ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
SETTORE CIVILE
- 1) ISCRIZIONI E DEFINIZIONI. Dieci anni fa nel 2012 ci sono state 29.128 iscrizioni di nuovi ricorsi e 25.015 definizioni; nel 2022, a fronte di un numero simile di iscrizioni, 29.915, le definizioni sono state 36.284, circa un terzo in più rispetto al 2012. Il numero di iscrizioni nel decennio è giunto sino al picco di 38.725 nel 2019 e le definizioni sino al numero di 40.778 nel 2021, oltre un terzo in più rispetto al 2012.
- 2) NUMERO DI UDIENZE. Nel decennio 2012-22 il numero di udienze è aumentato, ma di poco: nel 2012 le udienze tenute sono state 1.054 mentre nel 2022 sono state 1.230, il che significa, combinato il dato con quello del punto precedente, che ogni udienza nel 2022 è molto più pesante di quanto non fosse 10 anni prima essendo aumentate le definizioni in modo massiccio.
- 3) CRISI DELL’ORALITÀ. La natura delle udienze è stata rivoluzionata, nel 2012 per il 77,6% erano pubbliche udienze e dunque i ricorsi erano oggetto di discussione davanti agli Avvocati e alla Procura Generale in contraddittorio, mentre solo il 22,4% delle decisioni erano adottate in camera di consiglio; il dato è esattamente invertito dieci anni dopo, in quanto nel 2022 le pubbliche udienze sono state il 23,3% del totale mentre le camerali il 76,7%.
- 4) CRISI DELLA MOTIVAZIONE. Egualmente si assiste ad una regressione della motivazione, strumento tradizionale di controllo della decisione soprattutto di quella del giudice di ultima istanza: c'è stata una contrazione delle sentenze, la cui motivazione è maggiormente estesa, ridotte ad appena un terzo del dato originario (da 14.692 sentenze del 2012 si è passati a 3.881 del 2022), mentre le ordinanze sono quadruplicate (da 7.328 del 2012 a 28.180 del 2022) nel decennio. I decreti definitori, ossia provvedimenti totalmente non motivati o con motivazione estremamente concisa, sono passati da 1.666 del 2012 a 3.975 del 2022 e le ordinanze interlocutorie, la cui motivazione è pure normalmente molto succinta, da 473 (2012) sono passate a 2.148 (2022).
- 5) INCONTENIBILE INDICE SMALTIMENTO. L’indice di smaltimento è così passato nel 2012 dal 85,9% al 121,3% del 2022, essendo giunto nel 2021 addirittura al 129,3%; il fatto che l’indice sia diminuito nel 2022 è anche un segno di stanchezza e di non sostenibilità della performance.
- 6) MATERIE PARTICOLARI. Nella protezione internazionale i flussi sono molto variabili di anno in anno: es. 6.026 iscrizioni nel 2018, 10.366 iscrizioni nel 2019, 1.495 nel 2022. Questione centrale è quella tributaria, contenzioso nel quale i primi due gradi di giudizio si collocano al di fuori della giurisdizione ordinaria: vi è stata un’esplosione delle definizioni per frenare l’aumento del grave carico di lavoro arretrato, da 5.966 definizioni (2012) a 12.109 (2022), con un acuto di 15.518 nel 2021. I ricorsi tributari sono circa 50% dell’intero contenzioso civile che, per la prima volta da molti anni, nel 2023 dovrebbe collocarsi al di sotto della soglia psicologica dei 100.000 ricorsi pendenti a fine anno (erano 104.872 al 31.12.2022).
Fonte: Ufficio Statistica Corte di Cassazione, Annuario statistico 2022
SETTORE PENALE
In tema di cassazione: Il ruolo del giudice ai fini della effettività dei precetti posti dalla legge di Giacomo Fumu
Il passaggio dalla requisitoria orale a quella scritta di Pasquale Serrao D'Aquino
sommario: 1. Premessa - 2. Alcune domande - 3. Rivedere il rapporto fra merito e legittimità: creare un confronto circolare - 4. La rilevanza del rinvio pregiudiziale come strumento istituzionale di avvio del rapporto sinergico
1. Premessa
La riforma recentemente approvata (attraverso il Dlgs 149/22 di attuazione della legge delega n. 206/2021) prospetta un cambiamento del volto della giustizia Italiana, richiesto dall’Europa in termini acceleratori: la Corte di cassazione è pienamente coinvolta nel progetto riformatore complessivo che si innesta sull’evoluzione del giudizio di legittimità, rappresentato dal susseguirsi di numerose riforme che sono intervenute nel 2006[1], nel 2009[2] e nel 2016[3], attraverso le quali il ruolo nomofilattico della Corte di cassazione, deputato a garantire l’uniformità della legge e la prevedibilità delle decisioni, è stato, in teoria, notevolmente rafforzato.
C’è da chiedersi se la doppia anima del giudizio di legittimità (“vertice ambiguo”) riuscirà, attraverso quest’ultima riforma, a ritrovare una funzione unica: ma, soprattutto, c’è da chiedersi quale sarà tale funzione.
Da tempo, infatti, i problemi ( soltanto amplificati dalla pandemia che, si spera, sia conclusa) e le ricadute dei più evidenti fattori di crisi della giurisdizione di legittimità - e cioè i tempi eccessivamente lunghi, i contrasti inconsapevoli di giurisprudenza e, complessivamente, la scarsa prevedibilità delle decisioni – erano oggetto della ricerca di una soluzione, senza riuscire a fornire una risposta all’interrogativo concernente la funzione attuale del giudizio di legittimità.
A tale istanza, la riforma recentemente approvata, potrà riuscire a dare una risposta? La questione che si pone è se il mero obiettivo acceleratorio è compatibile con un sistema fondato su una disposizione costituzionale, e cioè l’art. 111 Cost, che consente, comunque, l’accesso alla giurisdizione di legittimità di tutte le istanze, a prescindere dalla natura e dal valore, in quanto ciò implica, necessariamente, che la Corte si trovi a fronteggiare un numero di ricorsi così ingente da rendere assai difficile la produzione di una giurisprudenza coerente e ordinata, volta all’affermazione di principi stabili nel tempo: l’altissimo numero di sopravvenienze rischia fatalmente di compromettere la sua funzione nomofilattica e la possibilità di coniugarla effettivamente con la tutela dello ius litigatoris.
Di fronte a una tale proliferazione di ricorsi, il cui aumento e la cui diminuzione nelle specifiche materie oscilla e dipende anche da decisioni di natura politica [4], una Corte destinata ad una funzione di giustizia del caso concreto, essendo costretta ad operare contemporaneamente attraverso decine e decine di collegi giudicanti per affrontare un carico diversamente non sostenibile, difficilmente può garantire una sufficiente uniformità di indirizzi giurisprudenziali e tempi accettabili di definizione delle controversie.
2. Alcune domande
A Costituzione invariata, la scelta obbligata di introdurre misure acceleratorie – che hanno anche una condivisibile funzione di razionalizzazione del lavoro dei consiglieri – riuscirà a preservare la funzione nomofilattica, o rappresenta soltanto un varco per una definitiva apertura ad un giudizio di Cassazione come terzo grado, con la rinuncia, pertanto al compito di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme applicazione della legge nonché l’unità del diritto oggettivo nazionale?
Oppure è lecito pensare che tale cambiamento possa essere declinato unitamente a quello dell’intera giurisdizione e debba prevedere una riscrittura sostanziale del rapporto fra merito e legittimità, nell’ottica di focalizzare dal basso le istanze di giustizia?
La previsione è incerta ma alcune misure, se attuate con capacità proattiva anche dai magistrati della Corte, potranno certamente consentire, nel tempo, un alleggerimento del carico: l’ufficio per il processo, ad esempio, rappresenta una struttura organizzativa già esistente in molti paesi europei, ed anche in Italia, gli uffici di merito che lo hanno realizzato hanno raccolto positivi frutti sia in termini acceleratori sia rispetto alla qualità del prodotto giurisprudenziale.
Anche l’attuazione sinora sviluppata in Corte di Cassazione ha dato buoni frutti, rimanendo come “fattore di crisi” soltanto la temporaneità della misura, la cui realizzazione è affidata a contratti a termine che, non garantendo una stabilità occupazionale, hanno determinato numerosi esodi degli addetti all’UPP assunti.
La stessa previsione favorevole può essere ragionevolmente formulata rispetto alla soppressione della sezione filtro ed alla creazione di una accurata fase di ”spoglio” delle controversie, supportata dall’ufficio per il processo, direttamente veicolate nelle sezioni con risparmio dei “tempi morti” che l’Europa ci chiede di eliminare.
Chiaramente il risultato di tale operazione strutturale è affidato ad una piena realizzazione di soluzioni che la Corte di Cassazione sta ricercando, attraverso l’ acquisizione, invero solo recente, sia di quella cultura dell’organizzazione già da tempo diffusa negli uffici di merito come elemento indispensabile per il loro funzionamento, sia della completa informatizzazione dell’ufficio attraverso l’obbligatorietà del processo telematico.
3. Rivedere il rapporto fra merito e legittimità: creare un confronto circolare
Una relazione sinergica con gli uffici di merito rappresenta uno strumento fondamentale per aggiornare la funzione pilota della Corte di Cassazione assegnandole una dimensione verticistica ma inclusiva delle istanze di giustizia che, partendo dai Tribunali e dalle Corti, prospettano con immediatezza i problemi interpretativi sopraggiunti, rispetto ad una realtà in costante e rapidissimo mutamento. In relazione a ciò, sarebbe opportuno creare un confronto stabile con le Corti territoriali e con i Tribunali ( per le materie per le quali è escluso il grado d’appello) attraverso un sistema di conferenze istituzionalizzato e finalizzato a mettere a fuoco le questioni sulle quali si rende necessario un rapido aggiornamento degli orientamenti: in questo modo la prevedibilità delle decisioni, sulla quale la Corte di Cassazione ha fatto registrare un punto di crisi difficilmente superabile, potrebbe essere agevolata.
4. La rilevanza del rinvio pregiudiziale come strumento istituzionale di avvio del rapporto sinergico
Un strumento introdotto, di grande rilevanza per la creazione della sinergia fra merito e legittimità è il rinvio pregiudiziale.
L’art. 363bis cpc ha introdotto un’altra rilevante novità per il processo in cassazione, già sperimentata in altri ordinamenti [5].
È previsto, più in dettaglio, che «il giudice di merito» quando deve decidere una questione di diritto, la possa sottoporre d’ufficio direttamente alla Corte di cassazione per la sua risoluzione.
Per esercitare il rinvio pregiudiziale, anzitutto, il giudice deve prima avere sottoposto la questione al contraddittorio delle parti.
Sono poi espressamente codificati i presupposti della questione che può essere oggetto di rinvio. Più in dettaglio la questione deve essere:
a) esclusivamente di diritto;
b) nuova, non essendo stata ancora affrontata dalla Corte di cassazione;
c) di particolare importanza;
d) con gravi difficoltà interpretative;
e) tale da riproporsi in numerose controversie.
Il procedimento di rinvio pregiudiziale prevede che l’ordinanza del giudice remittente vada trasmessa – a cura della cancelleria – alla Corte di cassazione.
Si prevede, inoltre che, ricevuti gli atti, il Primo presidente dichiari inammissibile la richiesta qualora risultino insussistenti i presupposti descritti in precedenza, a riprova che non si tratta di un mezzo di impugnazione e, dunque, non vi è un obbligo della Corte di provvedere; e che se non dichiara l’inammissibilità, assegni la questione alle sezioni unite o alla sezione semplice tabellarmente competente per l’enunciazione del principio di diritto, ma sempre all’esito di una pubblica udienza.
Il rinvio pregiudiziale in cassazione sospende il giudizio di merito ove è sorta la questione oggetto di rinvio; il provvedimento con il quale la Corte di cassazione decide sulla questione è ovviamente vincolante nel procedimento nell’ambito del quale è stata rimessa la questione.
La riforma estende il vincolo del precedente della Corte, qualora il processo si estingua, anche nel nuovo processo che sia stato instaurato, con la riproposizione della medesima domanda, nei confronti delle medesime parti.
Tale strumento, sta avendo una positiva attuazione nell’ottica di anticipare i principi di diritto non ancora affremati: se continuerà ad essere applicato allontanando i sospetti di un possibile atteggiamento defatigatorio da parte dei giudici di merito, rappresenta una forma istituzionalizzata di “allerta” sulle questioni giuridiche nuove e potrà incidere positivamente sulla prevedibilità delle decisioni, a vantaggio sia dei tempi della giurisdizione di merito sia della deflazione della domanda di giustizia nella giurisdizione di legittimità.
5. Ultima notazione: valutare la sostenibilità dell'art.111 Cost. nella sua attuale interpretazione e applicazione
Probabilmente sarà necessario riflettere anche sulla sostenibilità della scelta di mantenere immutato l’art. 111 co. 7 Cost. e valutare se, al fine di evitare una rischiosa modifica costituzionale, possa ipotizzarsi una limitazione del dovere della Corte di pronunciarsi nel merito, attraverso la dichiarazione di l’irricevibilità del ricorso per cause di modestissimo valore purché non riguardino i diritti fondamentali della persona, le quali rappresentano, comunque, una percentuale non trascurabile delle pendenze attuali.
[1] Cfr. Dlgs 2.2.2006 n° 40, Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell'articolo 1, comma 2, della legge 14 maggio 2005, n. 80, che, fra le altre cose, ha introdotto la decisione in camera di consiglio per i casi di inammissibilità e manifesta fondatezza o infondatezza.
[2] Cfr. L. 18 giugno 2009 n. 69, Disposizioni per lo sviluppo economico e la competitività nonché in materia di processo civile che, fra le altre cose, ha introdotto la sezione filtro.
[3] Cfr. DL 168/2016 conv. nella L. 25.10.2016 n. 197, Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 31 agosto 2016, n. 168, recante misure urgenti per la definizione del contenzioso presso la Corte di cassazione, per l'efficienza degli uffici giudiziari, nonche' per la giustizia amministrativa, di cui si parlerà in seguito.
[4] Nella materia protezione internazionale, e cioè una di quelle che maggiormente da alcuni anni fa registrare altissime sopravvenienze, la modifiche normativa che le ha determinate è rappresentata dalla L. 46/2017 che ha previsto l’eliminazione del grado d’appello con la conseguenza che il provvedimento di merito, reso a seguito di un solo grado di giudizio, viene impugnato direttamente dinanzi alla Corte di Cassazione.
[5] L’ordinamento francese conosce la cd. saisine pour avis.
Approfondimenti sul tema:
Il ruolo del giudice ai fini della effettività dei precetti posti dalla legge di Giacomo Fumu
Appunti sui numeri della Cassazione di Pierpaolo Gori
Il passaggio dalla requisitoria orale a quella scritta di Pasquale Serrao D'Aquino
Sommario: 1. La fattispecie. - 2. Precisazioni sulla relazione intercorrente fra regione e struttura commissariale. - 3. La natura (ampiamente) discrezionale del potere amministrativo in materia di ripartizione delle risorse e determinazione dei tetti di spesa in ambito sanitario. - 4. I limiti del sindacato giurisdizionale tra ponderazione degli interessi e razionalità della decisione amministrativa.
1. La fattispecie
La sentenza in nota[1] offre l’opportunità di riflettere sull’ampia discrezionalità amministrativa in materia di ripartizione delle risorse e determinazione dei tetti di spesa in ambito sanitario, con la precisazione – non priva di risvolti anche sotto il profilo della legittimazione processuale – che il giudizio concerne atti emanati dal Commissario ad acta per l’attuazione del piano di rientro dai disavanzi della Regione Calabria.
Con ricorso principale è stato impugnato il decreto[2] recante la determinazione dei livelli massimi di finanziamento alle Aziende Sanitarie Provinciali per l’acquisto di prestazioni erogate dalla rete di assistenza ospedaliera privata accreditata con oneri a carico del Servizio Sanitario Regionale per il triennio 2022-2024, come rettificato[3]; con motivi aggiunti la ricorrente titolare di una struttura sanitaria accreditata ha agito avverso il successivo decreto commissariale[4]volto a esplicitare il criterio seguito per detta ripartizione del budget, di portata tale da superare il provvedimento censurato in via principale[5].
L’articolazione delle censure può riassumersi nei seguenti termini.
In primo luogo, nel riferirsi in via esclusiva al valore della produzione effettuata in un certo periodo pregresso senza distinzioni fra prestazioni erogate nel rispetto dei limiti negoziali pattuiti e prestazioni rese extra budget, l’amministrazione consentirebbe l’attribuzione di risorse più cospicue nei confronti di strutture convenzionate che, in modo sistematico, avrebbero disatteso le linee programmatiche e i limiti di spesa imposti. Da qui gli asseriti profili di illogicità, arbitrarietà e ingiustizia del criterio impiegato che premierebbe taluni operatori inadempienti rispetto a un assetto predeterminato a scapito di quanti, come la ricorrente, vi hanno diligentemente ottemperato.
In secondo luogo, il dato della produzione storica delle singole strutture sarebbe, in ogni caso, inidoneo ad assicurare i fabbisogni sanitari a livello territoriale, né risolverebbe il problema della mobilità passiva regionale[6], donde ulteriori profili di irragionevolezza dell’azione commissariale incapace di considerare imprescindibili aspetti quali la localizzazione delle strutture, le carenze territoriali, l’accessibilità, il bacino e il tipo di utenza, la vocazione, le tecnologie e, soprattutto, il numero di posti letto disponibili.
A quest’ultimo riguardo merita fin d’ora precisare che, secondo un costante indirizzo giurisprudenziale, la determinazione del budget non può ritenersi commisurata all’insieme dei posti letto esistenti nella provincia di riferimento, né ai posti letto accreditatati, ma è condizionata dalle risorse effettivamente a disposizione e dalla razionalità dei criteri fissati per la loro suddivisione[7]. Infatti, le esigenze di contenere la spesa pubblica, per quanto stringenti, non escludono che le scelte operate dallo stesso commissario ad acta debbano estrinsecare in maniera coerente e intellegibile le ragioni sottese alla determinazione adottata[8].
2. Precisazioni sulla relazione intercorrente fra regione e struttura commissariale
Ricostruita nei suddetti termini la fattispecie, prima di analizzare le statuizioni inerenti al merito della controversia, è opportuno concentrare l’attenzione sulla questione riguardante la legittimazione passiva al ricorso della Regione Calabria. Il difetto all’uopo riscontrato dal giudice di prime cure potrà comprendersi all’esito di un conciso inquadramento della relazione intercorrente fra regione e struttura commissariale.
I programmi operativi di riorganizzazione, riqualificazione e potenziamento del servizio sanitario regionale, ridenominati piani di rientro[9], istituiti dalla legge finanziaria 2005[10] contengono sia le misure di riequilibrio del profilo di erogazione dei LEA, per renderli conformi con la programmazione nazionale e con il vigente d.P.C.M. riguardante la loro definizione[11], sia le misure per ottenere l’equilibrio di bilancio sanitario. In Calabria, l’accordo sul piano di rientro dal disavanzo è stato perfezionato il 17 dicembre 2009 e recepito con DGR n. 97 del 12 febbraio 2010.
La disciplina dei piani di rientro introduce significative innovazioni nel rapporto tra unitarietà e differenziazione in materia sanitaria[12]. Le regioni sottoposte alla procedura di risanamento perdono parte della loro autonomia decisionale, fino alla nomina governativa di un commissario ad acta per l’attuazione del piano, essendo legate all’adozione di misure organizzative e provvedimenti condizionanti l’offerta assistenziale rivolta agli utenti del servizio. Il commissariamento si giustifica in ragione dell’omessa realizzazione degli obiettivi prefigurati nel piano di rientro, cioè sopraggiunge all’esito di una persistente inerzia degli organi regionali che, in tal modo, si sottraggono a un’attività imposta sia da esigenze di finanza pubblica connesse alla necessità di assicurare la tutela dell’unità economica della Repubblica, sia dai livelli essenziali delle prestazioni concernenti il diritto alla salute[13].
Il riconoscimento di significativi spazi di intervento alle regioni in relazione alle politiche sanitarie rinviene un limite indefettibile nell’esigenza di garantire in modo uniforme sull’intero territorio nazionale i LEA, prestazioni necessarie per rispondere ai bisogni fondamentali di promozione, mantenimento e recupero della tutela della salute[14], in coerenza con gli artt. 3, comma 2, e 117, comma 2, lett. m), Cost.[15], rispetto ai quali il tema della differenziazione si pone soprattutto in termini di efficiente erogazione del servizio. Le regole del d.P.C.M. sopra richiamato, tuttavia, non hanno trovato applicazione omogenea nelle diverse aree del Paese, con conseguente attivazione di interventi sostitutivi riconducibili all’art. 120, comma 2, Cost.
Il potere sostitutivo che tale norma riconosce al Governo mira a salvaguardare, al netto dei criteri di allocazione delle competenze[16], taluni interessi unitari che il sistema costituzionale affida alla responsabilità dello Stato[17] cui spetta, nel particolare ambito dei piani di rientro dai deficit di bilancio in materia sanitaria, il compito di «risolvere nel minor tempo possibile la crisi dissipativa di un certo ente autonomo, sì da rimetterlo in condizione di tornare a garantire i beni da questo, invece, al momento compromessi»[18]. La giurisprudenza costituzionale, in tal senso, consente di evidenziare l’inscindibile legame tra il conferimento di una determinata attribuzione e la previsione di un intervento sostitutivo volto ad assicurare che la finalità cui essa è preordinata non sacrifichi l’unità e la coerenza dell’ordinamento[19].
Nell’ambito in questione, quindi, la garanzia dei livelli essenziali di assistenza si intreccia con il fine di garantire la tenuta del quadro complessivo delle risorse pubbliche. È il piano di rientro dai deficit di bilancio, insieme ai connessi programmi operativi[20], a orientare le strategie regionali di spesa e di programmazione sanitaria, circostanza non sconfessabile neppure dal legislatore regionale[21]. Una diversa soluzione rischierebbe di pregiudicare la tenuta del sistema fondato sull’art. 120, comma 2, Cost., costituendo un grave ostacolo non solo alla piena attuazione dell’autonomia finanziaria regionale, ma anche al superamento dei divari territoriali nell’erogazione di prestazioni inerenti a diritti sociali[22] e, nello specifico, a un diritto (alla salute) fondamentale della persona umana, in scia all’art. 2 Cost., che si dispiega sia nei rapporti fra privati, sia nelle relazioni giuridiche fra questi ultimi e la pubblica amministrazione[23].
Esiste, infatti, una “componente essenziale” ad assicurare l’effettività dei diritti sociali[24], ossia un “nucleo indefettibile” di garanzie[25] incomprimibile e intangibile che consente di precisare, ulteriormente, come «la dialettica tra Stato e Regioni sul finanziamento dei LEA dovrebbe consistere in un leale confronto sui fabbisogni e sui costi che incidono sulla spesa costituzionalmente necessaria, tenendo conto della disciplina e della dimensione della fiscalità territoriale, nonché dell’intreccio di competenze statali e regionali in questo delicato ambito materiale»[26]. Ciò per garantire una programmazione effettiva e la reale copertura finanziaria dei servizi sanitari che, in virtù della natura della situazione da tutelare, deve riguardare sia la quantità che la qualità di prestazioni costituzionalmente necessitate, in uno scenario improntato alla riduzione dei divari territoriali e all’equità[27].
L’incapacità dell’amministrazione territoriale di raggiungere determinati standard meritevoli di tutela (anche) in ambito sanitario, pertanto, giustifica una temporanea surroga nell’esercizio di funzioni assegnate alla titolarità di enti sub-statali. Dunque, la relazione intercorrente fra la struttura commissariale e la Regione è di tipo intersoggettivo e non interorganico[28]. Ciò significa che provvedimenti commissariali come quelli esaminati nella sentenza in nota non sono imputabili all’ente territoriale[29] che, di conseguenza, non ha legittimazione passiva, ossia il ricorso è inammissibile nei suoi confronti[30].
3. La natura (ampiamente) discrezionale del potere amministrativo in materia di ripartizione delle risorse e determinazione dei tetti di spesa in ambito sanitario
Il modello di SSN delineatosi a partire dal d.lgs. n. 502/1992 si ispira alla coniugazione del principio di libertà dell’utente con il principio di programmazione delle prestazioni a carico del servizio sanitario. Sotto il primo aspetto rileva il diritto alla scelta della struttura di fiducia, pubblica o privata, per la fruizione dell’assistenza sanitaria. Il perseguimento del principio della necessaria programmazione sanitaria è stato, invece, perseguito tramite l’adozione di piani annuali preventivi finalizzati a un controllo tendenziale sul volume complessivo della domanda quantitativa delle prestazioni mediante la fissazione dei livelli uniformi di assistenza sanitaria e l’elaborazione di protocolli diagnostici e terapeutici che, inizialmente previsto per le sole aziende ospedaliere[31], è stato poi esteso a tutti i soggetti, pubblici e privati, accreditati[32].
Si è registrata, inoltre, la progressiva accentuazione del carattere autoritativo della programmazione sanitaria[33]. In particolare, a norma dell’art. 32, comma 8, della l. 27 dicembre 1997, n. 449, le Regioni, in attuazione di tale programmazione e in coerenza con gli indici di cui all’art. 2, comma 5, della l. n. 549/1995, s.m.i., individuano preventivamente per ciascuna istituzione sanitaria pubblica e privata, compresi i presidi ospedalieri, o per gruppi di istituzioni sanitarie, i limiti massimi annuali di spesa sostenibile con il Fondo sanitario e i preventivi annuali delle prestazioni, nonché gli indirizzi e le modalità per la contrattazione di cui all’art. 1, comma 32, della l. n. 662/1996[34].
Alle regioni, quindi, è stato affidato il compito di adottare determinazioni di natura autoritativa e vincolante in materia di limiti alla spesa sanitaria, in linea all’esigenza che l’attività dei soggetti operanti in ambito sanitario si svolga nel rispetto di una pianificazione finanziaria. In altri termini «spetta a un atto autoritativo e vincolante di programmazione regionale la fissazione del tetto massimo annuale di spesa sostenibile con il fondo sanitario per singola istituzione o per gruppi di istituzioni, nonché la determinazione dei preventivi annuali delle prestazioni»[35].
La giurisprudenza amministrativa ha considerato detta funzione programmatoria un dato ineludibile per assicurare una corretta gestione delle risorse disponibili, affermando, in linea di principio, la legittimità dei tetti di spesa nei confronti di strutture private accreditate date le insopprimibili esigenze di equilibrio finanziario e di razionalizzazione della spesa pubblica[36], per quanto il diritto fondamentale alla salute, come anticipato, non possa essere scalfito nel suo nucleo essenziale. Al di là della questione più specifica della legittimità dei tetti di spesa fissati in corso di esercizio finanziario[37], ciò significa che le regioni godono di un ampio potere discrezionale nell’esercizio della predetta funzione, dovendo individuare un punto di sintesi in esito alla comparazione di interessi quali il contenimento della spesa pubblica, il diritto alla fruizione di adeguate prestazioni sanitarie, le aspettative di operatori orientati dalla logica imprenditoriale e l’efficienza delle strutture sanitarie[38].
In una Regione come la Calabria interessata dal regime “emergenziale” – che, invero, si protrae da oltre un decennio[39] – del piano di rientro dal disavanzo e dal successivo commissariamento, in base a quanto già osservato, l’individuazione delle somme destinate all’acquisto delle prestazioni sanitarie erogate dalle strutture accreditate spetta al Commissario ad acta, così da «rendere stringenti i criteri di fissazione del tetto massimo di spesa posto a monte dell’erogazione dei singoli budgets destinati alle strutture private»[40].
In tale prospettiva, si è precisato che «la ragionevolezza delle scelte operate in materia di tetti di spesa e ripartizione del budget, trattandosi di determinazioni che tengono conto della ponderazione tra i diversi tipi di interessi e prestazioni eterogenee, come tali riservate ad una sfera di discrezionalità politico-amministrativa particolarmente ampia, (…) non emerge guardando al singolo interesse e al concreto effetto lesivo che la stessa comporta per il singolo operatore economico, ma solo considerando tale interesse insieme agli altri, valutando le alternative possibili e realistiche per contemperarle»[41]. Si è inoltre evidenziato che «chi intende operare nell’ambito della sanità pubblica deve pur accettare i limiti in cui la stessa è costretta, dovendo comunque e in primo luogo assicurare, persino in presenza di restrizioni finanziarie, beni costituzionali di superiore rango quali i livelli essenziali relativi al diritto alla salute. Le strutture private, che operano e cooperano in regime di accreditamento all’erogazione del servizio sanitario, non possono ignorare questa fondamentale esigenza pubblica (…) sottesa alla previsione di stringenti tetti di spesa»[42].
Alla stregua di simili statuizioni, la sentenza in nota afferma che un criterio – come quello in esame – di distribuzione delle risorse basato sul valore medio della produzione effettuata in un certo periodo, quand’anche eccedente il budget fissato dall’amministrazione[43], non può ritenersi palesemente illogico o irrazionale, poiché idoneo a rappresentare uno degli elementi utili ad apprezzare l’efficienza degli operatori nel mercato di riferimento, senza pregiudizio per la concorrenzialità tra singole strutture sanitarie.
4. I limiti del sindacato giurisdizionale tra ponderazione degli interessi e razionalità della decisione amministrativa
Il principio di parificazione e di concorrenzialità tra strutture pubbliche e private, dunque, deve conciliarsi con il principio di programmazione[44] volto ad assicurare razionalità al sistema sanitario. È necessario ora precisare se le prestazioni eccedenti il budget prefissato dall’amministrazione possano legittimamente rilevare, come ritenuto dalla sentenza in nota, ai fini della determinazione delle risorse spettanti alle strutture accreditate. Nel caso di specie, infatti, la p.a. ha optato per il criterio della produzione effettiva nel riparto delle risorse disponibili, sì da ottimizzare pro futuro le potenzialità delle strutture nell’erogazione delle prestazioni sanitarie, mentre per la ricorrente una simile opzione avrebbe valorizzato una forma di illecito contrattuale.
In base a tali premesse è opportuno chiarire, innanzitutto, il regime delle prestazioni extra budget e, successivamente, la ragionevolezza del menzionato criterio in relazione ai poteri decisori del giudice amministrativo.
In merito al primo profilo, dagli artt. 8-quinquies e 8-sexies del d.lgs. n. 502/1992 si desume la regola per cui non è consentita la remunerazione delle prestazioni in argomento, in quanto la funzionalità del sistema di programmazione sanitaria si fonda sul rispetto dei tetti di spesa preventivati. Anche la Corte di Cassazione ha avuto modo di affermare, al riguardo, che l’osservanza di questi tetti costituisce un vincolo ineludibile che stabilisce la misura delle prestazioni che il SSN può erogare e permettersi di acquistare[45], al punto di giustificare l’omessa previsione dei criteri remunerativi riguardanti le prestazioni extra budget, circostanza ritenuta coerente con il fine di perseguire obiettivi di equilibrio finanziario attraverso un’attività di programmazione e pianificazione autoritativa e vincolante[46] e, come anticipato, connotata da significativi margini di discrezionalità.
In questa parte del ragionamento si innesta il secondo profilo relativo al tipo di sindacato giurisdizionale che può svolgersi in riferimento all’esercizio di tale potere, il quale risulta circoscritto agli aspetti del provvedimento idonei a rivelare un’evidente illogicità, irragionevolezza o erroneità[47]. Una volta escluso che l’amministrazione sia incorsa in un simile vizio della funzione[48], il giudice amministrativo non può sostituire il proprio giudizio alle valutazioni spettanti alla p.a.
Ciò non implica, ovviamente, preclusioni in ordine alla verifica della congruità delle valutazioni strumentali ad assicurare la razionalità della decisione amministrativa[49]. La vigenza di un canone generale di ragionevolezza[50], del resto, è stata da tempo affermata dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato[51], che attraverso il sindacato sull’eccesso di potere ha fatto emergere un obiettivo di adeguamento sostanziale dell’agire pubblico rispetto alla funzione esercitata[52].
Tale sindacato sulla “accettabilità” della scelta schiude significativi spazi al giudice amministrativo, e ciò costituisce la ragione della “forza intrinseca” del giudizio sull’eccesso di potere[53] che ha imposto una rilettura della teoria della validità provvedimentale con il passaggio dalla legittimità formale a quella sostanziale[54]. Spetta, tuttavia, alla parte ricorrente dimostrare la palese ingiustizia, irrazionalità o illogicità di una scelta, come quella in contestazione, basata sulla produzione effettiva ai fini del riparto delle risorse fra strutture private accreditate; il che non è avvenuto: «non appare, infatti, del tutto irrazionale che l’Amministrazione, non disponendo di specifiche evidenze sulla qualità delle prestazioni offerte dai vari soggetti accreditati, abbia deciso di distribuire le risorse finanziarie disponibili prendendo a riferimento il dato della produzione effettiva, quale indice della capacità delle singole strutture sanitarie di erogare prestazioni sanitarie»[55].
La considerazione delle prestazioni erogate extra budget, in tal senso, consente di apprezzare pienamente l’efficienza delle imprese sanitarie e, nella prospettiva secondo cui il perseguimento degli interessi pubblici coesistenti in materia non può sottostare agli interessi privati, cedevoli e recessivi rispetto ai primi[56], si dimostra coerente con il fine ultimo di tutelare il diritto fondamentale alla salute.
[1] Tar Calabria, Catanzaro, sez. II, 20 marzo 2023, n. 435.
[2] DCA 17 ottobre 2022, n. 133.
[3] DCA 18 ottobre 2022, n. 137.
[4] DCA 9 dicembre 2022, n. 185.
[5] Da cui discende l’improcedibilità del ricorso principale.
[6] Cfr. il Report Osservatorio GIMBE 1/2023 Il regionalismo differenziato in sanità (Fondazione GIMBE: Bologna, febbraio 2023, disponibile sul sito www.gimbe.org/regionalismo-differenziato-report). La mobilità sanitaria interregionale avvera spesso forme di “turismo” sanitario non sovrapponibili a quelle considerate dalla giurisprudenza amministrativa e, in linea di principio, non consentite anche in ragione di «intuibili esigenze di natura economico-finanziaria a tutela dell’erario e di parità di trattamento dei cittadini/utenti» (Cons. Stato, sez. III, 7 gennaio 2014, n. 19; Id. 22 gennaio 2014, n. 296; Id. 11 marzo 2014, n. 1146; Id. 17 marzo 2014, n. 1320; Id. 21 luglio 2014, n. 3881), in considerazione della richiesta di autorizzazione a effettuare cure specialistiche all’estero, né con il consolidato principio di libera scelta del paziente che comprende la scelta della struttura, pubblica o privata, a cui rivolgersi.
[7] Cfr., ex multis, Tar Sicilia, Palermo, sez. III, 17 maggio 2017, n. 1351.
[8] Tar Calabria, Catanzaro, sez. II, 17 giugno 2020, n. 2020, che sul punto richiama Id. 26 settembre 2018, n. 1636.
[9] L’art. 1, comma 796, della l. 27 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria 2007), istitutiva un fondo per il triennio 2007-2009 da ripartirsi fra le regioni interessate da elevati disavanzi, ne ha subordinato l’accesso «alla sottoscrizione di apposito (…) piano di rientro dai disavanzi» puntualizzando il relativo contenuto.
[10] E resi effettivi con l’Intesa fra Stato e Regioni del 23 marzo 2005.
[11] Il d.P.C.M. 12 gennaio 2017 recante «definizione e aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza» di cui all’art. 1, comma 7, del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, ha sostituito il d.P.C.M. 29 novembre 2001. La “griglia LEA” si compone di 22 indicatori, in base ai quali viene elaborato un unico risultato che riassume la valutazione dei servizi erogati in ciascuna delle tre aree assistenziali (prevenzione collettiva e sanità pubblica, assistenza distrettuale e assistenza ospedaliera): sono adempienti le regioni che conseguono un risultato complessivo pari o superiore a 160. Diversamente da tale sistema valutativo, il monitoraggio fondato sul Nuovo Sistema di Garanzia (NSG), introdotto in via sperimentale con d.m. 19 marzo 2019 e operativo dal 1° gennaio 2020, è basato su 88 indicatori, dei quali 22 “core”, ossia impiegati per valutare l’erogazione dei LEA in ciascuna delle suddette aree assistenziali, che sostituiscono la “griglia LEA” in vigore fino al 2019, e 66 “no core” che non concorrono alla formazione dei punteggi finali, bensì costituiscono una base informativa per la valutazione complessiva dei SSR e dei loro fabbisogni assistenziali. Il NSG attribuisce un punteggio ad ogni area assistenziale e considera adempiente la regione che totalizza un punteggio, per ciascuna area, pari almeno a 60 (con valore massimo di 100). L’ultima verifica adempimenti LEA disponibile si riferisce all’anno 2019. Per un confronto tra i risultati della Griglia LEA per il periodo 2015-2019 e il monitoraggio sperimentale per il 2019 in base al NSG, si veda il Referto al Parlamento sulla gestione finanziaria dei Servizi Sanitari Regionali (esercizi 2020-2021) elaborato dalla Sezione delle autonomie della Corte dei conti, deliberazione n. 19/SEZAUT/2022/FRG, 74 ss.
[12] Cfr. V. Antonelli - E. Griglio, Tutela della salute, in L. Vandelli - F. Bassanini (a cura di), Il federalismo alla prova: regole, politiche, diritti nelle Regioni, Bologna, 2012, 52 s.
[13] Cfr., ex multis, Corte cost. 19 gennaio 2017, n. 14; Id. 22 novembre 2016, n. 266; Id. 11 novembre 2015, n. 227. Riecheggia qui il monito della dottrina secondo cui «il tema del commissario ad acta, o ad actus, si iscrive prevalentemente nel vasto panorama dell’inefficienza nell’esercizio di attività che rilevano anche – o soltanto – nell’interesse alieno ed in particolare di funzioni della pubblica amministrazione» (V. Caputi Jambrenghi, Commissario ad acta, in Enc. dir., agg. VI, 2002, 285).
[14] Cfr. V. Antonelli - E. Griglio, Tutela della salute, cit., 46.
[15] Cfr. E. Pesaresi, La “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni” e la materia “tutela della salute”: la proiezione indivisibile di un concetto unitario di cittadinanza nell’era del decentramento istituzionale, in Giur. cost., 2, 2006, 1733 ss. Pone in evidenza il nesso tra i principi di unità, uniformità e uguaglianza anche D. D’Orsogna, Principio di uguaglianza e differenziazioni possibili nella disciplina delle autonomie territoriali, in F. Astone - M. Caldarera - F. Manganaro - A. Romano Tassone - F. Saitta (a cura di), Principi generali del diritto amministrativo ed autonomie territoriali, Torino, 2007, 8 e 22.
[16] Non è superfluo ricordare che ai sensi dell’art. 117, comma 3, Cost. tutela della salute e coordinamento della finanza pubblica rappresentano materie di potestà legislativa concorrente.
[17] Cfr. Corte cost. 27 gennaio 2004, n. 43, con nota di F. Merloni, Una definitiva conferma della legittimità dei poteri sostitutivi regionali, in Le Regioni, 4, 2004, 1074 ss.
[18] Corte cost. 23 luglio 2021, n. 168, con nota di A. Carosi, Risanamento finanziario, garanzia dei livelli essenziali e poteri sostitutivi: riflessioni a margine della sentenza della Corte Costituzionale n. 168 del 2021, in Bilancio com. persona, 2, 2021, 50 ss.
[19] Cfr. V. Antonelli, Livelli essenziali, materie trasversali e altri fattori unificanti, in Il federalismo alla prova, cit., 395.
[20] Ai sensi dell’art. 2, commi 88 e 88-bis, della l. 23 dicembre 2009, n. 191 (legge finanziaria 2010), i programmi operativi costituiscono «prosecuzione e necessario aggiornamento degli interventi di riorganizzazione, riqualificazione e potenziamento del piano di rientro al fine di tenere conto del finanziamento del servizio sanitario programmato per il periodo di riferimento, dell’effettivo stato di avanzamento dell’attuazione del piano di rientro, nonché di ulteriori obblighi regionali derivanti da intese fra lo Stato, le regioni e le province autonome». Sulla configurazione dei programmi operativi come atti di esecuzione dei piani di rientro dal disavanzo della spesa sanitaria, fonte di attribuzione di potere e limite alle prerogative del commissario ad acta, S. Villamena, Il Commissariamento della sanità regionale. Conflittualità ed approdi recenti anche con riferimento al c.d. decreto Calabria, in www.federalismi.it (osservatorio di diritto sanitario), 2019, 7.
[21] Cfr. Corte cost. 20 ottobre 2020, n. 217, e, da ultimo, Id. 14 febbraio 2023, n. 20.
[22] Cfr. Corte cost. 26 novembre 2021, n. 220, la quale, nel solco già tracciato da Id. 1 giugno 2018, n. 117, sottolinea che i livelli essenziali delle prestazioni «costituiscono un elemento imprescindibile per uno svolgimento leale e trasparente dei rapporti finanziari fra lo Stato e le autonomie territoriali».
[23] Cfr. R. Ferrara, L’ordinamento della sanità, Torino, 2007, 62 ss. Si veda già R. Ferrara, Salute (diritto alla), in Dig. disc. pubbl., vol. XIII, Torino, 1997, spec. 531: «mentre il diritto alla salute sembra conservare, tutto sommato, caratteri di assolutezza e di inviolabilità nei rapporti interpersonali fra privati, alla luce dell’art. 32 Cost. interpretato come norma precettiva, questo stesso principio costituzionale evapora e degrada al rango di mera disposizione programmatica allorchè si applichi alle relazioni intersoggettive fra i cittadini-utenti e la pubblica amministrazione». Sulla connotazione del diritto alla salute come “diritto finanziariamente condizionato” si veda F. Merusi, I servizi pubblici negli anni '80, in Quad. reg., 1985, 54. Spetta al legislatore svolgere un bilanciamento che tenga conto dell’esigenza di equilibrio della finanza pubblica e, in tal senso, il diritto alle prestazioni sanitarie non può ritenersi illimitato e assoluto (cfr. N. Aicardi, La sanità, in S. Cassese, a cura di, Trattato di diritto amministrativo, tomo I, Milano, 2000, 382), ma la ristrettezza dei mezzi e delle risorse non potrebbe, comunque, incidere su tale diritto sociale al punto di comprometterne il “nucleo essenziale” (Corte cost. 17 luglio 1998, n. 267).
[24] Come espressamente riconosciuto da Corte cost. 16 dicembre 2016, n. 275, in relazione al diritto all’istruzione del disabile consacrato nell’art. 38 Cost.
[25] Cfr. Corte cost. 26 febbraio 2010, n. 80.
[26] Corte cost. 12 luglio 2017, n. 169.
[27] Sul valore dell’uguaglianza e, in particolare, sulla forza acquisita da quella sostanziale «e quindi dalla necessità di trattare in modo uguale gli uguali, ma in modo diseguale i diseguali», G. Amato, Le istituzioni della democrazia. Un viaggio lungo cinquant’anni, Bologna, 2014, 196. Sul nesso fra tutela della salute e uguaglianza sostanziale, C. Bottari, Principi costituzionali e assistenza sanitaria, Milano, 1991, 49 ss. Sul rapporto fra art. 3 Cost., Stato sociale e fondamento dei diritti sociali, senza pretesa di esaustività, G. Corso, I diritto sociali nella Costituzione italiana, in Riv. trim. dir. pubbl., 1981, 757; F.A. Roversi Monaco, Compiti e servizi. Profili generali, in L. Mazzarolli - G. Pericu - A. Romano - F.A. Roversi Monaco - F.G. Scoca (a cura di), Diritto amministrativo, II, Bologna, 2005, 7.
[28] Tar Molise, sez. I, 15 febbraio 2013, n. 119, secondo cui «dal punto di vista organizzativo la struttura commissariale, nonostante sia organo statale, si avvale degli uffici e del personale della regione inadempiente che ne è anche tenuta a sopportare i costi di funzionamento (…). La rilevata autonomia organizzativa e l’esercizio di poteri propri e non delegati nell’attuazione del piano di rientro induce pertanto a ritenere la struttura commissariale unico legittimato passivo nei giudizi aventi ad oggetto la legittimità degli atti adottati dal commissario ad acta. I ricorrenti eccepiscono che la notifica alla Regione Molise sarebbe idonea a garantire la regolare costituzione del contraddittorio in quanto gli atti adottati dal commissario ad acta dovrebbero imputarsi alla Regione medesima; in senso contrario deve osservarsi che la relazione che intercorre tra la regione e la struttura commissariale è di tipo intersoggettivo e non interorganico».
[29] Come precisato da Cons. Stato, sez. III, 10 aprile 2015, n. 1832, rientra nella competenza esclusiva del commissario ad acta la realizzazione del mandato conferito con la nomina sostitutiva ai sensi dell’art. 120, comma 2, Cost. Si legge, ancora, nella citata sentenza del Tar Molise n. 119/2013 che il commissario ad acta è l’unico soggetto titolare di legittimazione passiva, in quanto «centro di imputazione autonomo sia rispetto alla regione, i cui uffici operano a supporto organizzativo della struttura commissariale in relazione di mero avvalimento (cfr. Tar Molise, 23 dicembre 2010, n. 1565), sia rispetto alla Presidenza del Consiglio dei ministri (…) cui compete il solo procedimento di nomina e la prodromica attività istruttoria relativa all’accertamento della sussistenza dei presupposti normativi di cui all’art. 8 della legge n. 131 del 2001, di attuazione dell’art. 120 Cost., per disporre l’intervento sostitutivo». Sull’autonomia operativa, decisionale e organizzativa della struttura commissariale rispetto alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, cfr. anche Cons. Stato, sez. III, 3 ottobre 2011, n. 5424.
[30] Cfr. G. Avanzini, Il commissario straordinario, Torino, 2013, 113, che ricorda la pronuncia del Tar Calabria, Catanzaro, sez. I, 25 giugno 2013, n. 712, secondo cui il ricorso avverso i decreti assunti dal Presidente della Giunta in qualità di commissario ad acta per l’attuazione del piano di rientro non va notificato presso la Regione Calabria, bensì la competente Avvocatura dello Stato ex art. 1 della l. 25 marzo 1958, n. 260, richiamato per i giudizi amministrativi dall’art. 10, comma 3, della l. 3 aprile 1979, n. 103, trattandosi di atti riconducibili all’amministrazione statale.
[31] Ai sensi dell’art. 6, comma 5, della l. 23 dicembre 1994, n. 724.
[32] Ai sensi dell’art. 2, comma 8, della l. 28 dicembre 1995, n. 549. Il principio della pianificazione preventiva è stato confermato, con modifiche, dall’art. 1, comma 32, della l. 23 dicembre 1996, n. 662.
[33] È quanto si legge nella pronuncia del Cons. Stato, ad. plen., 12 aprile 2012, n. 3, e, nello specifico, nel § 2.1 della parte in diritto che sta orientando la ricognizione normativa in argomento.
[34] Ibidem.
[35] Così sempre Cons. Stato, ad. plen, n. 3/2012 per cui «l’atto programmatorio regionale rappresenta, in definitiva, un primo e fondamentale strumento di orientamento per le strutture sanitarie pubbliche e private».
[36] Cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. I, adunanza del 26 gennaio 2022, n. 1077/2022; Tar Campania, Napoli, sez. I, 29 novembre 2022, n. 7423; Tar Sicilia, Palermo, sez. I, 31 ottobre 2022, n. 3053; Tar Lazio, Roma, sez. III-quater, 2 maggio 2022, n. 5401.
[37] In relazione alla quale è sorto un contrasto giurisprudenziale dovuto a due diversi orientamenti. Per il primo la fissazione di tetti di spesa in via retroattiva, soprattutto intervenendo in un periodo avanzato dell’anno, sarebbe illegittima poiché idonea a sottrarre a operatori del SSN la possibilità di programmare, con ragionevole anticipo e congrua ponderazione, la propria attività (cfr. Cons. Stato, sez. V, 29 marzo 2004, n. 1667; Id. 31 gennaio 2003, n. 499). In base al secondo orientamento, già avallato da Cons. Stato, ad. plen., 2 maggio 2006, n. 8, la fissazione in corso d’anno di tetti che dispieghino i propri effetti anche sulle prestazioni già erogate non potrebbe considerarsi, in quanto tale, illegittima, giacchè essa rappresenta la conseguenza fisiologica dei tempi non comprimibili che permeano le diverse fasi procedimentali previste dalla legge rispetto alla definizione dei fondi utilizzabili (cfr. gli artt. 32, comma 8, l. n. 449/1997, 12, comma 3, d.lgs. n. 502/1992 e 39, comma 1, d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, da leggere in combinato con l’art. 115 d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112). Questo secondo orientamento è stato confermato da Cons. Stato, ad. plen., n. 3/2012 con la precisazione che «la fissazione di tetti retroagenti impone l’osservanza di un percorso istruttorio, ispirato al principio della partecipazione, che assicuri l’equilibrato contemperamento degli interessi in rilievo, nonché esige una motivazione tanto più approfondita quanto maggiore è il distacco dalla prevista percentuale di tagli. Inoltre, la considerazione dell’interesse dell’operatore sanitario a non patire oltre misura la lesione della propria sfera economica anche con riguardo alle prestazioni già erogate fa sì che la latitudine della discrezionalità che compete alla regione in sede di programmazione conosca un ridimensionamento tanto maggiore quanto maggiore sia il ritardo nella fissazione dei tetti».
[38] Così, oltre alla sentenza in nota, Cons. Stato, sez. III, 7 dicembre 2021, n. 8161; Id. 4 novembre 2018, n. 6427; Id. 4 luglio 2017, n. 3274.
[39] E solo per questa Regione ha determinato l’adozione, in rapida successione, di due atti con forza di legge, meglio noti come “decreti Calabria”, ossia il d.l. 30 aprile 2019, n. 35, convertito con modificazioni dalla l. 25 giugno 2019, n. 60, e il d.l. 10 novembre 2020, n. 150, convertito con modificazioni dalla l. 30 dicembre 2020, n. 181. L’art. 2, comma 1, del d.l. 8 novembre 2022, n. 169, come convertito dalla l. 16 dicembre 2022, n. 196, ha disposto con alcune eccezioni la proroga delle misure per il SSR calabrese in questione, in origine applicabili per ventiquattro mesi, di sei mesi. Un’ulteriore proroga, fino al 31 dicembre 2023, è stata disposta dall’art. 3 del d.l. 10 maggio 2023, n. 51, recante «disposizioni urgenti in materia di amministrazione di enti pubblici, di termini legislativi e di iniziative di solidarietà sociale», convertito con modificazioni dalla l. 3 luglio 2023, n. 87.
[40] Cons. Stato, sez. III, 25 marzo 2016, n. 1244.
[41] Cons. Stato, sez. IV, 22 giugno 2018, n. 3859.
[42] Cons. Stato, sez. III, 21 luglio 2017, n. 3617.
[43] Vedi infra.
[44] Cfr. Corte cost. 26 maggio 2005, n. 200.
[45] Cass. civ., sez. III, 6 luglio 2020, n. 13884.
[46] Cass. civ., sez. III, 31 ottobre 2019, n. 27997.
[47] Cfr., ex multis, Tar Campania, Napoli, sez. I, 5 giugno 2019, n. 3054.
[48] La ricostruzione dell’eccesso di potere quale vizio della funzione, come noto, è stata elaborata da F. Benvenuti, Eccesso di potere amministrativo per vizio della funzione, in Rass. dir. pubbl., 1950, 1 ss.
[49] Cfr. F. Trimarchi Banfi, Ragionevolezza e razionalità delle decisioni amministrative, in Dir. proc. amm., 2, 2019, 313 ss.
[50] Cfr. F. Levi, L’attività conoscitiva della pubblica amministrazione, Torino, 1967, 514, e ancor prima, con riferimento al rapporto fra eccesso di potere e sindacato sul ragionevole perseguimento del fine, E. Presutti, I limiti del sindacato di legittimità, Milano, 1911, 78.
[51] Cfr. A. Romano, Art. 26 (t.u. Cons. St. r.d. 26 giugno 1924, n. 1054), in Id., Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, Padova, 1992, 266 (II ed., 2001, 195), il quale evidenzia l’emersione, nel panorama giurisprudenziale, del principio di ragionevolezza per le scelte discrezionali amministrative che «ben presto ha assunto tutta l’ampiezza che deve essergli riconosciuta: come limite non solo intrinseco, ma anche altrettanto generale della loro legittimità; e, in tal modo, il giudice amministrativo che lo ha elevato a tanta portata, lo ha formato come strumento mediante il quale poter operare un sindacato parimenti generale di quelle scelte discrezionali medesime, senza peraltro travalicare i limiti della propria giurisdizione detta, appunto, di (sola) legittimità (…). Il principio di ragionevolezza delle scelte discrezionali amministrative viene a porsi come l’angolo visuale più comprensivo dal quale poter valutare tutte le numerosissime ipotesi che si riconducono all’eccesso di potere, come vizio appunto generale della discrezionalità amministrativa». Sulla ragionevolezza come «elemento fondamentale del processo decisorio della pubblica amministrazione nell’esercizio del suo potere discrezionale», si veda anche F. Astone, Il principio di ragionevolezza, in M. Renna - F. Saitta (a cura di), Studi sui principi del diritto amministrativo, Milano, 2012, 372.
[52] Cfr. G. Pastori, Discrezionalità amministrativa e sindacato di legittimità, in Foro amm., 11, II, 1987, 3170.
[53] Cfr. A. Police, Amministrazione di “risultati” e processo amministrativo, in M. Immordino - A. Police (a cura di), Principio di legalità e amministrazione di risultati (Atti del Convegno, Palermo, 27-28 febbraio 2003), Torino, 2004, 112.
[54] Per ulteriori sviluppi, cfr. i contributi di A. Pajno, Ciò che resta dell’eccesso di potere, F.G. Scoca, Qual è il problema dell’eccesso di potere? e F. Merusi, L’eccesso di potere è morto? E se è morto, chi l’ha ucciso? in F. Francario - M.A. Sandulli (a cura di), Profili oggettivi e soggettivi della giurisdizione amministrativa. In ricordo di Leopoldo Mazzarolli, Napoli, 2017, 233 ss.
[55] Così la sentenza in nota. Non si discute la possibilità di optare per un diverso criterio e neppure si tratta di verificare se il criterio prescelto sia il più idoneo a contemperare gli interessi in gioco. Occorre, invece, appurare un’eventuale irrazionalità, illogicità o ingiustizia della decisione amministrativa, la cui dimostrazione rappresenta un onere per la parte ricorrente.
[56] Come è stato pure evidenziato da Cass. civ., sez. III, n. 13884/2020.
Sommario: 1. Premessa. L’evoluzione del ruolo del Ministero della Giustizia nell’esercizio della funzione giurisdizionale. 2. I recenti interventi normativi che sembrano andare oltre i limiti dell’art. 110 Costituzione. 3. La conseguente odierna posizione degli uffici giudiziari e dei giudici a fronte di queste novità. 4. Alcune osservazioni di sintesi, la necessità che non si smarrisca il senso della giurisdizione e che i giudici non si trasformino in burocrati.
1. Ai sensi dell’art. 110 Cost. al Ministro della Giustizia spetta l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia.
L’esercizio della funzione giurisdizionale spetta invece, e come è noto, ai singoli giudici, che la esercitano in modo indipendentemente e autonomo da ogni altro potere (art. 104 Cost.), e la esercitano altresì individualmente, poiché i magistrati si distinguono solo per funzioni (art. 107 Cost.) e costituiscono (alcuni ritengono questo) un potere diffuso necessario alla democrazia del paese (art. 101 Cost.).
In questo contesto non spettano al Ministro della Giustizia, bensì al Consiglio Superiore della Magistratura, le scansioni della professione di giudice, ovvero le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari (art. 105 Cost.).
Orbene, questo assetto del funzionamento della giustizia, fortemente voluto dai nostri costituenti all’uscita del fascismo, a me sembra oggi entrato in crisi.
A me sembra, infatti, che a seguito della pandemia e del successivo PNRR, si avverta invece sempre più come necessaria una maggiore efficienza, un maggiore rigore.
Prima l’efficienza, poi l’assetto costituzionale.
Questa maggiore efficienza necessita a cascata di una maggiore uniformità, e questa maggiore uniformità tende inevitabilmente a valorizzare il ruolo del Ministro della Giustizia.
La giurisdizione è così sempre meno un potere diffuso, il pluralismo rischia di porsi in contrasto con il PNRR, e una certa gerarchizzazione della magistratura è vissuta oggi non tanto come un ritorno al passato, bensì come qualcosa che ci chiede l’Europa per ridurre l’arretrato.
Desidero quindi esternare queste mie preoccupazioni e ricordare in primo luogo alcuni recenti interventi normativi sul punto.
Essi sono solo degli esempi di un quadro più ampio, che comunque gli addetti ai lavori ben conoscono.
2. Questi gli interventi che mi paiono degni di segnalazione.
2.1. La Circolare ministeriale 22 dicembre 2021 del Dipartimento organizzazione giudiziaria (DOG), trasmessa a tutti i presidenti degli uffici giudiziari italiani, ha ritenuto prioritaria la creazione di una “Unità di Staff” dedicata “al monitoraggio statistico e deputata a creare il controllo sulla correttezza dell’inserimento dei dati nei registri, al controllo delle false pendenze, ed alle verifiche dell’andamento dei ruoli dei singoli magistrati”.
Detta “Unità di staff” è oggetto di specifica formazione da parte del Ministero (“La formazione sarà curata dal Ministero della giustizia”) e sarà composta anche da addetti non magistrati con specifiche competenze nelle discipline economiche e manageriali.
Detta Unità di Staff, inoltre, avrà il compito di “rendere maggiormente efficiente l’attività di gestione dei carichi di lavoro e di analisi delle politiche di riduzione dell’arretrato e dell’adozione di sistemi idonei a garantire la ragionevole durata dei processi”.
Il tutto deve tendere al “risultato atteso in termini di miglioramento della performance dell’ufficio”
Ciò considerato, prosegue la circolare, le SS.LL., ovvero i capi degli uffici giudiziari, dovranno provvedere “ad istituire come primo servizio quello inerente alle attività di monitoraggio statistico e di andamento organizzativo del lavoro” e “il personale addetto ai servizi di monitoraggio terrà i contatti diretti con la direzione generale di statica”.
Ed ancora: “La direzione generale di statica fornirà periodicamente il KIT statistico, che tra le varie cose contiene altresì il “disposition time”.
2.2. Ancora, il Ministero della Giustizia, con adozione del direttore generale del 26 luglio 2022, ha approvato un progetto per l’implementazione di modelli innovativi per lo smaltimento dell’arretrato.
Questo progetto, che mira ad “adeguare l’offerta formativa alle esigenze del sistema giudiziario” e a “rafforzare le sinergie tra il sistema della giustizia e il sistema della formazione e della ricerca universitaria” vede coinvolte anche le Università, le quali si sono dichiarate disponibili nella “redazione di progetti pilota per l’ufficio per il processo, analisi dell’arretrato e classificazione dei flussi, analisi, studio, realizzazione e miglioramento degli strumenti di conoscenza a disposizione della giurisdizione” ecc………, ma anche altresì ad occuparsi di “analisi, studio e sperimentazione di strumenti automatizzati per l’individuazione dei precedenti, analisi, studio e sperimentazione di strumenti di supporto alla scrittura della motivazione, redazione di modelli di provvedimento e/o atti a disposizione del sistema giudiziario, individuazione di aree di intervento per nuovi servizi verso l’utenza, individuazione di elementi critici a livello territoriale idonei a produrre domanda giudiziale al fine di proporre protocolli di intesa con gli stakeholder per intervenire sulle cause che generano flussi anomali di carichi di lavoro, individuazione di modelli previsionali dei carichi di lavoro al fine di aumentare la resilienza degli uffici giudiziari, elaborazione di linee guida per il change management”.
Premesso ciò, e considerato che per il raggiungimento di questi obiettivi è necessario che gli uffici giudiziari inviino i propri provvedimenti alle Università interessate affinché queste possano lavorare i dati ricevuti, e premesso che si rende conseguentemente necessario avere uno schema contrattuale di accordo, il Ministero della Giustizia ha elaborato un contratto standard di collaborazione tra uffici giudiziari e università.
Gli uffici giudiziari, così, e in base a tale contratto, trasmettono i loro provvedimenti alle università, e le università aiutano gli uffici giudiziari ad aumentare la loro produttività “migliorare la qualità del lavoro dei giudici” “supportare il processo di digitalizzazione ed innovazione tecnologica” “individuare metodi uniformi per ridurre l’arretrato civile” “aumentare l’utilizzo delle tecnologie ed in particolare dei software utilizzati dai giudici”.
2.3. Con l’avvento del processo telematico, inoltre, la libertà dei giudici di comporre liberamente i propri provvedimenti è andata sostanzialmente persa, ed oggi, preferibilmente, direi necessariamente, gli atti e i provvedimenti giurisdizionali devono inquadrarsi in schemi preconfezionati.
Questi schemi da utilizzare per rendere giustizia sono i software preparati dal Ministero della Giustizia, e molti incontri di studio sono stati organizzati per spiegare ai magistrati l’utilizzazione corretta di questi programmi.
Qui ricordo le schede del Ministro della Giustizia, FN163 e FN164, CARTABIA 2023 – SICID, sulle modifiche relative alla riforma Cartabia per gli uffici giudiziari di merito.
Queste schede, complete di grafici e di indicazioni alle quali i magistrati si devono attenere, evidentemente non incidono sulla libertà di decisione, ma in alcuni casi il rischio che, indicando una modalità di utilizzo, si indichi altresì contemporaneamente una modalità interpretativa, non è da escludere.
Nell’intervento tenuto dal dr. Marcello Basilico, quale componente del CSM, nell’ultima inaugurazione dell’anno giudiziario a Genova (28 gennaio 2023) egli evidenziava che: “In un corso illustrativo delle innovazioni apportate al processo civile telematico in conseguenza dell’entrata in vigore dal primo gennaio di parte del decreto legislativo n. 149 del 10 ottobre 2022, la Direzione generale per i sistemi informativi automatizzati del Ministero ha di fatto illustrato ai giudici l’interpretazione corretta del nuovo art. 127 ter c.p.c., necessitata in base alla funzionalità degli applicativi a disposizione loro e delle cancellerie”.
2.4. Ricordo, ancora, il Questionario del Ministero della Giustizia per il Monitoraggio integrato UPP e digitalizzazione dei fascicoli del 30 giugno 2023, ovvero il questionario per conoscere il funzionamento dei nuovi uffici per il processo.
In esso si leggono le seguenti domande: “- L’Ufficio ha previsto un numero minimo di bozze che gli addetti all’Ufficio per il processo devono redigere periodicamente? – E’ prevista, ai fini di monitoraggio dell’andamento complessivo dell’Ufficio, un’attività periodica di rilevazione del numero di bozze di provvedimenti definitori redatti dagli AUPP? - E’ prevista, ai fini di monitoraggio dell’andamento complessivo dell’Ufficio, un’attività periodica di rilevazione del numero di bozze che sono diventate provvedimenti definitori?
2.5. Addirittura per il processo penale il Ministero della giustizia ha predisposto più circolari aventi ad oggetto le nuove norme a seguito della riforma c.d. Cartabia.
In particolare ricordo tre circolari: a) la circolare n. 212208 del 20 ottobre 2022 avente ad oggetto l’udienza di comparizione predibattimentale a seguito di citazione diretta; b) la circolare n. 213319 del 21 ottobre 2022 avente ad oggetto il processo in assenza; c) e infine la circolare n. 216881 del 26 ottobre 2022 avente ad oggetto le indagini preliminari.
Queste circolari sono state inviate a tutti i capi degli uffici giudiziari e sono presenti nel sito del Ministero della giustizia.
Tutt’e tre le circolari sono giustificate con queste parole: “Il Ministero ha inteso accompagnare gli uffici giudiziari nell’avvio dell’attuazione concreta della riforma predisponendo un corredo di circolari tematiche che, con uno stile espositivo volutamente sintetico e graficamente orientato sui punti fondamentali possano costituire una sorta di “manuale d’uso” delle novità della riforma”.
Le circolari sono infatti per lo più espositive, un manuale d’uso; tuttavia, direi, le stesse non mancano in alcuni momenti di fornire altresì la corretta interpretazione dei punti dubbi della riforma.
A titolo di esempio riporto alcuni passi della circolare del 20 ottobre 2022: “L’adozione delle suggerite soluzioni consentirà, ecc……..La nuova disciplina processuale dovrà trovare piena applicazione in tutti i casi in cui l’azione penale non risulti ancora esercitata…….analogamente, dunque, l’incompatibilità andrà esclusa per le similari situazioni che si dovessero verificare nell’udienza predibattimentale………Laddove, invece, venga avanzata richiesta di rito abbreviato condizionato ad attività istruttoria, il giudice ben potrà rinviare il procedimento per l’incombente e per la decisione alla prima udienza utile…….L’esame sull’attitudine del materiale d’indagine a sostenere una pronuncia di condanna deve essere particolarmente penetrante….”ecc………….
2.6. Non può, poi, e evidentemente, essere dimenticato il decreto del Ministro della Giustizia più noto in questo momento, ovvero quello recante il Regolamento per la definizione dei criteri di redazione, dei limiti e degli schemi informatici degli atti giudiziari con la strutturazione dei campi necessari per l’inserimento delle informazioni nei registri del processo del 7 agosto 2023 n. 110.
Con esso il Ministro della Giustizia ha fissato i criteri e i limiti degli atti giudiziari ai quali giudici e avvocati si devono attenere; e oggi, così, le modalità di esercizio di essi è regolata con un decreto del Ministro della Giustizia.
E non si replichi che il decreto è stato emanato in quanto previsto dallo stesso art. 46 delle disp. att. c.p.c. per come scritto dal decreto legislativo 10 ottobre 2022 n. 149 in attuazione della legge delega 26 novembre 2021 n. 206, poiché, par evidente, se la Costituzione attribuisce al Ministro della Giustizia solo compiti relativi ai servizi, e tutto ciò non rientra nel concetto di “servizi”, nessuna legge può attribuire questo potere al Ministro della Giustizia.
2.7. Non sono mancati infine nemmeno interventi di normativa primaria.
Tra questi ricordo per tutti la nuova class action di cui agli artt. 840 bis e ss. c.p.c..
L’azione può essere proposta “esclusivamente dalle organizzazioni e dalle associazioni iscritte in un elenco pubblico istituito presso il Ministero della giustizia” (art. 840 bis c.p.c.), e le parti, per intervenire nel giudizio, devono predisporre “un modulo conforme al modello approvato con decreto del Ministero della giustizia, che stabilisce anche le istruzioni per la sua compilazione”.
Inoltre, per ben sette volte, la legge fa riferimento all’area pubblica del portale dei servizi telematici gestito dal Ministero della Giustizia, dove tutto viene pubblicato, e dove da detta pubblicazione assai spesso decorrono i termini processuali: lo fa la prima volta con l’art. 840 ter c.p.c., la seconda con l’art. 840 quater c.p.c., la terza con l’art. 840 quinquies c.p.c., la quarta con l’art. 840 sexies c.p.c., la quinta con l’art. 840 septies c.p.c., la sesta con l’art. 840 decies c.p.c., la settima con l’art. 840 quaterdecies c.p.c.
3. La situazione sembra dunque essere questa:
a) l’esercizio della funzione giurisdizionale deve darsi all’interno di schemi predeterminati da software, e questi software sono standardizzati dal Ministero della Giustizia.
Se un giudice volesse muoversi in libertà, l’esercizio di questa libertà sarebbe oggi difficile, e comunque in contrasto alla logica del processo telematico e della ragionevole durata dei processi.
I giudici sono tenuti quindi a lavorare all’interno degli schemi dati loro dal Ministero.
b) I provvedimenti giurisdizionali veri e propri devono anch’essi, se non altro per esigenze di celerità, rispondere a schemi predefiniti, basarsi su bozze di atti.
Queste bozze sono preconfezionate da altri.
Qualcuno che magistrato non è, ovvero qualche addetto all’ufficio per il processo, predispone la bozza, che poi deve essere convertita nel provvedimento del giudice.
Non importa che il provvedimento abbia funzione interinale (ad esempio un’ordinanza ammissiva dei mezzi di prova) o definitiva (ad esempio una sentenza che chiude il processo); in ogni caso il provvedimento deve corrispondere alla bozza predisposta, poiché solo così si riesce ad accelerare i tempi del processo.
Anche questa è l’espressa raccomandazione del Ministero della Giustizia, che nel questionario fornito agli uffici giudiziari chiede preoccupato: l’ufficio del processo prepara le bozze? Ne prepara a sufficienza? Si convertono in veri e propri provvedimenti definitivi?
c) L’idea di fondo è infatti quella che i magistrati non siano in grado di gestire, ne’ individualmente ne’ collettivamente, il loro lavoro; e, attesa questa incapacità, essi vanno dunque aiutati da soggetti estranei, che in qualche modo indicano loro la strada da percorrere.
Questi soggetti estranei alla magistratura, e chiamati a dare il loro necessario aiuto alla magistratura in Unità di Staff, sono voluti e formati dal Ministero della Giustizia.
Lo Staff si occuperà, principalmente, di verificare lo andamento dei ruoli dei singoli magistrati, le tecniche di miglioramento della produzione pro capite e collettiva, le false pendenze, le decisioni inutili o sovrabbondanti, gli schemi decisionali preferibili.
Gli uffici giudiziari, inoltre, e come abbiamo visto in questo contesto, devono altresì trasmettere tutti i loro atti alle università come gli scolari consegnano i compiti agli insegnanti; e le università provvedono a studiare i provvedimenti, a rilevare le incongruenze, le criticità, e indicare le soluzioni; soluzioni organizzative, ma non solo, poiché l’impegno che discende dalla sottoscrizione dei contratti predisposti in tal senso dal Ministero della Giustizia ha ad oggetto anche il supporto alla scrittura della motivazione e i modelli di provvedimenti e/o atti.
d) Ma, inoltre, i magistrati non solo non sanno organizzare il loro lavoro, ma preferibilmente devono essere aiutati anche nella lettura delle novità normative, guidati nella loro interpretazione.
E’ per ciò, direi, che il Ministero della Giustizia invia a tutti i capi degli uffici delle circolari, con le quali spiega le riforme, le analizza, ne illustra le ragioni.
Normalmente queste circolari non contengono vere e proprie esegesi dei testi, e non indicano, fra più soluzioni, qual è quella che preferibilmente deve essere adottata.
Ciò in verità qualche volta avviene, ma non spesso, normalmente si tratta di mere esposizioni; normalmente si tratta di un “manuale d’uso”, come le stesse circolari si definiscono.
Ma anche l’idea che ai giudici debba esser dato un manuale d’uso da parte del Ministero della Giustizia per far sì che comprendano una riforma, costituisce fatto, a mio sommesso parere, non meno grave.
Si tratta di una sorta di infatilizzazione della magistratura che non necessita commenti.
e) Posizione delicata hanno poi oggi i capi dell’ufficio, sovraccaricati da una serie di adempimenti prima inesistenti, che sono tenuti a svolgere, piaccia o non piaccia.
Sia consentito un esempio.
La legge 190 del 2014 trasferiva dai comuni al Ministero della Giustizia la gestione degli immobili adibiti a palazzi di giustizia.
Si tratta di un compito, questo sì, riconducibile ai servizi di cui all’art. 110 Cost.
Ma, sempre più, il Ministero della Giustizia delega questi adempimenti ai capi dell’ufficio.
I capi degli uffici devono in questo modo occuparsi di qualcosa che non li riguarderebbe, e si trovano così in evidente difficoltà e fastidio.
Magari, chissà, qualcuno dirà a breve che i capi degli uffici sono inadeguati al loro ruolo; e qualcuno aggiungerà che vanno allora sostituiti, e qualcun altro proporrà l’ovvia conseguenza di sostituirli proprio con dei manager.
Tutto è possibile, perché no?
f) E poi emerge sempre più un’ultima idea, che è quella che il Ministro della Giustizia debba rendersi soggetto partecipe dei momenti salienti della giurisdizione: e allora indica a giudici ed avvocati i criteri e i limiti della stesura degli atti giudiziari, e in taluni casi crea portali e altri strumenti di conoscenza delle liti.
4. Alcune osservazioni di sintesi, la necessità che non si smarrisca il senso della giurisdizione e che i giudici non si trasformino in burocrati.
Ovviamente qualcuno potrebbe dare di questo insieme di norme una diversa lettura, ed altri potrebbero addirittura contrapporre a ciò diverse fonti normative per giungere a opposte conclusioni, ed escludere ogni violazione, anche lato sensu, dell’art. 110 Costituzione.
Come diceva Salvatore Satta, infatti, il bello del diritto, a differenza della matematica, è proprio quello di non essere una scienza esatta.
Quindi, nel bene o nel male, un po’ tutto è possibile.
Io credo, però, che nessuno, in onestà intellettuale, possa escludere l’esistenza (quanto meno) di un intrapreso percorso verso una trasformazione del nostro quadro costituzionale della giustizia.
I mutamenti, nelle democrazie, avvengono un po’ alla volta, passo dopo passo; e che vi siano in atto dei passi per immaginare dei nuovi giudici, più uniformi, più gerarchizzati, e meglio diretti dal Ministro della Giustizia, credo sia dato difficilmente contrastabile.
Ma ciò che a me soprattutto preoccupa non è tanto l’esistenza di questa nuova tendenza, quanto il fatto che questa prenda forza nella più totale apatia degli stessi operatori del diritto.
V’è, su ciò, un sorta di assuefazione, di adattamento, oggi diremmo di resilienza, che fa sì che tutto venga vissuto come normale, come corretto e inevitabile, una semplice evoluzione, e non una rottura, della nostra tradizione e/o della nostra storia repubblicana, che vuole al contrario che l’esercizio della funzione giurisdizionale avvenga in modo indipendente dagli altri poteri dello Stato, e soprattutto dal Governo.
Un esempio per tutti.
Questa estate la Corte di Cassazione ha pronunciato un’ordinanza innovativa in tema di sospensione dei termini feriali, escludendola con riferimento a tutte le controversie familiari in materia di mantenimento del coniuge debole e dei minori (Cass. 23 giugno 2023 n. 18044).
L’avvocatura, con più di una associazione, spaventata per questa novità, non si è limitata a criticare l’orientamento ma ha ritenuto di investire di ciò il Ministro della Giustizia e gli ha chiesto di intervenire con un decreto legge.
Io non ho mai visto un decreto legge che interviene per correggere un orientamento giurisprudenziale; in ogni caso ritengo che la cosa contrasti con il principio della separazione dei poteri e con l’art. 110 della Costituzione.
Ma non è poi nemmeno questo il punto; il punto è che evidentemente la stessa avvocatura considera oggi il Ministro della Giustizia come un riferimento al quale rivolgersi per ottenere giustizia, quasi a dire: ci sono i giudici, ma sopra i giudici (forse per qualcuno, per fortuna) c’è il Ministro.
E’ un quadro che sinceramente mi preoccupa.
Ed è un tema sul quale invito tutti ad ogni più ampia riflessione e dibattito.
Ognuno di noi ha il dovere di difendere l’indipendenza della magistratura, poiché l’indipendenza della magistratura è il pilastro primo della nostra democrazia e delle nostre libertà.
[1] Intervento tenuto a Palermo il 30 settembre 2023 in occasione del IV Congresso nazionale dei magistrati di AREA democratica per la giustizia.
Sommario: 1. Premessa: la perdurante attualità del tema. – 2. I nodi problematici tradizionalmente esaminati. – 3. L’ordinamento della giustizia amministrativa e le sue perduranti criticità. – 4. Le ricadute processuali: in particolare, la c.d. giurisdizione domestica. – 5. L’autogoverno della magistratura amministrativa. – 6. Lo sconfortante panorama associativo. – 7. Conclusioni: una riforma necessaria ma forse impossibile.
1. Premessa: la perdurante attualità del tema.
Più che alla mistica nietzschiana dell’eterno ritorno[1], parrebbe ascrivibile alla categoria degli incubi ricorrenti alla Stephen King[2] il modo in cui il tema del ruolo e dell’indipendenza dei giudici amministrativi si ripresenta regolarmente all’attenzione di media e commentatori. Si tratti dell’ennesimo intervento su una gara per l’affidamento di un appalto pubblico, della sospensione dell’ordine di abbattimento di un’orsa o dell’accoglimento del ricorso proposto contro la bocciatura di uno studente colpito da gravi insufficienze, qualsiasi decisione dei Tribunali amministrativi regionali o del Consiglio di Stato capace di suscitare l’attenzione dell’opinione pubblica – specie se idonea a suscitare perplessità dal punto di vista della politica o di un “sentimento popolare” reale o presunto – invariabilmente riapre il dibattito sulla pretesa “invasività” della giustizia amministrativa rispetto alle prerogative del potere esecutivo e/o dell’amministrazione, con le inevitabili proposte di ridimensionamento dei relativi poteri o, al limite, di soppressione delle istituzioni che li esercitano[3].
Tralasciando i profili più beceri delle polemiche da social media[4], in questa sede interessa chiedersi se vi sia un nesso tra questa diffusa “sfiducia” nella giurisdizione amministrativa, spesso alimentata da ignoranza o scarsa comprensione di quello che ne è il fisiologico – e ineludibile – compito istituzionale (ad onta delle frequenti “difese di ufficio” svolte dai massimi vertici istituzionali[5], ma anche da studiosi autorevoli e imparziali)[6], e le peculiarità che connotano lo status dei magistrati amministrativi, sotto lo specifico profilo istituzionale dell’indipendenza e dell’imparzialità che costituisce la pre-condizione imprescindibile per definirne il ruolo e l’immagine di Giudici. In altri termini, occorre interrogarsi su quali siano i principali tratti che ad oggi delineano la “specialità” del giudice amministrativo rispetto alle altre giurisdizioni, e chiedersi se queste concorrano a definire una figura di giudice adeguatamente imparziale e indipendente, o quanto meno percepibile come tale alla stregua dei canoni comunemente impiegati dall’utenza nel “riconoscere” la posizione e la funzione degli organi istituzionali; tali interrogativi, ad avviso di chi scrive, conducono necessariamente a quello più generale se la giurisdizione amministrativa sia oggi dotata di un profilo istituzionale organico e coerente, idoneo a individuarla (e, quindi, legittimarla dinanzi all’opinione pubblica) come giurisdizione a tutto tondo pur nella sua “diversità” rispetto a quella ordinaria.
Naturalmente, l’indagine non può esaurirsi nella banale domanda se la magistratura amministrativa soffra o no un deficit di indipendenza, sul piano istituzionale e ordinamentale, rispetto alla giurisdizione ordinaria. Posto il quesito in tali termini, la risposta non può che essere affermativa, come è evidente dal tessuto normativo di riferimento già a partire dalla cornice costituzionale: è noto infatti che, mentre per la magistratura ordinaria le guarentigie della sua indipendenza sono analiticamente declinate dalla Costituzione (articoli 101, 104, 105 e 107), in modo da vincolare e limitare il legislatore ordinario, l’articolo 108, secondo comma, rimette alla legge il compito di “assicura[re] l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali”, riservando dunque al vaglio di costituzionalità della legislazione ordinaria in subiecta materia la verifica della sua idoneità o meno a garantire il rispetto del precetto costituzionale[7]. Da ciò è discesa la convinzione, per lungo tempo granitica fra i commentatori e ancora oggi molto diffusa, di una diversa gradazione delle garanzie di indipendenza tra giurisdizione ordinaria e giurisdizioni speciali “costituzionalizzate”, essendo riconosciuta solo alla prima una indipendenza “forte”, e alle seconde invece una indipendenza “sufficiente”[8], o comunque modulata non in via assoluta ma in relazione agli specifici compiti che la Costituzione assegna a ciascuna di esse[9].
Questo approccio, che ha a lungo influenzato la stessa giurisprudenza costituzionale in ordine allo status ed alle garanzie di indipendenza della giurisdizione amministrativa[10], è oggi oggetto di profonda rimeditazione alla luce del recepimento a livello costituzionale dei principi del “giusto processo” nell’articolo 111 Cost., come novellato dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, che, in virtù del richiamo contenuto nell’articolo 2, comma 1, del codice del processo amministrativo[11] non può non indirizzare nel senso della (quanto meno tendenziale) estensione a tutte le giurisdizioni speciali dell’intero compendio di principi e regole affermati nel Titolo IV della Parte II della Costituzione[12]. Si vedrà però, approfondendo questo punto, che il percorso legislativo di compenetrazione dei principi del “giusto processo” nella giurisdizione amministrativa, che potrebbe costituire l’occasione decisiva e conclusiva per il superamento di perduranti dubbi e criticità sull’indipendenza e imparzialità di tale giudice, non è forse ancora del tutto compiuto.
Sia come sia, le considerazioni che precedono dovrebbero essere sufficienti a dar conto delle ragioni per cui, pur nel delineato contesto costituzionale e istituzionale, il tema di una non pienezza dell’indipendenza del giudice amministrativo sia periodicamente rimeditato anche da osservatori autorevoli[13]; così come, pur in un contesto in cui è ormai largamente acquisito il riconoscimento del giudice amministrativo come “risorsa” per una miglior tutela dei diritti dei cittadini[14], ci si continui a interrogare su quali siano i veri tratti qualificanti della sua “specialità” al di là delle necessità connesse alla tipologia di affari di cui esso è chiamato a occuparsi ed alle conseguenti peculiarità della relativa disciplina processuale[15].
2. I nodi problematici tradizionalmente esaminati.
Se allora ci si concentra sulle riflessioni più mature e consapevoli svolte in ordine alle criticità ancora oggi esistenti nello “statuto” di indipendenza dei giudici amministrativi, è agevole, ma anche curioso, rilevare che queste vengono di regola individuate in alcune delle principali specificità ordinamentali della giurisdizione in questione: quasi che sia la sua stessa “specialità” a pregiudicarne o attenuarne le necessarie garanzie di indipendenza e imparzialità. Una tale ingenerosa conclusione non è però condivisibile, come peraltro riconosciuto dagli stessi autori che hanno approfondito il tema, dal momento che uno sforzo di maggiore approfondimento evidenzia come in relazione ai profili de quibus – al di là delle possibili “tensioni” costituzionali che possono evocare ed al modo in cui queste vengono per lo più superate, nonché di innegabili aspetti di perfettibilità della normativa vigente – i possibili effetti di lesione dell’indipendenza e imparzialità, e ancor di più dell’immagine di imparzialità che i magistrati devono necessariamente assicurare[16], dipendano molto più dalle ricadute pratiche (e, a volte, dalle degenerazioni) che essi producono che non dalla loro esistenza in sé considerata[17].
In particolare, gli aspetti di (presunta) problematicità su cui maggiormente ci si sofferma sono:
a) la compresenza in capo ad uno stesso organo, il Consiglio di Stato, di funzioni consultive e giurisdizionali;
b) la nomina governativa di una parte dei magistrati dello stesso Consiglio di Stato;
c) l’ampio ricorso a giudici amministrativi, e soprattutto a Consiglieri di Stato, per l’attribuzione di incarichi di consulenza e collaborazione governativa, in misura tradizionalmente molto maggiore rispetto a quanto avviene per i magistrati ordinari;
d) la peculiare disciplina della nomina del Presidente del Consiglio di Stato.
Si nota immediatamente, allora, che è soprattutto nell’assetto e nella disciplina del Consiglio di Stato che vengono comunemente rinvenuti i principali profili di possibile “eccentricità” rispetto a un supposto modello di Giudice imparziale e indipendente, elaborato secondo le coordinate rivenienti dall’ormai pluridecennale applicazione dei principi costituzionali (ma anche del diritto dell’Unione europea e della Convenzione europea dei diritti umani). Con tutta evidenza, si tratta di caratteri che discendono dalla più che secolare storia del Consiglio di Stato e dal fatto che il sistema italiano della giustizia amministrativa, nel suo sorgere e svilupparsi lungo l’arco dei decenni in armonia con i diversi quadri istituzionali e costituzionali di riferimento, si è innestato sul ceppo della tradizione e dell’opera svolta da tale Istituto nell’affermazione e nell’affinamento degli strumenti di tutela dei diritti dei cittadini nei loro rapporti con la pubblica amministrazione[18].
Correlativamente, si assume infatti che – a differenza del Consiglio di Stato – i Tribunali amministrativi regionali, anche a causa della loro nascita in un momento successivo allorché il quadro costituzionale era più maturo e compiuto, sarebbero immuni dai ricordati profili di anomalia strutturale, realizzando in pieno il modello di giudice indipendente e imparziale delineato dal costituente[19].
Con riguardo alla funzione consultiva del Consiglio di Stato, che questa – prima, e indipendentemente, da ogni possibile valutazione in ordine alla sua incidenza sull’indipendenza dell’Istituto – costituisca uno dei tratti qualificanti della stessa specialità della giurisdizione amministrativa non è una petizione di principio, essendo stato affermato nella più autorevole delle sedi, e cioè dalla Corte costituzionale in una importante sentenza[20] nella quale ha individuato proprio nell’attribuzione al Consiglio di Stato da parte della Costituzione di funzioni consultive, a fianco a quelle giurisdizionali, la ratio giustificatrice sul piano costituzionale di rilevanti peculiarità dell’ordinamento e delle carriere dei giudici amministrativi[21] (peculiarità su cui si tornerà più approfonditamente in prosieguo)[22].
Sul punto, pur registrandosi il permanere di posizioni che considerano una “contraddizione” della Costituzione la duplice attribuzione al Consiglio di Stato di funzioni giurisdizionali e di consulenza dell’esecutivo[23], può dirsi ormai acquisito che l’attività consultiva svolta da tale organo, lungi dal determinare una commistione dello stesso con la funzione politico-amministrativa propria del potere esecutivo, ha una connotazione eminentemente tecnica, essendo volta ad assicurare l’elevata qualità della regolazione e l’armonica e coerente interpretazione ed evoluzione dell’ordinamento nel suo complesso, in conformità alle scelte di indirizzo politico che ispirano gli atti normativi; essa è quindi esercitata in modo oggettivo e in posizione di “terzietà”, nell’esclusivo perseguimento dell’interesse pubblico piuttosto che di interessi particolari, e come tale si pone in rapporto di complementarietà rispetto all’attività giurisdizionale attribuita allo stesso Consiglio di Stato (la quale ha anch’essa quale connotato qualificante l’individuazione del punto di equilibrio tra interesse pubblico e interessi particolari implicati nell’attività amministrativa)[24].
Si può discutere, sul piano teorico, della validità e soprattutto dell’attualità della visione sottostante a questi assunti, fondata sull’idea di stampo liberale che compito dell’amministrazione (e, quindi, anche del giudice dell’amministrazione) sia mediare conflitti tra interessi pubblici e privati, e pertanto ricercare il punto di equilibrio tra “autorità” e “libertà”[25], ma non è questa la sede per approfondire profili che investono – in definitiva – il tema del ruolo delle istituzioni giurisdizionali tutte nello Stato moderno. Ciò che qui conta è prendere atto dell’ormai prevalente inquadramento del ruolo del Consiglio di Stato quale organo consultivo posto in posizione di terzietà e immune da qualsiasi forma di dipendenza o subalternità rispetto agli altri poteri statuali.
Tali conclusioni, del resto, oltre che dall’esperienza ormai pluridecennale della Sezione per gli atti normativi e della dialettica che essa spesso instaura con il Governo in ordine a forme e contenuti degli schemi di regolamento esaminati[26], risulta confortata anche dagli orientamenti delle giurisdizioni sovranazionali, non essendo ignota ad altri ordinamenti europei la compresenza in capo a un medesimo organo di funzioni consultive e giurisdizionali[27], la quale è stata ritenuta in astratto non integrare violazione dell’articolo 6 CEDU[28]. In definitiva, più che sul terreno dell’indipendenza dell’organo decidente, le possibili tensioni discendenti dalla coesistenza delle due funzioni possono manifestarsi su quello dell’imparzialità (o dell’apparenza di imparzialità) dei singoli magistrati interessati, sub specie della possibilità che un magistrato possa occuparsi di un medesimo affare dapprima in sede consultiva e quindi in sede giurisdizionale, e possono essere adeguatamente scongiurate attraverso misure organizzative, quali il divieto di assegnazione contemporanea dei Consiglieri di Stato alle Sezioni consultive e a quelle giurisdizionali, nonché, in casi di conclamata incompatibilità, attraverso l’applicazione degli istituti processuali dell’astensione e della ricusazione[29].
Se dunque appaiono decisamente convincenti gli argomenti sulla base dei quali è possibile escludere che la coesistenza in capo al Consiglio di Stato di funzioni consultive e funzioni giurisdizionali possa di per sé stessa costituire un vulnus all’indipendenza e all’imparzialità dello stesso, qualche dubbio potrebbe invece sollevarsi sulla perdurante validità del rilievo “centrale” attribuito dalla Corte costituzionale alla funzione consultiva in quanto elemento qualificante la specialità della giurisdizione amministrativa, alla luce del recente forte ridimensionamento (almeno quantitativo) di tale funzione, per effetto dapprima delle determinazioni del legislatore, che con l’articolo 17, comma 26, della legge 15 maggio 1997, n. 127, ha drasticamente ridotto i casi di acquisizione obbligatoria del parere del Consiglio di Stato (previsione solo parzialmente “bilanciata” dall’istituzione della Sezione consultiva per gli atti normativi)[30], e successivamente di quelle dei Presidenti del Consiglio di Stato, i quali, avvalendosi della facoltà loro attribuita dall’articolo 1, quinto comma, della legge 27 aprile 1982, n. 186, introdotto dal decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, a partire dal 2010 hanno trasformato alcune Sezioni da consultive in giurisdizionali, al punto che ad oggi ne sopravvive una sola (su sette), oltre alla Sezione speciale per gli atti normativi. A tale situazione, certamente indotta da una serena analisi dei carichi di lavoro relativi agli affari consultivi e a quelli giurisdizionali e delle conseguenti necessità organizzative, va peraltro aggiunto che l’unica Sezione consultiva “superstite”, la Prima, vede il proprio carico di lavoro composto per oltre il 90% da richieste di pareri relativi a ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica, rimedio che – come è noto – si ritiene abbia ormai acquisito natura para-giurisdizionale per effetto di recenti modifiche normative e pronunciamenti delle supreme Corti[31].
In alternativa, ove mai si intendesse realmente valorizzare le funzioni consultive come elemento qualificante della giurisdizione amministrativa, potrebbe ipotizzarsene un reale rilancio, attraverso la previsione normativa di nuove ipotesi di pareri obbligatori del Consiglio di Stato in relazione ad atti di regolazione ulteriori e diversi (fino, al limite, a prevederne l’intervento in via “ordinaria” nell’iter di formazione delle leggi), ovvero con l’attribuzione di funzioni consultive anche ai Tribunali amministrativi regionali. Ma la prima opzione – pur non estranea ad altre esperienze anche molto affini a quella italiana[32] - non risulta essere mai stata presa seriamente in considerazione del legislatore, mentre la seconda è stata in passato sostenuta anche autorevolmente[33], ma oggi sembra sostanzialmente abbandonata.
Più delicati sono forse i problemi sollevati dalla riserva al Governo della nomina di una quota dei Consiglieri di Stato, oggi quantificata nel 25% del totale (articolo 19, comma primo, n. 2, l. n. 186/1982). Tuttavia, è noto che tale previsione non è stata più seriamente rimessa in discussione dopo essere stata ritenuta compatibile con il quadro costituzionale da una sentenza[34] nella quale la Corte costituzionale ha anche individuato gli elementi idonei ad assicurare la legittimità del sistema di reclutamento de quo:
a)nella necessità che le designazioni investano soggetti comunque in possesso di elevati doti di preparazione e competenza, tali da renderne indiscutibile l’idoneità all’elevato ufficio;
b)nella circostanza che i Consiglieri così nominati, una volta acquisito lo status di magistrati, ne condividono le garanzie di indipendenza e imparzialità con tutti gli altri magistrati dell’Istituto, recidendo definitivamente ogni legame con la loro precedente carriera o professione[35].
Il presupposto dell’argomentazione della Corte – ribadito più esplicitamente in relazione alla nomina governativa di una parte dei Consiglieri della Corte dei conti[36] – è che la regola dell’accesso alla magistratura mediante pubblico concorso, di cui al primo comma dell’articolo 106 Cost., non afferisce al nucleo delle garanzie di indipendenza del magistrato, ma mira soltanto ad assicurare l’idoneità dello stesso al servizio, ciò che può essere comunque garantito dal legislatore indipendentemente dal sistema di reclutamento (e ferme restando le garanzie minime di indipendenza aliunde ricavabili dallo status giuridico dei magistrati interessati)[37].
Nell’attuale quadro normativo, il sistema si completa con la previsione di un necessario parere del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, organo di autogoverno della giurisdizione amministrativa, in ordine alle proposte di nomina formulate dal Governo, previa verifica del rispetto dei requisiti di idoneità che lo stesso Consiglio di presidenza è chiamato a definire e integrare[38].
Molto rilevante, poi, è il fenomeno del diffuso ricorso a magistrati amministrativi (e soprattutto a Consiglieri di Stato) per l’attribuzione di incarichi di collaborazione governativa ovvero presso altri enti pubblici, compresi quelli apicali di capo di gabinetto e capo dell’ufficio legislativo nei Ministeri: un fenomeno che in questa sede deve essere analizzato non tanto sotto il profilo dell’utilità dell’apporto di competenze e professionalità che tali incarichi producono per l’attività legislativa e di amministrazione attiva, di recente messa anche autorevolmente in discussione[39], quanto sotto quello della loro incidenza sulle garanzie di indipendenza e imparzialità del magistrato e sulla stessa apparenza di imparzialità dell’organo di appartenenza[40]. È proprio sotto questo aspetto che si sono registrate da parte della dottrina alcune posizioni critiche, ancora una volta – tuttavia – determinate molto più dalla pratica quotidiana relativa all’attribuzione e allo svolgimento dei compiti de quibus che non dalla mera circostanza della loro attribuibilità (anche) a magistrati amministrativi.
A onor del vero, l’identificazione del Consigliere di Stato in una figura di grand commis destinata anche a mettere le proprie competenze e professionalità al servizio del Governo, dell’amministrazione e in alcuni casi anche del Parlamento affonda le proprie radici nella tradizione e nella stessa storia del Consiglio di Stato: e non casualmente l’uso di conferire a magistrati amministrativi incarichi ministeriali apicali, ma anche di semplice consulenza sugli affari giuridici e nell’attività legislativa, è stato sempre costantemente difeso dai massimi vertici dell’Istituto quale indispensabile elemento di arricchimento reciproco[41], sia per l’amministrazione (la quale può giovarsi delle competenze e della professionalità di soggetti estremamente qualificati) che per lo stesso magistrato (il quale ha l’occasione di ampliare il proprio bagaglio di esperienze attraverso una conoscenza diretta – non necessariamente già presente nel suo precedente cursus di studi e di lavoro - del funzionamento dell’attività amministrativa e legislativa). Seguendo questa linea, si è giunti ad affermare che lo svolgimento degli incarichi in questione costituirebbe, sulla falsariga di quanto avviene per il Conseil d’État francese, una “terza funzione” del Consiglio di Stato, accanto a quelle consultiva e giurisdizionale[42].
Inoltre, si assume che l’ordinamento conterrebbe in sé regole e cautele idonee a scongiurare ogni pregiudizio all’indipendenza e all’imparzialità dei magistrati interessati dagli incarichi, attraverso una regolamentazione dello svolgimento di compiti extragiudiziari – previa autorizzazione degli organi di autogoverno – che è ormai sostanzialmente analoga per i magistrati ordinari e quelli delle giurisdizioni speciali[43]; in particolare, ad evitare ogni vulnus anche solo all’immagine di imparzialità soccorrono le regole dell’incompatibilità con la conseguente applicazione degli istituti dell’astensione obbligatoria e della ricusazione in relazione agli affari in cui sia parte l’ente o l’amministrazione presso cui il magistrato ha svolto il proprio ufficio, una volta rientrato dal “fuori ruolo”, ovvero presso cui lo svolge, in caso di incarico con permanenza in ruolo.
L’assimilazione con la condizione dei magistrati ordinari è però un argomento fuorviante[44], se si considera:
a)che solo i giudici amministrativi, e non anche quelli ordinari, sono chiamati istituzionalmente a pronunciarsi sulla legittimità degli atti e provvedimenti emanati dalle amministrazioni pubbliche, il che non è irrilevante al fine di “colorare” diversamente il possibile impatto sulle garanzie di indipendenza di una collaborazione continuativa con quelle stesse amministrazioni[45];
b)che, come l’esperienza pluridecennale dimostra, il numero dei magistrati amministrativi coinvolti nello svolgimento dei compiti in questione è di gran lunga prevalente rispetto a quello dei magistrati ordinari (anche a causa del permanere di un minor rigore nelle regole relative alla loro autorizzazione, o forse nel modo in cui sono applicate)[46];
c)che, soprattutto, mentre ai magistrati ordinari sono attribuiti per lo più (e salvo circoscritte eccezioni) incarichi presso il Ministero della giustizia, al contrario i magistrati amministrativi sono ordinariamente presenti presso tutti i Ministeri più rilevanti, e anche presso gli uffici apicali della Presidenza del Consiglio dei Ministri, fino ad aver ricoperto in più di un’occasione la carica di Sottosegretario alla Presidenza medesima, con diretto (e decisivo) coinvolgimento nelle scelte politiche del Governo[47].
A ben vedere, le posizioni anche fortemente critiche espresse da molti commentatori nei confronti dello svolgimento di incarichi di collaborazione politica da parte dei magistrati amministrativi trovano il proprio fondamento – come si è già anticipato – soprattutto negli eccessi e nelle distorsioni cui tale prassi ha dato luogo nell’esperienza concreta. In particolare, i principali punti di criticità sono costituiti da un lato dalla modalità di individuazione dei magistrati da investire degli incarichi in questione, che di regola è effettuata dal soggetto politico-istituzionale in modo fiduciario con forte prevalenza dell’intuitus personae, e dall’altro dal rischio, destinato a inverarsi molto frequentemente, che attraverso la reiterazione nel tempo dei detti incarichi abbiano a crearsi delle vere e proprie “carriere parallele”, con correlativo stabilizzarsi di legami anche extraistituzionali fra il magistrato e il soggetto politico conferente, destinati a incidere anche dopo il rientro del magistrato nel ruolo istituzionale, fino al limite a far pesare nel successivo percorso di carriera – fino ai massimi vertici dell’Istituto – le relazioni politiche costruite più che il servizio di istituto svolto[48].
Per vero, negli anni più recenti il legislatore è intervenuto con norme dichiaratamente intese ad arginare siffatti fenomeni: in particolare, con la legge 6 novembre 2012, n. 190, si provveduto – peraltro, e abbastanza discutibilmente, all’interno di un testo normativo recante “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione” – a: ribadire il divieto di assunzione di incarichi arbitrali per i magistrati amministrativi (articolo 1, comma 18); tipizzare in modo più esteso e rigoroso gli incarichi comportanti il collocamento obbligatorio fuori ruolo (articolo 1, comma 66); fissare in dieci anni, anche non continuativi, nell’arco dell’intera carriera del soggetto interessato il periodo massimo di possibile suo collocamento fuori ruolo per lo svolgimento di incarichi extraistituzionali, salve specifiche e limitate eccezioni (articolo 1, comma 68). Al di là del giudizio che si voglia dare su tali previsioni e sulla loro efficacia[49], ed anche del modo poco commendevole in cui da parte di pressoché tutte le giurisdizioni si è cercato in seguito di aggirarle o interpretarle in modo “flessibile”[50], è innegabile che esse in nulla abbiano inciso sul profilo delle modalità di designazione il quale, come è ormai evidente, costituisce il vero nodo cruciale della materia con riguardo al possibile formarsi di legami e collateralismi suscettibili di pregiudicare l’indipendenza e l’immagine del magistrato.
Quelle che si sono esaminate sono indubbiamente disfunzioni rispetto a quello che si vorrebbe essere un modello fisiologico di funzionamento degli incarichi in esame, effettivamente funzionale all’esclusivo perseguimento degli interessi delle istituzioni interessate, come si proclama[51]. Si tratta però di disfunzioni ben difficilmente superabili: i commentatori che si sono soffermati sulla questione ritengono che un possibile rimedio potrebbe consistere nell’oggettivizzare i criteri di selezione e designazione dei magistrati da investire degli incarichi, investendo della loro individuazione sempre e comunque l’organo di autogoverno in modo da assicurare anche una rotazione dei magistrati designati[52]. Sembra però una soluzione di ben difficile realizzabilità, se si tiene conto del carattere latamente fiduciario che di regola la scelta riveste, specie per quanto riguarda il conferimento degli incarichi ministeriali apicali, e della conseguente impossibilità di “costringere” il soggetto politico ad accettare una designazione aliunde compiuta (col rischio, per di più paventato dai sostenitori del mantenimento dello status quo, che ciò possa determinare lo “svuotamento” di una delle più prestigiose e tradizionali prerogative storicamente riconosciute al Consiglio di Stato). Si potrebbero allora forse immaginare soluzioni in grado di assicurare una opportuna rotazione dei magistrati da destinare ad incarichi esterni, al tempo stesso salvaguardando in qualche misura la facoltà di scelta dell’esecutivo, come ad esempio prevedere che periodicamente il Presidente del Consiglio di Stato definisca, sulla base di specifici requisiti oltre che delle manifestazioni di disponibilità, l’elenco dei magistrati destinati a costituire la “provvista” dalla quale sarà possibile attingere per il conferimento di determinati incarichi extraistituzionali, o meccanismi similari.
Fra i temi esaminati dalla dottrina che ha cercato di individuare i principali nodi problematici dell’indipendenza del giudice amministrativo, l’unico che – in definitiva – evoca realmente un oggettivo profilo di incostituzionalità della disciplina di riferimento è proprio l’ultimo, quello relativo alla nomina del Presidente del Consiglio di Stato (ossia, è superfluo rimarcarlo, dell’organo di vertice dell’intera giurisdizione amministrativa). La procedura è tuttora regolata in modo sintetico dal primo comma dell’articolo 22 della legge n. 186/1982, il quale così recita: “Il presidente del Consiglio di Stato è nominato tra i magistrati che abbiano effettivamente esercitato per almeno cinque anni funzioni direttive, con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il parere del consiglio di presidenza”.
Non v’è chi non veda come tale norma, se presa nella sua formulazione letterale, nella misura in cui rimette al Governo la designazione ultima del vertice dell’Istituto, restringendo ad un semplice “parere” l’intervento dell’organo di autogoverno, non appaia in linea con le necessarie garanzie di indipendenza del plesso giurisdizionale e per questo presenti degli evidenti profili di incostituzionalità in relazione all’articolo 108, comma secondo, della Costituzione. Per questo, come evidenziato dalla dottrina[53], si è affermata nel corso dei decenni una prassi applicativa, che si può definire “costituzionalmente orientata”, in virtù della quale a seguito della vacanza della carica l’esecutivo interpella il Consiglio di presidenza, il quale indica il nominativo del magistrato da designare (di regola coincidente con quello del Presidente di Sezione più anziano in ruolo fra quelli in servizio attivo), indicazione che viene poi semplicemente ratificata dal Consiglio dei ministri.
Tuttavia, è evidente che una tale prassi, anche a voler ritenere che col tempo sia assurta al rango di vera e propria convenzione costituzionale[54], non è di per sé idonea né sufficiente ben potendo essere disattesa in ragione di scelte o valutazioni politiche ovvero in occasione di particolari momenti di “tensione” istituzionale tali da rendere recessivo il principio di leale collaborazione; è quanto verificatosi in una recente occasione, laddove un Governo il cui vertice aveva in più occasioni manifestato nei confronti della giustizia amministrativa disistima e volontà di ridimensionamento[55] ha chiesto al Consiglio di presidenza l’indicazione di cinque nominativi anziché uno solo, in modo da riservarsi (come poi avvenuto) la scelta finale. Ciò che in tale circostanza colpì gli osservatori[56], al di là dell’indubbia caratura morale e professionale di tutti i magistrati interessati compreso quello poi designato, e ad onta dei tentativi di alcuni dei diretti interessati di fornirne una giustificazione ex post[57], fu la sostanziale acquiescenza dell’organo di autogoverno, il quale non solo diede riscontro senza nulla eccepire alla richiesta di indicare più nominativi in luogo di uno, ma nel fornirli ritenne anche di derogare in modo espresso all’ordine di anzianità che fino a quel momento era stato il criterio unico di designazione del Presidente dell’Istituto: segno di una “cedevolezza” nei rapporti con l’esecutivo che – senza indugiare nelle letture “dietrologiche” che pure ha autorizzato con riguardo al caso specifico – non può non destare una più generale preoccupazione in chi abbia a cuore la reale autonomia del Consiglio di Stato come organo giurisdizionale (ancorché, per fortuna, l’episodio non si sia poi ripetuto in occasione delle successive tornate di nomina del Presidente del Consiglio di Stato).
3. L’ordinamento della giustizia amministrativa e le sue perduranti criticità.
Proprio la vicenda della nomina del Presidente del Consiglio di Stato, chiamando in causa una norma di legge manifestamente inadeguata rispetto al quadro costituzionale di riferimento (e vieppiù, come si vedrà, a fronte dell’evoluzione che questo ha registrato nell’ultimo ventennio), induce a soffermarsi sulle peculiarità dell’ordinamento della giurisdizione amministrativa e ad interrogarsi se non sia per caso anche in esse, e nei più vistosi elementi di “eccentricità” che evidenziano rispetto al modello della giurisdizione ordinaria, che possano cogliersi alcune delle cause dei perduranti dubbi circa la reale indipendenza di tale giurisdizione.
In particolare, come è noto, la disciplina dello status e della carriera dei giudici amministrativi, oltre che dell’organizzazione e del funzionamento degli uffici della giustizia amministrativa, è contenuta nella già citata legge 27 aprile 1982, n. 186, la quale, pur essendo stata diverse volte modificata in seguito (l’ultima volta in modo significativo con la legge 21 luglio 2000, n. 205, la cui più rilevante novità fu l’introduzione dei membri “laici” nell’organo di autogoverno), conserva ad oggi la propria impostazione originaria quale ossatura della disciplina, in un contesto segnato da profonde modifiche del quadro istituzionale e costituzionale in cui s’inscrive (basti pensare alla già citata riforma costituzionale dell’articolo 111 Cost. ed alle sentenze della Corte costituzionale successivamente intervenute sul riparto tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa).
La legge n. 186/1982 ha avuto dei meriti storici, ad esempio quello di trasformare il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa in un “vero” organo di autogoverno della magistratura amministrativa, sul modello del C.S.M., nonché quello di avviare un processo di unificazione della giurisdizione amministrativa intervenendo su un sistema in cui i Tribunali amministrativi regionali, istituiti nel 1971 e innestati su un sistema che per circa un secolo aveva conosciuto il Consiglio di Stato quale unico giudice dei rapporti tra privati e P.A., erano rimasti di fatto separati da esso; tuttavia, a distanza di circa quaranta anni dalla sua entrata in vigore non possono non considerarsi ottimistiche le opinioni di chi aveva ritenuto che con essa tutti i problemi afferenti all’indipendenza dei giudici amministrativi sarebbero stati risolti[58].
E invero, l’esame dello stato dell’arte sotto tale profilo evidenzia che ad oggi non è stato compiutamente perseguito l’intento di trasformare la giurisdizione amministrativa in una giurisdizione realmente unitaria, nella quale l’eventuale passaggio dalle funzioni di primo grado (Tribunali amministrativi regionali) a quelle d’appello (Consiglio di Stato) corrisponda effettivamente a un avanzamento di carriera, come avviene presso le altre magistrature, anziché ad un mutamento della stessa. Si vedrà in appresso che il “generale riordino dell’ordinamento della giustizia amministrativa sulla base della unicità di accesso e di carriera”, prefigurato dall’articolo 7 della legge in esame, costituisce a tutt’oggi uno dei più emblematici casi di enunciazione legislativa di un obiettivo poi non solo non realizzato, ma nemmeno sfiorato nei decenni successivi. Comunque la si pensi sulle ragioni di tale situazione[59], è innegabile che essa rende quello dei giudici amministrativi, differentemente da tutte le altre giurisdizioni, un plesso non solo non omogeneo e coeso ma attraversato da divisioni e contrapposizioni “corporative” suscettibili di ripercuotere i propri effetti sui più diversi ambiti del suo operare, e alla lunga di pregiudicarne la stessa immagine istituzionale.
Con particolare riferimento al Consiglio di Stato, è noto che la legge n. 186/1982 ha previsto un triplice sistema di reclutamento dei suoi magistrati: il transito per anzianità dai Tar per il 50% dell’organico, il concorso diretto a Consigliere di Stato per il 25% e la libera nomina governativa a Consigliere di Stato (cui si è già accennato) per il restante 25%. L’idea di fondo era quella di attuare il principio del doppio grado di giurisdizione amministrativa affiancando il concorso per referendario Tar, concorso di secondo grado, a quello tradizionale a Consigliere di Stato che, per la sua particolare selettività e per gli esiti cui aveva dato luogo[60], si ritenne meritevole di essere conservato, nonché di incrementare il transito dei magistrati dai Tar al Consiglio di Stato in modo da favorire l’osmosi tra i diversi livelli della giurisdizione.
Il progetto di creare un plesso unitario e coeso inserendo nell’ordine giurisdizionale amministrativo una magistratura giovane come quella dei Tar, saldamente radicata sul territorio e nella società, non ha avuto però completo successo. Si è a lungo discusso – e si continua ancora a discutere – sul carattere unitario o meno del ruolo del personale della magistratura amministrativa, ma si tratta di un falso problema: basta leggere la tabella A allegata alla legge per constatare che quel ruolo è unico[61], anche se – secondo le regole di diritto comune – diviso in quadri secondo le qualifiche dell’unica carriera del personale di magistratura.
Il fatto è che, nonostante la progressiva osmosi, giuridica e di fatto, tra magistrati in servizio presso il Consiglio di Stato e magistrati in servizio presso i Tar, il concorso a Consigliere di Stato continua a costituire motivo di divisione tra i due gruppi di magistrati. Considerato dai primi come bene da conservare per il maggior prestigio della categoria, esso è invece ritenuto da componenti numerose degli altri – non tutte peraltro necessariamente inclini a sottovalutarne o sminuirne l’indubbio valore - causa di oggettive discriminazioni (per anzianità e per mobilità professionale da un quadro all’altro del ruolo) verificabili in concreto sotto svariati profili:
a) sul piano dell’anzianità di ruolo, il fatto che i magistrati dei Tar transitati in Consiglio di Stato vedano “azzerata” totalmente la propria pregressa anzianità maturata nel ruolo di provenienza, venendo collocati all’ultimo posto del ruolo di arrivo alla stessa stregua di chi vi giunge dall’esterno del plesso giurisdizionale, produce effetti distorsivi – per esempio, nella composizione dei Collegi giudicanti e dell’Adunanza plenaria[62], oltre che per l’accesso agli incarichi direttivi d’appello – che il legislatore ha a un certo punto cercato di ridurre con una disposizione transitoria, che riconobbe per un certo numero di anni ai consiglieri di provenienza Tar una anzianità “forfettaria”[63] ma che ha ormai da tempo esaurito la propria efficacia;
b) tale sperequazione è ulteriormente aggravata dalla disposizione contenuta nell’articolo 19, comma primo, n. 3), terzo periodo, della stessa legge n. 186/1982 (“i vincitori del concorso conseguono la nomina con decorrenza dal 31 dicembre dell’anno precedente a quello in cui è indetto il concorso stesso”), la quale, con la motivazione formale di voler “sterilizzare” i tempi tecnici di conclusione del concorso[64], spesso determina de facto lo “scavalcamento” da parte dei vincitori del concorso di altri colleghi – non solo provenienti dai Tar, ma anche di nomina governativa – che sono approdati prima di loro in Consiglio di Stato e vi prestano servizio anche da molti mesi;
c) la perdurante separazione di fatto dei ruoli di Tar e Consiglio di Stato che ne consegue, nonostante la già citata disposizione dell’articolo 7, rende irreversibile, salvo per la possibilità di essere nominati presidenti di Tribunale amministrativo regionale[65], la scelta di transitare dai Tar in Consiglio di Stato, finendo per essere di ostacolo a quella effettiva osmosi dei due livelli di giurisdizione che costituiva la ratio di fondo della novella del 1982.
È evidente che, una volta operata la scelta di conservare nel quadro ordinamentale il concorso diretto per l’accesso al Consiglio di Stato, era addirittura doveroso che vi fossero previsioni premianti per i vincitori dello stesso rispetto a coloro che accedessero al medesimo Istituto attraverso gli altri canali di reclutamento. Tuttavia, la successiva mancata elaborazione di una disciplina definitiva destinata a soppiantare quella che era stata congegnata per molti versi come una normativa di transizione, in una con l’esaurimento dell’efficacia delle disposizioni temporanee intese a salvaguardare le posizioni dei magistrati in servizio alla data di entrata in vigore della legge n. 186/1982, ha prodotto nel lungo periodo un’accentuazione della divaricazione tra le diverse componenti al punto da far venir meno quello che, ancora nel 1990, agli occhi di un acuto osservatore rappresentava il perdurante elemento di coesione all’interno dell’Istituto, e cioè il sentirsi parte di una “comunità privilegiata” e la “precisa autopercezione di essere dei “meccanismi essenziali dello Stato””[66].
La situazione attuale, complici anche oggettivi fattori di deminutio del prestigio e dei “privilegi” della categoria dei Consiglieri di Stato e di incremento dei ritmi e dei carichi di lavoro intervenuti medio tempore nella legislazione e nello stesso sentire sociale, vede i magistrati pervenuti al Consiglio di Stato per anzianità dai Tar (unici fra tutte le giurisdizioni a poter continuare fisiologicamente[67] a svolgere unicamente il ruolo di giudici relatori fino al collocamento in quiescenza) vivere sempre più la propria posizione come ingiustamente penalizzante, a fronte di quelli che da giusti riconoscimenti al merito sembrano essersi trasformati in eccessivi e immotivati privilegi per i colleghi di provenienza concorsuale. Frequente è l’affermazione che, se certamente sono meritevoli di essere valorizzati lo studio e la preparazione tecnica che il superamento di un concorso estremamente complesso denota, al tempo stesso non è equo sottostimare, se non addirittura obliterare, il proficuo e prolungato svolgimento di funzioni giurisdizionali (attestato dalla stessa valutazione di idoneità che il Consiglio di presidenza della G.A. è chiamato a svolgere in ordine al transito dai Tar al Consiglio di Stato), spesso in realtà territoriali alquanto delicate e all’esito di un concorso a sua volta non certo semplice quale è quello a referendario Tar.
Quanto ai Consiglieri di Stato di concorso, questi a loro volta tendono ad alimentare la propria considerazione di sé stessi come la vera élite dell’Istituto e conseguentemente a ostacolare anche solo l’idea di intraprendere un percorso ideativo di soluzioni suscettibili di modificare il descritto status quo. A ciò si aggiungono le pulsioni “microcorporative”registrabili presso gli stessi Tribunali amministrativi regionali (laddove molti magistrati, avendo accettato la sostanziale separazione dei ruoli e rinunciato al transito in Consiglio di Stato, sono de facto contrari a riforme che favoriscano il ritorno in primo grado dei colleghi ivi transitati, che a loro volta vivrebbero come un “attentato” alle loro posizioni) e finanche i conflitti più specifici innescati da peculiari vicende afferenti a singoli magistrati,[68] a formare un vero e proprio microcosmo di interessi e contro-interessi diversificati, difficilmente componibili e spesso in conflitto fra di loro.
4. Le ricadute processuali: in particolare, la c.d. giurisdizione domestica.
Se tali sono le peculiarità, e per molti versi le anomalie, che ancora oggi caratterizzano l’assetto ordinamentale della giurisdizione amministrativa, occorre però subito precisare che esse – come abbastanza pacificamente riconosciuto, pur nella dialettica che anima la categoria, da pressoché tutti i magistrati amministrativi – restano di regola estranee all’ambito processuale, rivelandosi inidonee a pregiudicare la capacità dei Tar e del Consiglio di Stato di assicurare un’efficace ed efficiente risposta alla “domanda di giustizia” della collettività. Il dato è confermato in particolare dall’esperienza degli operatori che frequentano il Consiglio di Stato, che vede magistrati delle diverse provenienze cooperare all’interno dei collegi delle Sezioni consultive e giurisdizionali senza che l’assetto “discriminatorio” che si è descritto produca alcun apparente effetto sul servizio svolto, comuni essendo sia l’impegno nell’affrontare carichi di lavoro anche imponenti sia lo sforzo di assicurare piena ed effettiva tutela alle situazioni giuridiche dei cittadini, attraverso la corretta e imparziale applicazione delle regole processuali[69].
Probabilmente questa è una delle ragioni (anche se non l’unica) per cui, nonostante l’evidente obsolescenza dell’apparato normativo incentrato sulla legge n. 186/1982 soprattutto rispetto al quadro costituzionale della giurisdizione affermatosi nel “diritto vivente” a seguito della riforma dell’articolo 111 Cost. (come testimoniato proprio dalla vicenda della nomina del Presidente del Consiglio di Stato), il tema della riforma dell’ordinamento della giustizia amministrativa non è mai stato percepito, né a livello istituzionale né dall’opinione pubblica, come una reale necessità – se non un’urgenza - del sistema nel suo complesso, restando l’attenzione concentrata – anche in occasioni nelle quali più avvertita è stata l’esigenza di riforme anche radicali in altri settori dell’organizzazione dello Stato[70]- ai temi dell’efficientamento del processo e dei possibili “inconvenienti” che l’intervento del giudice può causare all’amministrazione e all’economia. In definitiva, la situazione di scarsa coesione interna tra le diverse componenti del Consiglio di Stato e della magistratura amministrativa, i disagi lamentati da alcune di esse e anche i conflitti cui ciò occasionalmente dà luogo vengono percepiti, anche da chi ne abbia sufficiente conoscenza, come vicende di esclusivo interesse “interno” dei diretti interessati, non meritevoli di attenzione in quanto non rilevanti ai fini della missionassegnata agli organi della giurisdizione amministrativa e del suo buon esito.
C’è da chiedersi se le cose stiano davvero così, o se piuttosto – al di là delle sue più immediate ricadute sull’attività di juris dictio quotidianamente svolta da Tar e Consiglio di Stato – non sia possibile cogliere un nesso tra la mancata compiuta unificazione e osmosi tra i diversi organi e percorsi di carriera della giurisdizione de qua e le persistenti criticità che, come si accennava in principio, affiorano periodicamente a livello politico e mediatico in relazione alla percezione dei predetti organi come Giudici, effettivamente rappresentanti un potere “neutro” e indipendente dal ceto burocratico-governativo e pertanto meritevole del prestigio e della considerazione che di regola – e salvo “appannamenti” dovuti a recenti vicende che hanno coinvolto anche la magistratura ordinaria – vanno riconosciuti all’ordine giudiziario. In altri termini, occorre chiedersi se fosse fondata, dopo l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo del 2010, l’opinione del suo principale ispiratore laddove vedeva nell’intervento sui profili organizzativi e ordinamentali (lo “spazio fuori dal codice”) l’ulteriore tassello indispensabile per completare la transizione verso una giurisdizione “a tutto tondo” e conferire piena legittimazione istituzionale agli organi della giustizia amministrativa[71].
Intanto, pur confermandosi la tendenziale “impermeabilità” del funzionamento del processo amministrativo rispetto alle questioni ordinamentali che si sono descritte, c’è da chiedersi se queste siano davvero del tutto estranee alle “tensioni” che occasionalmente si registrano tra i diversi gradi della giurisdizione, con reciproci malumori alimentati da, o destinati a sfociare in, provvedimenti che eufemisticamente possono definirsi eccentrici rispetto a una piena e leale applicazione della disciplina processuale. Al riguardo, possono richiamarsi, quanto meno perché egualmente foriere di dialettica anche extraprocessuale tra le diverse istanze della G.A. al di là delle evidenti differenze tra di esse, le vicende – entrambe peraltro motivate dalla dichiarata necessità di realizzare interessi “prevalenti” – dell’orientamento a tratti affermatosi presso il Consiglio di Stato a favore dell’appellabilità del decreto cautelare monocratico, nonostante il chiaro dato testuale dell’articolo 56, comma 2, c.p.a.[72], e del tentativo di alcuni Tribunali amministrativi regionali di bypassare l’applicazione di (non condivisi) principi di diritto affermati dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato attraverso il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea[73].
Ma il terreno sul quale è più agevole percepire i rischi di lesione all’indipendenza e al prestigio della giurisdizione amministrativa (rischio estensibile, si badi bene, anche ai Tar e non solo al Consiglio di Stato) è quello delle decisioni rese nei giudizi che vedono come parti magistrati amministrativi in relazione a provvedimenti concernenti il loro status e le loro carriere: un settore, coinvolgente innanzitutto e prevalentemente i giudizi di impugnazione dei provvedimenti del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, che è stato icasticamente definito di “giurisdizione domestica”[74], sebbene – come subito si dirà – non sia connotato da alcuna deviazione normativa rispetto all’applicazione delle ordinarie regole in tema di giurisdizione e competenza[75].
Sul punto, è infatti doveroso evidenziare immediatamente come, a fronte di pur reiterati tentativi di mettere in discussione la legittimità costituzionale delle norme che attribuiscono alla giurisdizione amministrativa la cognizione delle controversie relative ai suindicati provvedimenti (al pari, del resto, di quelli del C.S.M. relativi allo status ed alla carriera dei magistrati ordinari nonché degli organi di autogoverno delle altre magistrature speciali), la Corte di cassazione ne abbia invece recisamente affermato la piena legittimità e coerenza con il quadro costituzionale di riferimento della giurisdizione. Può essere utile al riguardo richiamare alcuni passaggi di una sentenza[76] nella quale la S.C., investita di impugnazione ai sensi dell’articolo 362 c.p.c. di una decisione del Consiglio di Stato concernente gli esiti di un concorso a Consigliere di Stato, non si è limitata a escludere che un eventuale vulnus alla terzietà del Collegio giudicante determinato dal rapporto di colleganza tra questi e alcune delle parti fosse ascrivibile ai vizi relativi alla giurisdizione (“Per garantire la terzietà del giudice è approntata in particolare la disciplina dell’astensione e della ricusazione che attiene alle regole del processo e la cui eventuale inesatta applicazione comporta - come già rilevato - un error in procedendo e non già un difetto di giurisdizione. Essendo interno alla giurisdizione, nella specie del giudice amministrativo, il sindacato sulle regole del processo e quindi anche delle regole che disciplinano la ricusazione, risulta in tal modo, in linea di massima, assicurato il rispetto, sotto questo profilo, della garanzia del giudice terzo”[77]), ma si è poi spinta, nel respingere le censure di illegittimità costituzionale della disciplina di astensione e ricusazione nel processo amministrativo dettata dagli articoli 17 e 18 c.p.a., a negare in radice che un tale vulnus sussistesse nel merito, affermando che “i giudici amministrativi nel loro complesso, come giudice speciale, offrono le stesse garanzie di terzietà del giudice ordinario anche quando si trovano a giudicare di controversie che vedano come parti magistrati amministrativi; evenienza questa non dissimile da quella del giudice ordinario che si trovi a giudicare di una controversia civile che veda come parte un magistrato ordinario”[78].
Può fin d’ora anticiparsi che è proprio con riguardo a quest’ultimo profilo che l’orientamento della S.C. appare meno appagante e conforme alle istanze di giustizia sostanziale. Mentre infatti sarebbe oggettivamente difficile predicare, solo ed esclusivamente in relazione a una ristretta categoria di dipendenti pubblici “non contrattualizzati” quali sono i giudici amministrativi, un regime delle controversie relative al loro rapporto d’impiego deviante rispetto alle comuni regole in materia di giurisdizione e competenza discendenti dal canone costituzionale del giudice naturale ex articolo 24 Cost. (per non dire della difficoltà di individuare quale sarebbe il giudice competente, stante il noto divieto costituzionale di istituzione di nuovi giudici speciali)[79], decisamente meno convincente è l’affermazione di una piena assimilabilità tra giudice ordinario e giudice amministrativo quanto al regime normativo delle rispettive garanzie di indipendenza e imparzialità.
Si è detto dei perduranti tratti di diversità che, fin dal quadro costituzionale di riferimento, connotano lo “statuto” delle due giurisdizioni proprio in tema di indipendenza e imparzialità, pur dovendosi prendere atto di un percorso di progressiva tendenziale assimilazione all’insegna del novellato articolo 111 Cost. Ed è quasi superfluo rilevare, richiamando ormai noti canoni elaborati dalla giurisprudenza costituzionale nell’applicazione del principio di eguaglianza di cui all’articolo 3 Cost., che la ragionevolezza delle scelte operate dal legislatore, allorché nell’esercizio della propria discrezionalità ritiene di assoggettare più situazioni di fatto a trattamenti giuridici eguali o differenziati, va misurata avendo riguardo all’identità o meno delle stesse, potendo ravvisarsi un vizio di incostituzionalità – per violazione, appunto, del principio di ragionevolezza - allorché situazioni identiche siano ingiustificatamente assoggettate a regimi diversi ovvero, al contrario, situazioni diverse siano senza ragione equiparate[80].
Ciò premesso, è agevole rilevare come il suggestivo parallelo operato dalla S.C. fra le controversie oggetto della c.d. “giurisdizione domestica” del giudice amministrativo e quelle “del giudice ordinario che si trovi a giudicare di una controversia civile che veda come parte un magistrato ordinario” obliteri un dato differenziale rilevante, e cioè che il giudice amministrativo, diversamente dal giudice ordinario (e in ciò registrandosi una sua esclusiva specificità) può avere dinanzi a sé altri magistrati amministrativi “come parti”, non solo in giudizi concernenti qualsivoglia vicenda amministrativa ordinariamente attribuita alla sua giurisdizione, ma anche in giudizi afferenti a questioni involgenti lo status e la carriera di tutti i giudici amministrativi, e quindi potenzialmente suscettibili di coinvolgere l’interesse dello stesso organo che giudica. È proprio in questi casi che appaiono particolarmente fondate le perplessità manifestate da un autorevole studioso in ordine all’idoneità e adeguatezza della mera applicazione degli istituti dell’astensione e della ricusazione ad assicurare una piena realizzazione delle garanzie di indipendenza e imparzialità del giudice[81].
In altri termini, la Cassazione nella circostanza ha limitato il proprio approccio alla considerazione del profilo “formale” dell’indipendenza, trascurandone l’aspetto “sostanziale” – oggi sempre più valorizzato anche a livello sovranazionale, in chiave di applicazione dell’articolo 6 CEDU – in virtù del quale occorre che il giudice sia neutrale non soltanto rispetto ai litiganti, ma anche rispetto all’oggetto della lite stessa, nel senso della sua totale indifferenza rispetto agli interessi contrapposti ed all’esito della controversia. A tale scopo, occorre che l’ordinamento predisponga adeguate garanzie idonee a rendere i giudici liberi da qualsiasi indebita influenza proveniente sia dall’esterno che dall’interno della magistratura: l’indipendenza giudiziaria interna[82] richiede infatti che essi non siano soggetti a istruzioni o a pressioni da parte dei loro colleghi o dei responsabili amministrativi dell’ufficio presso cui operano; l’assenza di sufficienti garanzie che assicurino l’indipendenza dei magistrati nell’ambito della magistratura può condurre a ritenere fondati i dubbi nutriti sull’indipendenza e l’imparzialità dell’organo giudicante[83].
Ciò premesso, l’evidenziata mera estensione al giudice amministrativo delle garanzie di indipendenza e terzietà stabilite per il giudice civile sotto il profilo che qui interessa, e quindi con particolare riguardo alle cause di astensione obbligatoria (il riferimento è ovviamente all’articolo 51 c.p.c., richiamato dai citati articoli 17 e 18 c.p.a.), rende senz’altro applicabile anche al giudice amministrativo il “diritto vivente”, elaborato dalla S.C. in relazione al processo civile[84], per cui i semplici rapporti di “colleganza” e o di conoscenza tra una o più parti e il giudice, ivi compresi quelli derivanti dalla comune appartenenza a uno stesso ordinamento o istituto ovvero a una medesima associazione o categoria, non sono suscettibili di costituire causa di astensione ai sensi del ricordato articolo 51 c.p.c.[85] Un principio astrattamente ineccepibile, e che però oblitera quella che si è visto essere la peculiarità del giudice amministrativo, il quale, unico fra tutte le giurisdizioni, può trovarsi a giudicare su cause che vedono come parti soggetti appartenenti al suo stesso ordine giudiziario in relazione non solo a qualsiasi vicenda amministrativa (p.es. il diniego opposto a un’istanza di permesso di costruire), ma anche in casi in cui la res controversa, coinvolgendo l’interpretazione e l’applicazione di norme relative all’ordinamento della giustizia amministrativa, è suscettibile di incidere sullo status e sulle prospettive di carriera dello stesso giudicante.
In altri termini, e al netto di ogni valutazione “di merito” circa le decisioni rese nell’ambito delle controversie qui in considerazione (le quali pure talora si connotano per significative deviazioni da principi altrove costituenti giurisprudenza granitica o pacifica,[86] a confermare i più pessimistici timori autorevolmente espressi in epoca non sospetta)[87], risulta tutt’altro che scontata l’infondatezza dei dubbi di legittimità costituzionale prospettabili in relazione alla totale equiparazione del regime dell’astensione e della ricusazione dei giudici amministrativi a quello dei giudici civili, nei casi dianzi individuati, per due ordini di motivi:
a) in ragione della peculiare situazione della magistratura amministrativa, la quale, determinando l’esistenza di disomogeneità e conflitti interni all’ordine giudiziario riconducibili a ragioni ordinamentali, rende molto più concreto che nella magistratura ordinaria il rischio di incidenza di interessi e condizionamenti potenzialmente lesivi dell’indipendenza interna dell’organo giudicante;
b) a causa dell’evidenziata peculiarità della magistratura amministrativa rispetto a tutte le altre magistrature, essendo l’unica giurisdizione chiamata a giudicare in re propria (o, se si vuole, in potenziale conflitto di interessi) in relazione a vicende afferenti all’ordinamento, allo status e alla carriera degli stessi appartenenti a quell’ordine giudiziario.
Si è consapevoli dell’improbabilità che una questione di legittimità costituzionale di tal fatta sia effettivamente sottoposta all’esame della Corte, dal momento che a sollevarla dovrebbe essere – salva l’ipotesi di un revirement della Corte di cassazione rispetto alle posizioni sopra richiamate – lo stesso giudice amministrativo, segnatamente il Tar del Lazio ovvero il Consiglio di Stato, nell’ambito di un giudizio rientrante nella c.d. giurisdizione domestica. Ciò che rende ancor più difficilmente prospettabile una tale evenienza è anche l’assenza nella giurisdizione amministrativa, a differenza di quella ordinaria, di un sistema di regole organizzative (“tabelle”)[88] concernenti la composizione dei collegi giudicanti nelle singole udienze e l’assegnazione degli affari ai relatori, con correlativo controllo dell’organo di autogoverno: di modo che ogni determinazione al riguardo è esclusivo appannaggio dei dirigenti degli uffici giudiziari, e in primis del Presidente del Consiglio di Stato[89], con la conseguente astratta possibilità che la diversa provenienza ed estrazione dei magistrati selezionati consenta di rendere “prevedibile” quello che sarà l’avviso del collegio su questioni “sensibili” in relazione all’interesse della categoria o di parte di essa.
Indubbiamente però la questione qui in rilievo, destinata a operare sul piano delle regole processuali molto più che su quello della giurisdizione (laddove per lo più è stata sollevato il tema della c.d. “giurisdizione domestica” del G.A.), potrebbe essere oggetto di attenzione anche de jure condendo, nella prospettiva di una auspicabile riforma intesa a colmare il residuo deficit di indipendenza degli organi di giustizia amministrativa. E invero, non è ignota alla nostra esperienza giuridica l’esistenza di casi nei quali, in ragione di particolari “specificità” della posizione ordinamentale di un determinato organo giurisdizionale, il legislatore abbia ritenuto di introdurre una disciplina “rinforzata” dell’astensione e/o della ricusazione, parzialmente deviante da quella comune ricavabile dall’articolo 51 c.p.c.: al riguardo, possono essere richiamati l’articolo 815 c.p.c., quale recentemente novellato dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, che consente la ricusazione degli arbitri anche per “gravi ragioni di convenienza” (e, quindi, in ipotesi che in via ordinaria, giusta il secondo comma dell’articolo 51, potrebbero al più costituire motivi di astensione facoltativa) quando queste siano “tali da incidere sull’indipendenza o sull’imparzialità dell’arbitro” (comma primo, n. 6-bis)[90]; nonché l’articolo 19 del d.lgs. 13 luglio 2017, n. 116, che per il giudice onorario di pace prevede specifici obblighi di astensione, ulteriori rispetto a quelli previsti in via generale dall’articolo 51 c.p.c., in connessione con la pregressa o coeva attività professionale esercitata dal giudicante. Forse anche per il giudice amministrativo, in relazione alle descritte criticità ordinamentali ed al carattere affatto peculiare della relativa competenza in re propria (nel senso sopra precisato), potrebbe rendersi opportuna una eguale opzione di “rafforzamento” della disciplina posta a tutela della sua terzietà e imparzialità, risultando inadeguata – per le ragioni sopra esposte - la mera assimilazione alla posizione del giudice ordinario sotto tale punto di vista.
In questa prospettiva, la più attenta dottrina che si è occupata dei casi di “conflitto di interessi” del giudice[91] ha richiamato i principi evincibili dall’articolo 2373 c.c. (in tema di conflitto di interessi degli amministratori e rappresentanti di società) per affermare che le uniche ipotesi nelle quali un generico “interesse” del giudice nella res controversa può assurgere a vizio di composizione del giudice processualmente rilevante ai sensi dell’articolo 158 c.p.c. (ossia tale da escludere la stessa sussistenza della potestas iudicandi in capo al soggetto investito della controversia) sono quelle in cui si registri una sostanziale “immedesimazione” tra il giudice e una delle parti; ed, esclusa - perché evidentemente di scuola - quella di una vera e propria comunanza di interessi tra giudice e parte, l’ipotesi viene meglio specificata precisando che essa si verifica allorché la posizione del giudicante rispetto alla res controversa sia tale per cui egli potrebbe partecipare al giudizio in qualità di interventore.
Si tratta di elaborazioni relative al processo civile, delle quali va sempre verificata cum grano salis la trasponibilità nel giudizio amministrativo, ed appare forse eccessivo ipotizzare addirittura una nullità della sentenza, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, nei suindicati casi di “conflitto di interessi” del giudicante; tuttavia, proprio l’esperienza descritta in relazione alle controversie nelle quali il giudice amministrativo opera come giudice “domestico”, laddove effettivamente è frequente il verificarsi di situazioni di profonda commistione dei collegi giudicanti con la materia del contendere (fino, al limite, a sentenze redatte da giudici potenzialmente interessati in via diretta all’applicazione di norme e provvedimenti di cui sono chiamati a occuparsi), dovrebbe indurre il legislatore a introdurre – all’unico fine di rafforzare le garanzie di indipendenza e imparzialità dei collegi medesimi – una disciplina “differenziata” dell’astensione e della ricusazione, sul modello di quelle dianzi richiamate.
Non ci si deve però nascondere che anche in questo caso il tema è generalmente ritenuto poco meritevole di attenzione, siccome afferente a questioni di interesse esclusivamente interno al plesso della magistratura amministrativa. Tale avviso appare a chi scrive superficiale e meritevole di attenta rimeditazione, per un duplice ordine di ragioni. Innanzitutto, le decisioni talvolta “anomale” che a volte scaturiscono dalle situazioni descritte nei giudizi afferenti allo status e alle carriere dei giudici amministrativi[92] esprimono principi suscettibili di essere richiamati quali precedenti, magari in maniera capziosa, in altre e diverse circostanze, con potenziale confusione applicativa e pregiudizio di indirizzi giurisprudenziali altrimenti pacifici[93]. In secondo luogo, non va dimenticato che il giudice amministrativo è anche il giudice dello status e della carriera dei magistrati appartenenti alle altre giurisdizioni, e in primis a quella ordinaria: non v’è bisogno di richiamare il clamore e anche le tensioni istituzionali spesso suscitate da sentenze di annullamento che hanno colpito provvedimenti del CSM anche di estrema rilevanza, in modo da dare luogo a impropri dibattiti circa l’individuazione dei limiti che i Tar e il Consiglio di Stato dovrebbero rispettare a garanzia dell’autonomia costituzionale dell’autogoverno[94].
Orbene, se – pur nel rispetto dell’autonomia costituzionalmente garantita dell’organo di autogoverno della magistratura ordinaria – le esigenze di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale e di garanzia della legalità nell’amministrazione inducono a rigettare ogni pretesa di “immunità” o approccio limitativo del controllo giudiziale fondati sul mero richiamo alla peculiare posizione costituzionale del CSM[95] (da questa discendendo soltanto, come è ovvio, l’impossibilità di ogni sindacato del giudice amministrativo sulle regole e sui criteri dei quali l’autogoverno si dota nell’esercizio della propria autonomia), tuttavia è innegabile che non giova all’immagine e al prestigio degli organi di giustizia amministrativa, a fronte di un rigore anche estremo a tratti mostrato nel censurare i vizi di legittimità dei provvedimenti concernenti la magistratura ordinaria, l’eventuale (e risaputa) adozione di soluzioni non coerenti allorché vicende similari investano la stessa magistratura amministrativa. Peraltro, oltre alle ricordate conseguenze di immagine, tale situazione rischia di produrre anche reazioni gravi e imprevedibili da parte della giurisdizione ordinaria, nel quadro di mai sopite tensioni fra le due giurisdizioni[96].
5. L’autogoverno della magistratura amministrativa.
Occorre adesso verificare se, e in qual misura, la descritta situazione di frammentazione interna del plesso giurisdizionale amministrativo, in conseguenza delle peculiarità (e criticità) che tuttora ne connotano l’assetto ordinamentale e organizzativo, riverberi i propri effetti sul funzionamento dell’organo di autogoverno, ossia del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa. Sarebbe invero bizzarro, dopo aver verificato gli effetti perniciosi che essa produce sulla capacità dei giudici amministrativi di giudicare dei propri affari, che non si registrassero analoghe incongruenze e distorsioni anche in ordine alla correlativa capacità di amministrare sé stessi.
Al riguardo, bisogna però preliminarmente avvertire che l’analisi non potrà che prescindere dalle distorsioni e degenerazioni che nel corso degli anni, e – tristemente – soprattutto nel periodo più recente come testimoniato da fin troppo note vicende che hanno riempito le cronache, hanno a loro volta colpito la funzione di autogoverno della magistratura ordinaria svolta dal CSM, fino a metterne in discussione la credibilità e la stessa sopravvivenza[97]. In questa sede, non ci si potrà che riferire a un modello “ideale”, assumendo a parametro gli elementi fondamentali che – alla stregua delle scelte di fondo operate dalla Costituzione a salvaguardia dell’autonomia e dell’indipendenza dell’ordine giudiziario – devono presiedere a una equilibrata allocazione e ad un corretto esercizio di competenze e poteri da parte degli organi di autogoverno.
Fu precisamente in ragione di tali scelte che, allorquando la legge n. 186/1982 modificò il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa nell’intento di trasformarlo in un organo rappresentativo e di autogoverno del plesso de quo sul modello del CSM[98], la cosa fu salutata da molti osservatori come un auspicabile passo decisivo verso la trasformazione della giurisdizione amministrativa, attraverso il riconoscimento di autonomia organizzativa e finanziaria, in un ordine effettivamente autonomo e indipendente da ogni altro potere. Tuttavia, non occorse molto tempo per rendersi conto che né tale innovazione legislativa, né la pur fondamentale implementazione del Consiglio di presidenza con l’introduzione dei membri “laici” designati dalle Camere (per opera della legge n. 205/2000) avevano fatto venir meno gli elementi di anomalia, e i conseguenti dubbi in ordine alla reale idoneità del sistema ad assicurare una effettiva indipendenza del plesso magistratuale amministrativo, ereditati dagli assetti passati: al punto da spingere precocemente taluno ad affermare che la novella del 1982 avesse realizzato solo “un mero adattamento al sistema della vecchia struttura, della logica già in atto e del modo di operare del Consiglio di Stato”[99].
Volendo anticipare una conclusione, prima di esaminare in dettaglio come in concreto il funzionamento del Consiglio di presidenza si sia evoluto nel corso del tempo, può ben affermarsi che la situazione di frammentazione dell’ordine de quo in una pluralità di componenti e gruppi, di diversa estrazione istituzionale e ordinamentale e portatori di interessi diversi (e spesso potenzialmente confliggenti), si sia riprodotta in seno all’organo rappresentativo – laddove peraltro gli stessi membri elettivi che rappresentano il Consiglio di Stato e i Tar restano espressione di corpi elettorali separati – in modo da ostacolare l’individuazione di valori comuni che consentissero di elaborare una concezione condivisa dell’autogoverno e delle sue regole. Ciò ha determinato che il Consiglio di presidenza, molto più che del compito di assicurare l’indipendenza e il buon funzionamento della giustizia amministrativa nell’interesse della collettività, si sia sentito spesso investito della missione di garantire la difesa e la sopravvivenza degli equilibri e assetti esistenti, attraverso l’individuazione di soluzioni di mediazione, idonee a sopire o attenuare la conflittualità fra le diverse componenti ma delle quali a volte era arduo cogliere il nesso con l’interesse pubblico e con i principi di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione. Nel perseguire tali obiettivi “corporativi”, il C.p.g.a. si è però richiamato a una concezione “forte” delle proprie prerogative di indipendenza e delle proprie funzioni di garanzia (assumendo sovente proprio il CSM quale termine di paragone) per dilatare al massimo la discrezionalità auto-attribuitasi, fino a forzare al limite l’applicazione di elementari regole dell’agire amministrativo[100].
Naturalmente, non si vuole qui ignorare che anche per la magistratura ordinaria, come l’esperienza quotidiana insegna, le logiche correntizie e di appartenenza abbiano sempre più spiegato incidenza sulle determinazioni e le scelte dell’autogoverno, anche in relazione a materie di estrema rilevanza quali le nomine ai vertici di importanti uffici giudiziari: sono proprio l’esasperazione e la degenerazione di tali logiche, al di là di distinzioni e giudizi di valore che pure sarebbero consentiti, ad aver dato luogo alle vicende di cronaca cui dianzi si diceva, che hanno determinato l’attuale crisi di credibilità e fiducia dell’opinione pubblica nella magistratura. Tuttavia, l’elemento aggiuntivo per cui la giurisdizione amministrativa si connota – ad onta del motto “gens una sumus” spesso richiamato dall’attuale vertice dell’Istituto[101] - è l’assenza di un “ombrello”, collocato al di sopra dei plurimi interessi contrapposti e rappresentato dalla (quanto meno formale) condivisione di valori comuni che inducano i diversi soggetti interessati a riconoscersi reciprocamente quali parti di un’unica istituzione chiamata unitariamente a svolgere una funzione di interesse pubblico.
Ciò è confermato dal modo in cui, nei casi – sempre più frequenti nella pratica – in cui risulta impossibile elaborare soluzioni di mediazione, e pertanto la conflittualità fra le diverse “anime” e componenti emerge in primo piano, ciò avviene nel modo più acuto e virulento immaginabile, con accenti e toni che spesso trascendono la pur fisiologica dialettica interna a un organo collegiale rappresentativo, e nei quali non è difficile intravedere - in controluce – quasi una sorta di disconoscimento dell’interlocutore di turno come appartenente a una stessa categoria. Una situazione, comunque la si voglia interpretare, che ha indotto un Presidente del Consiglio di Stato ad affermare, in singolare convergenza con quanto si è qui rilevato, che il Consiglio di presidenza sarebbe “spesso più attento a valutare le ricadute delle proprie decisioni sul consenso dei rappresentati che sul corretto funzionamento del servizio giustizia”[102].
In realtà, a detta dei più attenti osservatori una delle principali criticità dell’autogoverno della giustizia amministrativa è costituita proprio dall’attribuzione al Presidente del Consiglio di Stato della funzione di vertice del C.p.g.a., a differenza di quanto previsto per il CSM: tale opzione normativa, nella misura in cui – di fatto - è lo stesso organo di autogoverno a designare il vertice dell’Istituto, appare scarsamente compatibile con le garanzie di indipendenza e imparzialità dell’intero plesso giurisdizionale[103]. A ciò può aggiungersi, alla luce di quanto rilevato in ordine alle dinamiche interne al plesso medesimo, che la preposizione a capo dell’organo di autogoverno di un soggetto comunque ascrivibile a una delle “parti in causa” nelle dette dinamiche rende immanente il rischio, in ragione delle stesse prerogative del vertice dell’Istituto, che queste ultime possano in vari modi incidere sulla formazione delle maggioranze fra le varie componenti, e più in generale sul funzionamento dell’organo consiliare. E, se è indubbio che occorrerebbe una revisione costituzionale per investire del vertice dell’organo il Presidente della Repubblica (in parallelo con quanto previsto per il CSM)[104], tuttavia il legislatore ordinario ben potrebbe intervenire attribuendo la funzione di presiedere l’organo di autogoverno a uno dei membri designati dal Parlamento, ferma restando la presenza del Presidente del Consiglio di Stato quale componente di diritto[105].
L’esperienza anche recente, tuttavia, dimostra che nessuna articolata proposta di riforma dell’autogoverno della giustizia amministrativa è stata mai non solo formulata, ma neanche solo ipotizzata, se si esclude l’intervento radicale prefigurato dalla Commissione bicamerale per le riforme istituzionali istituita con la legge costituzionale 24 gennaio 1997, nella cui bozza (poi rimasta priva di seguito) era bensì previsto lo “sdoppiamento” del C.S.M. con istituzione di un’apposita sezione specializzata per la magistratura amministrativa, ma ciò avveniva nell’ambito di un assorbimento della giurisdizione amministrativa in quella ordinaria che lasciava al Consiglio di Stato il solo ruolo di organo di consulenza del Governo[106]. Al contrario, quando si è cercato di intervenire sul Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, lo si è fatto per lo più con proposte intese a modificarne la composizione e/o il funzionamento in funzione di interessi specifici dell’una o dell’altra componente[107].
Con tutta evidenza, si tratta di questioni le quali, lungi dal rivestire un interesse esclusivamente istituzionale o “burocratico”, impattano in modo rilevante, come testimoniato dal loro stretto legame con molte delle criticità esaminate nei paragrafi precedenti, sulle garanzie di indipendenza e imparzialità dei giudici amministrativi sotto lo specifico profilo della indipendenza interna, ossia della idoneità del sistema ad assicurare che tutti i giudici siano in grado di esercitare il proprio ufficio al riparo da pressioni, anche implicite o immanenti al sistema, provenienti dall’interno dello stesso ordine di appartenenza (e, quindi, in ossequio al canone costituzionale di soggezione esclusiva alla legge)[108]. Non è un caso che fra i principi costituzionali maggiormente “stressati” dalle peculiarità – sia normative che ordinamentali – che si sono fin qui descritte vi sia quello per cui i magistrati si distinguono soltanto per le funzioni (articolo 107, comma terzo, Cost.)[109]: un principio a lungo, e spesso tralaticiamente, ritenuto dalla Corte costituzionale applicabile ai soli magistrati ordinari, e non anche alle giurisdizioni speciali[110], ma che oggi, nel quadro della già evidenziata rimeditazione delle garanzie di indipendenza delle giurisdizioni tutte alla stregua dei principi del “giusto processo” quali rivenienti dal novellato articolo 111 Cost., andrebbe forze valorizzato proprio nella prospettiva di un rafforzamento dell’indipendenza del giudice amministrativo[111].
6. Lo sconfortante panorama associativo.
Se queste sono dunque le distorsioni e disfunzioni riscontrabili nell’organizzazione e nell’ordinamento della giurisdizione amministrativa, sarebbe peraltro ingenuo attendersi che a queste possa ovviarsi con un processo riformatore promosso dalle associazioni rappresentative della categoria. Il tema interessa solo tangenzialmente la presente indagine, ma lo si accenna al fine di offrire un quadro completo ed esaustivo della situazione “interna” all’apparato dei giudici amministrativi, in considerazione della rilevanza che si ritiene debba essere assegnata a quest’ultima ai fini di una valutazione complessiva del grado di indipendenza di tali giudici.
In particolare, il riflesso immediato e ictu oculi percepibile della frammentazione corporativa e dell’assenza di valori e punti di riferimento condivisi, che si è visto emergere spesso con prepotenza nell’azione dello stesso organo di autogoverno, è costituito dall’inesistenza di un’unica associazione che raggruppi tutti i magistrati amministrativi allo scopo di porsi quale unico interlocutore nelle relazioni istituzionali esterne (sul modello di quello che è l’A.N.M. per la magistratura ordinaria). Al contrario, a fronte di una consistenza numericamente limitata a poche centinaia di magistrati dell’ordine giurisdizionale di cui si discute esistono almeno tre associazioni di categoria stabili, ciascuna intesa a rappresentare parte delle componenti e degli interessi in campo. Beninteso, in linea teorica ciascun magistrato amministrativo potrebbe iscriversi a tutte le associazioni in questione (e non mancano esempi di “doppia” o perfino “tripla” tessera), ma – in disparte le questioni molto più “sindacali”, legate a convenzioni e benefit di vario tipo che l’adesione può garantire, le quali possono incidere nelle scelte dei singoli – risulta evidente la “polarizzazione” di ciascuna di esse su interessi e obiettivi diversi, e finanche incompatibili, con quelli delle altre.
Insomma, anche su questo versante emerge l’inesistenza di un “ombrello” comune che, oltre ad assicurare l’unità della categoria nelle relazioni esterne, possa fungere da terreno su cui avviare un confronto per l’individuazione di soluzioni condivise ai problemi della giustizia amministrativa.
L’associazione più rilevante, se non altro per consistenza numerica, è l’Associazione Nazionale Magistrati Amministrativi (A.N.M.A.) la quale, malgrado le suggestioni che tale denominazione potrebbe indurre, è soprattutto l’associazione rappresentativa dei magistrati in servizio presso i Tribunali amministrativi regionali. Secondo il suo statuto, essa ha lo scopo – tra l’altro – di operare “affinché le funzioni, le prerogative ed il prestigio degli organi della giustizia amministrativa siano garantiti secondo i principi fissati nella Costituzione repubblicana” e “propugnare l’attuazione di un ordinamento della giustizia amministrativa che realizzi la più completa tutela della giustizia nella Amministrazione in conformità delle esigenze dello Stato di diritto in regime democratico ed in conformità dei principi della Costituzione”[112], sulla scorta di un’opzione che assume chiaramente a modello l’A.N.M. e la sua storia secolare.
E in effetti, se forse non può parlarsi di una storia gloriosa dell’A.N.M.A., tuttavia essa ha certamente fornito un contributo molto rilevante, nel corso dei decenni della sua attività (a partire dall’entrata a regime dei Tar), al progredire della legislazione sulla giurisdizione amministrativa nel senso della piena attuazione dei principi costituzionali e della valorizzazione della funzione giurisdizionale con le connesse garanzie di indipendenza e autonomia. In particolare, ne è innegabile l’apporto decisivo – al di là dei limiti ravvisabili non solo nei risultati, ma forse anche nella stessa impostazione di base della “trattativa” all’uopo svolta con le altre associazioni e i soggetti istituzionali[113] – alle riforme ordinamentali attuate con le leggi n. 186/1982 e n. 205/2000.
Ciò premesso, è però altrettanto innegabile che nell’ultimo ventennio l’azione associativa non possa vantare risultati altrettanto rilevanti, non essendo stata l’A.N.M.A. in grado di sensibilizzare adeguatamente l’opinione pubblica e gli interlocutori istituzionali sull’importanza e la necessità di completare il processo riformatore eliminando quelle che si è visto essere i principali aspetti di deviazione dell’assetto esistente rispetto a un modello di giurisdizione che, pur nella sua “specialità”, voglia porsi in linea con le garanzie costituzionali di indipendenza e imparzialità. Ciò è verosimilmente dovuto all’insorgere, all’interno della stessa base di rappresentanza, di visioni anche profondamente diverse in ordine al ruolo del giudice amministrativo, alle sue esigenze professionali ed alle priorità degli interventi da porre in essere; tale diversità di visioni si è di fatto tradotta in contrapposizioni e divisioni che hanno inciso negativamente sull’azione associativa complessiva.
Naturalmente, non è da stigmatizzare in sé il fatto che in seno all’A.N.M.A. esistano diverse “correnti” contrapposte, così come avviene nella magistratura ordinaria nell’ambito dell’A.N.M. Il punto è però che, mentre le correnti della magistratura ordinaria, al netto delle degenerazioni e della tendenza a trasformarsi in lobby e centri di potere (circostanze fin troppo note per soffermarvisi in questa sede), conservano una matrice originaria di tipo culturale, legata a diverse concezioni di fondo del ruolo del giudice nella società ed alle loro ricadute sui più svariati aspetti dell’attività professionale[114], al contrario la divisione in correnti dell’A.N.M.A. sembra esser nata ed essersi sviluppata su tematiche e questioni molto più “spicciole” e materiali, legate p. es. al trattamento economico, alla materia degli incarichi extragiudiziari, ai carichi di lavoro. Naturalmente, nell’ambito delle contrapposizioni e dei conflitti che insorgono su tali materie ciascuna corrente assume di voler attuare valori e principi atti ad assicurare la più piena attuazione dell’interesse pubblico e dei principi costituzionali: tuttavia, l’impressione che può ricavarsi dall’osservazione della pratica quotidiana sulle questioni concrete (in primis quella, evidentemente cruciale per i magistrati aderenti a questa associazione, dei rapporti con il Consiglio di Stato), è quella che al di là del richiamo formale agli anzi detti principi e valori, l’attività associativa risponda a strategie che obbediscono soprattutto a logiche di appartenenza, a volte di tipo generazionale e finanche personale.
Il risultato è che in via generale l’A.N.M.A. negli ultimi anni abbia giocato soprattutto “di rimessa”, abdicando dallo svolgimento di una funzione propositiva e svolgendo soprattutto un ruolo difensivo, attraverso le difese mediatiche “di rito” in occasione di attacchi esterni alla categoria[115] e la mobilitazione in occasione di vicende normative o istituzionali suscettibili di pregiudicare la giurisdizione amministrativa nel suo complesso[116]. Un ruolo difensivo peraltro indebolito dalle contrapposizioni interne che quasi sempre si scatenano su qualsiasi tema, tali da ingenerare l’impressione che spesso interessi più censurare la corrente avversa, ovvero acquisire consensi per la propria, che perseguire un interesse generale della categoria anche rispetto a interlocutori esterni.
Ancora più articolata è la situazione associativa del Consiglio di Stato, nonostante la consistenza numerica limitata della provvista dei suoi magistrati. Infatti, proprio nell’ultimo ventennio l’Associazione tra i Magistrati del Consiglio di Stato (A.M.C.S.), originariamente unitaria, ha subito una scissione con la formazione di altro soggetto associativo, denominatosi Coordinamento Nuova Magistratura Amministrativa (Co.N.M.A.) e inteso a rappresentare i magistrati transitati in Consiglio di Stato per anzianità dai Tribunali amministrativi regionali. Tale vicenda evidentemente discende dai disagi causati in tale componente dalla situazione ordinamentale conseguente alla perdurante separazione dei ruoli ed al mancato completamento del processo di unificazione che la legge n. 186/1982 avrebbe dovuto avviare[117], nonché dalla presa d’atto di una chiara inconciliabilità negli interessi e negli obiettivi di tale componente rispetto a quelli coltivati dagli altri Consiglieri di Stato aderenti all’originaria associazione unitaria. Tuttavia, per diverse ragioni non può dirsi che l’azione successiva alla scissione abbia prodotto risultati significativi.
Innanzitutto, per lungo tempo l’attenzione del nuovo soggetto associativo è stata concentrata in via quasi esclusiva sull’obiettivo di conseguire il riconoscimento a regime dell’anzianità “forfettaria” di cinque anni a suo tempo riconosciuta in via transitoria a un numero limitato di magistrati (i Consiglieri di Tar, transitati o destinati a transitare in Consiglio di Stato per anzianità, che fossero già in servizio all’atto dell’entrata in vigore della nuova normativa); ciò ha sovente pregiudicato la possibilità che gli obiettivi dell’associazione venissero percepiti dall’opinione pubblica e dagli interlocutori istituzionali come di effettivo interesse della collettività, piuttosto che rispondenti a semplici spinte settoriali, ed ha privato di effetti anche proposte di riforma più organiche e globali talora elaborate oltre a nuocere all’attenzione di iniziative convegnistiche e di riflessione pur di estremo interesse organizzate dall’associazione medesima[118]. Negli anni più recenti, in coincidenza con un massiccio rinnovamento anche anagrafico della componente dei Consiglieri di Stato proveniente dai Tar per anzianità, il Co.N.M.A. ha tentato di rilanciare la propria attività ponendosi come portatore delle esigenze di valorizzazione dell’esperienza e del lavoro concreto svolto dai magistrati effettivamente in servizio presso le Sezioni consultive e giurisdizionali (in contrapposizione a diverse posizioni sostenute dall’A.M.C.S.), in modo da trovare terreni di confronto con altre componenti della magistratura amministrativa su tematiche di interesse comune, ma in linea generale ha seguitato a non ottenere risultati apprezzabili per diverse ragioni, non ultima anche la scarsa coesione manifestata dalla base dei rappresentati in talune occasioni.
Quanto all’Associazione tra i Magistrati del Consiglio di Stato (A.M.C.S.), si tratta del soggetto che, oltre a raggruppare sia i Consiglieri di Stato di concorso che quelli di nomina governativa – i quali storicamente hanno sempre fatto blocco comune con i primi -, ha manifestato nel tempo la maggiore capacità di orientare la vita e le vicende dell’Istituto, grazie al fatto che da essa provengono non solo i Presidenti del Consiglio di Stato (alcuni dei quali, prima di approdare al vertice, hanno in essa svolto rilevanti attività) ma anche i magistrati che di fatto svolgono importanti incarichi apicali presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri ed i Ministeri: al punto da non rendere fuori luogo il richiamo che taluno ha fatto, soprattutto in occasione di specifiche vicende legislative, alla nozione di “sindacato giallo”, stante la profonda commistione con quella che comunque rimane la “parte datoriale” rispetto al plesso magistratuale. Pertanto, è intuitivo che tuttora sia questa l’associazione in grado di sostenere o – soprattutto – bloccare qualsiasi iniziativa di riforma del Consiglio di Stato o della giustizia amministrativa.
In punto di fatto, negli ultimi decenni l’attività dell’A.M.C.S. si è concretizzata principalmente – e al di là di specifici casi in cui sono state sponsorizzate proposte di modifica molto “settoriali” – nella difesa a oltranza dello status quo, e quindi nella resistenza più o meno esplicita a qualsiasi ipotesi di seria riforma ordinamentale, fino ad arrivare a ignorare o negare la stessa esistenza delle criticità che si sono illustrate nei precedenti paragrafi. Un atteggiamento che, per la convinzione con cui è stato a tratti sostenuto in tutte le sedi istituzionali e associative e per la tendenza a valersi di tutti gli strumenti a disposizione (ivi compresa la già rimarcata presenza di Consiglieri di Stato in posti-chiave dell’organizzazione ministeriale) per far prevalere in ogni caso le posizioni difese dall’associazione, indurrebbe a definire tali posizioni addirittura reazionarie più che conservatrici.
7. Conclusioni: una riforma necessaria ma forse impossibile.
Può sembrare curioso, e forse perfino incredibile, che i numerosi studi – alcuni dei quali estremamente dotti e autorevoli – che si sono concentrati sui temi dell’indipendenza del giudice amministrativo, delle sue specificità costituzionali e normative e del modo su cui possono incidere sul ruolo di tale giurisdizione e sulla sua percezione da parte dell’opinione pubblica, pur soffermandosi sulle peculiarità più evidenti ictu oculi[119], abbiano pressoché totalmente trascurato i profili ordinamentali e organizzativi su cui in questa sede si è cercato di focalizzare l’attenzione: come se fosse possibile esprimersi sul grado di indipendenza e imparzialità di un plesso giurisdizionale prescindendo dai suoi assetti istituzionali interni e dalle sue regole di funzionamento. Più che indagare sulle ragioni di tale pretermissione, qui interessa però tirare le conclusioni, per quanto possibile, dell’indagine svolta.
E invero, l’analisi avrebbe potuto essere estesa ad altri aspetti pure rilevanti della specialità della giustizia amministrativa (quali, ad esempio, l’attività di formazione e aggiornamento dei magistrati dei Tar e del Consiglio di Stato ovvero il tema del rapporto tra l’attività nomofilattica del Consiglio di Stato e quella della Corte di cassazione)[120], ma ciò avrebbe reso il presente contributo pletorico e probabilmente ridondante. Le questioni trattate dovrebbero essere sufficienti a conferire fondatezza all’idea, qui sostenuta, che il carattere obsoleto e inadeguato all’attuale quadro costituzionale della disciplina ordinamentale, e la frammentazione della categoria che ne deriva, non possano ritenersi fattori estranei alla persistente incapacità della giurisdizione amministrativa – complessivamente intesa – di riuscire a farsi percepire dall’opinione pubblica come un “vero” ordine giurisdizionale, con le connesse garanzie e prerogative di indipendenza, meritevole del rispetto e del prestigio che si riconoscono alla giurisdizione in quanto tale.
In particolare, il vero nodo problematico è costituito dall’assenza di un nucleo di principi e valori condivisi, percepiti come comuni da tutti i magistrati interessati, sovraordinati e unificanti rispetto ai più materiali e diversificati interessi che fanno capo alle varie componenti e gruppi contrapposti in cui la categoria si articola, i quali possano fungere da criterio orientatore non solo nel porsi della categoria medesima in modo unitario e omogeneo nei rapporti con istituzioni e media, ma anche ai fini dell’acquisizione di consapevolezza dell’esistenza di problematiche generali tali da esigere la considerazione di un interesse superiore, che non sia la mera sommatoria degli interessi “particolari” ovvero la risultante della dialettica o del conflitto fra di essi. La conseguenza è che il più delle volte le varie componenti operano “in ordine sparso”, quando non con reciproca diffidenza e ostilità, anche a fronte di vicende che richiederebbero un’azione (o una reazione) unitaria: ed a tale oggettiva debolezza non sono estranei i rapporti tra diverse fasce dell’istituzione e gli altri poteri, legislativo ed esecutivo, rispetto ai quali l’autonomia e l’indipendenza dovrebbero definirsi[121].
La capacità che un siffatto sistema ha disvelato di reggere per parecchi decenni, oltre che dalla già evidenziata costante ricerca di soluzioni di mediazione idonee a sopire i conflitti interni, dipende probabilmente anche dalla scarsa attenzione mediatica che tradizionalmente l’attività dei giudici amministrativi, e innanzitutto del Consiglio di Stato, ha ricevuto a fronte dell’esposizione anche eccessiva di cui hanno fruito altre istituzioni giudiziarie (la vicenda della sovraesposizione delle Procure della Repubblica è emblematica). Ma anche questa peculiarità dell’essere un insieme di soggetti destinati a operare “nell’ombra”, attraverso una gestione del potere che è tanto più incisiva quanto più avviene in luoghi non visibili dal pubblico generale, rischia di tramontare nell’attuale era in cui le informazioni possono essere agevolmente reperite in rete e rilanciate tramite i social media, come testimoniato da recenti inchieste giornalistiche che hanno portato alla disponibilità del pubblico informazioni e notizie che un tempo sarebbero rimaste confinate ai “meandri” della burocrazia[122].
Fino a che punto questo persistente handicap possa pregiudicare le sorti future della giustizia amministrativa, è difficile dire. È abbastanza difficile che l’assorbimento nella giurisdizione unitaria, pur caldeggiato dai più accaniti detrattori della giurisdizione amministrativa[123] e ipotizzato in passate proposte di riforma costituzionale (come nella già citata Bicamerale del 1997), possa effettivamente realizzarsi nel prossimo futuro: a ciò osta, oltre alla notoria e sperimentata difficoltà di perseguire nell’ordinamento italiano incisive riforme degli equilibri costituzionali – quale quella che una tale opera di unificazione richiederebbe – ed alla già segnalata capacità di componenti e soggetti direttamente interessati di “orientare” l’iniziativa legislativa dei Governi in questa materia, la decisa presa di posizione con cui la Corte costituzionale, dopo la revisione dell’articolo 111 Cost., ha riaffermato il fondamento costituzionale attuale del sistema della doppia giurisdizione[124]. Alla stregua dei principi affermati dalla Corte, nonché all’esito di significative innovazioni legislative e giurisprudenziali sul versante legislativo dei rapporti tra le giurisdizioni, è oggi comunemente affermato – anche se non unanimemente condiviso - che la Costituzione non richieda l’unità ordinamentale della giurisdizione, avendo invece perseguito e realizzato l’unità funzionale tra di esse, nella prospettiva di un’azione comune e complementare in vista della più piena ed effettiva tutela di diritti e interessi dei cittadini[125].
Se dunque è difficilmente immaginabile che la situazione descritta possa porre a repentaglio la stessa esistenza della giurisdizione amministrativa, è invece prevedibile che perdureranno a lungo le difficoltà nel fare accettare all’opinione pubblica e ai media l’idea della giurisdizione amministrativa come ordine autonomo e indipendente, al pari di quella ordinaria. Si ripeteranno gli “attacchi” alla giurisdizione in occasione di decisioni aventi risonanza politica o mediatica, e le correlative “difese” da parte delle associazioni e degli stessi vertici istituzionali, in un circuito in cui il – pur sacrosanto – richiamo ai valori della giurisdizione ed all’importanza delle funzioni attribuite alla giustizia amministrativa rispetto alla società e all’economia, alimentandosi soprattutto di argomenti fondati sulla maggiore preparazione e specializzazione di tali giudici, sulla maggiore celerità del relativo processo et similia, sconterà un crescente rischio di sganciamento dal diffuso sentire sociale, e in definitiva di autoreferenzialità, così inverandosi il rischio paventato da uno degli ultimi Presidenti del Consiglio di Stato[126].
Non è dato prevedere se la descritta evoluzione potrà accentuare la percezione degli organi di giustizia amministrativa come sovrastruttura del sistema, capace di assicurare la propria sopravvivenza pur dopo l’esaurimento della propria funzione storico-sociale (profondamente connessa con la visione liberale dei rapporti tra Stato e individuo)[127], piuttosto che come articolazione indispensabile e imprescindibile di un moderno Stato di diritto. Certo è che la persistente preponderanza degli interessi contrapposti, la loro dimensione ed entità, la loro capacità di ostacolare la formazione di una visione istituzionale condivisa, sono tutti elementi che autorizzano un certo pessimismo in ordine alla possibilità che dall’interno dei predetti organi possa sorgere un’autentica spinta verso un processo di trasformazione – prima ancora che di riforma – idoneo a dotare l’ordinamento italiano di una giurisdizione amministrativa in linea con gli standard di indipendenza richiesti dall’odierno quadro costituzionale oltre che da istanze sovranazionali[128].
Naturalmente, è sempre possibile coltivare l’ottimismo della volontà e augurarsi che maturi in seno all’Istituzione, e in primis al Consiglio di Stato, quella consapevolezza che già nel lontano 1978 Massimo Severo Giannini aveva lucidamente espresso: e cioè che “la costruzione di una magistratura amministrativa unitaria è uno dei modi per salvare, con se stesso, una delle esigenze delle strutture democratiche”[129].
[1] Cfr. F. Nietzsche, La gaia scienza e idilli di Messina, trad. di F. Masini, Milano, Adelphi, 1977, p. 341.
[2] Cfr. S. King, A volte ritornano, trad. di H. Brinis, Milano, Bompiani, pp. 181 ss.
[3] Appartiene ormai alla leggenda, più che alla cronaca, il noto intervento di R. Prodi, Abolire tar e Consiglio di Stato per non legare le gambe all’Italia, in Il Mattino, Il Messaggero e Il Gazzettino, 13 agosto 2013, che tante polemiche suscitò fra gli operatori del settore.
[4] Al riguardo, con riferimento alla recente vicenda di uno studente asseritamente “promosso” dal Tar dopo essere stato bocciato dalle istituzioni scolastiche, si vedano le caustiche osservazioni di M. Balloriani, Si attaccano le toghe. Ma nessuno legge davvero le sentenze, in Domani, 26 agosto 2023, p. 5.
[5] Si vedano, a mero titolo di esempio, G. Giovannini, Cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2014, in www.giustamm.it (in risposta all’articolo di Romano Prodi citato alla nota 3) nonché A. Pajno, Insediamento del Presidente del Consiglio di Stato – Inaugurazione dell’anno giudiziario 2016, Roma, 2016, pp. 7-8.
[6] Cfr. ad esempio U. Fantigrossi, Giustizia amministrativa: una battaglia attuale, in www.giustizia-amministrativa.it, 5 luglio 2017; F. Freni, Acciaio e cristallo: in difesa del processo amministrativo, in www.ilmerito.org, 27 novembre 2015; M.A. Sandulli, Poteri dei giudici e poteri delle parti nei processi sull’attività amministrativa. Dall’unificazione al codice (Presentazione del Convegno di studi su “Poteri dei giudici e poteri delle parti nei processi sull’attività amministrativa. Dall’unificazione al codice”, Bari – Polignano, 21-22 settembre 2015), in www.federalismi.it, n. 18/2015, pp. 3 ss.; P. Mantini, Giustizia amministrativa: occorrono riforme, non superficiali rottamazioni, in www.specchioeconomico.com, 2 aprile 2014.
[7] Con formulazione in parte analoga, l’articolo 100, comma terzo, Cost. rinvia alla legge affinché questa assicuri l’indipendenza del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, quali organi consultivi, “di fronte al Governo”.
[8] L’espressione è di G. Verde, L’unità della giurisdizione e la diversa scelta del costituente, in Dir. proc. amm., 2003, pp. 363 ss.
[9] In tal senso, R. Garofoli, Unicità della giurisdizione e indipendenza del giudice: principi costituzionali ed effettivo sviluppo del sistema costituzionale, in Dir. proc. amm., 1998, pp. 144 ss.
[10] Sul punto, cfr. A. Orsi Battaglini, Alla ricerca dello Stato di diritto. Per una giustizia “non amministrativa”, (Sonntagsgedanken), Milano, 2005, pp. 82-83, con specifico riguardo alle sentenze della Corte costituzionale nn. 177/1973 e 7/1980, in tema di nomina governativa dei Consiglieri di Stato e requisiti per l’accesso allo status di magistrato (su cui si tornerà infra, al § 2).
[11] Nonché, per la Corte dei conti, nell’articolo 4 del codice di giustizia contabile di cui al d.lgs. 26 agosto 2016, n. 174.
[12] Cfr. P. Tanda, Profili istituzionali, processuali e comparatistici dell’indipendenza e dell’imparzialità del giudice amministrativo, in Giur. it., 2020, 3, pp. 697 ss.
[13] Fra i contributi più recenti, vale richiamare quelli di P. Tanda, Profili istituzionali, processuali e comparatistici dell’indipendenza e dell’imparzialità del giudice amministrativo, cit.; di E. Follieri, Per l’indipendenza del Consiglio di Stato, in www.giustamm.it, 2016; e di M. Protto, Le garanzie di indipendenza e imparzialità del giudice nel processo amministrativo, in G. Piperata – A. Sandulli (a cura di), Le garanzie delle giurisdizioni: indipendenza e imparzialità dei giudici, Napoli, Editoriale Scientifica, 2012, pp. 95 ss.
[14] Secondo l’efficace formulazione di G. Montedoro – E. Scoditti, Il giudice amministrativo come risorsa, in Questione giustizia, n. 1/2021, pp. 11 ss.
[15] Su cui cfr. M.M. Fracanzani, Per un giudice amministrativo veramente speciale, in Questione giustizia, n. 1/2021, pp. 50 ss. La specialità su cui ci si concentrerà nel presente contributo non è ovviamente riconducibile alla semplice “specializzazione” determinata dall’essere un certo giudice chiamato a esprimersi istituzionalmente su particolari materie (in questo senso la intende A. Pajno, op. e loc. cit.), investendo invece l’analisi delle ragioni alla base della scelta costituzionale di istituire - o conservare - una giurisdizione separata rispetto a quella comune, individuabile nella giurisdizione ordinaria.
[16] Il tema della “apparenza di indipendenza”, al di là del suo impiego nella polemica giornalistica e politica, rientra da tempo fra i parametri che la Corte europea dei diritti umani ritiene debbano essere soddisfatti perché siano assicurate l’indipendenza e l’imparzialità del giudice ai sensi dell’articolo 6 della CEDU: cfr. Corte EDU, 6 ottobre 2011, Agrokompleks c. Ucraina, e giurisprudenza successiva.
[17] Sembrano cogliere il punto M. D’Amico - I. Pellizzone, La giustizia amministrativa. Le ragioni della scelta della Costituente e profili costituzionali dell’attuale dibattito sui rapporti tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa, in Rivista A.I.C., n. 4/2014, p. 20, allorché osservano: “pare che, criticando la specialità, si vorrebbe metterne in discussione non la magistratura amministrativa in sé e per sé considerata, ma una sua deviazione dalle regole, alla luce della quale il giudice speciale rischia di apparire come giudice “privilegiato””.
[18] Non è questa la sede per richiamare il dibattito che animò l’Assemblea costituente circa l’opportunità o meno di conservare, nel nuovo assetto costituzionale repubblicano, il sistema dualistico delle giurisdizioni incentrato sul ruolo del Consiglio di Stato come organo di giustizia amministrativa (poi arricchito dalla previsione dell’istituzione di organi giurisdizionali di primo grado a livello regionale) e sulle ragioni per cui tale opzione prevalse su quella alternativa dell’unificazione delle giurisdizioni: sul punto, cfr. G. Silvestri, Giudici ordinari, giudici speciali e unità della giurisdizione, in Scritti in onore di M.S. Giannini, Milano, Giuffré, 1988, pp. 716 ss., nonché D. Nocilla, La giustizia amministrativa all’assemblea costituente, in Il Consiglio di Stato: 180 anni di storia, Bologna, Zanichelli, 2011, pp. 317 ss.
[19] Cfr. G. Lauricella, Brevi considerazioni sulla giustizia amministrativa, intervento nel Forum (ipotesi di riforma del sistema di giustizia amministrativa), in www.aipda.it, p. 4; nello stesso senso, C. Taglienti, La giurisdizione amministrativa nelle prospettive di riforma costituzionale, in Atti del convegno di Roma del 16 maggio 1997, organizzato dall’A.N.M.A., sul tema “Il sistema delle garanzie nelle proposte di riforma costituzionale: la giustizia amministrativa”. Si vedrà però in prosieguo come alcuni aspetti di anomalia “ordinamentale” della giurisdizione amministrativa, meno esplorati dalla dottrina di quelli cui si accenna nel presente paragrafo, siano forse suscettibili di incidere sull’efficienza e sulla credibilità dell’intero plesso giurisdizionale in questione, compresi i Tribunali di primo grado.
[20] Corte cost., sent. 21 settembre 2011, n. 273.
[21] “Va ricordato che nel Consiglio di Stato coesistono funzioni giurisdizionali e consultive che fanno di tale organo, ad un tempo, il giudice di più elevata istanza nella tutela della giustizia nell’amministrazione ed il più importante istituto di consulenza giuridico-amministrativa. Pertanto, il passaggio per anzianità del consigliere di TAR al Consiglio di Stato presuppone l’accertata idoneità all’esercizio non solo di funzioni giurisdizionali in grado di appello, ma anche di funzioni di natura consultiva, corrispondenti appunto al ruolo di organo di consulenza giuridico-amministrativa che l’art. 100 Cost. assegna al Consiglio di Stato (artt. 15 e 19 della legge n. 186 del 1982)” (Corte cost., sent. n. 273/2011, cit., § 5.1).
[22] Infra, § 3.
[23] Cfr. A. Orsi Battaglini, op. cit., pp. 78-79. Secondo E. Follieri, op. cit., l’incompatibilità sussisterebbe invece solo rispetto alla consulenza sull’attività amministrativa, e non anche a quella sulla normazione (oggi svolta dalla speciale Sezione consultiva per gli atti normativi istituita dall’articolo 17, comma 28, della legge 15 maggio 1997, n. 127).
[24] In questo senso, già P.G. Lignani, Funzione consultiva e indipendenza, in S. Cassese (a cura di), Il Consiglio di Stato e la riforma costituzionale, Milano, Giuffré, 1997, pp. 99 ss. Più di recente, cfr. G. Taglianetti, Funzione consultiva del Consiglio di Stato e attualità del sistema di giustizia amministrativa. Brevi notazioni, in amministrativam@nte, n. 2/2023. Insiste su quella che sarebbe una vera e propria “integrazione” tra funzione consultiva e funzione giurisdizionale, concepite fin dapprincipio come destinate a supportarsi reciprocamente e sinergicamente, C. Tucciarelli, Il Consiglio di Stato e le regole tecniche sulla redazione degli atti normativi, in Osservatorio sulle fonti n. 1/2022 (www.osservatoriosullefonti.it).
[25] Cfr. G. Romeo, Il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa: organo indipendente o legibus solutus?, in Dir. proc. amm., 1990, II, p. 718, il quale evidenzia come mal si attagli alla moderna dimensione dello “Stato sociale di diritto”, in cui l’amministrazione è chiamata a perseguire risultati concreti, specifici e contingenti, e in definitiva ad “allocare risorse” per realizzarli, con ciò operando necessariamente delle scelte di valore, la perpetuazione dell’ideologia liberale della razionalità e neutralità in sé dell’agire amministrativo come operazione tecnica.
[26] Cfr. C. Tucciarelli, op. cit., il quale sottolinea che l’attività consultiva sugli atti normativi è volta a svolgere una duplice funzione, di controllo e cooperazione, e che tali due dimensioni convivono e, in misura crescente, il mero controllo formale e di legittimità viene affiancato da forme di cooperazione nella individuazione di modi e strumenti per realizzare gli obiettivi stabiliti ed esplicitati da Governo o Parlamento.
[27] Si vedano le esperienze di altri Stati europei richiamate da E. Follieri, op. cit.
[28] Cfr. Corte EDU, sent. 6 maggio 2003, Klein c. Olanda.
[29] Cfr. E. Follieri, op. cit. Per un’opinione parzialmente contraria, cfr. M. Protto, op. cit., p. 106 (sulle cui argomentazioni si tornerà infra, al § 3).
[30] Secondo M. Torsello, La funzione consultiva del Consiglio di Stato ieri e oggi, in www.giustizia-amministrativa.it, 15 novembre 2021, p. 8, tale scelta legislativa seguì a una “crisi” della funzione consultiva, considerata ormai di ostacolo alla celerità e speditezza dei procedimenti amministrativi e scarsamente coerente con le coeve trasformazioni del modello dell’organizzazione ministeriale, caratterizzate dall’attribuzione ai dirigenti di una peculiare ed esclusiva posizione di autonomia e di responsabilità.
[31] Cfr. P. Tanda, op. cit., p. 702, il quale è dell’avviso che tale evoluzione costituisca un argomento ulteriore a favore dell’esclusione di qualsivoglia criticità sul piano dell’indipendenza in relazione alle funzioni consultive del Consiglio di Stato. Tuttavia, vi è stato anche chi ha ritenuto che la progressiva trasformazione del ricorso straordinario in un “doppione” del ricorso giurisdizionale, connotato unicamente da una maggiore lunghezza del termine di impugnazione (120 giorni anziché 60), abbia determinato il venir meno dell’utilità dell’istituto quale strumento giustiziale gratuito alternativo al rimedio giurisdizionale, rendendone auspicabile la soppressione (cfr. M. Macchia, Il ricorso straordinario da’ luogo a un processo?, in Giornale dir. amm., 2013, 1, § 5). La questione, che investe la delicata tematica delle Alternative Dispute Resolutions (ADR), non può ovviamente essere approfondita in questa sede.
[32] Basti pensare al ruolo preponderante svolto dal Conseil d’État francese nel processo legislativo (cfr. R. Dickmann-A. Rinella, Il processo legislativo negli ordinamenti costituzionali contemporanei, Roma, Carocci, 2011, pp. 77 ss.).
[33] Cfr. P. De Lise, Relazione sull’attività della giustizia amministrativa 2011, in www.giustizia-amministrativa.it, p. 20.
[34] Sent. 19 dicembre 1973, n. 177, resa su ordinanza di rimessione del Consiglio di Stato nell’ambito di un giudizio relativo all’impugnazione proposta da alcuni Consiglieri di Stato di concorso avverso un gruppo di nomine operate dal Governo pro tempore.
[35] Per brevità non è possibile qui soffermarsi sull’ulteriore criticità ravvisabile in relazione ad alcuni componenti del Consiglio di giustizia amministrativa della Regione Siciliana, per i quali è prevista non solo la designazione da parte del Presidente della Regione, ma anche una durata limitata a quattro anni con possibilità di rinnovo (articolo 3, comma secondo, del d.lgs. 6 maggio 1948, n. 654): previsione della quale la Consulta ha pure escluso l’incostituzionalità (Corte cost., sent. 22 gennaio 1976, n. 25).
[36] Cfr. Corte cost., sent. 21 gennaio 1967, n. 1.
[37] Osserva A. Orsi Battaglini, op. cit., pp. 82-83, che tutte queste decisioni muovono comunque dal già evidenziato presupposto, oggi non più così pacifico, della indipendenza “attenuata” dei giudici delle giurisdizioni speciali, e dunque della non estensibilità a questi ultimi dei principi di cui al Titolo IV della Parte II della Costituzione (fra i quali, ça va sans dire, vi è anche la regola dell’accesso mediante concorso di cui all’articolo 106, comma primo, Cost.).
[38] Secondo S. Baccarini, Status e carriere dei giudici amministrativi, in www.giustamm.it, 2017, la previsione di un mero “parere” da parte dell’organo di autogoverno, restando comunque in capo all’esecutivo le determinazioni ultime in ordine alla nomina dei Consiglieri di Stato de quibus (non casualmente definita “libera”), può a tutt’oggi ingenerare dubbi di legittimità costituzionale.
[39] Si vedano le osservazioni del prof. Sabino Cassese in una recente intervista (Cassese: “I giudici reclutati dal governo hanno un ruolo politico”, in Il Dubbio, 17 luglio 2023): “Le sentenze vanno scritte con uno stile completamente diverso dalle norme. Scrivendo la sentenza, il giudice risponde agli argomenti delle parti. Questo non è il caso delle norme. La principale ragione per cui le leggi italiane sono scritte malissimo deriva proprio dalla incapacità dei magistrati amministrativi di spogliarsi di quella veste, quando redigono norme”.
[40] In questo senso, pur nell’ambito di un approccio che considera l’apporto di magistrati all’intero apparato istituzionale come uno dei “punti di forza” del nostro sistema di giustizia amministrativa, M.A. Sandulli, La “risorsa” del giudice amministrativo, in Questione Giustizia, n. 1/2021, p. 42.
[41] Per tutti, cfr. P. De Lise, Relazione sull’attività della giustizia amministrativa per l’anno 2021, in www.giustamm.it, p. 14.
[42] Così G.P. Storchi, Materiali per un’analisi del ruolo politico del Consiglio di Stato. Gli “incarichi esterni” dei magistrati amministrativi in Riv. trim. dir. pubbl., 1977, p. 549. Tale notazione appare in stridente contrasto sia con l’affermazione di chi, sempre in funzione di “difesa” degli incarichi in questione, considera “periferica” la vicenda dei detti incarichi rispetto all’esperienza complessiva dei magistrati amministrativi (G. Corso, Il Consiglio di Stato nell’ordinamento costituzionale ed amministrativo in S. Cassese [a cura di], Il Consiglio di Stato e la riforma costituzionale, Milano, Giuffré, 1997, p. 44) sia con il dato di esperienza che evidenzia come sia alquanto diffusa l’attribuzione di incarichi similari anche a giudici dei Tribunali amministrativi regionali.
[43] In tal senso, G. Montedoro, Tavola rotonda in Convegno di Lecce 16-17 ottobre 2015, L’amministrazione pubblica, i cittadini, la giustizia amministrativa: il percorso delle riforme, a cura di P.L. Portaluri, Napoli, 2016, p. 166.
[44] Si può già notare, e ancora di più emergerà in seguito, come il richiamo alle regole, sia ordinamentali che processuali, valide per i magistrati ordinari (diversamente ritenute non applicabili agli organi della giustizia amministrativa) costituisca un argomento spesso evocato, ma senza tener conto delle diverse rispettive peculiarità delle due giurisdizioni, per escludere le criticità connesse ad alcuni tratti della “specialità” della giurisdizione amministrativa (e, soprattutto, a come questi vengono talvolta declinati nel concreto).
[45] Cfr. L. Ferrara, Attualità del giudice amministrativo e unificazione delle giurisdizioni, in Dir. pubbl., 2014, p. 566, n. 21.
[46] Si vedano i dati riportati da E. Follieri, op. cit. Si tralascia, perché estranea al perimetro del presente contributo, un’analisi quantitativa dell’apporto – anch’esso alquanto rilevante soprattutto negli anni più recenti – dei magistrati della Corte dei conti e degli Avvocati dello Stato.
[47] Se a ciò si aggiunge l’occasionale attribuzione di cariche parlamentari a personalità provenienti dal Consiglio di Stato, suona solo appena un po’ forzata la conclusione di chi rileva che si determina nella pratica “una vera e propria partecipazione all’esercizio di tutte e tre le funzioni fondamentali dello Stato, di un assetto organizzativo che viene a configurarsi come un microcosmo di Stato assoluto”, al punto che “paradossalmente rovesciando il problema, ci sarebbe da chiedersi quali siano le garanzie di indipendenza del potere politico dal Consiglio di Stato e non viceversa” (A. Orsi Battaglini, op. cit., p. 98).
[48] Sul punto, cfr. S. Baccarini, op. cit.
[49] Al riguardo si mostrano dubbiosi E. Follieri, op. cit., e S. Baccarini, op. cit.
[50] Ci si riferisce ai due episodi, noti alle cronache, delle autorizzazioni rilasciate dal Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa per l’assunzione dell’incarico di capo di gabinetto del Ministero dell’economia nel Governo Conte-1 e dal C.S.M. per l’assunzione dell’incarico di Presidente dell’Autorità per la concorrenza e per il mercato, su cui cfr. rispettivamente G. Meletti, Kamasutra giuridico per far andare Carbone al Tesoro, in Il Fatto Quotidiano, 9 gennaio 2019, e I. Proietti, Le fatiche del Csm per l’ok a Rustichelli, ivi, 9 febbraio 2019.
[51] Né è conducente, come è perfino banale rilevare, l’osservazione che siffatte disfunzioni possano occasionalmente essersi verificate anche presso altre magistrature, compresa quella ordinaria.
[52] Cfr. E. Follieri, op. cit.
[53] Cfr. E. Follieri, op. cit., il quale peraltro osserva che, anche anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 186/1982, i Governi si erano sempre mostrati, salvo in un paio di occasioni, tendenzialmente rispettosi delle prerogative di autonomia e indipendenza dell’organo di vertice della giustizia amministrativa.
[54] È noto alla scienza costituzionalistica come, nei sistemi a costituzione scritta, le conventions of the constitution, per quanto autorevolmente formatesi e consolidate nel tempo, sono per loro natura “cedevoli” e inidonee ad assumere valore vincolante per il futuro agire degli organi costituzionali, restandone l’applicazione rimessa alla leale collaborazione tra le istituzioni interessate: cfr. G.U. Rescigno, Ripensando le convenzioni costituzionali, in Pol. dir., 1997, pp. 499 ss., e più di recente Q. Camerlengo, Le convenzioni costituzionali tra principio di leale collaborazione e teoria dei giochi, in Consulta online, n. 1/2022.
[55] Ciò è evidente fin dalle dichiarazioni rese dal Presidente del Consiglio Renzi nel discorso programmatico al Senato: “Parto dalla giustizia amministrativa. Siamo un Paese in cui – lasciatevelo dire da chi costantemente ci batte la testa – lavorano più, negli appalti pubblici, gli avvocati che i muratori. Negli appalti pubblici non c’è alternativa al ricorso sul controricorso con la sospensiva. Siamo al punto che i tribunali amministrativi regionali discettare di tutto. Siamo al punto che un provvedimento di un sindaco (in alcuni casi, anche del Parlamento) è comunque costantemente rimesso in discussione in una corsa ad ostacoli impressionante. Ma come possiamo dare certezza del diritto se noi per primi abbiamo un sistema (sono partito da quello amministrativo) che crea inquietudine non già soltanto agli investitori stranieri, ma agli stessi operatori del diritto, a partire dai giudici amministrativi che in più circostanze hanno sottolineato la necessità di riforme strutturali?” (dalla trascrizione stenografica riportata in www.ilpost.it).
[56] Cfr. E. Follieri, op. cit.
[57] Cfr. E. De Francisco-H. Simonetti, La nomina del Presidente del Consiglio di Stato: quello che noi credevamo, in www.giustamm.it, n. 2/2016.
[58] In tal senso si sono espressi a suo tempo A.M. Sandulli, La riforma della magistratura amministrativa, in Foro amm., 1982, II, pp. 1429 ss., e G. Abbamonte, Note sul nuovo ordinamento della giurisdizione amministrativa – L. 27 aprile 1982, n. 186, in Dir. proc. amm., 1983, pp. 9 ss. Negli stessi termini, più di recente, V. Cerulli Irelli, La giurisdizione amministrativa nella Costituzione, in www.astrid.eu, 2009.
[59] Con la già citata sentenza n. 273/2011, la Corte costituzionale ha ritenuto infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione alla “cesura” di carriera che – come meglio illustrato nel testo – investe i magistrati che transitano dai Tar al Consiglio di Stato, in ragione dell’attribuzione a quest’ultimo organo anche delle funzioni consultive, considerate elemento “specializzante” sufficiente e idoneo a fondare la scelta legislativa di differenziare il percorso di carriera dei suoi magistrati rispetto a quello dei Tribunali di primo grado.
[60] La vera e propria “mistica” costruita attorno al concorso a Consigliere di Stato (indubbiamente di estrema difficoltà e quasi sempre rivelatosi idoneo a selezionare le migliori intelligenze giuridiche disponibili) si alimenta sovente perfino del richiamo a una novella di Luigi Pirandello, Concorso per referendario al Consiglio di Stato, risalente al 1902, epoca in cui in effetti la prima qualifica cui si accedeva tramite il concorso de quo era appunto quella di referendario (L. Pirandello, Novelle per un anno, Milano, CDE, pp. 788 ss.).
[61] Come peraltro confermato dalla stessa Corte costituzionale, nella più volte citata sentenza n. 273/2011.
[62] Per la verità, ai sensi dell’articolo 22 della delibera del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa del 18 gennaio 2013, recante “Disposizioni per assicurare la qualità, la tempestività e l’efficientamento della giustizia amministrativa”, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato “può essere composta sulla base dei seguenti criteri alternativi: a) dai quattro Presidenti titolari delle sezioni giurisdizionali e dai due consiglieri più anziani di ciascuna delle quattro sezioni giurisdizionali; b) in modo da assicurare la partecipazione di magistrati con maggiore anzianità e di magistrati di più recente nomina”; tuttavia, nella prassi il criterio applicato dai Presidenti del Consiglio di Stato è stato sempre il primo (in disparte gli effetti del recente incremento fino a sei delle Sezioni giurisdizionali).
[63] Per una interessante ricostruzione ab externo della vicenda cui si accenna nel testo, cfr. G. Pellegrino, Riflessioni – Il conflitto tra magistrati nella giustizia amministrativa, in Nuovo Quotidiano di Puglia, 28 luglio 2021.
[64] Non risulta però che analoghe previsioni siano contenute nella disciplina di concorsi, anche più lunghi e complessi di quello qui in questione, ivi compreso quello per l’accesso in magistratura ordinaria.
[65] Al riguardo, il quarto comma dell’articolo 21 della l. n. 186/1982 stabilisce che dell’anzianità di servizio maturata nel ruolo dei magistrati Tar torni a tenersi conto ai soli fini della nomina a Presidente di Tribunale amministrativo regionale.
[66] Così G. Romeo, op. cit., p. 714, secondo cui era precisamente tale “autopercezione” di entrare a far parte di una élite a rendere appetibile il transito per anzianità in Consiglio di Stato, nonostante gli inconvenienti segnalati.
[67] Ossia senza che ciò sia determinato da particolari situazioni o scelte personali ovvero da sanzioni disciplinari o altre vicende che ne abbiano pregiudicato il percorso di carriera.
[68] Esemplare la vicenda trattata nella sentenza del Tar Lazio, sez. I, 3 dicembre 2021, n. 12518, laddove veniva in discussione la questione di legittimità costituzionale delle disposizioni (articolo 1, comma 97, lett. e), della legge 30 dicembre 2004, n. 311, e articolo 18, comma 3, del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 273, convertito in legge 23 febbraio 2006, n. 51), che avevano consentito l’assunzione “prioritaria” degli idonei dell’ultimo concorso a Consigliere di Stato espletato entro la data del 31 dicembre 2004, nonché l’impugnazione delle deliberazioni con cui il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa aveva ritenuto di estendere in via interpretativa tali previsioni anche a concorsi successivi.
[69] In questo senso, può essere condivisa l’affermazione di chi ha ritenuto che proprio la disciplina del processo amministrativo, soprattutto dopo l’entrata in vigore del codice del 2010, abbia costituito la garanzia destinata a bilanciare dal punto di vista dinamico il deficit di indipendenza e imparzialità che emerge sul piano statico e strutturale: cfr. M. Protto, op. cit., p. 98.
[70] Emblematico è quanto avvenuto in occasione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), concordato con l’Unione europea per l’impiego delle risorse da questa erogate a fini di sostegno alla ripresa economica dopo la crisi innescata dalla pandemia da Covid-19, laddove, a fronte dell’inserimento della riforma dell’ordinamento giudiziario tra le riforme “orizzontali” qualificanti finalizzate a ridare efficienza e celerità al sistema giustizia, nulla al riguardo è stato previsto per la giustizia amministrativa, interessata unicamente dalle misure di rafforzamento dell’Ufficio del processo in vista dell’incremento numerico delle cause da definire: cfr. Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza #nextgenerationItalia, in www.italiadomani.gov.it, pp. 50 ss.
[71] Cfr. P. De Lise, Verso il Codice del processo amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it, 28 aprile 2010.
[72] Sembra comunque che più di recente prevalga la tesi della non appellabilità. Sulla questione, cfr. I. Genuessi, Sull’appellabilità del decreto cautelare monocratico: tra esigenze di tutela conseguenti alla pandemia e orientamenti giurisprudenziali contrastanti, in www.giustiziainsieme.it, 20 aprile 2021.
[73] Sotto tale profilo non può non richiamarsi, fra i casi più recenti, l’ordinanza con la quale la Sezione di Lecce del Tar della Puglia, in aperto dissenso rispetto ai principi affermati dal Supremo Collegio, ha rimesso alla Corte di giustizia la questione della compatibilità con il diritto unionale delle norme interne in materia di affidamento e durata delle concessioni demaniali marittime (Tar Lecce, sez. I, ord. 11 maggio 2022, n. 743, sulla quale la Corte di giustizia si è poi pronunciata con la sent. sez. III, 30 aprile 2023, C-348/22).
[74] Cfr. A. Liberati, La ricorribilità delle sentenze del Consiglio di Stato innanzi alla Corte europea dei Diritti dell’Uomo: l’inizio della fine di Palazzo Spada, in www.lexitalia.it, n. 4/2011, il quale peraltro sul punto non spinge la propria analisi, in punto di prospettata violazione dell’articolo 6 CEDU, al di là della semplice notazione della vistosa anomalia che connoterebbe una controversia in cui una sentenza è “appellata (tra gli altri) dal Consiglio di Stato (in persona del presidente p.t.), innanzi al Consiglio di Stato, per sentire dichiarare la legittimità dell’operato del presidente del Consiglio di Stato p.t., in qualità di presidente ex lege della commissione di concorso per l’accesso al Consiglio di Stato, e delle conseguente nomina di alcuni consiglieri di Stato”.
[75] Cfr. M.A. Sandulli, op. e loc. cit., che a sua volta, sia pur cursoriamente, annovera fra le “criticità” del sistema l’affidamento allo stesso giudice amministrativo del sindacato sulle decisioni del proprio organo di autogoverno.
[76] Cass. civ., sez. un., 12 dicembre 2013, n. 27847.
[77] § 5, che così prosegue: “Quindi la garanzia di terzietà del giudice corre su questo doppio binario: conformità al parametro costituzionale dell’art. 111 Cost., comma 2, - che evoca il controllo di costituzionalità invocabile dalla parte con la relativa eccezione ed attivabile dal giudice comune, anche d’ufficio, L. n. 87 del 1953, ex art. 23 - e conformità alle regole di rito attuative di tale garanzia nel processo, le quali evocano il sindacato di legittimità innanzi al giudice che lo esercita in ultima istanza; sindacato quest’ultimo, che nell’attuale sistema ordinamentale, solo ispirato alla tendenziale unitarietà della giurisdizione, ancora si conforma all’assetto tuttora differenziato della giurisdizione, ordinaria e speciale, che discende dall’art. 111 Cost., comma 7”.
[78] § 9.
[79] In effetti, nella vicenda trattata dalle Sezioni unite (così come negli altri casi in cui la questione è stata sottoposta all’esame della S.C.), si auspicava, previa declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme attributive della giurisdizione al giudice amministrativo, una sorta di refluenza della relativa cognizione nella sfera del giudice ordinario, considerato giudice naturale “residuale” proprio alla stregua dell’articolo 24 Cost.
[80] Sterminata è la letteratura sull’applicazione del principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale: fra i contributi più recenti, cfr. R. Romboli, Il giudizio di ragionevolezza: la nozione e le diverse stagioni della stessa attraverso la giurisprudenza costituzionale, in Scritti per Roberto Bin, Torino, Giappichelli, 2019, pp. 567 ss.; M. Cartabia, I principi di ragionevolezza e proporzionalità nella giurisprudenza costituzionale italiana, in www.cortecostituzionale.it, 2013.
[81] Cfr. M. Protto, op.cit., p. 106, il quale motiva il proprio giudizio “in primo luogo perché le norme [sull’astensione e la ricusazione] si riferiscono al singolo rapporto processuale e ad ipotesi puntuali che sono suscettibili di incrinare la posizione di imparzialità del giudice e, in secondo luogo, perché non sono idonee a colmare il deficit di indipendenza che deriva dal particolare status del giudice amministrativo”.
[82] Sul concetto di indipendenza interna, e sul modo in cui viene declinato in relazione alla magistratura amministrativa, si tornerà infra, nel prossimo paragrafo.
[83] Cfr. Corte EDU, sez. V, Agrokompleks c. Ucraina; id., sez. I, 22 dicembre 2009, Parlov-Tkalčić c. Croazia.
[84] Cfr. ad esempio Cass. civ., sez. III, 20 ottobre 2006, n. 22540; id., sez. I, ord. 12 ottobre 2002, n. 14573.
[85] Per una puntuale applicazione, cfr. Cons. Stato, sez. IV, 2 aprile 2012, n. 1957.
[86] Possono qui richiamarsi, a titolo di esempio, la già citata Tar Lazio, sez. I, n. 12518/2017, in cui il ricorso proposto da un Consigliere di Stato avverso la nomina a Presidente di Sezione di colleghi che lo precedevano in ruolo dopo aver avuto accesso all’Istituto in applicazione di norme delle quali era lamentata l’incostituzionalità (sollecitandosi il giudicante a sollevare la relativa questione dinanzi alla Corte costituzionale) è stato dichiarato inammissibile/improcedibile a causa della mancata tempestiva impugnazione di precedenti atti “con efficacia esterna immediatamente lesiva” intervenuti nel corso degli anni pregressi - segnatamente i decreti di costituzione delle Sezioni del Consiglio di Stato, i decreti trimestrali di formazione dei collegi nelle Sezioni di appartenenza etc. – che avrebbero “consolidato” la postergazione del ricorrente sulla base del ruolo, ponendosi in frontale contrasto con l’opposto indirizzo espresso dalla Corte costituzionale in una sentenza (n. 276 del 20 dicembre 2017) nella quale, nel dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata nell’ambito di un giudizio concernente la separazione dei ruoli dei magistrati amministrativi, si era affermato il difetto di lesività della mera “deteriore collocazione nel ruolo” la quale “non rileva di per sé, ma solo in quanto incida su provvedimenti che siano fondati sulla posizione che i magistrati abbiano nel ruolo medesimo”; nonché Cons. Stato, sez. VII, 7 aprile 2023, n. 3624, nella quale, chiamata a decidere della legittimità di una delibera del C.p.g.a. afferente ai criteri di nomina dei Presidenti di Sezione del Consiglio di Stato, la Sezione, provvedendo in un momento in cui tutti i magistrati interessati come parti del giudizio avevano conseguito la detta nomina senza che la delibera fosse applicata, stante la sua sospensione cautelare, ha ritenuto ancora esistente l’interesse all’impugnazione e annullato l’atto gravato sulla scorta del rilievo che sarebbe stato pur sempre possibile invocarne l’applicazione all’esito della sua riacquisizione di efficacia dopo la conclusione del giudizio, con ciò facendo strame di ultrasecolare giurisprudenza in tema di attualità dell’interesse a ricorrere (oltre che, probabilmente, contravvenendo al precetto di cui all’articolo 34, comma 2, primo periodo, c.p.a.).
[87] Cfr. V. Caianiello, Consiglio di Stato, in Noviss. dig. it., App. II, Torino, Utet, 1981, p. 453, il quale paventava – per vero riferendosi alla possibile “soggezione” che il giudice avrebbe percepito rispetto a una parte processuale che era anche l’organo titolare di poteri di amministrazione e disciplinari nei suoi confronti – che una siffatta giurisdizione “domestica” potesse alimentare “il più deteriore corporativismo dell’organizzazione unitaria della giurisdizione amministrativa”.
[88] Sulle tabelle degli uffici giudiziari, oggetto di copiosa e pluridecennale elaborazione da parte del C.S.M., cfr. G. Gilardi, Le tabelle degli uffici tabellari – Prima parte – Il sistema tabellare, in www.giustiziainsieme.it, 8 luglio 2021, il quale richiama, a fondamento della rilevanza di tale complesso di regole, il “principio secondo cui l’organizzazione del lavoro giudiziario deve ispirarsi all’esigenza - comune a ogni ramo della pubblica amministrazione - di garantire il buon funzionamento e l’imparzialità del servizio e, insieme, a quella di assicurare che lo svolgimento delle funzioni giurisdizionali avvenga al riparo da ogni condizionamento non solo esterno, ma anche interno alla magistratura”, con la conseguenza che “come l’assegnazione di ciascun magistrato a questo o a quel posto dell’organico deve avvenire in base a concorsi interni diretti a garantire la trasparenza delle procedure, l’obiettività delle scelte e la funzionalità del servizio, così i singoli affari debbono essere distribuiti in base a criteri oggettivi, predeterminati e insuscettibili di deroghe che non siano a loro volta obiettivamente motivate”.
[89] La legge n. 186/1982 si limita prevedere l’acquisizione di un parere del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa sui provvedimenti con i quali annualmente il Presidente del Consiglio di Stato e i Presidenti dei Tribunali amministrativi regionali stabiliscono la composizione delle Sezioni in cui si articolano i rispettivi uffici, l’assegnazione dei magistrati alle stesse nonché le rispettive competenze, nonché a stabilire limiti minimi e massimi (peraltro non cogenti) di permanenza di un singolo magistrato presso una medesima Sezione.
[90] Trattasi peraltro di ripristino di una previsione di ricusazione “atipica” già contenuta nel sistema prima della novella del 2006: cfr. M. Stella, Imparzialità degli arbitri, decadenza e ricusazione nella riforma del c.p.c., in Riv. dir. proc., 2023, I, pp. 231 ss.
[91] A. Briguglio, Interessi in conflitto e conflitto di interessi nel processo civile, intervento svolto al Convegno “Il conflitto di interessi” (Milano, Università Statale – Centro di ricerca “Studi sulla giustizia”, 9-10 luglio 2019), reperibile in www.antoniobriguglio.com.
[92] Al riguardo, basti rimandare ai casi esemplificati supra, alla nota 84.
[93] Sul ruolo spesso improprio che il richiamo dei precedenti assume in particolare nell’esperienza della giurisdizione amministrativa, cfr. M.A. Sandulli, Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il Processo, n. 1/2018, pp. 45 ss. (e specialmente pp. 64-71).
[94] Sul punto, sia consentito rinviare a R. Greco, Il sindacato del giudice amministrativo sugli atti di autogoverno del Consiglio Superiore della magistratura, in Giustizia Insieme, n. 2/2010, pp. 20 ss., ma anche, più di recente, a R. De Nictolis, Il sindacato del giudice amministrativo sui provvedimenti del CSM, in www.ildirittoamministrativo.it, 8 novembre 2019, e F. Patroni Griffi, Atti del CSM e sindacato giurisdizionale nel D.L. 24 giugno 2014, n. 90, in www.giustizia-amministrativa.it, 4 agosto 2014.
[95] Approcci di questo tipo a tutt’oggi sono riproposti nonostante l’ormai consolidata giurisprudenza costituzionale sul punto: cfr. ad esempio L. Geninatti Satè, Il sindacato giurisdizionale sugli atti del Csm: una questione politico-istituzionale, in Questione Giustizia, n. 4/2017.
[96] Basti richiamare, al riguardo, la recente sentenza con la quale la S.C. (sez. un., 9 marzo 2020, n. 6690), ponendosi in apparente distonia rispetto al tradizionale indirizzo fondato sulla immedesimazione organica tra il pubblico dipendente e l’ufficio di appartenenza in conseguenza del rapporto d’impiego, ha ritenuto rientrare nella giurisdizione del G.O. l’azione di risarcimento danni proposta, ex articolo 2043 c.c., da un ex Consigliere di Stato colpito da sanzione disciplinare destitutoria nei confronti di due componenti del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa che aveva irrogato la predetta sanzione, sulla scorta del prospettato abuso dei poteri di autogoverno che sarebbe stato perpetrato in suo danno.
[97] È noto che le recenti ipotesi di riforma dell’autogoverno della magistratura e del CSM, culminate da ultimo nella legge 17 giugno 2022, n. 71 (Deleghe al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario e per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario militare, nonché disposizioni in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura), non hanno sopito il dibattito, alimentato dalle vicende richiamate nel testo, sulla necessità di spezzare il circuito perverso tra autogoverno e correnti della magistratura associata, affacciandosi anche più volte l’ipotesi di prevedere la designazione dei membri del Consiglio per sorteggio, anziché mediante elezioni (sul punto, cfr. T.F. Giupponi, Il Consiglio superiore della magistratura e le prospettive di riforma, in Quaderni costituzionali, n. 1/2021) ovvero quella di istituire un’Alta Corte, a composizione “mista” con la presenza anche di soggetti esterni all’ordine giudiziario, con competenza sulla materia disciplinare e sugli atti degli organi di autogoverno di tutte le magistrature (cfr. M. Lipari, Verso l’Alta Corte disciplinare e dei conflitti? Unità funzionale della giurisdizione, responsabilità del giudice e autogoverno delle magistrature, in www.giustizia-amministrativa.it, 7 agosto 2022; M.A. Sandulli, Intervista nell’ambito del Forum sull’Istituzione dell’Alta Corte. La rivoluzione dell’assetto giurisdizionale in vista dell’istituzione di una giurisdizione speciale per i giudici, in www.giustiziainsieme.it, 28 marzo 2022).
[98] Fino a quel momento avevano operato, ma con composizione e funzioni totalmente diverse, i Consigli di presidenza del Consiglio di Stato e dei Tribunali amministrativi regionali, previsti rispettivamente dall’articolo 35 del r.d. 21 aprile 1942, n. 444, e dall’articolo 49 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034.
[99] Così G. Romeo, op. cit., p. 713 (il quale in effetti riteneva che al Consiglio di Stato principalmente fossero da attribuire tutte le resistenze a una reale modernizzazione del sistema).
[100] Cfr. G. Romeo, op. cit., pp. 721 ss. In tempi più recenti, l’A. è tornato sul tema, registrando come negli ultimi anni l’intento risulti perseguito soprattutto operando su materie quali l’elaborazione di regole in materia di carichi di lavoro massimi esigibili dai magistrati e l’autorizzazione di incarichi extragiudiziari, spesso in modo avulso da qualsivoglia considerazione circa la compatibilità delle scelte operate con il buon funzionamento della giustizia amministrativa (La giustizia amministrativa, la grande Babilonia (a margine del primo incontro tra i magistrati amministrativi titolari di incarichi direttivi e semi-direttivi sul tema dell’organizzazione dell’ufficio giudiziario), in Dir. proc. amm., 2012, 3, pp. 1193 ss.
[101] Cfr. L. Maruotti, Insediamento del Presidente del Consiglio di stato Luigi Maruotti e Relazione sull’attività della Giustizia amministrativa, Roma, 30 gennaio 2023, p. 29.
[102] F. Patroni Griffi, Ridurre il peso delle correnti: ecco la modifica sulla giustizia amministrativa, in Il Dubbio, 20 luglio 2021, con osservazioni condivisibilissime, ma che sarebbero forse più credibili se non provenissero da chi, oltre a ricoprire più volte la carica di presidente dell’Associazione dei Magistrati del Consiglio di Stato (su cui, v. infra al paragrafo successivo), è stato per anni uno dei massimi rappresentanti dei Consiglieri di Stato di provenienza concorsuale in tutte le sedi istituzionali.
[103] Cfr. A. Orsi Battaglini, op. cit., pp. 81-82, il quale non esita a definire “senz’altro incostituzionale” questo aspetto della disciplina vigente.
[104] Cfr. P. De Lise, Audizione sulla riforma della giustizia (resoconto dell’audizione del Presidente del Consiglio di Stato dinanzi alle Commissioni riunite I e II della Camera dei Deputati, 27 maggio 2011), in www.giustizia-amministrativa.it, p. 11, il quale, pur senza spingersi a suggerire soluzioni organizzative specifiche, auspicava un “riconoscimento costituzionale” del C.p.g.a.
[105] Cfr. A. Orsi Battaglini, op. loc. ult. cit.
[106] Al riguardo, cfr. G. Gilardi, Unità della giurisdizione, giudici speciali, giudici specializzati, in Aa.Vv., in Questione Giustizia, n. 3/1997, pp. 518 ss.
[107] Emblematica, tra le più recenti, la vicenda che ha indotto a schierarsi lo stesso Presidente pro tempore del Consiglio di Stato, come riportato supra alla nota 102.
[108] Il tema dell’indipendenza interna, usualmente approfondito dai costituzionalisti in relazione alle garanzie di indipendenza della giurisdizione ordinaria (cfr. ex plurimis A. Lollo, L’indipendenza interna dei magistrati nell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale, in www.rivistaaic.it, n. 4/2012, 16 ottobre 2012), è stato più recentemente approfondito con riferimento alla posizione del P.M., in conseguenza dei rilevanti effetti sull’organizzazione delle Procure della Repubblica determinati dal d.lgs. 20 febbraio 2006, n. 106 (cfr. M. Bignami, L’indipendenza interna del pubblico ministero, in Questione Giustizia, n. 1/2018).
[109] Principio considerato dalla dottrina, difatti, il fondamento costituzionale dell’indipendenza interna dei magistrati: cfr. per tutti, N. Zanon - F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, Bologna, Zanichelli, 2008, p. 78.
[110] Cfr. Corte cost., ord. 21 dicembre 2001, n. 434; ord., 4 dicembre 2000, n. 542; sent. 16 gennaio 1978, n. 1.
[111] Un germe di tale rimeditazione è forse rinvenibile nella motivazione della più volte citata sentenza della Corte n. 273/2011, laddove, sia pure con obiter dictum, si rileva che la separazione originaria tra i Tar e il Consiglio di Stato, che la legge n. 186/1982 aveva inteso superare, “si risolveva(…) in una forma anomala di subordinazione gerarchica” dei primi rispetto al secondo.
[112] Articolo 2, in www.magistratiamministrativi.it.
[113] Ciò emergerebbe, secondo alcuni osservatori, dall’essere state alla fine preferite soluzioni transitorie, idonee ad assicurare utilità ai magistrati in servizio in un determinato momento storico ma suscettibili di produrre effetti esiziali a lungo termine: al riguardo, si veda quanto osservato supra al § 3, e specificamente il contributo di Giovanni Pellegrino citato alla nota 63.
[114] Di modo che si assume come fatto notorio che Magistratura Democratica rappresenterebbe la “sinistra” della magistratura, Magistratura Indipendente la parte conservatrice, e così via.
[115] Fra i tanti interventi del genere svolti dai vertici dell’associazione, cfr. ad esempio G. Serlenga, Spuntare le armi ai Tar non sblocca i cantieri, in L’Espresso, 13 novembre 2022, p. 45.
[116] Basterà citare, fra gli episodi più recenti, le prese di posizione contro la proposta legislativa di soppressione delle sedi staccate dei Tar (Associazione magistrati Anma: “Taglio sedi Tar? Costoso e inutile”, in La Repubblica, 3 luglio 2014) e quella di modifica della composizione del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa (cfr. ANSA del 18 luglio 2021: Giustizia: toghe amministrative chiedono tavolo di confronto “Modifiche dirigistiche a nostro organo di autogoverno”).
[117] V. supra, § 3.
[118] Cfr. ad esempio F. D’Agostino, Intervento in Atti del seminario di studi “Il giudice amministrativo e il codice del processo: la difficile sfida”, Roma, 27 maggio 2010, pp. 5 ss.
[119] In particolare, quelle che si sono esaminate supra al § 2.
[120] Su quest’ultimo punto, cfr. N. Rossi, Il policentrismo giurisdizionale e la coesistenza di sistemi di tutela giurisdizionale diversi ed equiordinati, in Questione Giustizia, n. 1/2021, pp. 5 ss.
[121] Così lucidamente G. Romeo, op. cit., p. 731: “In questa direzione è indubbio che si smarrisce la consapevolezza di essere magistrati ‘orientati verso i cittadini’, chiamati in prima persona ad essere interpreti della conflittualità sociale in virtù del proprio potere-sapere. Si tende più al contatto immediato con il potere che non con la realtà amministrativa in trasformazione”.
[122] Fra le più recenti e “informate”, non possono non citarsi S. Rizzo, Potere assoluto. I cento magistrati che comandano in Italia, Milano, Mondadori, 2022, e Anonimo – G. Salvaggiulo, Io sono il potere. Confessioni di un capo di gabinetto, Milano, Feltrinelli, 2020.
[123] Cfr. A. Proto Pisani, Tavola rotonda, in Convegno di Lecce 16-17 ottobre 2015, pp. 155 ss.
[124] Il riferimento è alle note sentenze 6 luglio 2004, n. 204, e 11 maggio 2006, n. 191.
[125] Per una lucida e organica esposizione di questo punto di vista, cfr. P. De Lise, La pienezza della tutela del cittadino come obiettivo “condiviso” delle magistrature supreme, in www.giustamm.it, 30 settembre 2021.
[126] Cfr. A. Pajno, op. cit., pp. 8-9.
[127] Si vedano le considerazioni di G. Romeo riportate alla nota 25.
[128] Cfr. E. Follieri, op. cit., il quale auspica che una spinta al superamento delle perduranti criticità possa provenire dalle sentenze della CEDU e della Corte di giustizia dell’Unione europea.
[129] M.S. Giannini, Per l’unità della giurisdizione amministrativa, in La giustizia amministrativa come funzione dello Stato democratico, Atti del seminario promosso dall’Assessorato agli affari istituzionali del Comune di Venezia in collaborazione con l’Università di Venezia e la Presidenza del Consiglio regionale del Veneto, 12-14 maggio 1978, Venezia, 1979, p. 289.
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