole incertezza della giurisprudenza di merito.
Il Parlamento ha scelto di rafforzare la configurazione della surrogazione quale fattispecie criminosa introducendo - al momento soltanto con voto della Camera, lo scorso 26 luglio - una sorta di reato universale[2], attraverso l’aggiunta al comma 6 dell’ art. 12 della legge n. 40 del 2004 del seguente periodo: le pene stabilite dal presente comma si applicano anche se il fatto è commesso all’estero. Tra le varie proposte di legge presentate alle Camere fin dalla scorsa legislatura la scelta di voto è dunque caduta su quella, di contenuto assai stringato e di semplice articolazione, che non ha altro oggetto che l’ estensione della punibilità alle condotte di surrogazione dei cittadini all’ estero.
Non si è intervenuti quindi né sulla struttura della fattispecie né sul trattamento sanzionatorio, il quale in ragione della sua non elevata entità sembra diretto a porsi come strumento repressivo dell’esercizio organizzato della pratica in discorso piuttosto che come misura di dissuasione dei committenti nella loro aspirazione alla genitorialità[3].
La scelta operata dal Parlamento, che nella sua nettezza solleva questioni complesse sul piano del diritto penale internazionale, appare del tutto impropria, di chiara ispirazione propagandistica e di evidente matrice identitaria, nonché priva di ogni utilità sul piano concreto.
In primo luogo va considerato che secondo la norma generale di cui all’ art. 6, comma 2, c.p. il reato si considera commesso nel territorio dello Stato quando l’azione o l’omissione che lo costituisce è ivi avvenuta in tutto o in parte, ovvero si è ivi verificato l’evento che è la conseguenza dell’azione od omissione: in ragione dell’ampio collegamento con la giurisdizione italiana così accolto resta integra la punibilità secondo il nostro ordinamento, oltre che nel caso di nascita del bambino in Italia, in tutti i casi in cui l’ accordo di surrogazione sia stato concluso in territorio italiano o comunque sia stata posta in essere in Italia qualsiasi condotta (ad esempio il pagamento del corrispettivo pattuito) eziologamente collegata all’evento della nascita.
Va altresì ricordato che ai sensi dell’art. 9, comma 2, c.p. qualsiasi delitto comune punito con pena inferiore nel minimo a tre anni, e quindi anche la gestazione per altri, è già punibile se commesso da cittadini italiani all’estero, a richiesta del Ministro della Giustizia, ovvero a istanza o a querela della persona offesa.
L’ art. 7 c.p. ha inoltre attribuito il crisma della universalità ad alcuni specifici reati che esigono la punizione del colpevole, cittadino o straniero, in qualsiasi luogo siano stati commessi in considerazione della loro capacità lesiva di interessi fondamentali dello Stato o perché l’applicabilità incondizionata della legge penale italiana è prevista da leggi speciali o da convenzioni internazionali: si tratta di fattispecie criminose importanti, per nulla assimilabili alla gestazione per altri, sanzionata in modo molto meno grave rispetto a quelli per i quali è prevista la punibilità da parte dello Stato italiano.
Va inoltre considerato che la conclamata volontà di configurare la gestazione per altri come reato “universale”, in deroga al principio generale della “ territorialità”- che delimita la sfera di efficacia della legge penale nel territorio dello Stato - confligge con il dato di fatto che detta pratica nel panorama internazionale è disciplinata in modo assai diversificato, essendo consentita in alcuni Stati solo per fini altruistici, in altri anche per fini commerciali, in altri ancora essendo sanzionata in qualunque sua forma: non sussiste pertanto in relazione a tale fattispecie il carattere di universalità.
Del tutto estraneo alla previsione in esame è infine l’ art. 8 c.p., secondo il quale è punito secondo la legge italiana il cittadino o lo straniero che commette in territorio estero un delitto politico non compreso tra quelli indicati nel n. 1 dell’art. 7.
È altresì da osservare che secondo la dottrina maggioritaria e parte della giurisprudenza il citato art. 9 c.p. consente di punire all’estero un reato comune commesso da cittadini solo dove sussista la doppia incriminazione, configurato tale elemento come regola dei rapporti di cooperazione internazionale tra i vari Paesi. Il Parlamento sembra aver voluto prescindere da tale requisito, non ponendosi il problema della implausibilità di una fattiva collaborazione dello Stato estero per l’accertamento di un fatto considerato lecito nel suo territorio.
La sollecitudine nell’introdurre una modifica siffatta all’art. 12, comma 6, della legge n. 40, che appare giustificata soltanto dalla finalità di rafforzare lo stigma dell’illiceità penale della gestazione per altri e di escogitare uno strumento volto a disincentivarne l’utilizzo, scoraggiando il turismo procreativo, appare altresì del tutto disallineata rispetto alle sollecitazioni rivolte al legislatore dalla Corte Costituzionale a trovare in tempi rapidi uno strumento di definizione dello status dei minori.
Dietro la scelta del Parlamento si legge il rifiuto di apprestare soluzioni normative ai problemi nuovi scaturiti dall’utilizzo delle nuove tecniche riproduttive, seguendo una linea politica tesa soltanto alla individuazione del nemico comune da sconfiggere. Una scelta siffatta non solo esprime l’ indifferenza del legislatore rispetto al dovere di rispondere ad una esigenza sociale che ha a che fare con i diritti fondamentali delle persone, ma segna una grave frattura tra le istituzioni, per il mancato rispetto delle decisioni della Corte costituzionale, che è organo di garanzia dei diritti, e per l’incapacità della classe politica di assumere la responsabilità di completare il sistema di tutele del quale detta Corte ha segnalato le carenze.
Occorre invece separare la valutazione della fattispecie illecita dalle sue ricadute sul rapporto di filiazione.[4]
Eppure quei bambini sono nati, esistono ed hanno il diritto di avere uno status, quello status del quale l’art. 315 c.c. ha sancito inequivocabilmente l’unicità. Come ha ricordato Silvana Sciarra al recente meeting di Rimini, la politica deve porsi con sollecitudine il problema di quei nati, che cercano identità all’ interno di un contesto familiare di affetti e di cura che consenta loro una crescita dignitosa e felice, e non può continuare ad eluderlo inseguendo i fantasmi di un facile populismo, deprivando quei bambini del diritto alla continuità del rapporto con entrambi i soggetti che hanno condiviso la decisione di farli venire al mondo e costringendoli in una sorta di limbo, penalizzandoli per il modo in cui sono nati.
Non sembra inutile al riguardo ricordare[5] che il 14 marzo 2023 la Commissione politiche europee del Senato ha approvato una risoluzione che, svolgendo rilievi critici alla proposta di Regolamento europeo in tema di filiazione e certificato europeo di filiazione, dopo aver ampiamente richiamato la recente sentenza delle Sezioni Unite ha affermato che appare … condizione essenziale che la proposta preveda esplicitamente la possibilità di invocare la clausola dell’ordine pubblico in via generale su tutti i casi di filiazione per maternità surrogata, a condizione di assicurare una tutela alternativa ed equivalente, quale quella del citato istituto dell’adozione in casi particolari, e che ciò valga esplicitamente anche con riguardo al certificato europeo di filiazione.
È allora necessario riprendere il percorso tracciato dalla Corte Costituzionale ed apprestare un sistema che garantisca ai minori uno status. La richiamata pronuncia n. 33 del 2021 della Consulta ha a chiare lettere affermato che l’ istituto dell’adozione in casi particolari - unico strumento reperibile nell’ordinamento vigente a tutela del bambino nei confronti del genitore di intenzione - costituisce un rimedio non appagante in ragione dei suoi limiti, in quanto non ingenera un rapporto di parentela tra l’adottato e la famiglia dell’adottante (ma tale limite può considerarsi venuto meno per effetto della sentenza della stessa Corte costituzionale n. 79 del 2022), presuppone inoltre l’ iniziativa dell’aspirante adottante e richiede l’assenso del genitore biologico, ed ha affermato, in linea con le indicazioni fornite dalla Corte EDU, che l’ interesse del minore deve essere tutelato senza automatismi, attraverso un procedimento di adozione effettivo e celere, che riconosca la pienezza del legame di filiazione tra adottante e adottato, allorché ne sia stata accertata in concreto la corrispondenza agli interessi del bambino.
Occorre pertanto coltivare l’ opzione per lo strumento dell’adozione, eliminando le criticità che denotano l’inadeguatezza di quella “in casi particolari”, e pensare ad un nuovo modello, simile a quello dell’adozione legittimante, ma che si configuri sotto alcuni profili “speciale” - in quanto diretto a regolare situazioni del tutto diverse da quelle postulate dall’adozione ordinaria - che possa coniugare l’ esigenza di mantenere fermo il divieto della maternità surrogata con l’ attribuzione ai figli nati da tale pratica di una tutela piena.
Penso insomma ad un modello di adozione affettiva a presidio di una genitorialità non di sangue che forse definire “di intenzione” può essere riduttivo e fuorviante, atteso che non è la mera intenzione che può rilevare, ma la condivisione piena e definitiva di un progetto genitoriale che comporti responsabilità ed impegni di cura. La procedura dovrebbe essere estremamente semplificata, improntata ad una tempistica rapida, diretta a garantire quanto prima al nato lo stato di figlio della coppia, previa valutazione da parte del giudice della rispondenza dell’adozione al superiore interesse del minore, e quindi con esclusione di ogni automatismo.
Tale soluzione appare pienamente coerente con gli insegnamenti della Corte di Strasburgo, che con la recente sentenza Giuliano Germano c/ Italia del 22 giugno 2023 (appl.n.10794/12) ha giudicato inammissibili le istanze di varie coppie omosessuali ed eterosessuali che chiedevano la condanna dell’Italia perché non permette di trascrivere gli atti di nascita emessi all’ estero osservando che il rifiuto della trascrizione automatica come genitore del partner di una persona che ha avuto un figlio con la surrogata non viola i diritti fondamentali, essendo possibile ricorrere all’ adozione, e che quindi l’ Italia non ha superato l’ ampio margine di valutazione di cui dispone nel reperimento dei mezzi che permettono di stabilire o riconoscere la filiazione. Per tale via la Corte EDU ha ancora una volta individuato nell’adozione un valido strumento per il riconoscimento della doppia genitorialità, secondo un approccio chiaramente incompatibile con quello diretto a configurare la gestazione per altri come reato universale.
Un’ utile indicazione ai fini della soluzione dei problemi in esame può essere fornita da quell’orientamento della giurisprudenza di legittimità, ribadito di recente da Cass. 2023 n. 23527, che ha negato la possibilità di trascrizione nel nostro ordinamento dell’ atto di nascita del figlio nato da due madri affermando il seguente principio di diritto: «In caso di concepimento all'estero mediante l'impiego di tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, voluto da coppia omoaffettiva femminile, la domanda volta ad ottenere la formazione di un atto di nascita recante quale genitore del bambino, nato in Italia, anche il c.d. genitore intenzionale, non può trovare accoglimento, poiché il legislatore ha inteso limitare l'accesso a tali tecniche alle situazioni di infertilità patologica, fra le quali non rientra quella della coppia dello stesso genere; non può inoltre ritenersi che l'indicazione della doppia genitorialità sia necessaria a garantire al minore la migliore tutela possibile, atteso che, in tali casi, l'adozione in casi particolari si presta a realizzare appieno il preminente interesse del minore alla creazione di legami parentali con la famiglia del genitore adottivo, senza che siano esclusi quelli con la famiglia del genitore biologico, alla luce di quanto stabilito dalla sentenza della Corte cost. n. 79 del 2022 (Cass. n. 22179/2022; conf. prec. Cass. nn. 7668 /2020, n. 6383/2022, n. 7413/2022)>>.
Con tale ordinanza la Cassazione, equiparando espressamente la fattispecie della pretesa genitorialità di due madri a quella di due padri, ha evitato ogni difformità di disciplina tra le due ipotesi, entrambe frutto di violazioni della legge n. 40, sebbene sanzionate in modo diverso. Tale soluzione comporta il superamento della distinzione tra doppia paternità e doppia maternità, che finisce con il creare una discriminazione tra i figli in dipendenza delle modalità della procreazione e che appare incompatibile con il principio della unicità dello status: se è vero infatti che la trascrizione automatica per il caso di doppia maternità non si pone in contrasto con l’ ordine pubblico e si fonda su una violazione della legge n. 40 di minore gravità, è altrettanto vero che quella diversificazione delinea una inaccettabile contaminazione del profilo della sanzione con quello della tutela.
La soluzione unitaria di una forma “speciale” di adozione piena avrebbe inoltre il pregio di evitare dubbi di incostituzionalità, gli stessi dubbi già emersi nell’ordinamento francese a seguito dell’approvazione della legge entrata in vigore nel settembre 2021, denominata PMA per tutte, che aprendo le tecniche di inseminazione artificiale anche alle donne single ed alle coppie omoaffettive femminili ha previsto il riconoscimento anticipato del nascituro da parte di dette coppie alla presenza di un notaio, così risolvendo positivamente il problema della doppia maternità, ma ha tenuto fermo nel code civil il divieto della surrogata, con la conseguente preclusione della possibilità di trascrizione dei relativi certificati di nascita emessi all’ estero.
[1] Cf, r. sul punto, volendo, LUCCIOLI, La maternità surrogata di nuovo all’ esame delle Sezioni Unite. Le ragioni del dissenso, in Giustizia Insieme, 28 ottobre 2022.
[2] V. in senso critico CALVANESE, La surrogazione di maternità realizzata all’ estero e la sua punibilità in Italia, in giudicedonna.it, n. 1-2/2023; GATTA, Surrogazione di maternità come “reato universale”? A proposito di tre proposte di legge all’ esame del Parlamento, in Sistema Penale, 2 maggio 2023.
[3] V. sul punto PELLISSERO, Surrogazione di maternità: la pretesa di un diritto punitivo universale. Osservazioni sulle proposte di legge n. 2599 (Carfagna) e 306 (Meloni), Camera dei Deputati, in Sistema Penale, 29 giugno 2021.
[4]. In tal senso v. MORACE PINELLI, Le persistenti ragioni del divieto di maternità surrogata e il problema della tutela di colui che nasce dalla pratica illecita. In attesa della pronuncia delle Sezioni Unite, in Giustizia Insieme, 3 novembre 2022 ; SESTA, La maternità surrogata: il perfetto equilibrio delle Sezioni Unite, in Riv.dir.civ., 2/2023, p. 387.
[5] V. SESTA, loc. cit., p. 404.
Sommario: 1. Perché non il 19. - 2. Il vizio del fumo (a). - 3. Luglio dopo maggio. La strage di Capaci. - 4. Paolo Borsellino. Una amicizia walking along (strada facendo). - 1 bis) Il Procuratore di Marsala. - 2 bis) La doppia intervista. la scoperta (di Paolo Borsellino). - 3 bis) Il focus dei ricordi. - 5. Le intermittenze del cuore. - 6. Il vizio del fumo (b) “Come una sigaretta”. - 7. Un ricordo duale.
1. Perché non il 19.
Finalmente è passato anche questo 19 luglio. Oggi infatti è il 20 luglio, il giorno dopo, e comincio da oggi ad esplorare il continente Borsellino, il mio. Finita quindi la grande “ammuina” del giorno anniversario – della mattanza di Paolo Borsellino e della sua scorta – tra l’altro funestato anche dalla scomparsa improvvisa di Andrea Purgatori, che nella sua ricerca di approfondimenti sui grandi misteri italiani non aveva tralasciato certo la “falsa narrazione” del falso pentito, che aveva trascinato in carcere per anni un pugno di soggetti certo non di specchiata onestà, ma di quel delitto orribile innocenti (a proposito di “misteri”, piccoli ma non trascurabili, qualcuno ha capito le vere ragioni per le quali la Presidente del Consiglio dei ministri non ha partecipato alla fiaccolata serale? Ripeto, “le vere ragioni”).
Io non ci sono mai andato, ma per ragioni chiarissime, che ho esposto più volte, le stesse che mi hanno impedito di prendere parte alle “celebrazioni” del 23 maggio, anniversario dell’attentato di Capaci. E’ molto difficile, in una Babele come quelle, “capare” tra la folla di partecipanti, tutti debitamente mesti, quelli che davvero si rattristano e si sono rattristati, e tentano di non rassegnarsi, dai tanti che partecipano come si assolve ad un dovere, il cui significato ormai si appanna sempre di più.
Per continuare a remare “in direzione ostinata e contraria” (v. De Andrè), provo a raccontare un poco di storia, a cominciare dal mio 19 di luglio. Sicuramente non per dare un esempio, ma per completare il “quadro” di testimonianze.
2. Il vizio del fumo. (a)
Quel 19 luglio era domenica ed io cominciavo le mie ferie (spesso sfigate, le mie ferie, a cominciare da quelle del 1990, marchiate dall’omicidio di Antonino Scopelliti, il collega ufficiosamente designando per sostenere l’accusa in Cassazione al famoso maxi processo di mafia, istruito dal pool dell’ufficio istruzione di Palermo, guidato da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ne ho già abbondantemente parlato e scritto – precisando che quel delitto determinò la mia decisione di avanzare la candidatura a sostituire Scopelliti, proposta accolta dal Procuratore Generale Sgroi, che ne nominò altri due per evidenziare la assoluta peculiarità del caso – e quindi non ne accenno più). Quella pigra mattinata domenicale era cominciata secondo il rito abituale, seduta in bagno, prima lettura del quotidiano, prima sigaretta, una delle pochissime davvero “gustate”, essendo le numerose successive “massificate” proprio per il numero eccessivo (viaggiavo sul pacchetto quotidiano, nonostante le filippiche ostinatamente ripetute di Giuliana, che aveva preso il testimone da mia madre). Ero quindi in bagno, e la poco frequentata intermittenza mentale, per cui mettevo tra parentesi i problemi dell’ufficio, si presentò, severa come al solito, per procedere al rituale esame di coscienza, nell’ordine solito - prima l’esame della coscienza del giudice, poi quello della persona, uomo, marito, figlio, padre di due bambine, fratello, e infine quello del politico, che ero stato fin dall’età della ragione, sempre dalla parte sinistra, sempre cercando di tenere insieme la passione politica e il necessario equilibrio imposto dalla toga (regalatami da mamma e papà al superamento del concorso).
Durante questa accurata analisi, era tornata in primo piano la questione del fumo, forse per qualche significativo colpo di tosse. Mi ero ricordato, in quel momento, che avevo promesso a me stesso di provare seriamente a cancellare quella dipendenza al compimento del cinquantesimo anno, per nessuna ragione che non fosse quella della significatività del numero (con cifra tonda, particolare sempre foriero , quindi, di meditazioni non peregrine). Il mio compleanno, ad aprile, era stato il n. 49 e non 50, avrei potuto continuare a fumare per un anno ancora, senza complessi di colpa, data la vicinanza cronologica del termine prefissato da me con me stesso. Però , procedendo a riavvolgere il nastro del mio approfondimento sul punto specifico, mi ero chiesto perché dovevo tentare di buttar via le sigarette soltanto a quota 50 anni, e non 49. Spietatamente, cancellai le presunte ragioni alla base di quella decisione e giunsi alla conclusione che potevo cercare di non fumare più dall’età di 49 anni, cioè dall’anno che stavo attraversando. Attimo, o forse momento più duraturo, di sorpresa e preoccupazione –avrei saputo resistere a partire da “qui ed ora”? – e infine gettai la sigaretta, ancora accesa, nel water, consolandomi con il detto “cosa fatta capo ha”.
Comunicai la mia decisione a Giuliana che ne restò colpita - forse per questo ebbe una reazione freddina, non quella festosa che mi ero figurato – e continuai a percorrere la giornata di quella domenica, per me da segnare sul calendario col pennarello, per gli altri, messi al corrente della situazione, da infilare nella collana degli avvenimenti giornalieri, con appena un accenno di stupore. Ce ne sono pure altri, di pensieri, più interiori, ma qui basta ricordare che, ad un certo passaggio delle mie riflessioni mi venne in mente il nome di Italo Svevo, e la sua sinfonia sul vizio del fumo (“La coscienza di Zeno”); immediatamente dopo, però, si fece vivo il senso del ridicolo, concretizzandosi nel famoso verso di Virgilio “Si parva licet…” frase latina, subito seguita dalla traduzione “se si può paragonare le piccole cose alle grandi”, come se stessi scrivendo una requisitoria, nelle quali non citavo mai espressioni latine, se non tradotte.
3. Luglio dopo maggio. La strage di Capaci.
Non ricordo per niente quel pranzo, nemmeno se era stato allietato (Giuliana era una eccellente cuoca) dai parenti che spesso ci facevano compagnia nei giorni di festa, secondo usi più meridionali che nordici.
Ricordo invece, come un insieme indistinto di sensazioni e sentimenti, la voce concitata di Giuliana che era corsa a svegliarmi dalla abituale pennichella post prandiale, e il tono allarmato degli annunci televisivi, mentre sullo schermo apparivano, ancora vagamente, quelle immagini indistinte ed insieme frenetiche che in seguito avrebbero accompagnato ogni “celebrazione” di quelle giornate, o meglio di quella giornata (a cominciare dalla 126 verde, squarciata e annerita dall’esplosione della bomba introdotta al suo interno). Non capii subito, ma subito invece mi si strinse lo stomaco, come se il corpo avesse compreso l’accaduto, che la mente si rifiutava di accettare. A questo punto i ricordi si intrecciano e accavallano, ma quasi immediatamente mi tornò alla mente un episodio, del maggio precedente: ero “sceso” a Palermo, come dicevano sempre i miei amici siciliani, soprattutto per sostenere il morale dei colleghi che avevano lavorato una vita con Giovanni Falcone, ucciso qualche giorno prima nell’attentato di Capaci. Assistito alla grande e tragica cerimonia religiosa nella cattedrale, quello stesso pomeriggio riuscii a riunire i “ragazzi delle scorte” feci una lunga camminata con loro, una strana processione sotto la pioggerellina che scendeva dal cielo, ad accompagnare le lacrime che quasi non riuscivamo a trattenere. Tornati al palazzo di Giustizia, quella grande testimonianza piacentiniana, che avevo visto tante volte, nelle mie frequenti visite a Palermo per mettere le basi della nuova “formazione” (corrente, se non suonasse male) di magistrati, che avevo con tanti altri contribuito a far nascere come reazione alla vergognosa bocciatura -da parte del Consiglio Superiore di cui facevo parte- della domanda di Falcone per il posto di Consigliere istruttore, come successore del “padre” del pool antimafia, Nino Caponnetto.
Ricordo pochissimo del discorso che tenni in quell’Aula Magna, davanti ad uomini e donne che sapevano per esperienza personale che cosa era la mafia, e che proseguivano, con i loro interventi, scarni, bruschi, immediati, la protesta che la mattina aveva accolto i rappresentanti ufficiali del potere, piovuti a Palermo per la cerimonia funebre.
4. Paolo Borsellino. Una amicizia walking along (strada facendo).
1 bis) Il Procuratore di Marsala.
Il mio rapporto con Paolo Borsellino non è nato bene, ma è cresciuto meglio, per finire benissimo, e insieme malissimo.
Paolo, dopo il primo incontro, era rimasto, per me, sfumato nella galleria di colleghi raccolti dietro Giovanni Falcone. Tanto è vero che la conoscenza della sua militanza politica, sotto le bandiere del Movimento Sociale di Almirante, mi aveva colpito negativamente, ma mi era apparsa come una notizia nuova, mentre nel suo ambito professionale era nota a tutti. Eletto al Consiglio Superiore, Borsellino mi aveva colpito, ancora una volta non positivamente, quando aveva presentato domanda per la nomina a Procuratore della Repubblica di Marsala, di fronte a concorrenti notevolmente più anziani. L’esame della sua domanda, approfondito in ambito “correntizio” prima che ufficialmente, cominciò a far emergere la prime, visibili faglie all’interno della allora “mia” corrente, cioè Unità per la Costituzione, brevemente Unicost. Si parlò a lungo, tra di noi, del valore dell’anzianità di servizio come criterio principe di valutazione, ed io cominciai ad avere i primi, grossi dubbi. Se esisteva una “carriera” tra i giudici, ed esisteva, senza dubbio, anche se ufficialmente negata, non mi pareva corretto e ragionevole l’automatismo del ragionamento dei miei “compagni di maglietta” (come avevamo deciso di nobilitare il termine “corrente”), per cui bastava una vita professionale intessuta di tran-tran, senza cadute “innegabili” (ma se la maglietta era la nostra, si poteva cercare di negare, o almeno di “smussare”), per arrivare a sedersi sulla “poltrona del comando”; io, invece, pensavo, e da un pezzo, che su quella poltrona era ragionevole farci sedere chi forniva qualche garanzia di saper esercitare il comando in maniera efficace ed intelligente, qualunque fosse la sua anzianità. Mi ero battuto a lungo, all’interno di Unicost, per fare accettare questa tesi, che era l’unica che potesse garantire un “servizio giustizia” (altra espressione sempre più di moda, specie tra chi non aveva alcuna idea del concetto di “servizio”); dopo una prima fase di sordità –e ci furono anche quelli che attribuivano i miei interventi appassionati alla mia ancora scarsa anzianità- pian pianino la tesi fu, non dico accettata, ma almeno non ostracizzata, sia pure accompagnata con una gigantesca sordina. In sostanza si tentò di aggirare il principale argomento contrario, l’assurdità di una “carriera” riservata soprattutto agli scansagrane, aggiungendo qualche addendo alla anzianità nuda e cruda, e così si teorizzò una limitazione della non rilevanza del distacco di carriera entro certi limiti- la famigerate “fasce di anzianità”, per cui i concorrenti ad un posto di potere/vertice potevano essere valutati soltanto se non erano troppo meno anziani di chi li precedeva nel ruolo; poi al criterio delle “fasce” si aggiunse quello del “non demerito”, soddisfacente in teoria, pochissimo rilevante, se non addirittura irrilevante in un pratica nella quale il giudizio dei capi sui colleghi non peccavano quasi mai di oggettività (vecchio problema, risalente alla costituzione del primo Consiglio Superiore e sostanzialmente irrisolto ancora oggi).
Tutti queste costruzione teoriche si sprecarono per il “caso Borsellino”, nella cui discussione ci fu un “rovesciamento delle alleanze”, per cui i gruppi più tradizionalisti indossarono le vesti dei progressisti, e viceversa. In conclusione a favore di Borsellino pesò molto più la sua militanza associativa nel gruppo di Magistratura Indipendente, il più numeroso e potente all’epoca, mentre non trovò, secondo me, adeguata valutazione la sua carta più meritevole, cioè l’appoggio di Giovanni Falcone, che effettivamente aveva spinto Borsellino ad avanzare quella domanda la quale, nei progetti falconiani, doveva cominciare ad esportare in periferia la prassi investigativa palermitana, visto che, sempre secondo Giovanni, il fenomeno mafioso a Palermo stava scemando di entità e pericolosità E fin da allora intuii che, dietro una ipervalutazione favorevole di Falcone, si andava acquattando tutta una serie di distinguo, variamente distribuiti nei vari schieramenti, sia di magistrati, sia di non magistrati (i c.d. laici ).
Borsellino alla fine diventò Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Marsala , con parecchi voti ed alcune astensioni, in gran parte di Unicost; non ricordo il mio voto, certo non favorevole, non per lo schermo ipocrita della minore anzianità, ma invece sostanzialmente perché non ero affatto convinto che la mafia di Palermo stava per essere sconfitta, checché ne pensasse Falcone, delle cui visioni politiche cominciai a dubitare fortemente (nel senso che Giovanni capiva moltissimo in materia di mafia, ma pochissimo se si trattava di questioni politiche, in senso stretto).
2 bis) La doppia intervista. la scoperta (di Paolo Borsellino)
Ma iniziai a stimare fortemente Paolo per il suo comportamento durante tutta la vicenda che fu poi chiamata “il caso Falcone”.
Premetto che nella prima fase di quella tristissima questione io non ebbi notizie precise sulla posizione di Borsellino, che, però, risultò schierato fin dal primo momento a favore del suo amico e collega, portando lo scompiglio tra le fila della corrente di Magistratura Indipendente, alla quale apparteneva, non in posizione secondaria, Vincenzo Geraci, eletto nel Consiglio di cui anche io facevo parte, e che si manifestò, nella sostanza, il più accanito avversario della nomina di Falcone.
Ma della posizione di Borsellino, dopo la nomina di Meli -l’onesto e secondo me poco consapevole concorrente, nominato infine Consigliere dirigente dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo- fummo messi tutti al corrente, anche in ambito nazionale. Uscì, infatti, una intervista di Borsellino sull’indubbio calo della attività antimafia dell’Ufficio istruzione di Palermo, sotto la guida del dottor Meli, e l’intervista - nella quale non si risparmiavano critiche durissime e circostanziate - fu pubblicata identica su due quotidiani nazionali nel mese di luglio (Meli era stato nominato a gennaio). L’intervista ebbe l’effetto di una pentola di acqua bollente in un nido di vespe (esperienza personale traumatica di Giuliana, allora ancora mia fidanzata).
Nonostante fossimo alla vigilia del periodo feriale, che per il CSM durava da fine luglio a circa metà settembre, subito entrarono in azione le “truppe antifalconiane”, guidate dall’ineffabile consigliere Geraci, che pretesero l’immediata convocazione del Comitato antimafia, articolazione interna del Consiglio. Alla prima seduta del Comitato partecipammo la quasi totalità dei consiglieri, disposti a seguire i lavori per quanto potessero durare. Lunga la serie dei magistrati palermitani coinvolti, lunghissime le sedute dedicate, durante una diecina di giorni. Finita l’istruttoria, iniziò l’ultima seduta ufficiale, dalla quale doveva uscire un documento conclusivo. Documento per la cui stesura fu spesa l’intera serata e tutta la nottata, con una interminabile serie di incontri a gruppetti separati negli intervalli dei lavori formali. Della vicenda furono in buona parte spettatori –per la parte pubblica- i colleghi convocati da Palermo, mentre agli incontri “ristretti” parteciparono di persona, quelli che volevano.
In quella occasione apprezzai pienamente la statura morale, prima ancora che politica, di Paolo Borsellino, l’abilità e la dignità che lo trasformarono pian piano da “imputato” a testimone. Contro quella maggioranza di componenti del Consiglio Superiore che aveva bocciato la candidatura di Falcone -dopo la batteria incredibilmente ipocrita di dichiarazioni illimitatamente laudatorie- Borsellino, quell’omino pacato, pacatamente confermò la sua intervista, arricchendola di precisazioni e puntualizzazioni sempre significative, ben sapendo di avere contro “gli antifalconiani a prescindere”. Il “caso Falcone” si allungò fino a comprendere il “caso Borsellino”, con il quale si tentò di illuminare un favolistico “dietro le quinte”, tutto mirato a colpire o , quantomeno, a punzecchiare i magistrati protagonisti di quel processo monumentale, che poi è diventato il maxi processo per antonomasia. Quella vicenda, incredibilmente “sussultoria” (nel senso di strappi e sussulti puntualmente e indebitamente resi pubblici), ha continuato a pesarmi nella memoria e, spesso, anche nell’anima, costringendomi a una faticosa “rimozione”; di quella vicenda, tuttavia, mi tornano in mente due immagini, una quasi esclusivamente visiva e l’altra ricca anche di un “parlato”, mai registrato, eppure ancora vivo nelle mie orecchie.
3 bis) Il focus dei ricordi.
Il primo brandello di memoria si colloca nella grande sala del Plenum del Consiglio superiore, pienamente illuminata dalla potente luce artificiale ma “sfiorata” dalla assai più suggestiva luce naturale dell’alba, che stava sorgendo nel cielo di Roma. In una delle tante pause che punteggiavano l’aspra discussione, al limite del diverbio, tra i componenti del Consiglio, presenti nella quasi totalità, girai gli occhi dai finestroni, attraversati dai riflessi rosa dell’alba, ai volti dei protagonisti, e mi accorsi di un elemento visivo nuovo, che avvertivo chiaramente ma non riuscivo a identificare chiaramente. Pochi attimi di perplessità e poi la improvvisa, ma innegabile “scoperta”: sui volti dei colleghi si notava la presenza della barba, quasi sempre bianca, data la nostra non giovanissima età. Assai più dell’aspetto delle due consigliere donne, stravolto di stanchezza e anch’esso “nuovo” per la mancanza di trucco, quella nascente “lanugine” biancastra oppure a chiazze bianche e scure sparsa sulle facce dei maschi mi colpiva per la sua “innaturalezza”. Individuata e chiarita, così, la novità, improvvisamente mi resi conto che eravamo in quella grande stanza da due giorni quasi ininterrotti e, in contemporanea, mi piombò addosso, tutta insieme, la stanchezza di quelle ore lunghissime e allucinate. E ancora adesso, se mi capita di vedere una faccia mal rasata (ormai quasi di moda), torno di colpo alla sala riunioni del plenum del Consiglio Superiore della magistratura, nel Palazzo dei Marescialli, a Piazza Indipendenza di Roma.
Il secondo ricordo è arricchito da un sonoro peculiare, consistente in un colloquio tra due soggetti, uno dei quali ero io.
Infatti, appena mi resi conto che il bersaglio di quella innominabile reazione era proprio Borsellino, decisi di “aprire” i giochi, senza alcuna esitazione. Aspettai qualche ora, dopo il primo giorno, e poi misi in atto il mio progetto. Proposi un incontro a quello che ritenevo essere il capo degli “anti” e, quando si presentò, una espressione mista di sufficienza e curiosità, lo affrontai direttamente. Il mio attacco fu molto secco e si risolse in una specie di “avviso ai naviganti”. Dissi al “collega”, che preferisco non nominare, che non intendevo restare ad assistere, ma gli promisi un atteggiamento incredibilmente e totalmente aggressivo per tutto il tempo restante della consiliatura se i “loro” attacchi avessero continuato ad avere come bersaglio principale Borsellino. Parlai con calma, e con estrema decisione; il mio interlocutore, dopo una prevedibilissima replica ipocritamente stupita, andò via senza rispondere. Però il mio avviso a nuora perché suocera intendesse ottenne un discreto risultato, poiché la virulenza delle critiche a Borsellino si attenuò, stemperandosi in una polemica molto allargata contro tutti i soggetti filo Falcone e Borsellino. Qualcuno, dei “nostri” commentò questo cambiamento di tono, subito percepito, come la scelta di un diversa tattica di pesca, gettando una rete a strascico a maglie larghe, sperando che comunque qualche pesciolino ci sarebbe rimasto impigliato. La conclusione di questo episodio di massima contrapposizione fu una specie di documento, nel quale, con forme necessariamente contorte, si diceva, ma non si affermava, e quindi tutto era vago a sufficienza per non provocare un altro “tormentone” negli uffici giudiziari palermitani, che cominciavano appena a riprendersi dopo lo “tsunami” della mancata nomina di Falcone. Ognuno dei contendenti poteva leggere e diffondere una interpretazione che sostenesse la sua tesi; ma la restante durata in carica di quel CSM non fu per niente pacifica, (quasi) nemmeno per l’ordinaria amministrazione (men che meno per la “cerimonia “degli addii, messa in scena, per la prima e unica volta nella storia, nell’aula del Consiglio e non al Quirinale, per “l’ira funesta” dell’inquilino del Quirinale, nonché Presidente del Consiglio Superiore, che non volle “perdonare” la politica consiliare nei riguardi dei magistrati massoni, sempre esistiti e spesso ben noti, ma in genere senza conseguenze sulla “carriera”, finché arrivò un gruppetto di Consiglieri, compreso me, che non lasciò passare la faccenda senza sottolineare aspramente la “stranezza” di magistrati che giuravano, in contemporanea, fedeltà alla Costituzione e alle logge massoniche. Ma al Presidente Cossiga non piacque per nulla quella nostra posizione, ribadita sempre più e con motivazioni sempre più affilate. Così a noi tutti, senza distinzioni tra buoni –pro massoni- e cattivi- antimassoni- toccò un cerimonia di commiato in tono dimesso, direi arrangiata, con la medaglia- ricordo, che non poteva esserci negata, ma che ci venne consegnata, sempre dal Presidente Cossiga, con non celata malavoglia e mala grazia. Erano ancora lontani i tempi della P2, ma non si poteva contestare la circolazione di cappucci in quantità nelle stanze del potere.
5. Le intermittenze del cuore.
“Le intermittenze del cuore sono quei soprassalti straordinari che nello scorrere di una vita normale ci riportano a eventi, cose o persone del passato rimaste nell’ombra, marginali, che aprono una prospettiva sfuggente e rivelatrice al di là del fluire irreversibile del tempo” (Marcel Proust, “La ricerca del tempo perduto”, vol. IV Sodoma e Gomorra). Soprassalti straordinari…nello scorrere di una vita normale. Mi sono venute subito in mente le parole di Proust mentre cercavo e cerco, ancora adesso, di comprendere uno strano fenomeno che mi riguardava.
La terribile esplosione di Capaci ha messo in moto un inarrestabile treno di onde sismiche, che si sono propagate nel mondo, si potrebbe dire, anche se accompagnate da reazioni diverse. Per me, che tanto ero coinvolto per i miei rapporti con Giovanni Falcone, la reazione di fondo fu un incredibile rafforzamento della memoria. Ancora adesso, dopo più di trenta anni, rivedo le scene nella Cattedrale, la bara davanti all’altare, la veglia dei colleghi, a turno, in toga, la scena dirompente del lamento singhiozzante della vedova di Vito Schifani, uno degli agenti di scorta uccisi dentro l’auto di scorta, saltata in aria come un giocattolo. Ma le immagini compongono una specie di lungo, squassante piano –sequenza, che inizia con l’arrivo delle autorità e si chiude con la lunga, disperata passeggiata sotto una anomala pioggerella, alla testa di una processione dei “ragazzi delle scorte”. Più passa il tempo, più i ricordi si infittiscono, si legano, arricchendosi con la storia tormentata della mia amicizia con Giovanni, e con tutti i comprimari di quella tragica vicenda. Ma per Borsellino cominciarono le mie speciali “intermittenze del cuore”; speciali perché, soprattutto, quei miei giorni a Palermo - dopo il 19 luglio - hanno lasciato una traccia strana, nella mia memoria. I ricordi non sono mai diventati una collana unica, non si sono mai intrecciati ordinatamente, come in genere succede per i ricordi, che si presentano in scena in una successione casuale, per poi entrare nelle rispettive caselle, uno alla volta, o anche parecchi insieme, secondo le decisioni della memoria, che provvede a “legarli”, seguendo criteri propri, però facilmente ricostruibili; “i giorni di Borsellino” hanno continuato sempre ad apparire singolarmente, isolatamente, come se si trattasse di una prima bozza, senza rispettare nemmeno il principio dell’unità di tempi e luoghi, che hanno ferreamente dominato le scene teatrali, fino a quando cominciarono ad affacciarsi i primi flash back, che poi sono diventati, nei film, quasi un procedimento abituale.
Un altro elemento contribuisce a complicare la scena: la mia ritrosia a fissare con lo scritto il caos di sentimenti messo in moto dalla strage di via D’Amelio. Qualche volta mi è capitato di non “avere voglia” di scrivere su qualche argomento – situazioni o vicende che impattano con violenza sul mio animo, con una serie di rimbalzi, come la famosa pietra lanciata sulle onde del mare, o anche dei fiumi – però stavolta la mia riluttanza ha assunto dimensioni insolite: ieri si è compiuto un mese esatto da quando ho cominciato questa nota, con una serie molto irregolare di “ sedute davanti al computer”. È come un cupo brano musicale, che stenta ad avviarsi, a trovare dentro di me la necessaria successione di appigli che sempre mi hanno (quasi) portato con mano quando avevo deciso di stendere in righe ordinate quello che stava diventando una potente spinta interiore a chiarire –innanzitutto a me stesso- il caos che mi danzava disordinatamente tra testa, cuore e stomaco. In questi casi, dopo una “fisiologica” esitazione iniziale il testo passa abbastanza velocemente dalle dita alla testiera e al foglio A4. Stavolta, invece, se non mi fisso termine draconiani arrivo a Natale. Io, però, mi sono fatto una mia idea sulle ragioni di questo strano atteggiamento; dal momento della notizia, spiattellata brutalmente dall’apparecchio televisivo, mi sono sentito come un pugile suonato (dicono), in un equilibrio instabile, navigando alla larga da uno scoglio, nero e puntuto, che tuttavia restava sempre in vista; restava in vista, anche su un panorama dominato da uno scoglio altro, più grande ed irsuto, che somigliava un poco a Falcone. Durante le pause, quando restavo solo a scrutarmi, ad interrogarmi, a cercare le ragioni di fondo, tornavo sempre lì: l’uccisione di Falcone, nei suoi orribili particolari, aveva, in un certo senso, “esaurito” la scorta di dolore che io, come ognuno di noi, mi portavo dentro; non mi sembrava ci fosse più spazio per un altro dolore, tanto simile al primo per la sua enormità; ma, proseguivo, mi sembrava impossibile un dolore per via D’Amelio e uno, separato e anteriore, per Capaci, e quindi, la conclusione, strana parecchio: l’impatto di quelle due morti, a così breve distanza cronologica, con la sua forza dirompente tendeva a, “voleva” quasi, accorparle, tenerle insieme anche dentro l’anima di chi già aveva faticato non poco a metabolizzare il primo attentato. Detto in altri termini, la figura di Paolo si proiettava sul muro del nostro pianto, ma quasi mai in forma singolare e limpida. Non riuscivo a pensare a Borsellino, senza sentire risuonarmi nelle orecchie la voce chioccia di Falcone che lo chiamava, in tono affettuosamente sfottente “camerata Borsellino”, quando si presentò alla sua porta dopo l’attentato, fallito, dell’Addaura. . Ma anche in un angolino quasi “privato” li avevo messi insieme, ripensando a quella sigaretta che tutti e due stringevano tra le dita, nella fotografia diventata famosa proprio dopo la seconda strage.
6. Il vizio del fumo. (b) “Come una sigaretta”.
Era praticamente impossibile pensare a Falcone e/o a Borsellino astraendo dall’eterna aureola del fumo delle sigarette, che tutti e due consumavano in quantità impensabili; del resto risuonava sempre, dentro di me, la voce seria di Giovanni che, rispondendo alle esortazioni di mia moglie Giuliana contro il vizio del fumo, rispose con quella terribile frase “Non preoccuparti Giuliana, io certamente non morirò per il vizio del fumo ” .
Questa banale osservazione, comune a tutti quelli che frequentavano “quei due”, lavorò a lungo dentro di me, seguendo un percorso assai strano, che non sono riuscito a comprendere pienamente nemmeno io.
Durante il mio primo soggiorno palermitano, a maggio, dopo Capaci, avevo sentito una strana sensazione quando mi ero accorto che mi stavo accendendo una sigaretta, come mi fossi “sorpreso con la mano nella marmellata”, che “sapevo” non essere “assaggiabile” in orari ed occasioni non consentiti. Non ci feci molto caso, comunque. Diversa la situazione quando “scesi” nuovamente a Palermo dopo il 19 luglio. Infatti domenica 19 luglio avevo spento gettandola nel water quella che avevo deciso sarebbe la mia “ultima sigaretta”. E non ci avevo pensato più.
Arrivato a Palermo, ci strinse in un unico “abbraccio” l’enormità di quello che era successo; a lungo nessuno parlava, poi, all’improvviso, si accavallavano le testimonianze di chi aveva visto Paolo appena pochissimi giorni prima della bomba, e in quei racconti, prima o poi, veniva fuori la figura di Giovanni. Nessuno, in quel gruppo di persone che facevano lo stesso “mestiere”, pensava possibile scindere in due i ricordi e, tra l’altro, il ricordo delle sigarette era “necessariamente unico”; qualcuno che aveva smesso, riprese il rapporto con il tabacco, sentito come una specie di anestetico. Io, invece, avevo già deciso, prima di partire, che non avrei ceduto al richiamo tabagico, e mi ero fornito di una pacchetto di caramelle alla nicotina, utili, mi dicevano, per attutire la ,o le, prevedibili “crisi di “astinenza”.
E in quella decisione rimasi, fermo. All’inizio mi aiutavo con qualche caramella, poi, dopo pochi giorni, decisi di adottare un regime totalmente “atabagico”. All’inizio qualche rimpianto, qualche timido tentativo di abolire il divieto, ma poi, dopo la prima settimana, cominciò un percorso di distacco. Mi sembrava, non so come, che lo smettere di fumare fosse una specie di legame ultimo con i miei due amici, ammazzati brutalmente, che perciò non avrebbero più potuto abbandonarsi al vizio del fumo. So benissimo che questo motivo non regge, non può entrare in un ragionamento serio, ma da quel giorno non ho più fumato, né acceso una sigaretta, con un piccolo sacrificio iniziale, scomparso ormai del tutto; mi limito a rispondere, a qualche medico che mi chiede se sono fumatore, che ho smesso in un giorno preciso di un anno preciso, senza spiegare altro.
7. Un ricordo duale
Il greco mi è sempre piaciuto, tanto che qualche piccolo brano ho deciso di impararlo a memoria nella sua versione originale (peccato che all’esame di maturità una “antipatia” a prima vista, come un colpo di fulmine, con il commissario -all’epoca rigorosamente esterno- mi fruttò proprio in greco il voto peggiore di una pagella decente).
Quando mi resi conto, nello strazio di quelle due uccisioni, certamente mafiose, ma non credo senza altri ingredienti, che i ricordi affioravano sempre in coppia, mi è venuto in mente il termine “duale”, che nel greco antico, e nelle lingue europee antiche, designa, in grammatica, “due sole persone o cose, o il fatto che l’azione è compiuta o subita da due sole persone “ (Devoto-Oli).
Alla categoria del duale appartiene senz’altro, per me, il mare di ricordi che “tiene insieme” due sole persone, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Mai ho sentito l’esattezza del termine come in una occasione, che apparentemente sembra smentirla.
Dopo la cerimonia funebre per Falcone Paolo si offrì di accompagnarmi in auto all’aeroporto di Palermo (ancora in trasformazione, e non ancora intitolato a Falcone e Borsellino). Mentre aspettavamo Paolo si accese una sigaretta ed io mi decisi a dirgli quello che pensavo di dovergli dire fin da Palermo : cercai di essere serio, ma non melodrammatico, quando lo pregai di essere particolarmente cauto, in futuro, essendo ormai chiaro che il prossimo bersaglio sarebbe stato lui. . Borsellino, che non allentò mai i suoi legami con Falcone, era l’immagine della distruzione psicologica quando mi accompagnò all’aeroporto di Palermo, dopo i funerali, ed aveva l’aria profetica quando, alla mia raccomandazione di stare attento più di prima, rispose che, comunque, “quelli” quando volevano potevano quasi tutto, come avevano appena dimostrato. Nemmeno due mesi dopo, Borsellino e la sua scorta, tra cui una ragazza, furono ammazzati con un’altra auto bomba. La voce di Paolo era bassa, ma di una tragica serietà, e la sua faccia scura era in sintonia.
Di questo e di altro intreccerò i miei ricordi nei prossimi 19 luglio, che saranno, ne sono certo, tutti e sempre “intermittenze del cuore”.
Ancona, tra il 20 luglio e il 24 agosto 2023
Sommario: 1. Premessa - 2. L’esperienza del 2022 - 3. La realizzazione di un protocollo di azione e il quadro normativo - 3.1. Il quadro normativo generale - 3.2. In particolare, le norme processuali (penali) - 4. Conclusioni.
1. Premessa
La giustizia si confronta – non può non confrontarsi - con tutti gli eventi che persone, società e natura producono: e deve quindi sapere incrociare le proprie competenze con quelle di tanti altri settori.
Uno degli scenari che spesso accumuna ingegneri e magistrati è quello della comprensione, e valutazione, di eventi disastrosi: che possono caratterizzarsi per la sovrapposizione di necessità e obiettivi anche assai diversi tra di loro. Un crollo – di singole strutture, per eventi circoscritti (esplosione di gas; collasso di un edificio) o per macrofenomeni che investano una pluralità di strutture su un territorio più o meno esteso (fenomeni sismici o geologici) – pone infatti da subito e progressivamente esigenze di soccorso ai possibili sopravvissuti, di recupero purtroppo delle salme, di recupero di effetti personali, di sanificazione delle aree, di ripristino della viabilità, di ricostruzione: esigenze che si incrociano e si sovrappongono tra loro, e alle quali può appunto aggiungersi – laddove si ipotizzi che il fatto possa avere anche rilievo giuridico (sussistenza di reati e/o di risvolti civilistici) – anche la necessità di preservare il più possibile la ‘scena del crimine’.
Il quesito che si pone è dunque quello di verificare se questi piani risultino veramente e inevitabilmente confliggenti tra di loro, ovvero se possano essere considerati complessivamente, senza che le – indubbiamente prevalenti e drammaticamente più urgenti – esigenze di tutela della vita e della salute debbano necessariamente pregiudicare quelle all’accertamento giudiziario. E’ infatti dato comune, non solo nei processi derivati dal sisma del 2016, quello della possibile parziale inattendibilità come elemento di prova del materiale residuato da dette operazioni, della facile attaccabilità di dati derivanti da scenari che potrebbero essere stati fortemente alterati, se non addirittura compromessi: non solo per le operazioni sopra descritte ma, nel caso di fattori sismici, per le scosse successive a quella dei cui effetti un processo specificamente si occupa, sciame sismico che spesso prosegue per molti mesi anche con rilevante entità.
Uno scenario come quello rappresentato nelle figure 1 e 2 (le immagini provengono da atti di processi conclusi in primo grado tra il 2020 e il 2023)
Figura 1
…benchè ci si possa sforzare di seguire procedure scientifiche e metodologie rigorose (come la geolocalizzazione dei reperti) sconta la assoluta difficoltà di leggere compiutamente la ‘storia’ delle strutture, la loro esatta collocazione nell’organismo del quale si studia la caduta, l’essere i reperti realmente significativi dei movimenti conseguenti all’evento che si studia e ricostruisce, ovvero così atteggiati in conseguenza di altri fattori.
Per questo, in tutti i processi derivati dagli eventi sismici del 2016 si è registrata la spasmodica ricerca di documentazione che appunto – dovendo valutare se un crollo avvenuto dopo la prima scossa era imputabile anche a fattori umani - ci aiutasse a comprendere quale era la situazione subito dopo l’evento, ‘isolandola’ da eventuali fattori sopravvenuti. Sono stati utilizzati (possiamo definirli dati ‘estrinseci’, perché aventi origine, finalità e quindi utilità, diverse da quelle proprie di un processo) sorvoli delle Forze di primo soccorso, in genere però con riprese ‘a distanza’ (Figura 3)
Figura 3 Sorvolo dei VVFF
ovvero immagini ottenute da privati cittadini o da organi di informazione (Figure 4 e 5)
Figura 4 Foto prodotta da privato
Figura 5 Fotografia de ‘Il Messaggero’
2. L’esperienza del 2022
A fronte dunque di fattori, umani o naturali, che tendono a modificare cose e luoghi che devono essere oggetto di indagine, lo scrupolo di ogni attore del processo dovrebbe sempre essere quello di fare entrare nel giudizio tutti gli elementi oggettivi che – letti dagli esperti di settore – possano contribuire a una più esatta ricostruzione degli eventi.
Questa è stata la ragione del conferimento di una perizia, nata dalla riflessione (svolta insieme al prof. Borri) sull’essere ancora utile – in un palazzo pressocché integralmente crollato - verificare le strutture rimaste in elevazione, e svolgere un’analisi dei resti dell’edificio. Abbiamo provato a riflettere insieme appunto sulla utilità di coniugare nuovi accertamenti alle reiterate istanze del Comune interessato (che chiedeva la cessazione di ogni vincolo sull’area, da sei anni sotto sequestro, dovendo procedere a ripristinare la viabilità e proseguire le operazioni di bonifica e ricostruzione, avendo anche ottenuto fondi dedicati).
È stato quindi conferito l’incarico che segue:
- “Valuti il perito se gli interventi del progetto presentato dalla XXX il XXXX sull’immobile sito in XXX ….. - e tenendo conto anche delle eventuali successive progettazioni e significativi interventi di tipo strutturale afferenti il medesimo immobile, intervenute sino al 2016 - abbiano condotto ad una distribuzione di pesi e masse, di rigidezze di azioni taglianti perpendicolari al piano delle murature esterne dell’edificio diverse da quelle dell’edificio originario; in caso affermativo, se questi interventi abbiano avuto conseguenze sulla capacità dell’edificio di sostenere i carichi verticali e le azioni sismiche, anche in singole parti delle murature, con riferimento a possibili cinematismi locali.
- Esaminato il progetto XXX presentato dalla società ZZZ , dica il perito se nello stesso erano previste misure di miglioramento o adeguamento sismico
- Consideri il perito i modelli di calcolo presentati in data YYY e in data ZZZ; ne valuti le differenze.
- Rispetto al modello presentato il YYY ne indichi la congruità al tipo di costruzione esistente e a quella progettata, in particolare specificando se erano state considerate interazioni con altre unità strutturali limitrofe (aggregato di edifici), ovvero peculiarità costruttive dell’edificio in esame, che imponevano l’adozione di diverso modello di calcolo e diverse verifiche di sicurezza, in particolare con riferimento ai possibili cinematismi e meccanismi di collasso locali, al grado di ammorzamento delle murature ortogonali e ad alcune parti qualificabili in ipotesi come corpi aggiunti; la corrispondenza strutturale tra i tipi di materiale utilizzati come dati immessi nel programma e i materiali effettivamente esistenti. Ciò anche tenuto conto del grado di conoscenza conseguito per l’edificio.
- In esito a tali operazioni, valuti se l’applicazione del programma di calcolo sia stata rispondente alle norme vigenti all’epoca e alla tipologia dell’edificio per materiali, forma e disposizione delle murature, anche di nuova realizzazione, sulla base delle conoscenze tecniche e scientifiche, indicando se gli esiti di ‘verifica o non verifica’ possano considerarsi corrispondenti alla realtà dei luoghi; specificando inoltre se in tale modello era stata considerata la struttura di copertura per come effettivamente realizzata, e se la stessa aveva effetto spingente. In esito a tale verifica, indichi il perito il presumibile meccanismo di collasso
- Valuti a tale scopo tutto il materiale foto e video in atti, nonché le risultanze dibattimentali, ivi inclusi gli apporti dei CCTTPP tramite relazioni e dichiarazioni rese nei rispettivi esami e svolga tutti gli accessi in loco, autorizzandolo sin da ora al prelievo di campioni, previa collaborazione della PG”
del quale si sottolinea l’ultimo passaggio, che evidenzia come abbiamo ritenuto di accompagnare - allo studio degli atti processuali già esistenti - operazioni di ‘rimozione controllata’, con una intensa ‘progettazione di cantiere’.
È stato dunque previsto
- di affidare la rimozione delle macerie a una squadra dei VVFF: perché le parti processuali convenivano sulla idoneità solo di tale Corpo, ritenuto evidentemente sufficientemente ‘neutrale’ e professionalmente attrezzato, e anche perché i costi erano stati preventivamente coperti con fondi destinati alla ricostruzione. Segnaliamo, incidentalmente, che ogni costo sostenuto nell’ambito di un processo penale è destinato a ricadere sugli imputati, nel caso di condanna, e sullo Stato in caso di assoluzioni: dunque, questa soluzione – che aveva riguardo non solo alle necessità del processo, ma anche alle diverse indicate finalità - è sembrata più corretta.
- la nomina di funzionari dei VVFF come ausiliari del perito che dirigessero sul campo la rimozione, verificandone le modalità e individuando i resti più significativi dell’edificio, indicati per tipologia previo confronto con i Consulenti Tecnici di parte: rendendosi tali funzionari anche disponibili a ricevere le eventuali segnalazioni dei medesimi CCTTPP (ai quali si accordava di accedere al sito e visionare le operazioni, con le modalità stabilite durante le operazioni peritali, anche in assenza del perito), e a trasmetterle al perito stesso per le sue determinazioni.
- previa effettuazione di una indagine di mercato, il conferimento a una ditta privata dell’incarico (quale ausiliario del perito) di installare tre videocamere fisse per riprendere continuativamente le operazioni di sgombero, riprese rese accessibili anche da remoto, attribuendosi ai magistrati, giudicante e requirente, CCTTPP e difensori delle password individuali (è intuibile l’utilità di consentire a parti e loro consulenti di visionare costantemente e in tempo reale le operazioni in progress, e indicare possibili specifiche necessità di indagine). Appare utile riportare alcuni dettagli tecnici di tale sistema, per far comprendere le esigenze cui si è cercato di fare fronte: le tre telecamere avevano risoluzione 2560 x 1440p; i dispositivi di registrazione delle immagini video sono stati installati all’interno di un rack da esterno, stagno e antivandalo (che rientrava nel campo di una delle telecamere); le registrazioni sono state immagazzinate in un Network Video Recorder (NVR), allestito con 8TB di archiviazione; le stesse sono state effettuata alla massima risoluzione, mentre lo streaming da remoto veniva effettuato ad una risoluzione di 1920 x 1080p. I sistemi di alimentazione (UPS con autonomia di circa 12h) e di segnalazione dei guasti hanno permesso di intervenire in maniera tempestiva nelle occasioni in cui si sono verificati dei fermi imprevisti
- sempre previa effettuazione di una indagine di mercato, il conferimento a una ditta privata dell’incarico (quale ausiliario del perito) di effettuare rilevazioni e riprese mirate con droni, riprese effettuate concordando tra le parti quali fossero i momenti più significativi da fissare.
Siamo dunque partiti dallo stato iniziale qui raffigurato, visione a livello strada (Figura 6)
Figura 6
o con vista dall’alto (figura 7)
Figura 7
procedendo all’individuazione e all’accantonamento di reperti, in un’area dedicata, adiacente a quella originariamente posta sotto sequestro, posta a a disposizione dal Comune, per arrivare gradualmente al sequestro di reperti e non di aree indisciminate, in larga misura ormai prive di significanza (Figg. 8 e 9)
Figure 8 e 9
sino a realizzare, in meno di un mese, un campo di indagine ‘pulito’ (Figura 10)
Figura 10
quindi sino alla completa scopertura delle parti ancora in elevazione, uno degli specifici oggetti di interesse, per studiarne composizione e qualità (Figura 11)
Figura 11
3. La realizzazione di un protocollo di azione e il quadro normativo
Alla luce di questa esperienza, il quesito che si pone allora è quello di verificare se questa opera di raccolta possa essere tipizzata e svolta anche in momenti precedenti, cioè contestualmente (o quasi contestualmente) alle operazioni di ricerca, salvataggio e graduale ripristino dei luoghi: dunque, se ciò che è stato fatto nel caso in esame sostanzialmente ‘ex post’ e a distanza di quasi sei anni dal fatto, possa invece essere fatto (quasi) sin dall’inizio.
Ribadito il dogma, per cui le esigenze di giustizia non devono risultare di ostacolo alle ben più impellenti operazioni di primo soccorso, sembra però a chi scrive di potere dare risposta affermativa, dunque che ci siano ampi spazi di sovrapponibilità e integrabilità di tali azioni. In prima approssimazione, si deve allora ritenere che la tempestiva acquisizione di un patrimonio di dati e immagini (l’installazione di telecamere fisse e l’effettuazione di voli di droni può essere un metodo idoneo, ma si potrebbe senz’altro pensare ad altro) – secondo modalità il più possibile standardizzate - possa da subito accompagnare le operazioni di soccorso, e anzi esserne di ausilio, consentendo ad esempio di ‘entrare’ con supporti tecnici e in maggiore sicurezza laddove magari i soccorritori stentino inizialmente ad accedere; ovvero di verificare preventivamente la consistenza che hanno assunto le macerie, prima di operarvi con mezzi meccanici o con personale.
Utilità collaterale è anche quella che un monitoraggio costante dei luoghi potrebbe scoraggiare le non infrequenti azioni di sciacallaggio, squallida coda talvolta di tali scenari.
3.1. Il quadro normativo generale
E’ indubbio che non sempre tali azioni di raccolta dati e immagini possono in concreto essere pienamente realizzate: costi, disponibilità di risorse umane, variabili contingenti certamente possono allontanare questa prospettiva ‘polifunzionale’, soprattutto quando si voglia avere riguardo non a situazioni ab origine circoscritte ma ad ambiti più vasti. Se cioè il crollo di un singolo edificio, di un ponte, può vedere attivati subito tutti i possibili presìdi tecnici e giuridici, indubbiamente la presenza di ‘crateri sismici’ che coinvolgano decine di centri abitati e migliaia di persone non consente pieno spazio a tali attività di verifica.
Considerando però che l’esperienza presenta eventi catastrofici di varia entità e dimensione, è legittimo chiedersi se non si possano in via preventiva tipizzare i possibili accertamenti, predisporre cioè piani di azione compiuti e onnicomprensivi che siano però graduabili in ragione dell’area interessata e delle concrete necessità e risorse disponibili: un protocollo che dunque – nel dare priorità assoluta alla tutela della vita e incolumità delle persone, non ci stancheremo di ripeterlo – preventivamente però preveda per ogni area geografica chi e come debba attivare questa opera di raccolta dati.
Va debitamente sottolineato come il legislatore abbia in realtà già tracciato un sistema.
Il D.Lgs. 1 del 2018, Codice della Protezione civile - nel disegnare obiettivi e funzioni degli Enti territoriali e nazionali; e nel prevedere che “Il Corpo nazionale dei vigili del fuoco opera, altresì, quale struttura operativa del Servizio nazionale della protezione civile” - individua nell’interazione tra quel Servizio nazionale e tali Enti il sistema di risposta; nel Corpo dei VVFF (Ente che “assume la direzione e la responsabilità nell'immediatezza degli eventi, attraverso il coordinamento tecnico-operativo e il raccordo con le altre componenti e strutture coinvolte”: Art. 10 D.Lgs. 139/2006) il personale da attivare sul campo; sono previsti – strumenti che potrebbero essere il ‘contenitore’ di tali procedure - nei Piani comunali di protezione civile i documenti che dettagliano le azioni per fronteggiare tali eventi. Si ritiene allora che all’interno di questa stessa cornice normativa si potrebbe prevedere la formazione del personale anche nella direzione qui considerata, e predeterminare in funzione di questi obiettivi la catena di decisione; si potrebbero individuare preventivamente gli strumenti tecnici dei quali servirsi, tenendo conto delle risorse pubbliche e private azionabili in ogni territorio: in definitiva, fare sì che – a partire dal primo evento catastrofico – i suoi effetti immediati, le vicende successive di quelle strutture e ogni movimentazione di materiale siano affrontate e contestualmente documentati al meglio e ‘a futura memoria’.
3.2. In particolare, le norme processuali (penali)
A ben vedere, anche l’ordinamento processuale contempla strumenti flessibili, che possono coniugare le primarie e preponderanti esigenze di soccorso con quelle di tempestiva raccolta di dati: perché, si sottolinea, lo scopo di tali azioni non può che essere solo quello di raccogliere elementi utili a comprendere l’accaduto, per porre le basi di indagini che sono del tutto eventuali e in fieri, e che anzi con un più ampio compendio di dati oggettivi potranno anche essere più utilmente indirizzate.
Il primo riferimento può senz’altro essere all’art. 354 c.p.p. (1. Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria curano che le tracce e le cose pertinenti al reato siano conservate e che lo stato dei luoghi e delle cose non venga mutato prima dell'intervento del pubblico ministero 2. Se vi è pericolo che le cose, le tracce e i luoghi indicati nel comma 1 si alterino o si disperdano o comunque si modifichino e il pubblico ministero non può intervenire tempestivamente, ovvero non ha ancora assunto la direzione delle indagini, gli ufficiali di polizia giudiziaria compiono i necessari accertamenti e rilievi sullo stato dei luoghi e delle cose…..) istituto che appunto (Cassazione, Sez. 2, n. 34149 del 10/07/2009) “consiste nell'attività di raccolta di dati pertinenti al reato” mentre invece “l'accertamento tecnico si estende al loro studio e valutazione critica secondo canoni tecnico – scientifici”, richiamo quest’ultimo che nell’introdurre momenti di valutazione e ricostruzione riporta agli istituti previsti dagli artt. 359 e 360 c.p.p., o alla perizia, anche in forma di incidente probatorio: attività che invece sono demandate al momento in cui sia stata formalizzata un’indagine.
Va ricordato al riguardo che il nostro ordinamento conosce varie fattispecie in cui si svolgono attività di accertamento e acquisizione di dati – si pensi agli accertamenti etilometrici previsti dal Codice della strada; alle verifiche di tipo ambientale e fiscale – che hanno finalità di tipo preventivo, di sicurezza pubblica o natura meramente amministrativa, e solo eventualmente e successivamente possono assumere rilevanza penale.
E’ quindi sufficiente pensare di affidare tali attività direttamente ai Vigili del Fuoco, sottolineando che a norma dell’art. 57 co. 3 e del DPR 139/2006 ai suoi componenti possono essere riconosciute le qualità di ufficiale e agente di PG; potendosi affiancare anche altri ausiliari (art. 348 c.p.p., co. 4: La polizia giudiziaria, quando, di propria iniziativa o a seguito di delega del pubblico ministero, compie atti od operazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, può avvalersi di persone idonee le quali non possono rifiutare la propria opera), che potrebbero anche essere individuati in professionisti appositamente formati, inseriti in un albo ad hoc.
4. Conclusioni
Di fronte alla obiettiva difficoltà di un giudizio, in materie che non consentono ricostruzioni matematiche, vi sono svariati rischi: sciogliere il dilemma dato dalla contrapposizione delle tesi con un ‘atto di fede’, dunque l’affidarsi acriticamente all’una o l’altra delle prospettazioni tecniche di parte o anche (per il caso di perizia di ufficio) a un eventuale ulteriore parere, al quale per il solo fatto di provenire da soggetto nominato dal giudice si vogliano attribuire automaticamente maggiore autorevolezza e/o capacità dirimente; all’opposto, il rischio del facile ricorso al ‘non liquet’, per cui il giudice si limita a prendere atto della oggettiva complessità e non univoca ricostruibilità del fatto e – per i principi propri in particolare del processo penale – ne trae solo per questo carattere una valutazione di non responsabilità.
Si ritiene allora che in questa prospettiva sia piuttosto imposto al giudice il dovere di consentire che il processo sondi ogni piega del fatto storico, e necessario che nel giudizio entri ogni elemento oggettivo in grado di avvicinarlo al meglio alla realtà degli accadimenti: e solo dopo avere portato al massimo grado possibile questo percorso conoscitivo, anche attraverso tutti quegli strumenti che la tecnica offre, arrivi a trarne le conseguenze.
*Questo articolo riproduce, con minime variazioni, il testo presentato al Convegno organizzato il 15-17 giugno 2023 dall’Associazione Ingegneri Forensi, con il patrocinio tra gli altri dell’Università Alma Mater Studiorum di Bologna e del Comune di Bologna.
[1] Dipartimento di Ingegneria, Università degli Studi di Perugia
[2] Magistrato, Tribunale di Rieti
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