Sommario: 1. Premessa - 2. Gli arresti giurisprudenziali più recenti - 3. La quantificazione del provento da sottoporre a sequestro o confisca.
1. Premessa
L’esperienza giudiziaria più recente ha visto l’incremento delle contestazioni di riciclaggio e di reimpiego sia nei procedimenti di criminalità comune che in quelli di criminalità organizzata, anche di stampo mafioso, in ragione di un progressivo affinamento dell’azione di contrasto all’accumulazione di patrimoni illeciti e alla infiltrazione delle strutture criminali nella economia legale.
In particolare, l’impresa mafiosa rappresenta l’attuale paradigma delle forme più moderne e pericolose di operatività dei sodalizi, impegnando di conseguenza l’autorità giudiziaria - inquirente e giudicante - in uno sforzo di elaborazione di protocolli investigativi e modelli decisori maggiormente in grado di assicurare il perseguimento dell’obbiettivo, risalente quanto bisognevole di ammodernamento continuo, della sottrazione ai gruppi criminali delle ricchezze illecitamente accumulate e soprattutto del contrasto alle manovre criminali volte al condizionamento dei mercati e alla alterazione delle relazioni economiche attraverso l’immissione di capitali illeciti, cui si aggiunge talvolta anche l’utilizzo del metodo mafioso e della finalità agevolatrice delle attività dei sodalizi di stampo mafioso.
Nulla di nuovo, si potrebbe affermare, poiché nella operatività delle organizzazioni mafiose la leva economica e le finalità di accaparramento di ampi settori dell’economia, a fini di accumulazione di ricchezza e di implementazione del controllo delle attività d’impresa attraverso condotte lato sensu riciclatorie, rappresentano da sempre il cuore degli obbiettivi strategici dei gruppi più potenti e radicati.
Così come, sul versante del crimine economico comune, le condotte di riciclaggio e reimpiego offrono da tempo gli strumenti più efficaci per il perseguimento degli scopi di arricchimento illecito, di assicurazione delle provviste accumulate e di ulteriore locupletazione.
A fronte di tale quadro fattuale, lo sforzo della giurisdizione è non solo di tipo operativo ma anche di ricostruzione sistematica del quadro normativo di riferimento: e ciò soprattutto in tema di cautela reale, essendosi oramai da tempo compreso che il delitto non deve pagare e che gli strumenti ablativi offrono la risposta più efficace possibile a queste gravi forme di lesione degli interessi protetti dall’ordinamento, che investono non solo i patrimoni privati ma l’ordine economico e la corretta operatività dei mercati. In ultima analisi, l’economia del Paese.
Sequestri e confische, dunque, come forma insostituibile dell’azione di contrasto attraverso la predisposizione normativa di una ampia gamma di strumenti; non sempre – a dire il vero – sottoposti a una adeguata ricostruzione sistemica e razionale. Soprattutto, di pluriforme natura, collocazione operativa e funzione: penale e di prevenzione; di tipo preventivo/pertinenziale o per sproporzione.
In questa cornice si inserisce l’attuale dibattito sulla individuazione del quantum sequestrabile in caso di riciclaggio (ai sensi dell’art. 648 bis codice penale) o di reimpiego (ex art. 648 ter codice penale) di provviste finanziarie di provenienza illecita: tema particolarmente delicato sol se si pensi alle cronache giudiziarie degli ultimi tempi, che vedono una manovra investigativa sempre più attenta a colpire patrimoni e aziende coinvolti in vicende di crimine economico o economico-mafioso.
2. Gli arresti giurisprudenziali più recenti
Al fine di individuare criteri adeguati per quantificare la somma sequestrabile va riconosciuto che allo stato è sicuramente più avanzata la riflessione giurisprudenziale in materia di riciclaggio rispetto a quella affermatasi per i delitti di reimpiego; e vanno ricordate le nette differenze strutturali e funzionali delle due fattispecie[1].
La condotta di riciclaggio consiste infatti in attività di sostituzione/trasferimento finalizzate al mero occultamento della illecita provenienza di una determinata somma o di un determinato bene, mentre la seconda incrimina l’impiego di beni e di somme di denaro in attività a loro volta produttive di ulteriore guadagno: precisazione assolutamente necessaria nel momento in cui occorre verificare quale sia il profitto (o, in termini generali, il provento) della operazione delittuosa.
Poiché se è vero che il profitto del riciclaggio consiste nel risultato di occultamento (attraverso attività di sostituzione e trasferimento, o qualsiasi altra operazione finalizzata a ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa) della somma (o del bene) che il produttore della provvista illecita affida al terzo, nel caso di reimpiego (in particolare di somme di denaro) il profitto consiste evidentemente nel risultato economico conseguito con l’investimento, potenzialmente (e da verificare in fatto) più elevato della somma investita: diversamente ragionando si opererebbe infatti una indebita assimilazione, in punto di sequestro, tra fattispecie assolutamente diverse che peraltro rappresentano esattamente il frutto di una volontà di incriminazione di condotte progressive nelle quali l’impiego in attività economiche o finanziarierappresenta uno step successivo e ulteriore rispetto a quello del loro mero nascondimento.
Quantificare il risultato economico del reimpiego “come se” si trattasse di una operazione di mero riciclaggio non è evidentemente corretto, pena una ingiustificata disparità di trattamento tra il semplice riciclatore (in ipotesi anche colui che abbia soltanto depositato la somma di provenienza illecita sul proprio conto corrente) e l’autore del reimpiego, che realizza una più complessa condotta caratterizzata dal reinvestimento in attività imprenditoriali, economiche e finanziarie le quali, se e in quanto producano (ulteriore) vantaggio economico, devono rappresentare il criterio di verifica e il parametro di quantificazione del profitto del reato.
Che tale debba essere l’impostazione per una corretta ricostruzione in diritto discende anche dall’analisi della giurisprudenza di legittimità che, intervenuta per la ipotesi di sequestro di somme in ipotesi di riciclaggio, ha fissato principi che consentono di risolvere anche la questione del sequestro di somme in caso di reimpiego.
In relazione al delitto di riciclaggio di provviste finanziarie, infatti, vale la pena in primo luogo rilevare che la più recente giurisprudenza di legittimità ha respinto l’orientamento per così dire restrittivo di cui alla sentenza Cass sez. II pen, n. 21820/22, relatore Mantovano[2], secondo la quale in caso di riciclaggio di somme potesse addirittura essere sequestrato soltanto lo stretto guadagno (del tutto eventuale e sicuramente inferiore alla somma riciclata) del riciclatore, inteso come “accrescimento” eventuale del patrimonio dell’autore della condotta riciclatoria, e non l’intera somma riciclata.
Posizione rimasta del tutto isolata, essendosi affermato il diverso orientamento che, richiamando anche decisioni precedenti e soprattutto guardando ai principi e alle finalità di cui alla Dec. 2001/500/GAI del 26.6.01 (Decisione Quadro del Consiglio concernente il riciclaggio di denaro e il sequestro degli strumenti e dei proventi del reato) e alla Direttiva 2005/60/CE del Parlamento europeo e del Consiglio (relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose), da considerare nel nostro ordinamento multilivello quali importanti punti di riferimento per l’interpretazione e l’applicazione della legge nazionale, ha statuito che in caso di riciclaggio che ha per oggetto somme di denaro il profitto è costituito “dall’intero ammontare delle somme che sono state ripulite attraverso le operazioni di riciclaggio compiute dall’imputato…il denaro di provenienza illecita viene sostituito con denaro pulito che può liberamente circolare…quindi, nel caso di riciclaggio il profitto coincide con il denaro derivante dal delitto presupposto, quindi con la ricchezza illecitamente conseguita dal reato presupposto, e non importa se poi il soggetto condannato per riciclaggio abbia goduto di questa somma solo in minima parte: il valore del profitto del primo reato si identifica col valore del secondo, cioè del riciclaggio” (così Cass. II sez. pen. n. 7503/22 relatore Di Pisa)[3].
Questa stessa pronuncia, poi, ha affrontato anche la questione dell’applicazione del principio solidaristico – secondo il quale al singolo può sequestrarsi anche l’intera somma profitto del delitto a prescindere dal ruolo di ciascuno dei concorrenti – alla fattispecie di riciclaggio, riconoscendo che se è vero che tale principio presuppone il concorso di più soggetti nel medesimo reato (cosa che non accade nei confronti dell’autore del reato presupposto, non punibile per riciclaggio), è anche vero che nel caso di riciclaggio all’autore del delitto presupposto la mancata contestazione del riciclaggio avviene soltanto in applicazione di una deroga normativa alla ordinaria operatività della norma sul concorso, mentre deve riconoscersi sussistente comunque un “concorso nell’illecito complessivo” fra l’autore del delitto presupposto e il riciclatore (ancora, Cass. II sez. pen. 7503/22 relatore Di Pisa). Anche per questo motivo, dunque, la somma da sequestrare deve essere l’intera somma “ripulita” e non soltanto l’eventuale guadagno specifico del riciclatore.
Peraltro, va detto per completezza, l’identificazione del soggetto (autore del delitto presupposto) che abbia affidato la provvista illecitamente prodotta a un terzo (estraneo al delitto presupposto) il quale abbia provveduto poi o a sostituirla/trasferirla oppure a impiegarla comporta oggi (a partire dal 2015, data della entrata in vigore della norma di cui all’art. 648 ter 1 c.p.) anche la contestazione al primo della condotta di autoriciclaggio: si completa così il quadro normativo che consente di parlare di “concorso nell’illecito complessivo”, individuandosi una categoria ricostruttiva utile anche sotto il profilo dell’applicazione del principio solidaristico oltre che per la quantificazione della somma illecita da sequestrare[4].
Infatti, l’applicazione del principio solidaristico a maggior ragione si imporrà nel caso di concorso tra l’auto-riciclatore e il reimpiegante (o il mero riciclatore), atteso che in questo caso abbiano addirittura il concorso di persone in una identica condotta delittuosa, seppure diversamente qualificata in capo ai due partecipi “in fatto” alla complessiva operazione illecita: un chiaro caso di “concorso nell’illecito complessivo”.
3. La quantificazione del provento da sottoporre a sequestro o confisca
Occorre allora verificare gli ulteriori parametri normativi utili per calcolare il quantum.
Ebbene, di estrema rilevanza appare anche la direttiva ermeneutica (richiamata ancora nella sentenza su indicata, Cass. II sez. pen. 7503/22 relatore Di Pisa) volta a valorizzare a questo fine la valutazione “in concreto” dell’operazione illecita di volta in volta realizzata; essa è stata ad esempio ribadita da Cass. II sez. pen n. 34218/20, relatore Sgadari, secondo la quale, ancora una volta in tema di profitto del riciclaggio, “la determinazione della misura del profitto è funzione direttamente correlata sia alla tipologia del delitto da cui discende il profitto, sia alla natura dei beni oggetto del delitto stesso, in quanto il vantaggio economico che può ritrarsi dalla commissione dei singoli reati dipende da variabili rappresentate dalla tipologia delle operazioni di fatto e giuridiche che si realizzano attraverso la commissione dei reati, dalla loro capacità di incidere sul valore e sulla concreta disponibilità di beni, diversamente incommerciabili o di valore di mercato inferiore…”; e per questo secondo la Cassazione “bisogna fare riferimento alle specifiche circostanze del caso concreto per stabilire l’entità del profitto del riciclaggio…”.
Principi che, applicati nel nostro caso, impongono una valutazione in concreto dei vantaggi conseguiti dai concorrenti attraverso le complesse operazioni commerciali di investimento in attività produttive o finanziarie. Vantaggi in concretoche devono tener conto delle specifiche attività economico-finanziarie realizzate in fatto.
Ancora più chiara è infine la posizione espressa nella sentenza n. 22053/23 della Cass. II sez. pen. relatrice Minutillo Turtur, che, intervenendo espressamente (ed è una delle pochissime, allo stato) sul tema del sequestro in caso di delitto di reimpiego, ha precisato in prima battuta che il sequestro/confisca ha ad oggetto “il valore del vantaggio patrimoniale effettivamente conseguito dagli autori del reato, assolvendo in tal modo a una sostanziale funzione ripristinatoria della situazione economica modificata a seguito della commissione del reato” (come del resto già chiarito anche da Cass. SS.UU. n. 31617 del 26.6.15). Aggiungendo che, in caso di concorso, “tutti i rei rispondono per intero dei beni che costituiscono il prodotto del reato”; dunque, secondo il principio solidaristico, ciascuno risponde del “valore complessivo riferito a tutte le attività illecite ascritte al complessivo gruppo dei concorrenti a prescindere dal profitto di ciascuno dei concorrenti responsabili in concorso”. E chiarisce poi questa pronuncia, richiamando sul punto una granitica giurisprudenza, che certamente ciò non dovrà comportare duplicazioni, ma che esse saranno da risolvere nella fase esecutiva.
In applicazione di tali principi, ad esempio, in caso di investimento di somme di provenienza illecita, da parte dell’autore del delitto presupposto, in aziende appaltatrici formalmente intestate a un terzo (estraneo al delitto presupposto), per quantificare la somma da sequestrare dovrà farsi riferimento all’ammontare del valore degli appalti ottenuti dai rei (l’autoriciclatore, in concorso con il reimpiegante) attraverso la condotta illecita in contestazione, rappresentata da una complessa attività di partecipazione ad appalti attraverso ditte nelle quali sono confluiti – proprio per quegli affari – gli investimenti di provviste illecite: il sequestro delle sole somme investite corrisponderebbe infatti al quantum da sequestrare in caso di delitto di “mero” riciclaggio, mentre qualora non ci sia stata soltanto attività di sostituzione ma sia stato realizzato un investimento che abbia prodotto un ulteriore risultato economico attraverso l’impiego di quelle somme in attività produttive, dovrà essere sottoposto a sequestro quell’ulteriore illecito arricchimento, provento del delitto di reimpiego, rappresentato nel caso dal risultato economico complessivo dell’affare (ad esempio, il valore dell’appalto ottenuto).
[1] Sul tema, Giacomo Pestelli, Riflessioni critiche sulla riforma dei reati di ricettazione, riciclaggio, reimpiego e autoriciclaggio, in Sistema Penale, 12/2021.
[2] La decisione aveva ad oggetto la confisca operata nei confronti di imputato di riciclaggio, e affermava che “una cosa è il prodotto, il profitto o il prezzo che l’autore del riciclaggio trae dal reato che ha commesso e altra e differente cosa è il bene riciclato. Nei confronti del riciclatore può essere disposta la confisca esclusivamente del prodotto, del profitto e del prezzo che egli ha tratto dal reato di riciclaggio che ha consumato, mentre nei confronti del “riciclante” può essere disposta la confisca del bene riciclato, sempre che ne sussistano i presupposti”: si escludeva pertanto la possibilità di sequestrare e confiscare l’intera somma riciclata poiché essa non poteva essere considerata “prodotto, profitto o prezzo” del riciclaggio; dunque, fuori dalla rilevanza penale del delitto di riciclaggio. E nel motivare tale esclusione si introduceva una figura del tutto originale, quella del “riciclante”, non perseguibile per il delitto di riciclaggio ma che avrebbe potuto autonomamente subire la confisca della somma riciclata “sempre che ne sussistessero i presupposti”. Dunque, è da interpretarsi, soltanto come provento del delitto presupposto; e dunque soltanto in quell’eventuale procedimento, a carico dell’autore del delitto presupposto: per usura, estorsione, narcotraffico, o per qualsiasi altro delitto produttivo di somme di denaro. Giungendosi però in tal modo ad affermare che in un procedimento per riciclaggio di una somma di denaro di provenienza illecita non si potrebbe sequestrare la somma riciclata.
[3] Precisava la sentenza che “appare difficile sostenere, quindi, che il denaro ripulito nella disponibilità del riciclatore non possa farsi rientrare nella nozione di profitto del reato o quanto meno di prodotto del reato nell’accezione che di tali categorie dà la giurisprudenza. Posto che il cuore del disvalore del delitto di riciclaggio risiede nell’immettere nel circuito economico somme illecitamente acquisite, la somma ripulita passata nelle mani del riciclatore, ove non ritenuto quale vero e proprio profitto, si configura quanto meno quale risultato empirico dell’esecuzione criminosa…si tratta del frutto diretto dell’attività criminosa, ossia del risultato ottenuto direttamente dalla attività illecita. Nel caso di riciclaggio che ha per oggetto somme di denaro, il profitto del reato o comunque il prodotto del reato è quindi l’intero ammontare delle somme che sono state ripulite”.
[4]In ordine alla tematica del rapporto fra autoriciclaggio e riciclaggio (ovvero reimpiego) si ricordano glki arresti giurisprudenziali più recenti: Cass II sez. pen, n. 17235/18, relatore Beltrani: “In tema di autoriciclaggio, il soggetto che, non avendo concorso nel delitto-presupposto non colposo, ponga in essere la condotta tipica di autoriciclaggio o contribuisca alla realizzazione da parte dell'autore del reato - presupposto delle condotte indicate dall'art. 648-ter.1 cod.pen., risponde di riciclaggio e non di concorso nel delitto di autoriciclaggio essendo questo configurabile solo nei confronti dell'intraneus”. Cass. VI sez. pen., n. 3608/18, relatore Agliastro: “In tema di autoriciclaggio, il soggetto che, non avendo concorso nel delitto-presupposto non colposo, ponga in essere la condotta tipica di autoriciclaggio o contribuisca alla realizzazione da parte dell'autore del reato-presupposto delle condotte indicate dall'art. 648-ter.1 cod.pen., risponde di riciclaggio e non di concorso nel delitto di autoriciclaggio essendo quest'ultimo configurabile solo nei confronti dell' "intraneus". (Fattispecie in cui l'imputata aveva versato su un libretto di deposito di una cooperativa di consumo, e poi prelevato mediante assegni, denaro provento dell'attività concussiva attuata dal marito). Dunque, alla luce della attuale ricostruzione sistematica delle norme incriminatrici appare corretto contestare, in ordine alla medesima imputazione in fatto (avente ad oggetto le complesse operazioni economiche e finanziarie di volta in volta accertate, alle quali abbiano partecipato il “produttore” del reddito illecito e il terzo “reimpiegante”) il delitto di autoriciclaggio ai soggetti che abbiano prodotto le provviste illecite attraverso la commissione dei delitti presupposti (associazione per delinquere, estorsione, usura, narcotraffico, etc) e il delitto di reimpiego a carico del terzo estraneo che abbia contribuito consapevolmente al reinvestimento in attività produttive e di impresa.
(Immagine: "L'avarizia. Scena ambientata nel Banco di San Giorgio di Genova", miniatura tratta dal Trattato sui sette vizi, (1330-1340 circa), British Library, Londra)