ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Il comma 1-bis dell’art. 573 c.p.p. - 2. Il contrasto di giurisprudenza - 3. L’intervento delle Sezioni unite.
1. Il comma 1-bis dell’art. 573 c.p.p.
Com’è noto l’art. 538 c.p.p. prevede che solo quando pronuncia sentenza di condanna il giudice penale può decidere sulla domanda per le restituzioni e per il risarcimento del danno: quando pronuncia sentenza di assoluzione o di proscioglimento, il giudice penale di primo grado non può riconoscere la responsabilità civile neppure nei casi in cui l’esclusione della responsabilità penale non lo precluderebbe.
Questa regola è derogata per i giudizi d’impugnazione dall’art. 576 c.p.p., che legittima la parte civile a impugnare ai soli effetti della responsabilità civile la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio, e dall’art. 578 c.p.p., che impone al giudice dell’impugnazione proposta contro una sentenza di condanna di pronunciarsi sull’azione civile anche se è sopravvenuta l’estinzione del reato per prescrizione o amnistia.
In tutti gli altri casi in cui non sia più in discussione la responsabilità penale, il giudice penale non può pronunciarsi sull’azione civile.
Con l’art. 573 comma 1-bis si è tuttavia previsto ora che, quando non sia più in discussione la responsabilità penale e l’impugnazione non sia inammissibile, l’azione civile sia trasferita in sede civile, in quanto il giudice d’appello o la Corte di cassazione «rinviano per la prosecuzione, rispettivamente, al giudice o alla sezione civile competente, che decide sulle questioni civili utilizzando le prove acquisite nel processo penale e quelle eventualmente acquisite nel giudizio civile». Ed è questa evidentemente una norma di favore per la parte civile, perché la esime dall’onere di iniziare daccapo in sede civile un giudizio in cui può ancora far valere la sua pretesa risarcitoria non preclusa dal giudicato.
Infatti la previsione che il giudice civile «decide utilizzando le prove acquisite nel processo penale», è certamente compatibile con l’orientamento prevalente della giurisprudenza civile, ma dovrebbe comportare il riconoscimento di un obbligo di utilizzazione delle prove provenienti dal processo penale, con un superamento dell’affermazione che il giudice civile «ben può utilizzare, senza peraltro averne l'obbligo, come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale»[1]. Vero è in realtà che le prove formate nel processo penale sono considerate atipiche nel processo civile; e che «l'art. 116 c.p.c. conferisce al giudice di merito un potere ampiamente discrezionale del quale, attenendo esso alle cosiddette prove atipiche o innominate, va motivatamente giustificato l'uso, e non già, come invece in caso di mancata valutazione delle prove tipiche (e salvo sempre il principio del libero convincimento), il non uso»[2]. Tuttavia ora l’art. 573 comma 1-bis c.p.p. prevede appunto l’obbligo, non solo la facoltà, del giudice civile di valutare le prove acquisite nel processo penale. Sicché solo quando si tratti di prove non ammissibili in sede civile, come la testimonianza del danneggiato dal reato, dovrebbe applicarsi l’art. 116 c.p.c., che ne ammette la valutazione come meri argomenti di prova[3].
2. Il contrasto di giurisprudenza
Nella giurisprudenza di legittimità si è nondimeno aperto un contrasto sull’applicabilità dell’art. 573 comma 1-bis c.p.p. anche nei giudizi di impugnazione proposti contro una sentenza pronunciata prima del 30 dicembre 2022, data di entrata in vigore della riforma[4].
Tuttavia, poiché non si tratta qui del regime di impugnabilità della decisione bensì del rito applicabile nel giudizio di impugnazione già in corso, deve ritenersi che la norma sia immediatamente applicabile anche nei giudizi relativi a impugnazioni proposte contro decisioni pronunciate prima della sua entrata in vigore.
Per escludere l’immediata applicabilità della riforma, si è sostenuto che «le indicazioni fornite dalla Corte costituzionale con sentenza n. 182 del 2021, secondo cui, in caso di prosecuzione del giudizio davanti al giudice civile, il giudice penale, chiamato a verificare la sussistenza del reato, deve attenersi al criterio civilistico del "più probabile che non", e non a quello penalistico dell'alto grado di probabilità logica, non legittimano la piena sovrapponibilità della fisionomia del giudizio relativo ai soli interessi civili svolto in sede penale rispetto a quello che si tiene dinanzi al giudice civile, in ragione delle peculiarità di quest'ultimo rispetto al primo, quali l'esigenza di tutela dell'affidamento maturato dall'impugnante - che può essere non solo la parte civile, ma anche il danneggiante, già imputato - in ordine alla certezza delle regole processuali e dei diritti eventualmente già maturati»[5].
Sennonché l’applicazione in sede civile del «criterio civilistico del "più probabile che non"» giova ovviamente al danneggiato, mentre l’applicazione in sede penale della regola dell'”alto grado di probabilità logica” non esime l’imputato dalla responsabilità civile eventualmente compatibile con l’esclusione della responsabilità penale.
Fonda dunque su una petizione di principio l’affermazione che, a «tutela dell'affidamento maturato dall'impugnante», occorre differire l’applicazione dell’art. 573 comma 1-bis c.p.p.
3. L’intervento delle Sezioni unite
Intervenute a risolvere il contrasto di giurisprudenza, le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno enunciato il seguente principio di diritto: «l'art. 573 comma 1-bis c.p.p., introdotto dall'art. 33 del d. lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, si applica alle impugnazioni per i soli interessi civili proposte relativamente ai giudizi nei quali la costituzione di parte civile sia intervenuta in epoca successiva al 30 dicembre 2022, quale data di entrata in vigore della citata disposizione»[6].
Ha ritenuto la corte che, poiché in caso di rinvio per la prosecuzione in sede civile «il giudizio è sempre quello iniziale che prosegue, senza soluzione di continuità, dalla sede penale a quella civile, il possibile epilogo decisorio oggi rappresentato, in caso di impugnazione residuata per i soli effetti civili, dall'art. 573 comma 1-bis, cit., dovrà essere contemplato dalla parte civile sin dal momento dell'atto di costituzione e a tale epilogo la stessa dovrà dunque far fronte strutturando le ragioni della domanda in necessaria sintonia con i requisiti richiesti dal rito civile», come ora prescrive l’art. 78 comma 1, lettera d) c.p.p., esigendo che, diversamente dal passato, l'esposizione delle ragioni che giustificano la domanda siano specificamente destinate «agli effetti civili». Sicché la parte civile costituitasi prima della riforma del 2022 potrebbe trovarsi ad aver formulato la propria domanda in forme incompatibili con l’imprevedibile trasferimento della decisione alla sede civile, considerato che ora l’art. 163 comma 3, n. 4, c.p.c. esige «l'esposizione in modo chiaro e specifico» delle ragioni della domanda.
Tuttavia anche questa argomentazione è palesemente fallace.
Vero è infatti che, secondo la giurisprudenza penale precedente la riforma del 2022, «per soddisfare i requisiti di cui all'art. 78, lett. d), è sufficiente il mero richiamo al capo di imputazione descrittivo del fatto, allorquando il nesso tra il reato contestato e la pretesa risarcitoria azionata risulti con immediatezza»[7]. Ma con riferimento alla causa petendi la giurisprudenza civile distingue tra "domande eterodeterminate", nelle quali è il fatto costitutivo a individuare la domanda (in quanto con esse vengono dedotti diritti, come quelli di obbligazione, che "possono esistere contemporaneamente più volte tra i medesimi soggetti con lo stesso contenuto"), e "domande autodeterminate", nelle quali è l'affermazione del rapporto giuridico a individuare la domanda (perché vengono dedotti in giudizio diritti, come quelli di proprietà, che non possono coesistere simultaneamente più volte tra gli stessi soggetti). Ed è indiscusso che con la pretesa risarcitoria si fa valere «un diritto di credito eterodeterminato, la cui individuazione avviene in base ai fatti costitutivi della "causa petendi"»[8]. Mentre è noto che, ai fini della contestazione dell’accusa nel processo penale, l’art. 417 esige appunto «l'enunciazione, in forma chiara e precisa, del fatto».
Sicché, essendo indiscusso nella giurisprudenza civile che «la domanda introduttiva di un giudizio di risarcimento del danno, poiché ha ad oggetto un diritto c.d. eterodeterminato, esige che l'attore indichi espressamente i fatti materiali che assume essere stati lesivi del proprio diritto»[9], è una petizione di principio affermare che non sia sufficiente ai fini dell’art. 163 c.p.c. il riferimento al capo di imputazione nel quale il fatto sia enunciato, come prescritto dall’art. 417, «in forma chiara e precisa».
Infatti si ritiene correttamente che l'impegno argomentativo necessario a giustificare l'esercizio dell'azione civile nel processo penale dipende dalla natura delle imputazioni e dal rapporto tra i fatti lamentati e la pretesa fatta valere in giudizio dalla parte civile, perché si richiede l'enunciazione delle ragioni che giustificano la proposizione della domanda, non anche delle ragioni che possano determinarne l'accoglimento. Sicché, quando questo rapporto è immediato, come nel caso in cui si lamenti un'ingiuria o un danneggiamento o una minaccia, ai fini dell'esposizione della causa petendi è sufficiente il riferimento al fatto descritto nel capo d'imputazione e all'identificazione dell'attore con la persona destinataria offesa[10]. E contrariamente a quanto si assume, l’esplicito riferimento alla finalità civile della domanda, aggiunto nel 2022 all’art. 78 comma 1, lettera d) c.p.p., ha attenuato, non aggravato, l’onere argomentativo per la parte civile che intenda costituirsi nel processo penale.
[1] Cass. civ., III, 7 maggio 2021, n. 12164, m. 661325, Cass. civ., sez. III, 25 giugno 2019, n. 16893, m. 654422.
[2] Cass., sez. II, 24 febbraio 2004, n. 3642, m. 570448.
[3] A. NAPPI, Nuova guida al codice di procedura penale, www.guidanappi.it, §79.2, Cass., sez. I, 14 settembre 2022, n. 27016, m. 665988.
[4] In senso affermativo Cass., sez. IV, 11 gennaio 2023, Fca Italy , m. 284012, Cass., sez. II, 2 febbraio 2023, Seno, m. 284216, Cass., sez. III, 11 gennaio 2023, Ambu, m. 284248, Cass., sez. II, 3 febbraio 2023, Guccio, m. 284396. In senso negativo Cass., sez. V, 20 gennaio 2023, Razzaboni, m. 284019, Cass., sez. V, 16 gennaio 2023, Cucinotta, m. 284121, Cass., sez. V, 24 gennaio 2023, Bertuzzi, m. 284329. Le due prime decisioni sono pubblicate in Sist. Pen. 2023, con nota di L.PARODI. La questione è stata rimessa alle Sezioni unite. In tema anche G. BIONDI, La riforma Cartabia e le impugnazioni: le prime questioni di diritto intertemporale sull'applicabilità dell'art. 573, comma 1-bis, c.p.p. ai giudizi in corso, in Sist. pen., 2023, G. SPANGHER, Regime transitorio delle impugnazioni per i soli interessi civili. (Impugnazioni - Interessi civili), in Giur. it., 2023, p. 675.
[5] Cass., sez. V, 16 gennaio 2023, Cucinotta, m. 284121.
[6] Cass., sez. un., 25 maggio 2023, Di Paolo.
[7] Cass., sez. II, 15 luglio 2020, Rosati, m. 279490.
[8] Cass., sez. I, 12 novembre 2013, n. 25378, m. 628474, Cass., sez. I, 15 settembre 2020, n. 19186, m. 658987.
[9] Cass., sez. I, 12 ottobre 2012, n. 17408, m. 624080, Cass., sez. I, 4 maggio 2018, n. 10577, m. 648595.
[10] A. NAPPI, Nuova guida al codice di procedura penale, www.guidanappi.it, §79.1.
Il 16 gennaio 2023 è una data da cerchiare in rosso vivo sul calendario: segna una decisiva - e da tempo attesa - vittoria dello Stato contro la mafia, l'affermazione dello stato di diritto rispetto alla barbarie di Cosa Nostra. Quel giorno, nel placido mattino invernale di Palermo, è stato arrestato il più pericoloso e ricercato stragista corleonese, latitante da trent'anni.
Una vittoria investigativa che riempie di speranza, eppure dal retrogusto amaro. Perché "La Cattura" (che dà il titolo al libro del procuratore Maurizio de Lucia e di Salvo Palazzolo, Feltrinelli, 2023) di Matteo Messina Denaro ha fatto emergere il vero volto della borghesia mafiosa, composta di intrecci e complicità su tutti i livelli, sopratutto i più elevati.
«La mafia è un sistema che in Sicilia contiene e muove gli interessi economici e di potere di una classe che approssimativamente possiamo dire borghese». Lo diceva Sciascia nel 1971, utilizzando proprio questo avverbio: "approssimativamente". Quell’anno si inaugurava la striscia degli omicidi eccellenti con Pietro Scaglione, il primo dei magistrati uccisi dalla mafia. Vent’anni dopo quella classe approssimativamente borghese si è imborghesita del tutto e ha avuto la forza militare e le complicità necessarie per uccidere i due magistrati più esposti. Dovevano passare ancora vent'anni, anzi trenta, per assicurare alla giustizia quel Messina Denaro allievo prediletto di Totò Riina, penetrato a tal punto nel tessuto sociale della Sicilia da non dovere più nascondere il suo volto: la sua era una vita piena, oggi si direbbe borghese (per l'appunto), e in quell'intreccio di relazioni scorreva una latitanza che sembrava dover essere eterna.
Così, "La cattura", col suo racconto in presa diretta dallo stile secco e avvincente (proprio come si sviluppa una indagine nel concreto operare di magistrati e polizia giudiziaria in sinergia tra loro: in stile secco e avvincente), si traduce nel progressivo disvelamento della rete che ha protetto la latitanza del boss. Personaggi - non solo della sua famiglia, non solo del suo ambiente criminale, questo il punto - che emergono da una nebbia investigativa che via via si dirada. Emerge l'insospettabile che ha prestato la sua identità al boss per consentirgli di curarsi; emerge il "cerchio magico" degli imprenditori collusi, che ha permesso a Messina Denaro di accumulare un patrimonio inestimabile; emergono i colletti bianchi che hanno concesso tutte le garanzie e tutti gli agi di una latitanza dorata, tra i quali spiccano i politici che hanno messo a disposizione il proprio ruolo istituzionale in cambio del sostegno elettorale delle famiglie mafiose. E' sempre la solita storia. E' il cuore della borghesia mafiosa, il cuore nero della mafia, che è una realtà conclamata, tanto abominevole quanto insondabile, inafferrabile. Ma non invincibile.
Nel libro questa selva di personaggi è infatti spazzata via dalla forza simbolica contenuta nelle gesta di altri - ben altri - personaggi, i veri protagonisti della storia, a prescindere dal loro ruolo e dai loro nomi - perché quando si sta dalla parte giusta non esiste primo, secondo o terz'ordine, né un registro dei presenti. Ci sono i ragazzi della "Siena 2", la scorta di finanzieri che proteggono il procuratore de Lucia da una vita; ci sono i ragazzi di Crimor guidati sul campo da <<un giovane maggiore che ha un bel nome di battaglia, Ulisse. Speriamo porti fortuna>>; quelli del Gis arrivati da Livorno, alcuni viaggiando in nave fingendosi camionisti; c'è il colonnello Arcidiacono, <<un ragazzone alto un metro e novantasei, sempre di buon umore, anche nei momenti complicati>>; c'è Paolo Guido, il procuratore aggiunto che dal 2017 coordina l'inchiesta su Messina Denaro, costretto a rinviare il viaggio a Torino per vedere il concerto di Paolo Baglioni perché la "cattura" sembra essere diventata una possibilità concreta - e c'è tanta umanità nell'abbraccio che si scambia col suo procuratore il giorno prima della cattura, e prima di chiedersi: <<Chi dormirà stanotte?>>.
E poi, appunto, c'è Maurizio de Lucia, tornato a Palermo dopo 13 anni e una brillante carriera inanellata di importanti vittorie dello Stato sulle cosche della Sicilia, compreso lo scacco alla mafia dei Nebrodi. Questo libro è, sopratutto, il racconto appassionato e in prima persona - in forma di diario - del procuratore della Repubblica di Palermo, un ufficio <<che non è più il palazzo dei veleni, com'era negli anni Ottanta>>, oggi capofila nella lotta alla mafia dove <<l'entusiasmo e l'impegno non mancano>>, anche se a volte magistrati e investigatori <<si rabbuiano in volto>>.
Ma nella sua intima sostanza, questo non è il diario del procuratore de Lucia. E' il diario di uno Stato che non si arrende: nonostante le operazioni, gli arresti e le condanne in gran numero, <<sembra che Cosa nostra non abbia alcuna intenzione di indietreggiare. Ma neanche noi indietreggiamo>>. E' il diario di un magistrato integro che restituisce orgoglio a tutta la categoria, funestata da una questione morale che dura ormai (troppi) anni, che lavora a testa bassa <<per rendere più efficiente il servizio giustizia alla comunità>>. E' il diario di un cittadino siciliano - che ha un cane di nome Fidel che abbaia ad ogni trillo del citofono - a tratti preso dallo sconforto perché <<la lotta alla mafia non è una priorità. Nella società, nella politica>>.
Il procuratore de Lucia sembra un personaggio romanzato, uscito dalla penna di Vázquez Montalbán, invece è tanto reale, è tanto calato nel flusso degli eventi (eventi che riguardano tutti noi), da essere stato proprio lui ad avere annunciato in conferenza stampa l'arresto di Matteo Messina Denaro quel fatidico 16 gennaio, affermando che veniva così saldato, almeno in parte, il debito della Repubblica nei confronti dei suoi martiti. Parole che rimarranno scolpite nella storia di questo Paese, e che da oggi hanno quale corollario anche la storia della "cattura", che racconta cosa c'è stato prima, cosa dopo, cosa dietro. E poi c'è il futuro della lotta alla mafia. <<Una storia in cui è stato messo un punto, ma non c'è ancora la parola fine>>.
La borghesia mafiosa è il
cuore nero della mafia, ed è una realtà conclamata, tanto
abominevole quanto insondabile, inafferrabile: lo riconosco.
Come l’ha chiamata lei, invece? La zona grigia.
La zona grigia non esiste, è solo un nome convenzionale
che diamo, senza saperlo, alla nostra incapacità di discernere
tra bene e male, ai nostri sentimenti più pavidi,
che ci impediscono di scegliere da che parte stare una
volta per tutte.
*Intervento al convegno di Modanella 16-17 giugno 2023 “Sindacato sulla discrezionalità e ambito del giudizio di cognizione
Gli autorevoli e diversificati interventi di queste Giornate di Studio ci hanno offerto l’occasione per riflettere sulla ormai più che secolare esperienza del sindacato sulla discrezionalità della pubblica amministrazione.
Da alcuni casi portati in rassegna dai relatori che mi hanno preceduto emerge che il tipo di sindacato del giudice amministrativo è inevitabilmente legato alla fiducia o sfiducia verso l’operato della pubblica amministrazione. In particolare, come evidenziato magistralmente dal Presidente Marco Lipari, durante i lavori di queste giornate di studio sono emerse due prospettive di analisi: “troppo sindacato o troppo poco sindacato del giudice amministrativo”.
La presunta differenziazione tra un eccesso e un difetto di sindacato giurisdizionale mi convince che non c’è, anzi che non deve esserci, una regola uniforme applicabile a tutte le fattispecie oggetto di cognizione da parte del giudice amministrativo. Diversamente opinando, per la risoluzione delle controversie, basterebbe affidarsi all’intelligenza artificiale. Ritengo, dunque, che il sindacato sia a geometria variabile ovvero vari a seconda dei settori nei quali viene esercitato (pianificazione urbanistica, interdittive antimafia, pianificazione e programmazione sanitaria, concorsi pubblici, ecc.).
Il mio intervento, quindi, muove dall’assunto che non sia possibile stabilire una regola standard, in quanto il tipo di sindacato del giudice amministrativo è influenzato da vari fattori e muta, altrettanto, in relazione al grado di dettaglio della norma attributiva del potere alla pubblica amministrazione.
In tale contesto, partendo dal caso singolo, il mio contributo intende analizzare l’esercizio del potere nel settore dell’incentivazione energetica, alla luce dei principi ormai consolidati nella giurisprudenza[1]. Andrò quindi a focalizzare il sindacato giurisdizionale sugli atti del G.S.E..
Al centro del mio interesse sono il potere e il suo esercizio da parte del Gestore, il correlativo controllo giudiziale in relazione alla natura del potere esercitato, assumendo, quale prospettiva di analisi, la necessità che sia assicurata la tutela piena ed effettiva al cittadino o all’impresa.
Il GSE s.p.a. è il soggetto che, seppur nella veste di società per azioni, il cui azionista unico è il Ministero dell’economia e delle finanze, svolge funzioni di natura pubblicistica nel settore elettrico e, in particolare, in tema di incentivazione dell’energia elettrica da fonte rinnovabile, sovraintendendo alla gestione del relativo sistema pubblico di incentivazione, anche mediante la concreta erogazione delle tariffe. Rientra, quindi, nel novero dei soggetti privati svolgenti pubbliche funzioni, posto che è munito dalla legge di funzioni pubbliche correlate – tra l’altro – alla diffusione delle energie da fonte rinnovabile[2], al controllo ed alla gestione dei flussi energetici di tale provenienza ed all’assolvimento degli obblighi imposti dalla legge agli operatori del settore energetico.
Il Gestore dei Servizi Energetici S.p.a. cura sia i procedimenti amministrativi volti al riconoscimento del diritto all'incentivo sia la successiva erogazione.
Le modalità per l'ammissione ai benefici sono disciplinate attraverso lo svolgimento di procedure di gara competitive, condotte in base a principi di trasparenza e non discriminazione.
Il rapporto incentivante è regolato da una convenzione che accede al provvedimento di accoglimento dell'istanza di incentivazione. Al riguardo, la Corte costituzionale, n. 16 del 2017, ha evidenziato che le convenzioni stipulate con il Gestore sono negozi di diritto privato accessori ai provvedimenti di concessione degli incentivi e “costituiscono strumenti di regolazione, volti a raggiungere l’obiettivo dell’incentivazione di certe fonti energetiche nell’equilibrio con le altre fonti di energia rinnovabili, e con il minimo sacrificio per gli utenti che pure ne sopportano l’onere economico”.
Nella normativa internazionale e in quella comunitaria si rinviene un netto favore, con conseguente politica di incentivazione per le fonti energetiche rinnovabili, al fine di eliminare la dipendenza dai carburanti fossili. Il sistema di sostegno alle fonti di energia rinnovabile è funzionale al raggiungimento di una pluralità di obiettivi, tra i quali la tutela dell'ambiente e la realizzazione di meccanismi di risparmio ed efficienza energetica diffusi a tutti i livelli, che consentono di conseguire lo sviluppo sostenibile della società con un minore impiego di energia, così soddisfacendo le esigenze delle generazioni attuali, senza compromettere la qualità della vita e le possibilità delle generazioni future.
Tale favor si traduce in concreto in varie forme di incentivazione economica e in un sistema di semplificazione normativa[3] per l’installazione degli impianti di produzione di energia da fonte rinnovabile. Le forme di incentivazione economica alle imprese che operano nella produzione di energie alternative hanno l'obiettivo di tendere ad una equiparazione delle capacità di reddito dei relativi impianti rispetto a quelli tradizionali, così favorendo gli investimenti nel settore.
La previsione di contributi tariffari, e quindi lo stesso regime di sostegno e promozione delle fonti rinnovabili di energia, costituisce uno strumento d’indirizzo della produzione energetica nazionale, innestandosi in un’area dominata dalla necessità di tutelare e bilanciare rilevanti interessi pubblici e privati.
In genere, al GSE sono affidati i compiti di verificare la sussistenza dei presupposti e dei requisiti normativi per l’accesso e il mantenimento degli incentivi per la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili.
Tra le funzioni svolte dal Gestore vi è quella, tra l’altro, di verificare se gli importatori o i produttori di energia prodotta da fonti non rinnovabili abbiano o meno rispettato, in rapporto all’annualità chiusa al 31 dicembre dell’anno precedente alla verifica, la cd. quota d’obbligo, e cioè l’obbligo legale di produrre e immettere in rete (ovvero di acquistare per il tramite dei cd. certificati verdi) una quota di energia prodotta da fonte rinnovabile.
Tale compito di verifica si risolve in una eminente funzione amministrativa di controllo sull’attività economica privata e, come tale, si caratterizza per la sua significativa rilevanza pubblica, inquadrandosi nell’alveo dei controlli, espressamente previsti dalla Carta costituzionale (art. 41, comma 3 Cost.), che i pubblici poteri esercitano sull’attività economica privata per assicurare che la stessa persegua gli specifici fini sociali previsti dalla legge[4]. In tale contesto, l’adempimento della quota d’obbligo, riguardata dal versante dei soggetti obbligati, si atteggia alla stregua di una prestazione patrimoniale imposta (art. 23 Cost.), la cui previsione a livello di normazione primaria (art. 11 del d.lgs. n. 79/99) soddisfa il requisito costituzionale della riserva relativa di legge.
Da queste premesse consegue che hanno natura provvedimentale gli atti a mezzo dei quali il GSE dispone la decadenza degli incentivi o accerta il mancato assolvimento, da parte degli importatori o produttori di energia da fonte non rinnovabile, degli obblighi, previsti dalla normativa di settore, per il conseguimento e mantenimento delle tariffe incentivanti.
In sintesi, i procedimenti tesi all’erogazione di incentivi per la produzione di energia da fonti rinnovabili hanno tratti prettamente pubblicistici di natura evidenziale, in quanto: 1) gestiti da un soggetto a totale partecipazione pubblica e deputato al perseguimento di fini pubblici; 2) caratterizzati da una predeterminazione normativa dei requisiti e dei criteri di priorità (penso all’iscrizione nei registri degli impianti idroelettrici); 3) volti ad individuare gli operatori economici meritevoli di percepire una risorsa scarsa, quale è l’ausilio finanziario pubblico; 4) fondate sull’autoresponsabilità dei concorrenti; nella logica si semplificazione del procedimento- secondo una linea confermata recentemente in generale anche dalla previsione dell'art. 18, comma 3-bis, L. 7 agosto 1990, n. 241[5]- grava sull'interessato l'onere di fornire tutti gli elementi documentali e dichiarativi idonei a dar prova della sussistenza delle condizioni per l'ammissione ai benefici inerenti alle tariffe incentivanti per gli impianti fotovoltaici, ricadendo sullo stesso eventuali carenze che incidano sul perfezionamento della fattispecie agevolativa.
Illustrato il quadro normativo di riferimento, prima di passare ad analizzare il sindacato giurisdizionale sugli atti del GSE occorre circoscrivere il perimetro del sindacato del GA, in base alla natura degli atti del GSE.
L’Adunanza plenaria 9/2019 evidenzia la natura duale (provvedimentale/non provvedimentale) degli atti del GSE ai fini della tutela in giudizio:
- se viene in contestazione un provvedimento di rigetto o di decadenza dagli incentivi ovvero un atto accertativo della inadempienza dell’operatore agli obblighi stabiliti, attesa la natura provvedimentale dell’atto, si applica l’ ordinario termine decadenziale di impugnazione di 60 giorni;
- se viene in contestazione, invece, la determinazione del dovuto da parte del GSE, con una azione di ripetizione dell’indebito, la controversia non afferisce all’esercizio di un potere autoritativo, ma a mere posizioni patrimoniali delle parti, giustiziabili nel termine prescrizionale del diritto fatto valere.
Tale natura duale, d’altra parte, risulta pienamente coerente con la scelta del legislatore, non altrimenti giustificabile ove non connessa all’esercizio di potere autoritativi (cfr. Corte Cost. 204/2004), di attribuire alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo la giurisdizione in questa materia (art. 133, comma 1, lett.o c.p.a.[6])
Passando al tema del sindacato del GA sugli atti del GSE è evidente che questo varia in relazione alla diversa natura del potere esercitato.
Con riferimento ai provvedimenti con i quali il GSE dispone la “revoca” (in senso a-tecnico) degli incentivi, la giurisprudenza li qualifica come provvedimenti di decadenza[7], adottati all’esito di una vicenda pubblicistica estintiva, ex tunc (o in alcuni casi ex nunc), di una posizione giuridica di vantaggio (c.d. beneficio).
È stato, infatti, chiarito che la decadenza è un istituto che, pur presentando tratti comuni con il più ampio genus dell’autotutela e del riesame, ne deve essere opportunamente differenziato, caratterizzandosi specificatamente:
a) per la tipologia del vizio, more solito individuato nella falsità o non veridicità degli stati e delle condizioni dichiarate dall’istante, o nella violazione di prescrizioni amministrative ritenute essenziali per il perdurante godimento dei benefici, ovvero, ancora, nel venir meno dei requisiti di idoneità per la costituzione e la continuazione del rapporto; b) per il carattere vincolato del potere, una volta accertato il ricorrere dei presupposti previsti dalla legge.
Tale potere è vincolato nei provvedimenti di rigetto della domanda o di decadenza dagli incentivi. A sua volta tale decadenza può essere totale o parziale. È parziale se è disposta solo con riferimento ad una determinata maggiorazione tariffaria[8] oppure in applicazione del potere di decurtazione (infra).
Tali provvedimenti, alla luce della numerosa casistica giurisprudenziale, implicano l’espletamento di accertamenti tecnici[9] da parte del GSE.
I provvedimenti di decadenza emessi dal Gestore ai sensi dell’art. 42, comma 3, del d.lgs. n. 28 del 2011 dalla pacifica e unanime giurisprudenza hanno carattere vincolato. Questi non sono stati ritenuti assimilabili a quelli di autotutela amministrativa e ciò anche dopo la novella all’art. 42 operata dall’art. 56, comma 7, del D.L.76/2020, convertito dalla legge 11 settembre 2020, n.120, che rimanda, nell’esercizio del potere di decadenza, alla verifica dei presupposti di cui all’art. 21 nonies della legge 7 agosto 1990, n. 241. Trattandosi di potere vincolato e di procedimenti ad istanza di parte, ciò comporta la necessità di motivare da parte del GSE il provvedimento di decadenza dal regime incentivante. Dunque, con le novità introdotte dall’art. 56 il GSE , anche in fase di recupero degli incentivi, dovrà valutare e ponderare, non solo l’interesse pubblico a tutela della finanza pubblica, ma anche il distinto interesse pubblico alla produzione energetica da fonte rinnovabile e quindi i valori ambientali e produttivi, confrontandolo con l’interesse privato al mantenimento del beneficio concesso. In altri termini, il GSE non può conferire automatica priorità alla conservazione delle risorse assegnategli tenuto conto che il DL 76/2020, impone, sia in fase di decadenza sia in fase di riesame, una motivazione sulle singole fattispecie che hanno indotto alla decadenza dall’incentivazione[10].
Occorre ora passare ad esaminare l’esercizio del potere discrezionale del GSE.
Il potere è puramente discrezionale: nella valutazione della non grave rilevanza delle violazioni accertate, presupposto che giustifica la decurtazione della sanzione (decadenza parziale), anziché la decadenza totale dall’incentivo.
L’accertamento della “rilevanza” della violazione assume importanza primaria anche con riferimento all’intensità del collegamento tra il comportamento violativo e il beneficio goduto, di modo che la decadenza non abbia a provocare effetti ablatori esorbitanti rispetto al beneficio innanzi riconosciuto.
È pure frutto di scelta discrezionale, non solo l’“an”, ma anche il “quantum” ovvero la misura della decurtazione dell’incentivo, che la legge consente di effettuare tra il minimo del 10 e il massimo del 50 % , in ragione dell’entità della violazione, eccettuati i casi in cui è la legge stessa che, per gli impianti fotovoltaici, al dichiarato fine di salvaguardare la produzione di energia elettrica derivante da tale fonte rinnovabile, ha già stabilito la decurtazione minima del 10 % della tariffa incentivante per l’ipotesi di installazione di moduli non certificati o con certificazioni non rispondenti alla normativa europea, con previsione di una minore decurtazione del 5% per l’ipotesi di “ravvedimento operoso” ovvero qualora tale mancanza sia dichiarata dal soggetto beneficiario al di fuori dei procedimenti di controllo.
A tali diversi poteri corrisponde, sul piano del sindacato giurisdizionale, un diverso grado di tutela.
In caso di rigetto della domanda o di decadenza dall’incentivo il provvedimento del GSE sottrae un bene economico al privato e comprime la sua sfera giuridica con un atto restrittivo a fronte del quale si configura un interesse legittimo di tipo oppositivo. In questi casi, il processo ha finalità caducatorie: l’interesse materiale del ricorrente è immediatamente e pienamente soddisfatto dall’annullamento dell’atto, a seguito del quale la situazione sostanziale si riespande ed assume la dimensione che per legge deve avere. Possono ad esempio rendersi necessarie, eventualmente, misure ripristinatorie e risarcitorie, oggi esplicitamente previste anche dal codice del processo amministrativo (artt. 30 e 34, comma 1, lett. c), c.p.a.), al fine di rendere la situazione di fatto conforme a quella di diritto e di reintegrare, dal punto di vista patrimoniale, la posizione di colui che è stato danneggiato dall’illegittimo uso del potere. Il privato, per ottenere tutela contro gli atti di decadenza dagli incentivi del GSE, non ha bisogno che venga emanato un nuovo atto o un nuovo provvedimento, essendo sufficiente l’annullamento di quello impugnato; anzi, la sua aspirazione è che sia impedito al GSE di incidere nuovamente sulla sua posizione giuridica, con atti di contenuto uguale o simile a quello annullato. Il giudicato, quindi, deve ostacolare la riedizione del potere, impedendo l’emanazione di nuovi atti (lesivi) di tipo ripetitivo.
L’accoglimento del ricorso, con l’annullamento del provvedimento di decadenza, comporta la reviviscenza dell’originario provvedimento di erogazione degli incentivi per la produzione di energia da fonti rinnovabili, con conseguente pieno soddisfacimento della pretesa sostanziale. La tutela in questi procedimenti può dirsi rispondere al principio-cardine, solennemente fissato dal c.p.a nel suo primo articolo, di pienezza ed effettività della tutela, che si realizza, nella maggioranza dei casi, nel giudizio di cognizione; il sindacato del GA, in sede di giurisdizione esclusiva (art. 133, comma 1, lett.o c.p.a.), si esercita, infatti, sul provvedimento che ha disposto la decadenza dagli incentivi o dall’incentivazione degli interventi di efficienza energetica (TEE o cosiddetti certificati bianchi).
Diverso tipo di sindacato è invece configurabile sul potere di decurtazione della tariffa incentivante prevista dall’art. 42 comma 3 del D.lgs. 28/2011, come risultante dalle modificazioni introdotte dall’art. 56 del D.L. 76/2020, contenente, la previsione della decurtazione dell'incentivo in misura ricompresa fra il 10 e il 50 per cento in ragione dell'entità della violazione. Il legislatore ha introdotto, nell'esercizio dei poteri di controllo in materia di riconoscimento degli incentivi per la produzione di energia da fonti rinnovabili, il principio di proporzionalità e adeguatezza dell'azione amministrativa: non tutte le violazioni rilevanti ai fini dell'erogazione degli incentivi, come tali individuate nella decretazione ministeriale attuativa, determinano l'impossibilità di accedere agli incentivi ovvero la decadenza dagli stessi, ma soltanto quelle connotate da maggiore gravità.
Il legislatore[11] ha demandato ad un decreto ministeriale attuativo del Ministero dello sviluppo economico la disciplina di un nuovo sistema organico dei controlli, con l’individuazione delle violazioni “non rilevanti”, che danno luogo a decurtazione dell'incentivo, in relazione a ciascuna fonte, tipologia di impianto e potenza nominale.
Tale decreto attuativo, previsto dalla legge 205 del 2017 (art. 1, comma 960), alla data del presente intervento, non risulta adottato.
Il GSE ha quindi sostenuto che la mancata adozione del DM priverebbe il Gestore del potere di disporre la decurtazione dell’incentivo, potendo solo disporre la decadenza.
Tale tesi non è stata tuttavia accolta dalla Giurisprudenza, la quale ha stabilito che il potere di decurtazione percentuale, unitamente alla misura minima e massima di decurtazione consentita, è già stabilito dalla normativa vigente. Al decreto di cui al comma 5 lett. c bis) del citato art. 42 è demandata solo la specificazione delle singole violazioni e dell’entità percentuale di decurtazione correlata a ciascuna di esse. Al decreto attuativo spetta quindi la perimetrazione dell’attività tecnico discrezionale del Gestore con conseguente semplificazione del relativo onere motivazionale.
La giurisprudenza, dunque, in mancanza della disciplina di riferimento, ha stabilito che la rilevanza delle violazioni accertate deve essere ancorata alle fattispecie indicate nell’allegato 1 al c.d. decreto controlli (d.m. 31 gennaio 2014)[12], con una elencazione per la quale, peraltro, viene espressamente esclusa la tassatività (ex art. 11 del citato decreto controlli).
Al di fuori di questa elencazione, non tassativa e in attesa dell’adozione del nuovo decreto controlli è demandata alla discrezionalità del Gestore, la verifica, caso per caso, nelle fattispecie concrete di violazioni, elusioni o inadempimenti, pur rilevanti ma diversi da quelli contemplati nell’allegato 1, dai quali consegua l’indebito accesso agli incentivi che giustifica il provvedimento di decadenza.[13]
In particolare, il GSE è tenuto a ponderare gli interessi in gioco: la salvaguardia del particolare interesse economico sotteso alla realizzazione dell’investimento, nonché dell’interesse generale alla produzione di energia da fonti rinnovabili; la tutela dell’interesse pubblico al corretto e razionale utilizzo delle risorse della collettività.
Quindi il GSE, non solo decide quali sono le violazioni rilevanti che comportano la decadenza dagli incentivi, ma, per le violazioni non gravi, ha anche il potere di stabilire la decurtazione dell’incentivo nell’ambito delle percentuali minime e massime stabilite dalla legge, tenendo in considerazione la gravità e la rilevanza della violazione riscontrata.
In questi casi, viene in gioco un ampio potere discrezionale del GSE che, in virtù del principio di riserva di amministrazione, non consente al GA di sostituirsi al GSE nella valutazione della gravità e rilevanza della violazione ai fini dell’esercizio del potere di decurtazione dell’incentivo da applicare.
Può il giudice amministrativo valutare la congruità della decurtazione della tariffa operata dal GSE?
Il sindacato sul potere di decurtazione e sulla valutazione di rilevanza delle violazioni, in assenza di un potere regolatorio da parte del Ministero, apre inevitabilmente il varco ad un ampio spazio di discrezionalità del GSE.
Il ragionamento sin qui svolto ci permette così di giungere al cuore della questione, concernente l’intensità del sindacato del giudice amministrativo nei confronti degli atti del GSE, avendo delineato alcune linee di fondo e, soprattutto, avendo operato una chiara scelta sul piano metodologico che richiede, coerentemente con quell’approccio pragmatico che è stato seguito, una preventiva indagine sulla struttura del potere di volta in volta sottoposto al vaglio del giudice amministrativo, da intendersi quale condizione imprescindibile per una verifica della coerenza del controllo giurisdizionale concretamente esercitato, con il canone della pienezza ed effettività del sindacato. Quest’ultimo è principio-cardine, solennemente fissato nel primo articolo del codice del processo amministrativo.
Più si allargano i confini della discrezionalità e del merito amministrativo, più il sindacato giurisdizionale incontrerà dei limiti e, di conseguenza, il grado di intensità della tutela sarà meno penetrante. Di contro, laddove nell’ambito delle scelte dell’amministrazione sia possibile operare una distinzione tra attività discrezionale e attività di interpretazione, ovvero, escludere in radice l’esistenza di profili di discrezionalità, il controllo giurisdizionale nei confronti della relativa attività ermeneutica svolta dall’amministrazione non incontrerà limiti, risultando perciò il relativo sindacato pieno ed effettivo.
Sul piano processuale, nel caso del potere di decurtazione, qualora il ricorrente contesti l’eccessiva misura della decurtazione subita (decadenza parziale dall’incentivo) l’interesse del ricorrente non è soddisfatto dal semplice annullamento dell’atto, ma è necessario che sia posto in essere un nuovo atto per conseguire il bene della vita. Da qui, l’esigenza che il giudicato definisca il potere e la sua fattispecie e che dia un comando e una regola di condotta pregnanti e vincolanti, di modo che al titolare sia vietato di addurre elementi impeditivi ulteriori, al fine di contrastare la realizzazione della pretesa della controparte. In virtù del principio di separazione dei poteri (c.d. riserva di amministrazione) il giudice non può sostituirsi all’amministrazione.
Mi avvio alle conclusioni.
Il potere amministrativo, come nel caso della mancata adozione del Decreto previsto dalla legge 205/2017, non sempre è conformato dal legislatore. In questo caso, il Giudice amministrativo, in via interpretativa, al fine di garantire una tutela piena ed effettiva, ha individuato un parametro legale nel “decreto controlli” del 2014.
Credo, dunque, che non sia possibile operare una teorizzazione generale sulla possibilità/impossibilità di sindacare la discrezionalità amministrativa ovvero sulla misura del sindacato esercitabile (“troppo sindacato/troppo poco sindacato”). Inevitabilmente occorre prendere atto che l’attività interpretativa del giudice amministrativo è influenzata da alcuni fattori: il dettaglio normativo; l’esistenza di principi nell’ordinamento di settore e gli scopi per cui il legislatore attribuisce un determinato potere.
Non è possibile quindi individuare una teoria unica della discrezionalità: ogni potere richiede un tipo di sindacato diverso. Si può discutere, dunque, su come il singolo potere è esercitato. Insomma, non esiste un metodo di sindacato standard: va utilizzato il metodo casistico del diritto romano, analizzando gli interessi di volta in volta coinvolti. D’altra parte, il diritto è una scienza pratica e quindi, nel caso analizzato, il giudice, a fronte di fior di investimenti realizzati dalle imprese nel settore dell’energia e, al fine di tutelare l’interesse pubblico perseguito dal legislatore (la prosecuzione degli impianti alla produzione di energia da fonte rinnovabile), in alcune fattispecie, ha ritenuto non coerente con tale politica di incentivazione, l’esercizio, da parte del Gestore, del potere di decadenza dagli incentivi, affermando la diretta applicazione, da parte del GSE, della decurtazione degli incentivi, pur in mancanza del decreto attuativo.
Ciò dimostra che, laddove il legislatore (o comunque il soggetto pubblico al quale il primo delega il potere di normazione) abdica all’esercizio pieno della propria funzione inevitabilmente- pena la realizzazione di un deficit di tutela- aumentano le maglie del sindacato del giudice amministrativo.
E quest’ultimo può intervenire solo in via interpretativa, non come “inventore” del diritto, ma come investigatore del significato dello ius positum, analizzando il quadro sistematico in coerenza con gli atti di indirizzo politico, nel rispetto del primato della legge e dello Stato costituzionale di diritto, nel quale spetta al legislatore dettare ilriferimento normativo dell’agire.
[1]Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, sentenze nn. 18 del 2020 e 9 del 2019; Corte costituzionale sentenze n. 237 del 2020 e n. 51 del 2017 e Corte di giustizia dell’Unione europea, sez. X, 11 luglio 2019, C-180/18, C-286/18, Agrenergy.
[2] Le fonti energetiche rinnovabili, anche definite alternative, sono quelle forme di energia che per loro caratteristica intrinseca si rigenerano o non sono "esauribili", il cui utilizzo non pregiudica le risorse naturali per le generazioni future.
[3] Nel sistema italiano - che già aveva sperimentato le misure di incentivazione introdotte dal D.Lgs. 29 dicembre 2003, n. 387 (Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell'energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell'elettricità) – si rivela cruciale l'emanazione del D.Lgs. n. 28 del 2011, che, recependo la direttiva 28/2009/CE, nell'esercizio della delega di cui alla L. 4 giugno 2010, n. 96 (Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee - Legge comunitaria 2009), ha riordinato il sistema degli incentivi nel rispetto, in particolare, del criterio direttivo di "adeguare e potenziare il sistema di incentivazione delle fonti rinnovabili" (art. 17, comma 1, lettera h, della legge di delega), perseguendo, tra l'altro, l'obiettivo indicato dallo stesso decreto legislativo di raggiungere nel 2020 la quota complessiva di energia da fonti rinnovabili sul consumo finale lordo di energia pari al 17 per cento (art. 3, comma 1).
[4] Cass., S.U., 10 aprile 2019, n. 10020, Cass., Sez. U., 24 febbraio 2014, n. 4326; Cass., S.U., 27 aprile 2017, n. 10409; Cass., S.U., 4 maggio 2017, n. 10795; Cass., S.U., 13 giugno 2017, n. 14653.
[5] L'art. 12, comma 1, lett. h), n. 2), D.L. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 settembre 2020, n. 120, ha aggiunto all’art. 18 della legge 241/1990 il comma 3 bis, il quale prevede che: “nei procedimenti avviati su istanza di parte, che hanno ad oggetto l'erogazione di benefici economici comunque denominati, indennità, prestazioni previdenziali e assistenziali, erogazioni, contributi, sovvenzioni, finanziamenti, prestiti, agevolazioni, da parte di pubbliche amministrazioni ovvero il rilascio di autorizzazioni e nulla osta comunque denominati, le dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, ovvero l'acquisizione di dati e documenti di cui ai commi 2 e 3, sostituiscono ogni tipo di documentazione comprovante tutti i requisiti soggettivi ed oggettivi richiesti dalla normativa di riferimento, fatto comunque salvo il rispetto delle disposizioni del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159”.
[6] La norma devolve alla giurisdizione esclusiva del GA: “le controversie, incluse quelle risarcitorie, attinenti alle procedure e ai provvedimenti della pubblica amministrazione concernenti la produzione di energia, i rigassificatori, i gasdotti di importazione, le centrali termoelettriche e quelle relative ad infrastrutture di trasporto ricomprese o da ricomprendere nella rete di trasmissione nazionale o rete nazionale di gasdotti”.
[7] Cons. Stato, Adunanza Plenaria 18/2020.
[8] Cons. Stato, Adunanza Plenaria 18/2020 ha ritenuto scindibile il beneficio, con conseguente possibilità per il GSE, di disporre una decurtazione parziale degli incentivi, ad esempio limitandole alla sola porzione incentivante, laddove la normativa prevede, in caso di ricorrenza di determinati presupposti, l’applicazione di una maggiorazione tariffaria (v. ad es. Decreto del Ministero dello sviluppo economico 5 maggio 2011, che stabilisce maggiorazioni tariffarie per gli impianti fotovoltaici aventi determinate caratteristiche, quali quella del 10 per cento per impianti costruiti con moduli provenienti, per almeno il 60%, dall’Unione europea).
[9] L’art. 2 del DM 31 gennaio 2014, che disciplina i controlli in materia di erogazione degli incentivi, prevede, ad esempio, che, “ai fini della verifica del diritto all'incentivo e della relativa determinazione, il GSE valuta, nell'esercizio delle funzioni di controllo, l'eventuale necessità di effettuare operazioni di campionamento e caratterizzazione chimico-fisica dei combustibili utilizzati negli impianti alimentati da biogas, bioliquidi e biomasse, ivi inclusi i rifiuti”.
Ancora, ad esempio: accertamento se un impianto fotovoltaico sia o meno integrato architettonicamente; accertamento della sussistenza del deflusso minimo vitale negli impianti idroelettrici ai fini dell’ottenimento di un maggiore incentivo; se il cogeneratore sia o meno di nuova installazione.
[10] Tar Lazio, sentenza 5 maggio 2022, n. 5602, Sezione III ter ha precisato che, in base ai principi affermati dalla Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 17 ottobre 2017, n. 8, in materia di autotutela, <<l’onere motivazionale gravante sul Gestore dei Servizi Energetici (GSE), in sede di esercizio del potere a questi spettante, potrà risultare “attenuato” in ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati e coinvolti nella vicenda oggetto di riesame, “al punto che, nelle ipotesi di maggior rilievo, esso potrà essere soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti circostanze di fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che risultano in concreto violate, che normalmente possano integrare, ove necessario, le ragioni di interesse pubblico che depongano nel senso dell’esercizio del ius poenitendi>>.
[11] Art. 1, comma 960, lett. b), della legge 205/2017, che ha modificato l’art.42, comma 5, d.lgs. 28/2001 prevede che:“Entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto, il GSE fornisce al Ministero dello sviluppo economico gli elementi per la definizione di una disciplina organica dei controlli che, in conformità ai principi di efficienza, efficacia e proporzionalità, stabilisca: … c-bis) le violazioni che danno luogo a decurtazione dell'incentivo ai sensi dell'ultimo periodo del comma 3”.
[12] Questo l’elenco delle violazioni rilevanti contenuto nell’allegato 1 al DM 2014:
a) presentazione al GSE di dati non veritieri o di documenti falsi, mendaci o contraffatti, in relazione alla richiesta di incentivi, ovvero mancata presentazione di documenti indispensabili ai fini della verifica della ammissibilità agli incentivi;
b) violazione del termine per la presentazione dell'istanza di incentivazione e, nel caso in cui sia determinante ai fini dell'accesso degli incentivi, la violazione del termine per l'entrata in esercizio;
c) inosservanza delle prescrizioni contenute nel provvedimento del GSE relativo all'esito dell'attività di controllo;
d) indisponibilità della documentazione da tenere presso l'impianto ai sensi dell'art. 9, comma 3, nel caso in cui se ne sia già accertata l'assenza nell'ambito di una precedente attività di controllo;
e) comportamento ostativo od omissivo tenuto dal titolare dell'impianto nei confronti del preposto al controllo o del gestore di rete, consistente anche nel diniego di accesso all'impianto stesso ovvero alla documentazione;
f) manomissione degli strumenti di misura dell'energia incentivata;
g) alterazione della configurazione impiantistica, non comunicata al GSE, finalizzata ad ottenere un incremento dell'energia incentivata;
h) interventi di rifacimento e potenziamento realizzati in difformità dalle norme di riferimento ovvero da quanto dichiarato in fase di qualifica o di richiesta dell'incentivo;
i) inefficacia del titolo autorizzativo per la costruzione ed esercizio dell'impianto;
j) insussistenza dei requisiti per la qualificazione dell'impianto, per l'accesso agli incentivi ovvero autorizzativi;
k) utilizzo di combustibili fossili di due punti percentuali oltre la soglia consentita, non previamente comunicato al GSE;
l) utilizzo di combustibili rinnovabili in difformità dal titolo autorizzativo o dalla documentazione presentata in sede di qualifica ovvero di istanza di incentivazione;
m) mancata trasmissione al GSE della certificazione di fine lavori dell'impianto nei termini previsti dalla normativa di incentivazione, nel caso in cui sia determinante ai fini dell'accesso o della determinazione agli incentivi;
n) utilizzo di componenti contraffatti ovvero rubati.
[13] Cons. Stato, II, 4 gennaio 2023, n. 127, nel sindacare l’esercizio del potere di decadenza, anziché di decurtazione, ha ritenuto rilevanti, sulla base del parametro indicato nell’allegato 1 del d.m. 31 gennaio 2014 le seguenti violazioni:
“a) la mancata riferibilità dei moduli fotovoltaici installati all’attestato di factory inspection e al certificato di conformità presentati dal soggetto responsabile;
b) l’origine dei moduli a marchio Lenus Solar, per i quali non è possibile identificare in maniera univoca lo stabilimento di produzione;
c) le difformità rilevate con riferimento alla marcatura CE;
d) l’assenza dei requisiti di cui all’art. 7 co. 3 del decreto, con riferimento alla conformità alle norme CEI EN 61215 e CEI EN 61730-2; il mancato rispetto delle prescrizioni dell’art. 7 co. 5, lett. b e c del decreto, aventi ad oggetto il possesso di requisiti di certificazione sulla qualità del processo produttivo; il mancato rispetto della condizione di cui all’art. 2 co. 1 lett. v. del decreto, che richiede “impianti con componenti principali realizzati unicamente all’interno di un Paese che risulti membro dell’UE/SEE”;
e) il mancato rispetto delle condizioni e dei requisiti che rendono legittimo il riconoscimento della tariffa, richiesta ed erogata, “su edificio”;
f) la mancata evidenza, nel corso del procedimento di verifica, del titolo abilitativo alla realizzazione dell’impianto”.
Sommario: 1. La vicenda - 2. Gli argomenti adoperati dalle Sezioni Unite. La qualificazione giuridica dell’affidamento riposto dal privato nella condotta della pubblica amministrazione - 3. La rilevanza della conformità dell’azione amministrativa ai canoni di buona fede e correttezza. Uno sguardo all’evoluzione giurisprudenziale - 4. Ancora incertezze sulla giurisdizione? La natura della responsabilità della pubblica amministrazione per lesione dell’affidamento incolpevole - 5.Conclusioni.
1. La vicenda
Una società a responsabilità limitata è proprietaria di terreni aventi destinazione agricola e rientranti in un progetto di trasformazione che subordina il completamento di un esistente «tessuto residenziale» urbano alla «piantumazione preventiva» dell’area ad opera del soggetto interessato, nel termine di sei mesi.
La società attrice presenta il progetto di piantumazione preventiva, che incontra l’approvazione della Giunta municipale, e la proposta di piano attuativo, assoggettata a valutazione di impatto ambientale. Ad intervento di piantumazione avviato, sopraggiunge la sentenza 27 febbraio 2015, n. 576, del TAR Lombardia (confermata dal Consiglio di Stato con sentenza 28 giugno 2016, n. 2921), con cui, all’esito del ricorso proposto da terzi, si dispone la caducazione dello strumento pianificatorio.
La società in questione si rivolge al giudice ordinario per ottenere il risarcimento del danno patito per lesione dell’affidamento da essa riposto nella legittimità della deliberazione recante l’approvazione, da parte del Consiglio comunale, del Piano di Governo del Territorio. Il Comune si costituisce in giudizio eccependo il difetto di giurisdizione del giudice ordinario e chiedendo il rigetto della domanda, ritenuta infondata. Il Tribunale di Milano accoglie la domanda e condanna l’amministrazione al risarcimento del danno cagionato.
Il Comune propone appello contro la decisione, che viene rigettato dalla Corte d’Appello di Milano. In sede di appello, l’errore commesso dall’amministrazione comunale è individuato nella sottrazione «dal computo della superficie urbanizzata di quella destinata ad attrezzature pubbliche o di uso pubblico d’interesse comunale o sovracomunale», non essendosi correttamente interpretato l’art. 84 Norme Tecniche Att. Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale. E’ esclusa la devoluzione della controversia alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, sul rilievo per cui alla radice di essa si pone un comportamento tenuto dall’amministrazione, indipendentemente dal rispetto di regole procedimentali. Il differente radicamento della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo presuppone l’inquadramento della condotta complessiva dell’amministrazione in un contesto di carattere pubblicistico, con annessa sussistenza di una connessione tra la condotta medesima e l’esercizio del potere.
L’affidamento è, in questa sede, qualificato alla stregua di una «situazione autonoma», in quanto tale meritevole di tutela, la cui lesione presenta un diritto soggettivo in qualità di causa petendi. Nel giudizio della Corte, ai fini del consolidamento dell’affidamento della società appellata, rivestono rilievo le rassicurazioni prospettate, nel corso delle riunioni tecniche, dai funzionari comunali ai rappresentanti della società in ordine alla legittimità dell’attività svolta nonché del PGT oggetto di impugnazione, contestualmente escludendo l’esigenza di espletare verifiche aggiuntive ovvero valutazioni di carattere ambientale. Né il contenuto delle predette riunioni è stato smentito in giudizio da parte dello stesso Comune.
A sostegno della propria tesi, il giudice di seconde cure richiama l’orientamento giurisprudenziale sulla scorta del quale la lesione dell’affidamento nella correttezza della condotta della pubblica amministrazione determina il sorgere di un regime di responsabilità relazionale o da contatto sociale qualificato.
Il Comune propone ricorso per cassazione contro la pronuncia resa dalla Corte d’Appello.
2. Gli argomenti adoperati dalle Sezioni Unite. La qualificazione giuridica dell’affidamento riposto dal privato nella condotta della pubblica amministrazione
La pronuncia che si annota affronta le tematiche della qualificazione giuridica nonché della tutela dell’affidamento e dei confini della giurisdizione del giudice amministrativo.
Il Comune sottopone alla Corte di Cassazione la questione afferente al difetto di giurisdizione del giudice ordinario, censurando la decisione della Corte d’Appello nella parte in cui ricostruisce l’affidamento come situazione giuridica dotata di autonomia. Sostiene l’ente ricorrente che l’affidamento integri, diversamente, un criterio alla cui stregua condurre la valutazione in ordine al comportamento tenuto dalle parti. Nel rapporto amministrativo, l’affidamento dovrebbe ricondursi alla situazione giuridica soggettiva di interesse legittimo, in quanto la sua lesione sarebbe connessa all’esercizio del potere amministrativo; e anche laddove la posizione rivestita dalla società attrice sia qualificabile in termini di diritto soggettivo sussisterebbero gli estremi della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, considerando che l’affidamento di cui è lamentata la lesione trae origine «dall’esercizio di un potere in materia urbanistica ed edilizia».
Il motivo di impugnazione è ritenuto infondato dalla Suprema Corte. Del pari infondate, a giudizio della Corte, sono le contestazioni di parte ricorrente dell’elemento soggettivo dell’illecito, della profilazione dell’affidamento incolpevole, del carattere ingiusto del danno, del nesso eziologico tra quest’ultimo e il comportamento dell’amministrazione.
La violazione della fiducia riposta dalla società nella coerenza e nella non contraddittorietà della condotta amministrativa fonda, nel giudizio delle Sezioni Unite, l’integrazione dell’illecito. Le scaturigini del danno sono individuate dalle Sezioni Unite nella lesione dell’affidamento riposto dal privato sulla legittimità del provvedimento amministrativo o, meglio, nella fattispecie complessa integrata, oltre che dalla predetta illegittimità, da circostanze rivelative dell’inosservanza delle regole di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi la condotta dell’amministrazione; l’idoneità di quest’ultima a determinare la formazione della «fiducia incolpevole» deve essere valutata in relazione al caso concreto.
La condotta amministrativa difforme dai canoni di correttezza e buona fede, lesiva dell’affidamento del privato, si colloca su un piano differente rispetto a quello della scansione procedimentale culminante nel provvedimento amministrativo; in termini diversi, il comportamento della pubblica amministrazione, secondo le Sezioni Unite, non intrattiene alcun collegamento con l’esplicazione del potere amministrativo. Sorreggerebbe tale conclusione la circostanza che la società abbia fatto valere non l’illegittimità del provvedimento amministrativo, ma il comportamento tenuto dall’amministrazione, determinante nella parte in cui questa «ha insistito per l’attuazione dell’intervento programmato e fornito assicurazioni in ordine alla legittimità dello stesso, escludendo la necessità di approfondimenti istruttori e suscitando in tal modo un affidamento incolpevole, la cui lesione costituisce quindi il vero fondamento della pretesa risarcitoria».
La nozione di affidamento ha faticato a rinvenire un terreno fertile nel diritto amministrativo nazionale, in ragione della sua estraneità rispetto al diritto pubblico, così come affermata nella giuspubblicistica tedesca[1]. Carattere decisivo per la maturazione dibattito sull’argomento rivestono gli studi condotti da Merusi nel corso degli anni Settanta del secolo scorso[2], che forniscono stimolo alla riflessione dottrinale successiva[3]. La garanzia dell’affidamento è dapprima collocata nella fase di adozione del provvedimento amministrativo: la tutela relativa viene, in tal modo, a qualificarsi come «applicazione di una norma integrativa della decisione», connessa allo spiegarsi del potere discrezionale e, dunque, alla ponderazione degli interessi operata all’insegna del principio di ragionevolezza. Laddove, diversamente, la pubblica amministrazione debba riconsiderare una sua precedente determinazione, la tutela dell’affidamento è individuata in un bilanciamento che annovera tra gli interessi da considerare lo stesso affidamento[4].
E’ nota l’acquisizione secondo cui l’ubi consistam della tutela dell’affidamento è costituito dal principio di buona fede[5]. Precisamente, tale tutela è intesa come protezione della situazione soggettiva in cui versa chi ripone fiducia nell’altrui comportamento conforme a buona fede[6]. Il principio dell’affidamento si pone come estrinsecazione del principio di buona fede oggettiva[7], di cui si distinguono due accezioni: buona fede oggettiva latamente intesa come obbligo di comportarsi secondo una correttezza determinabile non sul piano astratto, ma in relazione alla fattispecie concreta e alle sue «implicazioni con le istanze della costituzione economico-materiale»; buona fede oggettiva strettamente intesa come divieto di ledere l’aspettativa alimentata dalla propria condotta in un altro soggetto. Alla prima accezione corrisponde una nozione di affidamento quale aspettativa che tutti i soggetti dell’ordinamento con cui si interagisce osservino «lo strictum jus» nonché le regole di correttezza scaturenti dal principio di buona fede. All’accezione ristretta di buona fede oggettiva si riconnette l’affidamento «come aspettativa di coerenza rispetto a un precedente comportamento dell’amministrazione»[8]. Peculiare dell’affidamento è, dunque, il parametro di giudizio adoperato, rappresentato dall’assetto degli interessi anteriormente esistente[9].
Altrettanto conosciute sono le radici del legittimo affidamento: frutto dell’elaborazione giurisprudenziale della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, i relativi elementi costitutivi, così come emergenti dalla stessa giurisprudenza europea, sono: a) quello temporale, consistente nell’avvenuto decorso di un lasso di tempo che possa essere fondamento della certezza del diritto; b)quello oggettivo della preesistenza in capo al privato di una situazione giuridica di vantaggio, che derivi da un provvedimento espresso o dal silenzio; c) l’elemento soggettivo, individuato nella convinzione in ordine alla legittimità del provvedimento[10].
Il legittimo affidamento trova un valido riscontro nella legge sul procedimento. Più puntualmente, il riconoscimento del corrispondente principio era già desumibile, in via ermeneutica, dall’art. 1, nella parte in cui contiene il richiamo, mobile[11], ai principi dell’ordinamento comunitario[12]. Lo stesso principio trova, poi, specificazione negli artt. 2 bis, 21 quinquies e 21 nonies[13]. Su tale linea, è stato rilevato che la determinazione della misura della tutela dell’affidamento è operata ex lege[14], e non più in via interpretativa.
Non risulta superfluo, in questa sede, ricordare il progresso compiuto con la L. n. 15/2005, introduttiva, nel testo dell’art. 1 della legge sul procedimento, al comma 2 bis, dell’espresso riferimento ai principi di collaborazione e buona fede che devono ispirare il rapporto tra pubblica amministrazione e cittadino[15]. Le regole di condotta menzionate hanno carattere bilaterale, in quanto concernenti un rapporto partecipato[16]; la loro inosservanza comporta la produzione di un vizio del provvedimento, per violazione di una norma di legge[17].
Ciò posto, occorre precisare che le Sezioni Unite, nella pronuncia in commento, assumono come determinante una nozione di affidamento che ritengono differente rispetto a quella tipizzata ai sensi dell’art. 21 nonies della legge sul procedimento e, in generale, rispetto a quella ravvisabile nell’ambito dell’autotutela. Stando alla pronuncia in commento, l’affidamento che viene in rilievo nella fattispecie in disamina si sostanzia in una situazione autonoma, come evidenziato in sede d’appello, di per sé meritevole di tutela (prescindendo dalla connessione con l’interesse pubblico). La nozione a cui riferisce la Corte di Cassazione è quella civilistica di affidamento incolpevole[18], desumibile dagli artt. 1337 e 1338, c.c., connotata dalla sussistenza del coefficiente soggettivo dell’incolpevolezza, che funge da «contemperamento tra la tutela della fiducia, fondata sulla buona fede, e il principio di autoresponsabilità»[19]. L’incolpevolezza dell’affidamento postula una condotta altrui che abbia ingenerato un’aspettativa idonea a porsi alla radice del comportamento lesivo, circostanza efficacemente esemplificata dal trinomio fiducia - delusione della fiducia - danno conseguente alla condotta ispirata alla fiducia mal riposta. Come evidenziato da accorta dottrina, l’affidamento è qualificabile come incolpevole e suscettibile di tutela nella misura in cui risulti idoneo a rivestire «efficacia causale» rispetto ad una data condotta lesiva[20]. Affinché, poi, la condotta possa dirsi causativa del danno è necessario che sia positivamente valutata la sua idoneità a spingere un soggetto diligente al compimento di scelte dannose[21].
La differenza tra le due nozioni di affidamento richiamate può cogliersi in quanto segue. Se la delusione dell’aspettativa del cittadino si inquadra in un contesto di rapporti privatistici, l’amministrazione andrà incontro ad una responsabilità per lesione dell’affidamento incolpevole. Diversamente, la delusione dell’aspettativa del privato che si consumi sul piano dei rapporti di matrice pubblicistica determinerà l’integrata violazione dell’affidamento legittimo. E’ stato, infatti, constatato che i principi che reggono l’attività amministrativa hanno una connotazione obiettiva e precludono la considerazione di elementi di carattere personale sovente sottesi alla formazione dell’affidamento incolpevole. In tal senso, nel diritto amministrativo, non si discorre di affidamento incolpevole, bensì di affidamento legittimo. Il ricorso a «categorie interprivatistiche» sarebbe, così, preordinato alla dissociazione tra la tutela della legittimità dell’attività amministrativa e quella dell’affidamento; in tale ultimo ambito, l’amministrazione è equiparata ad un soggetto privato: il suo agire è vincolato anche al rispetto dei canoni di correttezza e buona fede[22].
3. La rilevanza della conformità dell’azione amministrativa ai canoni di buona fede e correttezza. Uno sguardo all’evoluzione giurisprudenziale
La controversia in commento evoca il confronto tra differenti orientamenti giurisprudenziali.
In tempi risalenti, il Consiglio di Stato ha qualificato la buona fede e la correttezza come parametri, afferenti esclusivamente all’autonomia privata, «alla cui stregua il giudice ordinario risolve i conflitti intersoggettivi nascenti dal loro mancato rispetto». A mente dello stesso orientamento, il giudizio amministrativo sarebbe preordinato alla conduzione di un «controllo di legalità delle modalità» di svolgimento dell’attività amministrativa, alla luce dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento. Il carattere eventualmente illecito del comportamento dell’amministrazione, che apre la strada al risarcimento del danno cagionato al privato, sarebbe, dunque, determinato dall’illegittimo esercizio della funzione amministrativa, a sua volta riconducibile all’adozione di un provvedimento contra legem ovvero alla mancata adozione di un provvedimento dovuto, ma non ad una valutazione della condotta amministrativa sotto i profili della buona fede e della correttezza[23]. Tale conclusione si pone in netta antitesi rispetto a quelle elaborate dalle Sezioni Unite a partire dalle note ordinanze gemelle nonché dalla giurisprudenza amministrativa successiva.
Con le ordinanze nn. 6594, 6595, 6596 del 2011, le Sezioni Unite hanno riconosciuto la giurisdizione del giudice ordinario in materia di risarcimento del danno subito per lesione dell’affidamento nella legittimità di un provvedimento illegittimo, ampliativo della sfera giuridica del privato, rimosso in sede di autotutela ovvero ope judicis. Aderendo all’iter argomentativo seguito dalla Corte, dell’atto annullato residua il «mero comportamento» degli organi che hanno provveduto all’emanazione, con conseguente imputazione, in applicazione del principio di immedesimazione organica, alla pubblica amministrazione della responsabilità per violazione dell’art. 2043, c.c., per inosservanza del principio del neminem laedere, avendo essa alimentato, tramite l’«apparente legittimità» del provvedimento, l’affidamento del privato.
La dottrina immediatamente successiva alle tre pronunce vi ha riconosciuto il merito di aver ampliato la tutela dell’affidamento del cittadino nell’operato dell’amministrazione, ampliamento che si pone come corollario dell’applicazione all’azione amministrativa delle regole di correttezza e buona fede[24]. I contestuali dubbi che sono stati manifestati hanno interessato il versante della compatibilità della soluzione elaborata con la regola della concentrazione delle tutele, applicazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale. In ottemperanza a tale regola, la domanda risarcitoria dovrebbe rientrare nella cognizione del giudice amministrativo a cui sia stato richiesto l’annullamento del provvedimento illegittimo. A tale osservazione si è obiettato che la tutela risarcitoria, ritenuta in quella sede l’unica invocabile[25], mira a compensare un danno cagionato all’esito del venir meno ai doveri comportamentali facenti capo al soggetto pubblico, prescindendo da considerazioni in merito all’esercizio del potere. Di conseguenza, pregiudicato l’affidamento del privato, gli aspetti risarcitori afferenti alla lesione dell’affidamento medesimo dovrebbero essere esaminati avuto riguardo al caso concreto[26].
Sempre in senso critico rispetto all’approdo registrato con le ordinanze gemelle, si è rimarcato che il provvedimento annullato costituisce, in ogni caso, estrinsecazione del potere pubblico e che, pertanto, il pregiudizio inferto deve essere sottoposto alla cognizione del giudice amministrativo, perlomeno nelle materie devolute alla giurisdizione esclusiva[27]. Nel tentativo di confutare tale argomento, le Sezioni Unite hanno ribadito l’originarsi della lesione non dal provvedimento, bensì dall’inosservanza delle regole di correttezza e buona fede[28].
Nella giurisprudenza amministrativa ha gradualmente trovato conforto la configurazione in termini di responsabilità dell’agere amministrativo difforme dai canoni di lealtà e correttezza. Si è precisato che il sorgere della «responsabilità da comportamento», che si affianca alla responsabilità «da provvedimento», prescinde da valutazioni in punto di legittimità del provvedimento amministrativo. Si pensi all’ipotesi di rimozione in sede di autotutela di atti di gara legittimi a causa del comportamento negligente tenuto dall’amministrazione; nel qual caso risulterà integrata la violazione dell’obbligo di buona fede - correttezza nella fase delle trattative, da ricondursi al paradigma della responsabilità precontrattuale[29].
Nella fattispecie della responsabilità da comportamento scorretto, la distinzione tra regole di diritto pubblico e regole di diritto privato, che operano in modo sinergico e contestuale, è tracciata per evidenziare la diversità degli effetti prodotti dalle rispettive violazioni: invalidità provvedimentale, nel primo caso, e responsabilità, nel secondo. La delineazione del regime di responsabilità a carico dell’amministrazione presuppone un comportamento, oltre che lesivo dell’affidamento incolpevole, oggettivamente difforme rispetto ai doveri di lealtà e correttezza; la soggettiva imputabilità all’amministrazione della violazione, dolosa o colposa, dei doveri di correttezza; la produzione delle prove, da parte del privato, in ordine al danno - evento, al danno - conseguenza, ai nessi di causalità intercorrenti tra essi e la condotta scorretta imputata all’amministrazione[30].
4. Ancora incertezze sulla giurisdizione? La natura della responsabilità della pubblica amministrazione per lesione dell’affidamento incolpevole
Per quanto strettamente attiene alla questione di giurisdizione, nella giurisprudenza successiva alle ordinanze gemelle non sono mancate oscillazioni, manifestandosi propensioni talvolta per l’affermazione della giurisdizione del giudice ordinario (insistendo sulla lesione di un diritto soggettivo)[31], talaltra per l’affermazione della giurisdizione del giudice amministrativo[32].
Nella vicenda in esame, il Comune ricorrente colloca a fondamento delle proprie ragioni l’indirizzo giurisprudenziale che pone entro i confini della giurisdizione del giudice amministrativo l’esercizio dell’azione risarcitoria conseguente alla lesione dell’affidamento riposto dal privato nella legittimità dell’atto amministrativo successivamente annullato, concependo l’affidamento come «mero riflesso dell’azione amministrativa illegittima», incapace di influire sulla giurisdizione[33]. Tale orientamento, che la Suprema Corte ritiene definitivamente superato, è da inquadrarsi nel novero delle pronunce successive alle ordinanze gemelle delle Sezioni Unite, che si discostano dall’indirizzo in esse espresso[34].
Sul punto, le Sezioni Unite, nell’ordinanza che si annota, chiariscono che «perché sussista la giurisdizione del giudice amministrativo, è necessario, anche nelle materie di giurisdizione esclusiva, che la causa petendi si radichi nelle modalità di esercizio del potere amministrativo, ciò che non accade quando la causa del danno di cui il privato chiede il risarcimento risieda non già nel cattivo esercizio del potere amministrativo, bensì in un comportamento la cui illiceità venga dedotta prescindendo dal modo in cui il potere è stato esercitato e venga prospettata come violazione di regole comportamentali di buona fede e correttezza alla cui osservanza è tenuto qualunque soggetto, sia esso pubblico o privato».
Percorrendo tale via, la Suprema Corte giunge a confermare la responsabilità del Comune «per la lesione dell’affidamento generato nella società attrice in ordine alla legittimità del proprio operato», condividendo la ricostruzione effettuata dalla Corte d’Appello nella sentenza impugnata. Precisamente, è individuata a carico dell’amministrazione una responsabilità da contatto sociale qualificato «dallo status della pubblica amministrazione quale soggetto tenuto all’osservanza della legge come fonte della legittimità dei propri atti».
Nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, le prime tracce della responsabilità da contatto sociale qualificato si rinvengono nella sentenza n. 157 del 2003. In quella sede, la Corte sottolineava che il contatto tra cittadino e amministrazione, che prelude all’instaurazione di un rapporto «specifico e differenziato», è qualificato da uno «specifico dovere di comportamento». Avviato il procedimento, l’interessato è destinatario di un complesso di garanzie enucleate dalla sentenza n. 500 del 1999: trattasi degli obblighi di correttezza e buona amministrazione gravanti sul soggetto pubblico, ricostruiti come «limiti esterni alla discrezionalità», dunque assoggettabili alla valutazione del giudice ordinario[35].
Affinché sorga il regime di responsabilità in commento, è necessaria la costituzione di «momenti relazionali socialmente o giuridicamente qualificati, dai quali derivano a carico delle parti reciproci obblighi di buona fede, protezione ed informazione». Il contatto sociale si caratterizza per la peculiarità dello status rivestito dalle parti in esso coinvolte. In particolare, dalla pubblica amministrazione, la cui azione è sottoposta al rispetto di principi costituzionalmente presidiati, il cittadino si attende, ragionevolmente, una più fedele osservanza degli obblighi di correttezza, lealtà, tutela dell’affidamento[36]. Tale aspettativa nei confronti della condotta del soggetto pubblico comporta un rafforzamento del dovere di correttezza e di protezione sussistente in capo ad esso sin dal momento in cui il cittadino entra in contatto con l’amministrazione. Il rapporto tra amministrazione e privato qualifica la responsabilità della prima per il danno da lesione dell’affidamento nella correttezza della sua azione; per tale ragione, la predetta responsabilità deve ascriversi nel quadro della responsabilità relazionale, a sua volta sussumibile nella responsabilità contrattuale[37].
Di differente avviso è risultata la giurisprudenza amministrativa, secondo cui, anche nell’ipotesi in cui il potere non si sia concretizzato in un provvedimento tipico, ma si sia arrestato al livello di comportamento, l’operato della pubblica amministrazione rimane espressione dei poteri ad essa attribuiti ai fini della cura dell’interesse pubblico. L’affidamento (legittimo o incolpevole) trarrebbe fondamento da «una situazione di apparenza costituita dall’amministrazione con il provvedimento, o con il suo comportamento correlato al pubblico potere, in cui il privato abbia senza colpa confidato». Assumendo che la situazione giuridica rilevante abbia la natura di interesse legittimo, in ragione dell’asserita connessione con il potere, si pone in quanto conseguenza l’affermazione della giurisdizione amministrativa[38].
Non può prescindersi dal rilevare che l’appurata divergenza tra gli orientamenti espressi dalle magistrature supreme potrebbe costituire il risvolto del tentativo, ascrivibile ad entrambe, di dilatare i confini delle rispettive giurisdizioni[39]. Secondo un’opinione, tale «persistente contrasto» tra le Corti sul riparto giurisdizionale affonderebbe le origini nella sentenza n. 500 del 1999. Il riconoscimento della risarcibilità dell’interesse legittimo avrebbe introdotto un elemento destabilizzante nell’ambito del tradizionale sistema di riparto incentrato sul binomio cattivo esercizio di potere – carenza di potere[40].
Nel novero delle soluzioni prospettate, si inseriscono ricostruzioni in chiave “evolutiva” dell’interesse legittimo, volte a ricomprendere entro i relativi confini anche l’interesse del privato al conseguimento stabile e definitivo del bene della vita oggetto di aspirazione. Si è, in tal modo, opinato che la Cassazione abbia ignorato l’esistenza del potere: nei rapporti autoritativi, l’interesse legittimo corrisponde alla situazione giuridica soggettiva che interagisce con il potere. Una tale impostazione, insistendo sulla natura sostanziale dell’interesse legittimo, conduce ad esiti divergenti rispetto a quelli propri di orientamenti giurisprudenziali, incluso quello in commento, che aderiscono alla teoria della responsabilità da contatto sociale qualificato[41].
Il comportamento della pubblica amministrazione, sia esso inquadrato nell’ambito del procedimento ovvero del rapporto instauratosi in esito al rilascio di un provvedimento favorevole, è riconducibile al potere: il suo contesto di appartenenza è rappresentato dal procedimento preordinato all’esercizio del potere amministrativo e regolamentato dal diritto pubblico[42]. Pertanto, le controversie sulla responsabilità dell’amministrazione per lesione della buona fede dovrebbero devolversi alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo[43].
5. Conclusioni
L’orientamento inaugurato dalle ordinanze gemelle non è rimasto confinato alle sole ipotesi di proposizione di domande risarcitorie conseguenti alla violazione dell’affidamento derivante dall’adozione e dalla successiva rimozione di un provvedimento amministrativo, ma è stato esteso anche a quelle in cui la base dell’affidamento è costituita da un mero comportamento dell’amministrazione, difettando un provvedimento di estrinsecazione del potere amministrativo. A suggello del consolidamento dell’indirizzo racchiuso nelle predette ordinanze si pone anche la pronuncia in commento.
Riannodando le fila della ricostruzione svolta nei precedenti paragrafi, l’orientamento ascrivibile alla Corte di Cassazione fonda la riconduzione della tutela dell’affidamento al giudice ordinario sull’asserita lesione di un diritto soggettivo[44]; sulla derivazione della lesione da una condotta; sull’afferenza delle regole di correttezza e buona fede non alla legittimità dell’azione amministrativa, ma al diritto privato[45]. Quando a tale ultimo punto, anche nella giurisprudenza amministrativa ricorrono orientamenti che definiscono le regole di buona fede e correttezza come privatistiche, pur precisandone l’estensione alla condotta del soggetto pubblico[46]. La dottrina anche più risalente, con cui si concorda, precisa, invece, che il fondamento del dovere di buona fede deve rinvenirsi non nel codice civile, ma nel testo costituzionale e, precisamente, nel dovere di solidarietà sociale di cui all’art. 2, Cost., traducendosi nell’obbligo, gravante in capo a tutti i soggetti, «di agire senza recare danno ad altri»[47]. Alla medesima conclusione si perviene avuto riguardo al dovere di correttezza: «l’eterogeneità e la molteplicità degli interessi tutelati» postulano che esso informi il comportamento della totalità dei soggetti dell’ordinamento. Dagli stessi studi di diritto privato è emerso che il principio di buona fede non si sostanzia in una regola da limitarsi al rapporto obbligatorio; trattandosi di riflessioni che affondano le radici nella Costituzione, esse risultano applicabili, oltre che «a qualunque soggetto di un rapporto giuridico», «a qualsiasi settore dell’ordinamento»[48].
Quanto, invece, alla scomposizione dell’affidamento in legittimo e incolpevole, voluta dalla Corte di Cassazione, con annessa delimitazione di un nuovo ambito di giurisdizione riferibile giudice ordinario, occorre precisare che, sebbene incida sulla qualificazione della situazione giuridica soggettiva rilevante, essa non deve compromettere l’unitarietà della nozione di affidamento, che rimane ancorata all’altrui condotta conforme a buona fede[49].
Ancora, si è posto in luce che gli orientamenti richiamati denoterebbero la progressiva adesione dell’ordinamento nazionale ad un modello di rapporti tra amministrazione e cittadino informato alla pari - ordinazione[50]. In altri termini, il dovere di comportarsi secondo buona fede, gravante su entrambe le parti del rapporto amministrativo, determinerebbe l’instaurazione di una relazione che non contempla la titolarità di potere, sostanziando di attualità, si è ritenuto, l’idea benvenutiana di un diritto amministrativo paritario[51]. Ma, com’è stato fondatamente osservato, un tale risultato sarebbe contemplabile sul presupposto dell’esistenza del potere in capo al soggetto pubblico parte del rapporto, condizione non soddisfatta nelle ipotesi di relegazione dell’affidamento «nell’angusto spazio dei meri comportamenti», che non intrattengono alcun legame con l’esercizio del potere[52].
Ciò che si intende evidenziare, conclusivamente, è che il comportamento rilevante ai fini dell’affidamento non può essere sradicato dal suo contesto fisiologico, che è quello in cui viene esercitato il potere amministrativo. Pur se l’affidamento incolpevole è dovuto, nel nostro ordinamento, all’accertamento di un contatto sociale qualificato, e non all’illegittimità del provvedimento, è innegabile che tale “contatto” si concretizzi nel procedimento, anche in funzione di una serie di regole ad esso relative quali la partecipazione, la ponderazione di tutti gli interessi, la prevedibilità delle scelte basate su regole predeterminate[53].
[1] Il riferito scetticismo nutrito dalla dottrina muoveva dalla centralità conferita all’interesse pubblico, che non poteva costituire oggetto di una disciplina sinallagmatica, come nel diritto civile. G. Mannucci, L’affidamento nel rapporto amministrativo, Editoriale Scientifica, 2023, 20 – 21.
[2] F. Merusi, L’affidamento del cittadino, Giuffrè, 1970.
[3] La dottrina successiva agli studi condotti da Merusi ha coltivato l’idea di un sindacato sull’affidamento concentrato sul piano provvedimentale, giungendo anche ad anticipare la formazione dell’affidamento allo stadio del procedimento, in ragione della preventiva determinazione dei profili della decisione (vedi infra). Sul punto: G. Mannucci, L’affidamento nel rapporto amministrativo, cit., 26 – 27.
[4] G. Mannucci, L’affidamento nel rapporto amministrativo, cit., 23 ss.
[5] La buona fede, lungi dal costituire una riproduzione dell’interesse pubblico rimesso alla cura dell’amministrazione, corrisponde ad un principio generale che trova applicazione nei riguardi di qualsivoglia attività, sia essa di diritto pubblico ovvero di diritto privato. In tal senso, M. G. Pulvirenti, Considerazioni sui principi di collaborazione e di buona fede nei rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione, in Il diritto dell’economia, 2023, 1, 118. L’Autore respinge l’orientamento favorevole alla sottrazione dell’attività amministrativa, in quanto attività di pubblico interesse, ad una parte consistente della disciplina privatistica (in argomento, si veda, ad esempio, M. Giorgianni, Il diritto privato ed i suoi attuali confini, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1961, 391 ss).
[6] M. C. Cavallaro, Buona fede e legittimità del provvedimento amministrativo, in PA Persona e Amministrazione, 2022, 2, 139. In termini più puntuali, per quanto rileva in questa sede, come statuito dal Consiglio di Stato, l’affidamento integra «un principio generale dell’azione amministrativa che opera in presenza di una attività della pubblica amministrazione che fa sorgere nel destinatario l’aspettativa al mantenimento nel tempo del rapporto giuridico sorto a seguito di tale attività». Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, n. 5011/2020.
[7] F. Roselli, Appunti sull’affidamento come principio generale vincolante anche i soggetti pubblici, in Giustizia Civile, 2021, 2, 383.
[8] Si tratta di distinzioni poste in luce da M. Trimarchi, Buona fede e responsabilità della pubblica amministrazione, in PA Persona e Amministrazione, 2022, 2, 76 – 77.
[9] Occorre precisare, com’è stato opportunamente evidenziato, che l’affidamento integra «uno dei possibili elementi indicativi della correttezza», costituendo esclusivamente quest’ultima l’oggetto dell’accertamento condotto dal giudice. In tal senso, F. Manganaro, Principio di buona fede e attività delle amministrazioni pubbliche, Edizioni Scientifiche Italiane, 1995, 202.
[10] G. della Cananea, I principi del diritto pubblico globale, in M. Renna, F. Saitta (a cura di), Studi sui principi del diritto amministrativo, Giuffrè, 2012, 70. Quanto all’ultimo elemento tra quelli elencati, la giurisprudenza nazionale ha chiarito che, affinché la lesione dell’affidamento nel provvedimento favorevole annullato determini il sorgere della responsabilità della pubblica amministrazione, è necessario il «ragionevole convincimento» del destinatario in ordine alla legittimità del provvedimento medesimo. La responsabilità dell’amministrazione per lesione dell’affidamento è, di conseguenza, esclusa nell’ipotesi di evidente illegittimità ovvero laddove il destinatario abbia avuto contezza dell’avvenuta impugnazione del provvedimento. In tal senso, Ad. Plen., n. 19/2021.
[11] In tal senso, E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Giuffrè, 2020, 391.
[12] Invero, l’esplicito richiamo al legittimo affidamento era stato previsto in sede di riforma della legge sul procedimento amministrativo, ma successivamente rimosso in occasione dell’approvazione definitiva della legge 11 febbraio 2005, n. 15. La soppressione, che ha riguardato anche i principi di efficienza e proporzionalità, è stata motivata in relazione all’assodata presenza dei principi in discorso all’interno dell’ordinamento nazionale, garantita dal richiamo all’ordinamento comunitario. In tal senso, M. T. P. Caputi Jambrenghi, Il principio del legittimo affidamento, in M. Renna, F. Saitta (a cura di), Studi sui principi del diritto amministrativo, Giuffrè, 2012, 161.
[13] Cass., Sez. Un., n. 8236/2020.
[14] G. Tulumello, La tutela dell’affidamento del privato nei confronti della pubblica amministrazione fra ideologia e dogmatica, in R. Ursi, G. Armao, C. Ventimiglia (a cura di), Liber Amicorum per Salvatore Raimondi, Editoriale Scientifica, 2022, 363.
[15] Secondo Cass., Sez. Un., n. 12428/2021, l’art. 1, comma 2 bis, L. n. 241/1990, imprimerebbe alla nozione di buona fede la funzione «di modellare l’esercizio del potere fronteggiato dall’interesse legittimo».
[16] Ad. Plen., n. 20/2021.
[17] M. G. Pulvirenti, Considerazioni sui principi di collaborazione e di buona fede nei rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione, cit., 116.
[18] Nel quadro del dibattito dottrinale più recente, la posizione di un confine tra l’affidamento legittimo e l’affidamento incolpevole ad un’impostazione intermedia tra quelle pubblicistica (che propugna l’applicazione della tutela ponderativa ad ambiti ulteriori rispetto a quello dell’autotutela) e privatistica (che intende elevare la buona fede a «parametro di validità» dell’intera attività amministrativa). In tal senso, G. Mannucci, L’affidamento nel rapporto amministrativo, cit., 33 ss.
[19] M. Trimarchi, Buona fede e responsabilità della pubblica amministrazione, cit., 79.
[20] F. Trimarchi Banfi, Affidamento legittimo e affidamento incolpevole nei rapporti con l’amministrazione, in Dir. Proc. Amm., 2018, 827.
[21] F. Trimarchi Banfi, Affidamento legittimo e affidamento incolpevole nei rapporti con l’amministrazione, cit., 825.
[22] Si tratta di riflessioni di C. Napolitano, Legittimo affidamento e risarcimento del danno: la Plenaria si pronuncia (nota a Cons. Stato, Ad. Plen., 29 novembre 2021, n. 20), in www.giustiziainsieme.it, 2021.
[23] Cons. Stato, Sez. V, n. 6389/2002.
[24] F. G. Scoca, Scossoni e problemi in tema di giurisdizione del giudice amministrativo, in Il Processo, 2021, 1, 10.
[25] Precisamente, l’azione risarcitoria, in quella determinata fattispecie, ha costituito l’unico mezzo adoperabile per tutelare il «diritto soggettivo all’integrità patrimoniale» e non un ulteriore mezzo di tutela dell’interesse legittimo rispetto a quelli demolitorio e conformativo, come nell’ambito della giurisdizione di legittimità. In tal senso, R. Caponigro, Questioni attuali in un dibattito tradizionale: la giurisdizione nei confronti della pubblica amministrazione, in www.federalismi.it, 2011.
[26] C. Napolitano, Potere amministrativo e lesione dell’affidamento: indicazioni ermeneutiche dall’Adunanza Plenaria, in Rivista Giuridica dell’Edilizia, 2022, 35.
[27] In tal senso, M. A. Sandulli, Il risarcimento del danno nei confronti delle pubbliche Amministrazioni: tra soluzione di vecchi problemi e nascita di nuove questioni (brevi note a margine di Cons. Stato, ad. plen. 23 marzo 2011 n. 3, in tema di autonomia dell’azione risarcitoria e di Cass. SS. UU., 23 marzo 2011 nn. 6594, 6595 e 6596, sulla giurisdizione ordinaria sulle azioni per il risarcimento del danno conseguente all’annullamento di atti favorevoli), in www.federalismi.it, 2011.
[28] Cfr. Cass., Sez. Un., n. 8236/2020, in cui si ripercorrono le ragioni sottese all’orientamento inaugurato dalle ordinanze gemelle.
[29] F. Trimarchi Banfi, Affidamento legittimo e affidamento incolpevole nei rapporti con l’amministrazione, cit., 852. Secondo l’Autrice, l’evidenziata connessione tra il dovere di correttezza che vincola una parte e l’onere di diligenza gravante sull’altra non sarebbe stata adeguatamente approfondita dalla giurisprudenza amministrativa.
[30] Cfr. Ad. plen., n. 5/2018. In questa sede, il comportamento scorretto dell’amministrazione è stato ritenuto incidente su un diritto soggettivo, precisamente «sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali».
[31] Cass., Sez. Un., n. 17586/2015; n. 19171/2017; n. 22435/2018; n. 6885/2019.
[32] Al di là del riparto di giurisdizione, molte nubi si addensano anche in ordine alla corretta individuazione della giurisdizione dello stesso giudice amministrativo: sul punto, F. Francario, L’incerto confine tra giurisdizione di legittimità e di merito, in questa Rivista, 22 giugno 2023
[33] Cass., Sez. Un., n. 8057/2016.
[34] In tal senso, si vedano Cass., Sez. Un., n. 13454/2017; n. 13194/2018.
[35] Cass., Sez. Un., 8236/2020.
[36] Ad. Plen., n. 5/2018.
[37] L’inquadramento evidenziato si riferisce al rapporto obbligatorio, non al contratto in quanto atto. In tal senso, Cass., Sez. Un., n. 8236/2020.
[38] Cfr. Ad. plen. n. 20/2021.
[39] E’, ad esempio, di tale avviso M. C. Cavallaro, Buona fede e legittimità del provvedimento amministrativo, cit., 142 ss.
[40] M. C. Cavallaro, L’azione di condanna nel giudizio amministrativo: questioni ancora aperte, in R. Ursi, G. Armao, C. Ventimiglia (a cura di), Liber Amicorum per Salvatore Raimondi, cit., 109 – 110.
[41] G. Serra, Legittimo affidamento del privato nei confronti della p.a. e riparto di giurisdizione: la storia infinita, in www.federalismi.it, 2021.
[42] Quanto al rapporto amministrativo che si sviluppa in seno al procedimento, si è ritenuto che l’affidamento possa nascere esclusivamente nel margine di scelta «che sta oltre le norme che governano l’agire dell’amministrazione», sostanziandosi in una pretesa interna al rapporto e strettamente connessa al potere. In tal senso, G. Mannucci, L’affidamento nel rapporto amministrativo, cit., 220.
[43] La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia è una conseguenza dall’assenza del riferimento ai comportamenti anche mediatamente riconducibili al potere nel testo di cui al comma 4, dell’art. 7, c.p.a., che, nel definire l’ambito della giurisdizione di legittimità, menziona le sole controversie afferenti ad atti, provvedimenti ovvero omissioni delle amministrazioni. Le considerazioni riportate sono svolte da M. Trimarchi, Buona fede e responsabilità della pubblica amministrazione, cit., 100 ss.
[44] Sulla situazione giuridica soggettiva lesa, l’Adunanza Plenaria (n. 5/2018) ha parlato di un diritto soggettivo all’autodeterminazione nei rapporti negoziali, mentre la Corte di Cassazione (n. 8236/2020) ha identificato il predetto diritto nell’«aspettativa di coerenza e non contraddittorietà del comportamento dell’amministrazione fondato sulla buona fede». Ad avviso di F. G. Scoca, Scossoni e problemi in tema di giurisdizione del giudice amministrativo, cit., 11 – 12, l’aspettativa oggetto di tutela «si armonizza» con una delle «manifestazioni» dell’interesse legittimo; di conseguenza, la situazione giudica pregiudicata sarebbe qualificabile come interesse legittimo. In senso affine, si veda C.E. Gallo, La lesione dell’affidamento sull’attività della Pubblica Amministrazione, in Dir. proc. amm., 2016, 564 ss.
[45] F. G. Scoca, Scossoni e problemi in tema di giurisdizione del giudice amministrativo, cit., 10.
[46] A titolo esemplificativo, Ad. plen., n. 2/2013 inserisce i principi di correttezza e buona fede in una prospettiva privatistica.
[47] F. Manganaro, Principio di buona fede e attività delle amministrazioni pubbliche, cit., 121.
[48] F. Manganaro, Principio di buona fede e attività delle amministrazioni pubbliche, cit., 115 – 116. L’Autore ha, in particolare, rilevato (47 ss) che «alle origini del diritto romano, l’istituto della fides riguardava proprio rapporti di tipo non paritario, cioè rapporti giuridici in cui una delle parti esercitava un potere di supremazia sull’altra ed è in questo ambito che la buona fede veniva generalmente riconosciuta come limite all’esercizio del potere». Su tale linea, la tutela della buona fede risulterebbe maggiormente necessaria nel diritto amministrativo piuttosto che nel diritto privato.
[49] M. C. Cavallaro, Buona fede e legittimità del provvedimento amministrativo, cit., 145.
[50] In tal senso, Cass., Sez. Un., n. 615/2021, laddove «l’idea di un diritto amministrativo paritario» è ricondotta ai casi in cui il danno consegua alla «violazione delle regole di correttezza e buona fede, di diritto privato, cui la pubblica amministrazione è tenuta a conformarsi al pari di qualunque altro soggetto».
[51] G. Tulumello, La tutela dell’affidamento del privato nei confronti della pubblica amministrazione fra ideologia e dogmatica, cit., 368. In senso difforme, si è evidenziato che, invero, la paritarietà benvenutiana non avrebbe nulla a che vedere con una «presunta privatizzazione del rapporto amministrativo»; essa afferirebbe alla lungimirante «affermazione di diritti e prerogative che ribaltano la posizione di passiva subalternità del privato verso l’autorità che, in divenire, si fa funzione nel procedimento». L’opinione evocata è espressa da N. Paolantonio, Buona fede e affidamento delle parti, in PA Persona e Amministrazione, 2022, 2, 119.
[52] G. Tropea – A. Giannelli, Comportamento procedimentale, lesione dell’affidamento e giurisdizione del g.o., in www.giustiziainsieme.it, 2020.
[53] M. T. P. Caputi Jambrenghi, Il principio del legittimo affidamento, cit., 162. A. Police, La predeterminazione delle decisioni amministrative. Gradualità e trasparenza nell’esercizio del potere discrezionale, Edizioni Scientifiche Italiane, 1998, 71 – 72.
Sommario: 1. La revisione del PNRR sulla giustizia. - 2. I dati del I trimestre 2023 e una prima proiezione. - 3. Le variabili di cui tenere conto e su cui operare. - 4. I dati territoriali. - 5. Cosa serve per il futuro.
1. La revisione del PNRR sulla giustizia.
Il Governo con le “Proposte per la revisione del PNRR e capitolo REPowerEU” ha proposto una riformulazione degli obiettivi relativi alla giustizia civile “che potrebbe prevedere, alternativamente, una mera rideterminazione quantitativa alla luce delle circostanze emerse nel primo periodo di attuazione, oppure la previsione di target differenziati, che tengano conto delle differenze oggettive tra Uffici giudiziari.”
Tale scelta si fonda sui dati relativi al 2021 e al 2022 da cui emerge che contrariamente agli anni precedenti (2017 – 2019), in cui la riduzione percentuale media dell’arretrato era stata del 9,2 % annuo, tale riduzione si era arrestata al 6 %. Tra l’altro con grandi eterogeneità tra i vari Tribunali: in 95 sedi su 140 l’arretrato nel periodo 2019 – 2022 era stato ridotto nella media del 28 %, mentre nelle restanti 45 sedi avevano visto un aumento dell’arretrato, scontando l’onda dei ricorsi in materia di protezione internazionale. Queste preoccupazioni non potevano essere estese alle Corti di Appello che invece si dimostravano in linea con gli obiettivi.
I dati sono chiari, ma le conclusioni che vengono tratte sono quanto meno frettolose.
Innanzitutto dalla Relazione sul monitoraggio statistico degli indicatori PNRR – Anno 2022 stesa dallo stesso Ministero della Giustizia – Direzione Generale di Statistica del 7 aprile 2023 (e quindi quando i dati relativi al 2022 erano già noti e consolidati) inviata alla Commissione europea emergeva al contrario un quadro del tutto incoraggiante e ottimistico.
Quanto pare aver fatto mutare orientamento sono da un lato i dati recentissimi relativi al I trimestre 2023 e dall’altro l’ulteriore criticità data dalla quota significativa del nuovo personale dell’Ufficio per il processo che non è rimasto in servizio (vincendo concorsi per altri posti a tempo indeterminato).
Dati che, come vedremo, non sono così negativi e abbandoni che erano del tutto prevedibili a fronte del tipo di posti precari offerti in un quadro di ripresa di concorsi a tempo indeterminato appetibili.
Da tale revisione è partita una vera e propria campagna contro lo stesso istituto dell’Ufficio per il processo e di totale sfiducia nei confronti degli obiettivi indicati nel PNRR.
Nulla di più sbagliato, da un lato perché l’Ufficio per il processo è appena partito con assunzioni avvenute a fine febbraio e a luglio 2022 ancora incomplete e non ancora consolidate, e dall’altro perché questa valutazione negativa avviene dopo che non vi è stata alcuna governance del progetto con gli uffici giudiziari che non solo non sono stati chiamati in alcun modo a partecipare a disegnare gli obiettivi, ma sono stati lasciati sostanzialmente soli. E questo spiega le forti differenze tra ufficio ed ufficio.
Forse prima di rinunciare agli obiettivi e di rideterminarli occorrerebbe mettere in campo tutti gli interventi per cercare di realizzarli, oggi mancanti.
2. I dati del I trimestre 2023 e una prima proiezione.
I dati ministeriali relativi al I trimestre 2023, allo stato relativi unicamente a pendenze e arretrato, danno indicazioni preziose, in particolare focalizzando i periodi 2021, 2022 e I trimestre 2023, essendo il 2020 un anno del tutto anomalo a causa della pandemia. Un’analisi comparata relativa ai diversi periodi aiuta ulteriormente.
Si avrebbe una diminuzione del 6 % annuo nel settore civile ed una riduzione dell’8% annuo nel settore penale, ovvero, facendo una proiezione meramente matematica sino al 2026, ad un – 30 % nel settore civile e ad un – 40 % nel settore penale.
Anche se il dato del penale, in apparenza eccezionale e ben superiore all’obiettivo del 25 %, è probabilmente drogato dalla circostanza che il periodo iniziale ha consentito di esaurire le definizioni più facili e massive (ad esempio le archiviazioni e le prescrizioni ancora pendenti).
Calcoli comunque meramente ipotetici e non negativi, che debbono essere confrontati e accompagnati da molteplici variabili. Questi calcoli testimoniano semmai le difficoltà e la necessità di dare una forte implementazione nel settore civile, in particolare quanto all’arretrato, dati gli obiettivi estremamente ambiziosi formulati al riguardo (- 65% entro il 2024), oltre che nelle Corti di Appello quanto al settore penale.
3. Le variabili di cui tenere conto e su cui operare.
Per operare una proiezione sul futuro, ma ancor di più per individuare gli interventi da porre in essere per dare quella scossa positiva che può consentire di raggiungere gli obiettivi delineati, occorre tenere conto di una serie di variabili positive e negative, non presenti nel calcolo iniziale, ma comunque incidenti sui risultati.
Innanzitutto occorre avere la consapevolezza che l’ufficio per il processo, il fattore più incisivo del complesso di interventi realizzati nell’ambito del PNRR giustizia, ha avuto un’inevitabile fase di abbrivio lenta, dovuta alla fase di inserimento e formazione. Con il passare del tempo dovrebbe andare a regime con risultati sempre migliori.
Ma questo impone, anche per evitare ulteriori fughe dei funzionari neo assunti, una conferma degli stessi fino al 2026 e chiare prospettive concorsuali e assunzionali finito questo periodo. Oltre ad un nuovo reclutamento per tutti i posti che si sono già resi e che si renderanno vacanti.
In negativo ci troviamo invece ancora una volta a confrontarci con la penuria delle risorse e con le crescenti scoperture dell’organico dei magistrati, dei dirigenti amministrativi (oltre il 50 %) e del personale.
Quanto ai magistrati siamo arrivati ad una scopertura del 14 % e arriveremo entro il 2024 (e quindi nel periodo topico) a sfiorare il 20 %.
A questo si somma la crescente scopertura dell’organico del personale giudiziario anch’essa ormai tornata prossima al 20 %, in particolare in alcune figure professionali come gli assistenti (ove arriva quasi al 50%). Ormai molti Uffici vanno avanti grazie ai funzionari dell’Ufficio per il processo che verbalizzano nelle udienze. Altrimenti sarebbe semplicemente impossibile tenerle.
Un’accelerazione dei concorsi senza ridurre in alcun modo il piano assunzionale è quindi fondamentale, anche perché non si possono avere risultati senza gli attori che devono operarvi.
Quanto poi agli effetti delle riforme processuali è illusorio pensare che abbiano rilevanza quanto alla durata dei processi, stante la criticità di molte disposizioni ed i tempi necessari anche solo per una corretta valutazione di impatto.
4. I dati territoriali.
Entrando maggiormente nello specifico dei dati emergono risultati davvero eccezionali raggiunti dalla Corte di Cassazione in particolare nel settore penale (- 25 %, con comunque un – 11,9 % nel settore civile).
Anche il trend delle Corti di Appello è estremamente positivo e viene confermato dai dati del I trimestre 2023: solo in 6 Corti prevalentemente piccole le pendenze aumentano e solo di decimali, con dati estremamente significativi a Ancona (- 9, 5 %), Roma (– 4,0 %), a Bari (– 7,3 %), a Venezia (- 5,7 %). L’arretrato cala in tutte le Corti (salvo in 5, anche qui piccole). La tendenza nel settore penale delle Corti sempre per il I trimestre 2023 è invece contraddittorio: in 12 Corti le pendenze aumentano, evidenziando come il settore penale sia quello maggiormente in difficoltà nelle Corti.
Anche per i Tribunali il quadro si rivela molto variegato confermando quella realtà a macchia di leopardo che caratterizza tutte le fotografie sull’andamento della giustizia in Italia, anche se emerge una composizione differente rispetto al passato con una distribuzione delle realtà virtuose e di quelle in chiara difficoltà molto più equamente ripartita sul piano territoriale. Se ciò venisse confermato si potrebbe dire che uno degli obiettivi del PNRR sulla giustizia, ovvero quello di ridurre le differenze tra le diverse zone del Paese, è in fase di realizzazione.
Nel settore civile i dati relativi al periodo 2019 – 2023 evidenziano solo 14 Tribunali che aumentano le pendenze equamente distribuiti sul piano nazionale (3 nel Nord Est, 2 nel Nord Ovest, 4 nel Centro Italia, 1 nel Sud Italia e 4 nelle Isole). Nel I trimestre 2023 invece aumentano le pendenze in 45 Tribunali con un’evidente difficoltà nei tribunali distrettuali. Metà di questi Tribunali soffrono un aumento dei procedimenti, probabilmente a causa delle pendenze relative alla protezione internazionale, con una punta del 10 % a Venezia.
Nel settore penale la situazione è molto peggiore sulla base dei dati 2019 – 2023, mentre il quadro è più confortante analizzando solo il I trimestre 2023.
Seguendo i dati 2019 – 2023 difatti aumentano le pendenze in tutti i Tribunali dei distretti di Trento (e Bolzano), Brescia, Cagliari, Caltanissetta, mentre gli unici distretti in cui non vi sono Tribunali in difficoltà sono quelli di Bologna, Perugia, Roma, Sassari e Lecce (e Taranto).
I Tribunali più in sofferenza secondo i dati ministeriali sono Trento (+ 72,6 %), Venezia (+ 58,42 %), Asti (+ 53,4 %), Monza (+ 43,0 %). Lanciano (+ 42,5 %), Milano (+ 38,6 %), Como (+ 37,2 %) Bolzano (+ 33,6 %), Trapani (+ 31,3 %). Un quadro territoriale quindi disomogeneo rispetto al passato in cui sono principalmente Uffici del Nord Italia (che però partivano da una situazione di base molto più favorevole) a non riuscire a diminuire le pendenze.
Secondo i dati del I trimestre 2023 invece la situazione nel settore penale è migliore, in quanto solo in 33 Tribunali le pendenze aumentano rispetto al 2022.
Il problema non è evidentemente fare classifiche, ma innanzitutto verificare correttezza e ragione dei dati (ben potendo derivare da fattori particolari), capire, approfondire e soprattutto mettere in campo iniziative di correzione e di implementazione.
Per questo occorrerebbe svolgere focus più mirati.
Innanzitutto avere il quadro generale con le presenze effettive di magistrati, dirigenti e personale per ogni ufficio. Inoltre sapere dove in realtà l’Ufficio per il processo non è mai davvero arrivato (stante il numero irrisorio di funzionari concretamente assegnati ed il ritardo nel loro arrivo). Ad esempio ciò ha riguardato per la Lombardia le sedi di Sondrio, Cremona e Mantova.
Infine, ed il dato è fondamentale, analizzare i modelli organizzativi con cui è stato realizzato ed articolato l’Ufficio per il processo in ogni sede. In assenza di un coordinamento e di un confronto ogni Ufficio ha adottato modelli diversi, spesso differenziati per sezione o settore (il Politecnico di Milano in un suo riscontro ha individuato 6 tipologie diverse). Prendere in esame i diversi modelli e verificare quelli più efficaci e redditizi sarebbe fondamentale. Anche perché la tendenza maggioritaria è stata di adeguarsi all’assegnazione del singolo funzionario al singolo magistrato, la più facile a livello organizzativo e che non comportava grandi problemi logistici, ma anche quella che meno realizzava la rivoluzione organizzativa che l’Ufficio per il progetto consentiva.
5. Cosa serve per il futuro.
Realizzare gli obiettivi indicati nel PNRR sulla giustizia sarebbe ancora possibile, ma per farlo occorre non rassegnarsi a fare gli osservatori, per poi magari cercare capri espiatori, ma operare fattivamente per conoscere, focalizzare le situazioni di difficoltà e intervenire.
Il primo step deve riguardare la realizzazione di un quadro più completo, in cui inserire tutte le variabili conoscibili (presenze effettive di magistrati, dirigenti e personale, presenze e distribuzione dei funzionari UPP, modelli organizzativi scelti) che consenta di capire quali fattori sono rilevanti, e la sua pubblicizzazione anche al fine di stimolare un benefico confronto e di rilevare eventuali errori e ulteriori parametri di cui tener conto.
Al riguardo il C.S.M. ha realizzato un interessantissimo cruscotto che consentirà di verificare la situazione di ogni ufficio, articolata per settore e materia che già potrà costituire un aiuto ed un formidabile passo in avanti.
In secondo luogo occorre creare una governance nazionale con un’intesa tra Ministero della Giustizia, C.S.M e Scuola Superiore della magistratura, se possibile coinvolgendo anche il C.N.F., che segua a tempo pieno il progetto, individui i punti di debolezza, interloquisca con gli uffici, dia supporto a chi è in difficoltà.
Infine si potrebbe realizzare, utilizzando anche le migliori esperienze di collaborazione con le Università realizzate con il PON Governance, una sorta di task force di aiuto ed intervento per tutti quegli uffici e settori in sofferenza.
Ma per farlo occorre credere e puntare davvero a quella gigantesca opportunità data dal PNRR giustizia che se realizzata porterebbe a risolvere larga parte dei problemi in cui la giustizia italiana si dibatte da decenni. L’idea dominante oggi sembra diversa, ovvero quella di abbandonare o mettere in secondo piano il progetto del PNRR sulla giustizia per avviarsi verso l’ennesima grande riforma della giustizia, utile forse per la propaganda, ma non per il nostro sistema giustizia che oggi più che mai richiede stabilità normativa e organizzativa.
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