ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
I sistemi processuali nel periodo del post emergenza pandemica. A proposito di rinvii pregiudiziali alla Corte di cassazione ed al giudice UE, revocazione europea e diritti fondamentali. Verso un progressivo – e inarrestabile – restyling del ruolo del giudice nazionale[1].
di Roberto Giovanni Conti
Sommario: 1. Premesse - 2. Sulla cresta dell’onda del giudizio di cassazione e del ruolo nomofilattico della Corte suprema - 3. Dal giudicare al cooperare. L’art.363 bis c.p.c. ed il rinvio pregiudiziale “interno” del giudice di merito alla Corte di cassazione - 4. Le modifiche al rinvio pregiudiziale “esterno (alla Corte di Giustizia UE) - 5. La revocazione “europea” del giudicato nazionale per contrasto con la Corte edu (art.391 quater c.p.c.9 - 6. Le S.U. e la resistenza all’emergenza in nome dei diritti umani (Cass.S.U. n.4873/2022 e 28022/2022) - 7. Tirando le fila del discorso: a) Il ruolo della Corte di cassazione e l’idea di fondo di una “cooperazione” fra giudici come modus di gestione delle emergenze e delle transizioni - 7.1 B) La riforma del rinvio pregiudiziale “esterno” e la ricerca ultima di un sistema effettivo e celere nelle relazioni fra giudici - 7.2. C) Il valore fondamentale dei diritti umani nell’epoca delle emergenze - 7.3. D) Il ruolo del diritto vivente nella gestione delle emergenze e delle transizioni.
1. Premesse.
Abbiamo vissuto in questi ultimi anni momenti di grandi trasformazioni molto spesso collegate a fenomeni planetari. Il pensiero va naturalmente all’esperienza pandemica che, oltre a determinare fortissimi disorientamenti nella popolazione, ha attivato una serie di mutamenti nei sistemi giuridici nazionali e sovranazionali che, da un lato, hanno inteso fronteggiare l’emergenza, dall’altro hanno dato un impulso decisivo per modificare stabilmente, per quel che qui interessa, l’assetto processuale dei Paesi coinvolti, in vista del perseguimento di esigenze che proprio la situazione emergenziale aveva vieppiù posti in rilievo come bisognevoli di protezione e tutela.
Qui si intende prendere le mosse dalle riforme che hanno riguardato, direttamente o indirettamente, il giudizio di Cassazione, da sempre sotto la lente critica della dottrina e degli operatori pratici, accusato di non riuscire a trovare un equilibrio accettabile tra le previsioni costituzionali – art.117 Cost. – che garantiscono la ricorribilità di qualunque controversia che sia stata definita dal giudice di merito e l’esigenza di efficacia ed effettività che pure costituisce una delle precondizioni della funzione nomofilattica della Corte stessa. Basti ricordare, a titolo meramente esemplificativo, che Guido Calabresi, autorevole giurista assai noto per le sue teorie in tema di analisi economica del diritto, in una intervista che rilasciò a Giustizia Insieme poco tempo fa[2], a proposito del numero imponente di controversie ogni anno proposte innanzi al giudice di legittimità, ebbe a condividere l'idea che è compito del legislatore fissare, sia pur nell'ambito di scelte tragiche che possono appunto condizionare la ricorribilità o meno dei ricorsi, l’esistenza di limiti al ricorso per Cassazione. E nella stessa occasione fu appunto Calabresi a sottolineare come il canone dell’effettività fosse valore, comunque, da perseguire anche a costo di ridurre l'accesso al giudizio di legittimità. Una voce, quest’ultima, ampiamente condivisa negli operatori del diritto che operano presso la Corte suprema, meno da alcuni settori della dottrina e ancor meno sul piano legislativo, ove il recupero dell’efficienza ed effettività della giustizia – anche di ultima istanza – è stato perseguito con altri strumenti senza modificare il quadro costituzionale relativo all’accesso al giudizio di legittimità.
La prima parte della riflessione intende dunque soffermarsi su alcuni dei più significativi interventi riformatori del rito di Cassazione –rinvio pregiudiziale del giudice di merito alla Corte di cassazione (art.363 bis c.p.c.), revocazione (art.391 quater c.p.c.) e proposta di definizione accelerata (art.380 bis c.p.c.). Modifiche buona parte delle quali originate nel periodo dell’emergenza pandemica ed introdotti da modifiche normative inserite nel piano di ripresa e resilienza successivo al Covid-19 ed indirizzati a realizzare un assetto processuale più idoneo a tutelare gli interessi. In definitiva, il processo di cassazione è stato sottoposto, per effetto di una situazione emergenziale, a diverse modifiche destinate a diventare stabili e, dunque, a regolare una transizione rispetto al periodo emergenziale e ad incidere sull’assetto delle tutele e dunque sul ruolo del giudice.
Nella seconda parte si accennerà ad un ulteriore mutamento del sistema processuale, ponendo questa volta lo sguardo sulle modifiche al sistema del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea e dei rapporti tra Tribunale Ue e Corte di giustizia UE. Anche questa, una riforma che cade nel post pandemia e che, nelle intenzioni della Corte di giustizia che l'ha promossa, offre una nuova visione del ruolo del giudice europeo destinato, in una prospettiva di lungo corso, ad occuparsi solo delle questioni di sistema e di principio involgenti i diritti fondamentali (e magari di impugnazione delle decisioni del Tribunale, invece investito di un contenzioso del quale prima non si era occupato con un meccanismo abbastanza complesso e non provo di profili di criticità.
La terza parte sarà infine indirizzata ad un accenno, invero forse fulmineo, a casi concreti nei quali si è esercitato il ruolo del giudice in periodo di emergenza pandemica. Ci si soffermerà, in particolare, su due vicende che esaminate dalle Sezioni Unite civili della Corte di cassazione che, ad avviso di chi scrive, sono anch’essi espressione di scelte di politica giudiziaria rivolte a mettere in chiaro in modo sistematico e non emergenziale il ruolo dei diritti fondamentali della persona rispetto al pubblico potere – Cass. S.U. nn.4873/2022 e 28022/2022 –.
Anticipando le conclusioni che si proverà a tracciare, si cercherà di tracciare un orizzonte, ancora non ben decifrabile, nel quale il giudice italiano sarà chiamato a misurarsi per gestire al meglio un complesso di riforme imponente sia sul piano interno che su quello UE, cercando di coglierne le finalità di sistema perseguite dai legislatori al fine di verificarne la sostenibilità ed utilità concreta ed effettiva. In questa dimensione, che dunque affida alla giurisdizione responsabilità rilevanti, si proporrà quindi la chiave che sembra essere utile per governare il periodo di transizione e non tradirne il senso complessivo.
2. Sulla cresta dell’onda del giudizio di cassazione e del ruolo nomofilattico della Corte suprema.
È noto che appena conclusa la pandemia da Covid 19 l’Unione europea manifestò la sua solidarietà verso i Paesi maggiormente colpiti approvando un programma nazionale denominato PNRR (piano Nazionale di ripresa e resilienza); per questo in favore del nostro paese vennero attivate misure di sostegno finanziario imponenti, imponendo allo Stato il raggiungimento di alcuni obiettivi entro periodi di tempo ben determinati.
Da qui l'introduzione nel nostro Paese di riforme particolarmente incisive, finalizzate a conseguire gli obiettivi del piano nazionale di ripresa e resilienza concordati con l'Unione europea. Questi obiettivi, per quanto riguarda il sistema giudiziario, hanno riguardato sostanzialmente la riduzione delle pendenze e dell'arretrato nel sistema processuale civile e in questa prospettiva le riforme hanno inteso incidere sulla durata dei processi sia nel giudizio di merito che in quello di legittimità (legge delega 26 novembre 2021 n.206 e d.lgs. 10 ottobre 2022 n.149, di recente ritoccato dal d.lgs.n.164/2024, oltre al d.lgs. n. 15/2022 in materia di ufficio per il processo ed alla legge n.130/2022 di riforma della giustizia tributaria, alla l.n.111/2023 di riforma fiscale ed al successivo d.lgs. 30 dicembre 2023, n. 220).
Ora, quanto al giudizio di legittimità[3], la linea fondamentale della riforma introdotta dalle disposizioni succintamente ricordate, superata l’emergenza delle udienze a distanza che nel periodo Covid avevano preso il sopravvento e che nel periodo successivo sono state agganciate ad uno specifico provvedimento presidenziale per situazioni eccezionali, è stata quella di garantire la funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, modificando parzialmente il sistema di decisione dei ricorsi, seguendo alcune linee portanti[4]. Si tratta di aspetti che solo apparentemente si muovono su un terreno meramente processuale ma che, all’evidenza, coinvolgono pienamente il “modo” con il quale il sistema garantisce i diritti della persona[5].
3. Dal giudicare al cooperare. L’art.363 bis c.p.c. ed il rinvio pregiudiziale “interno” del giudice di merito alla Corte di cassazione.
Si proverà, a questo punto, a concentrare l’indagine su altre ed ulteriori modifiche processuali che, anch’esse partorite nel periodo post-emergenziale, sembrano confermare un ulteriore cambio di paradigma che si va lentamente ma sempre più strutturalmente producendo nell’ambito dell’attività giurisdizionale. Si intende riflettere sul fenomeno, crescente, che traghetta la funzione del giudice da mero “decisore" dei processi a soggetto che coopera attivamente con altri giudici all’interno di un sistema giuridico sempre più complesso.
In passato, l'attività giurisdizionale era essenzialmente orientata a risolvere controversie nazionali applicando le leggi interne.
Oggi, tuttavia, i giudici nazionali operano in un contesto in cui le norme sovranazionali, come quelle derivanti dalla CEDU e dall'Unione Europea, giocano un ruolo centrale. Il giudice deve quindi non solo applicare la legge nazionale, ma anche assicurarsi che questa sia conforme ai principi sovranazionali di tutela dei diritti fondamentali.
Questa evoluzione è ben esemplificata dall’introduzione di strumenti come il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea – delle cui modifiche si dirà in seguito – e per quel che qui rileva, sul piano interno, del rinvio pregiudiziale interno del giudice di merito alla Corte di Cassazione, sul quale si proverà qui a riflettere nell’ottica appena indicata.
Con l’art.363 bis c.p.c. il giudice di merito può chiedere alla Corte di cassazione che fissi il principio ,Corte la questione presenti aspetti di ripetitività tali da giustificare la decisione del giudice di legittimità sulla base della richiesta di rinvio pregiudiziale in modo che la Corte possa fissare un principio di diritto vincolante soltanto per il giudice che ha richiesto il rinvio pregiudiziale, ma che ovviamente avrà una particolare valenza nomofilattica anche per altri giudizi pendenti davanti ad altri giudici di merito, i quali ultimi, pur non vincolati alla decisione resa in sede di rinvio pregiudiziale, potranno considerare la soluzione esposta dalla Cassazione con il ricordato principio del diritto, eventualmente discostandosene in modo motivato.
Nonostante le differenze, gli strumenti del rinvio pregiudiziale interno e di quello esterno condividono uno spirito comune di cooperazione tra i giudici di merito e le Corti superiori[6].
4. Le modifiche al rinvio pregiudiziale “esterno” (alla Corte di Giustizia UE)
Non meno espressiva di questa trasformazione del ruolo del giudiziario sembra essere la recente modifica della competenza in tema di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, già antesignana di questa visione di giudice cooperante con altri giudici.
Si proverà qui a dire, per sommi capi alle ricadute che possono verificarsi sul sistema di protezione dei diritti in ragione della recentissima entrata in vigore – 1 settembre 2024 – delle modifiche introdotte il 12 agosto 2024 per effetto della pubblicazione sulla GUUE del Regolamento (UE, EURATOM) 2024/2019, che modifica il Protocollo n. 3 sullo statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea, nonché delle modifiche del Regolamento di procedura della Corte di giustizia e del Regolamento di procedura del Tribunale. Riforma che, in estrema sintesi, ha spezzettato la competenza in materia di rinvio pregiudiziale tra la Corte di giustizia dell’U.E. e il Tribunale, prevedendo “in favore” di quest’ultimo una “riserva di competenza” in materie specifiche – sistema comune di imposta sul valore aggiunto, diritti di accisa, codice doganale e classificazione tariffaria delle merci nella nomenclatura combinata, compensazione pecuniaria e assistenza dei passeggeri, sistema di scambio di quote di emissione di gas a effetto serra – purché non siano in discussione “questioni indipendenti di interpretazione del diritto primario, del diritto internazionale pubblico, dei principi generali del diritto o della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea”.
E ciò ha fatto con un sistema di modifiche al TFUE e statutarie abbastanza complesso ed articolato – tanto nel determinare l’ingresso del rinvio pregiudiziale ad un unico sportello individuato presso la Corte di giustizia al quale spetta il ruolo di smistamento fra il Tribunale e la Corte stessa, quanto in sede di eventuale impugnazione delle decisioni rese dal Tribunale in sede di rinvio pregiudiziale – nel complesso finalizzato a salvaguardare, nelle intenzioni della Corte di Giustizia UE, anche il ruolo di giudice e garante assoluto ultimo in tema interpretazione del diritto UE.
5. La revocazione “europea” del giudicato nazionale per contrasto con la Corte edu (art.391 quater c.p.c.)
Un'altra riforma significativa introdotta dalla riforma Cartabia è quella della revocazione delle sentenze e del giudice nazionale quando sia stata accertata la violazione della convenzione da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo e si tratta di una in nuova ipotesi di revocazione straordinaria che si affianca a quelle già previste dal dall'articolo 395 del Codice di procedura civile.
Secondo l'articolo 391 quater c.p.c. le decisioni passate in giudicato il cui contenuto è stato dichiarato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo contrario alla CEDU ho ad uno dei suoi protocolli possono essere impugnate per revocazione se concorrono le seguenti condizioni: a)la violazione accertata dalla Corte europea ha pregiudicato un diritto di Stato della persona; b) l'equa indennità eventualmente accordata dalla Corte europea ai sensi dell'articolo 41 CEDU non è idonea a compensare le conseguenze della violazione.
Rinviando agli approfondimenti già esposti in altra sede[7] è qui sufficiente ricordare che tale disposizione ha anche al pari di quella relativa al rinvio pregiudiziale suscitato notevole dibattito all'interno dell'Accademia e non è stata ancora oggetto di riflessioni da parte della Corte di Cassazione.
Sarà appunto la Corte di cassazione a sciogliere una serie di nodi e di dubbi interpretativi. Preme invece qui sottolineare la centralità della disposizione che pur lasciando dei dubbi in ordine all'ambito oggettivo di operatività del nuovo istituto della revocazione affianca alle ipotesi di impugnazione straordinarie collegate ad un errore di fatto da parte del giudice che ha definito il giudizio delle ipotesi che invece guardano la violazione dei diritti fondamentali e dunque un errore di diritto commesso dal giudice nazionale ed acclarato dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo.
6. Le S.U. e la resistenza all’emergenza in nome dei diritti umani (Cass.S.U. n.4873/2022 e 28022/2022).
Cass., S.U. n.4873/2022 ha riguardato la questione del distanziamento sociale in periodo Covid per i richiedenti asilo che venivano inviati nei centri di immigrazione subendo misure organizzative non rispettose della disciplina in tema di distanziamento sociale introdotte in via emergenziale nel periodo pandemico
Nel giudizio promosso da un’associazione portatrice di interessi collettivi dei migranti il giudice di merito aveva ritenuto insussistente il diritto soggettivo dei richiedenti rispetto alla questione del distanziamento sociale da parte del gestore dei centri di accoglienza
Decidendo il ricorso per Cassazione per motivi di giurisdizione si è ritenuto che rispetto al tema del distanziamento sociale in periodo pandemico ad essere coinvolto fosse un diritto soggettivo assoluto dei richiedenti protezione, non comprimibile dall'attività l'amministrazione, o dai soggetti che gestivano i fenomeni migratori su delega dell'amministrazione.
L'ordinanza n. 4873/2022 ha cassato le decisioni del merito che avevano escluso l'esistenza di un diritto soggettivo, ragionando sul fatto che appunto i diritti fondamentali e nel caso di specie quelli che erano in gioco, collegati anche al dovere primario di solidarietà, non consentiva in alcun modo alla pubblica amministrazione di esercitare discrezionalmente un'attività di gestione dei richiedenti asilo in spregio alle regole sul distanziamento sociale.
Parzialmente diverso il caso esaminato da Cass.S.U., n. 28022/2022, ove veniva in gioco un problema di esclusione di una società calcistica da un campionato perché non aveva rispettato le regole sul distanziamento e che aveva determinato la sospensione da parte della Federcalcio. Le Sezioni unite sono state investite della questione ancora una volta sotto il profilo della giurisdizione. In questo caso, Cass.S.U. n.28022/2022 ha ritenuto che la giurisdizione spettasse al giudice amministrativo perché era la norma che regolava gli effetti del mancato rispetto delle norme sul distanziamento ad attribuire all'autorità sportiva certi poteri. Ma in questo precedente il diritto fondamentale alla salute occupa una posizione centrale nella controversia discussa nel testo, soprattutto in relazione alle misure adottate per contenere la pandemia da COVID-19. Anche in questa occasione esso viene considerato un diritto di primaria importanza, che giustifica l’adozione di misure straordinarie da parte delle autorità pubbliche per proteggere la comunità. Nel contesto della pandemia, tali misure hanno incluso la quarantena e l'isolamento, che hanno limitato altre libertà fondamentali, come la libertà di circolazione (art. 16 Costituzione). Tuttavia, questo bilanciamento di diritti è necessario e legittimato dalla necessità di preservare il bene collettivo della salute pubblica.
L’attuazione di queste misure sanitarie, come la "quarantena in bolla" per le squadre sportive, evidenzia come il diritto alla salute richieda l'intervento del potere pubblico. Le autorità sanitarie, in stretta collaborazione con organismi sportivi, hanno adottato provvedimenti specifici per garantire che le attività sportive professionistiche potessero continuare, pur nel rispetto delle misure di prevenzione contro la diffusione del virus. Questo dimostra come il diritto alla salute non sia isolato, ma debba essere bilanciato con altri diritti e interessi legittimi, come il diritto al lavoro e alla libera iniziativa economica.
Tuttavia, la discrezionalità esercitata dalle autorità pubbliche nel decidere e attuare queste misure è oggetto di controllo da parte del giudice amministrativo.
Infatti, quando le misure di tutela della salute pubblica incidono su diritti e interessi legati a provvedimenti amministrativi, come nel caso delle limitazioni alle attività sportive, la competenza giurisdizionale spetta al giudice amministrativo. Quest'ultimo è chiamato a valutare la legittimità degli atti adottati, bilanciando il diritto alla salute con gli altri diritti costituzionali e garantendo la correttezza dell'azione pubblica.
7. Tirando le fila del discorso: a) Il ruolo della Corte di cassazione e l’idea di fondo di una “cooperazione” fra giudici come modus di gestione delle emergenze e delle transizioni.
Si può ora provare a riassumere il senso della rassegna di modifiche legislative e di interventi giurisdizionali delle S.U. civili – intervenute come si diceva a cavallo con la pandemia da Covid 19 sulla base di alcune riflessioni che, in definitiva, delineano un quadro di luci ed ombre nel sistema processuale interno, ma anche in quello collegato al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'Unione europea.
Può dunque affermarsi, per quanto riguarda il piano interno ed il fascio di misure processuali introdotte a cavallo della pandemia che le stesse, con specifico riferimento al rinvio pregiudiziale “interno” ed alla nuova ipotesi di revocazione “europea”, sembrano animate dalla realizzazione piena di quel canone scolpito dall'articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.
Quel canone della effettività della tutela giurisdizionale che poi informa anche le previsioni contemplate dalla Convenzione europea dei diritti e l'uomo è che ormai è entrato pleno iure nell'ordinamento nazionale anche attraverso plurime pronunzie dei giudici tanto della Corte di Cassazione (cfr. Cass.S.U. n.36057/2022, Cass.S.U. n.2075/2024), quanto della Corte costituzionale (cfr. Corte cost.n.140/2022, Corte cost. n.22/2022) e della Corte di giustizia (Corte giust. 13 marzo 2007, Unibet, C-432/05)[8].
Si avverte, dunque, forte l’esigenza di fornire un sistema processuale capace di offrire speditamente, efficacemente e anche con un accresciuto grado di prevedibilità ai destinatari delle tutele un quadro quanto più preciso dei tempi del processo e di come esso si può declinare.
In questa prospettiva, il tentativo che probabilmente va fatto è quello di cogliere in questi diversi istituti una duplice finalità indirizzata, per l’un verso, ad implementare la centralità della Corte di cassazione nel sistema di tutela dei diritti. Dall’altro lato, si coglie un’idea in parte nuova dell’idea stessa di nomofilachia essa nutrendosi tanto dell’apporto, in fase ascendente, del giudice di merito nel rinvio pregiudiziale tanto interno che esterno – rivolto al giudice UE quale giudice di ultima istanza – quanto delle sentenze della Corte edu nella revocazione alle quali è chiamato a dar voce lasciando da parte il giudicato nazionale “anticonvenzionale”.
Una funzione, quella di nomofilachia, nella quale è dunque difficile individuare il vertice della piramide e la base, tutti i protagonisti coinvolti costituendo allo stesso tempo colonne e tempio del “diritto vivente”. Soffermando l’indagine sull’art.363 bis c.p.c. si tratta di una innovazione processuale che cambia radicalmente i rapporti tra il giudice di merito e la Corte di Cassazione poiché quest’ultima non è più chiamata a controllare la legittimità della decisione dei giudici di merito, ma opera “con” ed “insieme” al giudice di merito, il quale la investe di una questione che il giudice di merito ritiene non essere stata esaminata dalla Corte di Cassazione e nel sollecitare l'intervento della Corte contribuisce alla migliore efficienza del sistema giudiziario il quale appunto non sarà più condizionato dall'assenza di precedenti della Cassazione che spesso arrivano molti anni dopo rispetto a vicende che invece toccano i plurimi interessi delle parti e che richiedono un veloce e tempestivo intervento del giudice di legittimità.
Il rinvio pregiudiziale interno diviene, così, dimostrazione di quanto la funzione nomofilattica non solo prenda luogo dalla scelta del giudice del rinvio pregiudiziale, ma partecipi pienamente degli elementi interpretativi forniti dal giudice di merito, senza i quali la Corte di legittimità non potrà fornire risposta al giudice di merito. Quest’ultimo non più, dunque, visto come destinatario della verifica di conformità alla legge del suo operato, ma individuato “per sistema” come autentico “motore trainante” che apre i cancelli della Corte di Cassazione. A quest’ultima si affida dunque il compito di fissare in tempi celeri standard di prevedibilità che non fanno certo venir meno per il giudice di merito la possibilità di discostarsi da quelle indicazioni fornite in sede di risposta al rinvio pregiudiziale, ma che sicuramente offrono elementi di certezza del diritto e di prevedibilità capaci di migliore la funzionalità del sistema nel suo complesso. Tutto questo in un clima di evidente innovazione del concetto di nomofilachia, sempre più arricchito di elementi di circolarità ed orizzontalità.
Rispetto a questo aspetto specifico non può dubitarsi che al fondo emergano questioni delicate che attengono alla funzione della Corte di Cassazione e del giudice di merito.
È infatti in corso un dibattito particolarmente acceso all'interno della giurisprudenza e dell'Accademia sull'opportunità o meno che la Corte di Cassazione, già oberata di un notevole numero di ricorsi, possa (e debba) fare fronte alle ulteriori richieste di rinvio pregiudiziali provenienti dai singoli giudici di merito.
Si è anzi pure sostenuto che l'intervento in via preventiva della Corte di Cassazione sulla richiesta di rinvio pregiudiziale subirebbe una vera e proprio torsione, tale da produrre la sottoposizione del giudice di merito alle pronunzie della Corte di Cassazione intervenute su richiesta del singolo giudice che ha sollecitato il rinvio pregiudiziale, espropriando la giurisdizione di merito delle sue prerogative. Da qui uno stravolgimento dei ruoli del giudice della legittimità e del giudice di merito, davanti al quale generalmente si forma il diritto vivente, anche attraverso una pluralità di punti di vista di orientamenti che poi, appunto, quando finalmente giungono all'esame della Corte di Cassazione possono, allora – e solo allora – trovare una soluzione più consapevole da parte del giudice della legittimità proprio in relazione al dispiegarsi di prospettive, di casi concreti, di risposte dei giudici di merito che sono andate nel tempo affrontando – e sedimentando – aspetti specifici che poi rendono a quel punto necessaria la decisione della Corte di Cassazione.
Non è questa la sede per sciogliere qui i dubbi in ordine a questo istituto né chi scrive ne ha la adeguata competenza[9].
Può però essere utile ribadire che, nella prospettiva che qui si intende offrire, il rinvio pregiudiziale “interno” dimostri come si vada sempre di più sviluppando nell'ambito della giurisdizione una prospettiva che non fa del giudice solo il “decisore della causa”, cogliendone la prospettiva volta a cooperare insieme ad altri organi giurisdizionali alla più efficiente ed effettiva soluzione della controversia.
Un giudice di merito, dunque, che ha ben chiaro come la funzione nomofilattica propria della Corte di Cassazione in base all'articolo 65 della legge sull'ordinamento giudiziario oggi si nutra in via diretta del suo attivo apporto, tenuto ed evidenziare tanto la complessità della questione rinviata, quanto la possibilità che la norma si offra a diverse interpretazioni sulle quali la Corte di Cassazione ancora non si è pronunciata (cfr., art.363 bis, primo comma, n.3 c.p.c.: “l’ordinanza che dispone il rinvio pregiudiziale…reca specifica indicazione delle diverse interpretazioni possibili”). Un giudice, dunque, che impegna sé stesso non nella individuazione di “una interpretazione” utile per la decisione – attività che tradizionalmente egli è chiamato a svolgere – ma che deve farsi carico di delineare le “diverse interpretazioni possibili”.
Il che tratteggia un “fine” del ruolo del giudice di merito davvero significativamente diverso da quello svolto nella domanda di rinvio pregiudiziale “esterno” nel quale egli può – secondo le Raccomandazioni stilate dalla Corte di giustizia[10] – offrire la “sua interpretazione” della questione rimessa alla Corte di giustizia, non dovendosi dar carico di mettere a servizio del giudice UE le eventuali possibili interpretazioni alternative.
Diversità apparentemente sottili che sembrano tuttavia capaci di traghettare, in modo forse fin qui non adeguatamente preso in considerazione, verso un nuovo modo di esercizio della giurisdizione.
Ora, quello del rinvio pregiudiziale alla Cassazione che il Prof. Biavati, sulle colonne di Giustizia insieme aveva immaginato, quando si era ancora dentro l’emergenza pandemica, come un sogno per l’operatore del diritto[11], è dunque diventato realtà in una prospettiva che al contempo alimenta l’idea del giudice dialogante, ma soprattutto quella della necessità di aumentare gli strumenti idonei a creare efficienza, rapidità ed effettività al sistema processuale.
E non è qui possibile soffermarsi sulle ormai numerose e importanti decisioni adottate dalle sezioni semplici e dalla S.U. civili della Cassazione in campo processuale e sostanziale attraverso il rinvio pregiudiziale interno. Decisioni che, anche quando sono state di inammissibilità, contengono un fascio di elementi di sicuro interesse “nomofilattico” – al punto da essere pubblicate sul sito della Corte – che ancora di più accresce il significato del ruolo del giudice di merito. Un ruolo di “costruttore” che ha comunque chiesto una decisione alla Corte di cassazione, alla quale la decisione di inammissibilità si accompagna con una motivazione ricca di indicazioni e di elementi essi stessi dotati del nuovo carattere che assumendo il giudice di legittimità. Un ruolo parallelo, quello svolto in sede di ammissibilità – che si arricchiscono dello studio preliminare affidato ad una struttura appositamente costituita e composta da esponenti istituzionali della Corte stessa, a quello del decisore di principi di diritto che è esso stesso segno di profondo cambiamento della immagine della Corte e del suo ruolo.
Orbene, le considerazioni qui esposte sembrano pienamente valere anche con riguardo all’istituto della revocazione “europea” introdotta dall’art.391 quater c.p.c.
Invero, l’art.391 quater c.p.c. sembra dimostrare quanto il legislatore dell'ultima riforma abbia avuto particolare attenzione al tema della giustizia della decisione resa dalle Corti nazionali e quindi abbia guardato con particolare attenzione al tema della possibile contrarietà di una decisione, pur se passata in giudicato, con i canoni che attengono: a) al rispetto dei diritti fondamentali della persona; b) alla possibilità di rivedere il giudicato formatosi a livello interno in ragione della pronunzia della Corte europea dei diritti dell'uomo che abbia accertato la violazione di un diritto fondamentale tutelato dalla CEDU o dai suoi protocolli.
Ad avviso di chi scrive si tratta di un’ulteriore dimostrazione di quella esigenza di effettività che irradia sempre di più o vorrebbe irradiare sempre di più il processo civile italiano; un processo civile che, dunque, affida alla Corte di Cassazione la cognizione dei giudizi di revocazione di sentenze “anticonvenzionali” passate in giudicato anche se non rese dalla stessa Corte di Cassazione, ma appunto sentenze che sono divenute irretrattabili innanzi al giudice di merito o per effetto della dichiarazione di inammissibilità del ricorso per Cassazione.
Dunque, un istituto che ancora una volta valorizza il ruolo della Corte di Cassazione e che, dunque, ancora una volta suscita apprezzamenti o perplessità, a seconda della prospettiva che anima i commentatori e gli studiosi e di questa disposizione.
Da un lato, infatti, vi è chi vede nella legislazione più recente una tendenza alla gerarchizzazione della giurisdizione di merito rispetto alla Corte di Cassazione. Si assume, dunque, che questa ipotesi di revocazione, accentrando innanzi al giudice di legittimità i giudizi di revocazione per contrarietà alla CEDU, rappresenterebbe un ulteriore (ed innaturale) trasformazione dei rapporti fra giudice nazionale e giudice sovranazionale orientata a creare una sorta di sottomissione e soggezione del primo al secondo che invece si contesta aspramente, evidenziandone il contrasto con lo o spirito costituzionale e che promana dall'articolo 101 Cost.
Altri, per converso, guardano con favore a questo nuovo istituto, ritenendo che esso appunto spinga verso una maggiore attenzione del processo verso la sua “giustizia”. Di guisa che anche il valore del giudicato – un punto cardinale dell'esperienza giuridica italiana ma anche delle esperienze giuridiche dei paesi dell'unione europea – può essere rivisto dalla Corte di Cassazione nella misura in cui il giudice della Corte europea dei diritti dell'uomo abbia acclarato la contrarietà della decisione nazionale rispetto al parametro convenzionale.
Non spetta a chi scrive sciogliere i dubbi, ma semmai cogliere anche nell’art.391 quater cpc quegli accenti che orientano verso una dimensione sempre più circolare e cooperativa delle giurisdizioni, nazionali e sovranazionali, proprio al fine di garantire risposte giudiziari efficaci ed effettivi e sempre in linea con i valori fondamentali della persona.
L’art.391 quater c.p.c. – unitamente all’art362 ult.c. c.p.c. – rappresenta, infatti, un riconoscimento forte della centralità dei diritti fondamentali nell'esperienza giuridica nazionale, al netto dei dubbi interpretativi che ancora permangono in ordine all’ambito oggettivo della previsione che sembra limitare la revocazione alle ipotesi in cui vi sia stata un accertamento della violazione di un diritto di Stato. Uno scenario che orienta obbligatoriamente lo sguardo sul tema delle violazioni dei diritti fondamentali ma anche sui canoni di effettività della tutela giurisdizionale di cui si diceva e sulla necessaria cooperazione fra giudice nazionale e CEDU anche nella fase rescissoria della pronunzia resa in violazione della norma convenzionale.
Ed è proprio con la revocazione che si apprezza ancora di più quell’idea di cooperazione fra diversi plessi giurisdizionali, nazionali e sovranazionali che caratterizza il processo di “trasformazione” della giurisdizione.
Immaginare, infatti, che sia proprio la Corte di cassazione a decidere la revocazione – per la quale è attivamente legittimato oltre alla parte vittoriosa a Strasburgo anche il Procuratore generale – della decisione contraria a pronunzia della Corte edu, con uno strumento che opera in funzione “nomofilattica” – essendo adottato all’esito di un’udienza pubblica e con la presenza obbligatoria del Procuratore generale – imporrebbe di cogliere nella misura normativa introdotta dal legislatore l’idea di una funzione regolatoria ancora una volta collaborativa, cooperativa e partecipata, alla quale offrono elementi importanti anche le pronunzie della Corte edu che occorre prendere in considerazione per eliminare, in sede di revocazione, gli effetti della violazione convenzionale accertata.
Si potrebbe allora dire che, in tal modo ragionando, tutto torna. Tutto si allinea, tutto si tiene. Un tutto che ha basi che sembrano a chi scrive profondamente diverse da quelle che reggevano il sistema di tutela giurisdizionale fino a pochi lustri fa.
Basi che tendono, dunque, a realizzare una transizione dal periodo di/delle emergenza/e nelle intenzioni orientata a perseguire obiettivi che hanno sempre e comunque al centro il valore irripetibile della persona, ben consapevoli della difficoltà che attraversano i sistemi processuali.
Sembra così meno aspro il cammino per comprendere che il passaggio della nomofilachia da strumento verticale a modus come si diceva sopra “orizzontale”, partecipato[12].
Una nomofilachia che, superata l’emergenza pandemica, sembra volere approdare in maniera stabile su un terreno in parte nuovo: quella della nomofilachia cooperativa che si nutre anche all’interno della Corte di cassazione di nuovi e rinnovati momenti di confronto fra sezioni appartenenti a settori diversi, ma unite dai temi che vengono in gioco trasversalmente – vittima, migrazioni, rapporti fra giudizio civile e giudizio penale, motivazione dei provvedimenti – o attraverso l’espansione dei protocolli con altre Corti superiori nazionali e sovranazionali ma anche con gli Avvocati, attori protagonisti della giustizia insieme alla giurisdizione.
Tutto questo tende progressivamente ad emarginare l’idea che la funzione nomofilattica appartenga, come si diceva, esclusivamente alla Corte di Cassazione, divenendo progressivamente più condivisa con i diversi protagonisti che, come si è visto, alimentano continuamente l’attività della Corte di cassazione e con la stessa condividono a pieno titolo l’esigenza di fare “nomofilachia”.
Un processo, quest’ultimo che, d’altra parte, è pienamente coerente con il ruolo assunto dalla Corte di Cassazione rispetto alla “forza” della giurisprudenza sovranazionale delle Corti europee – Corte di giustizia UE e Corte europea dei diritti dell’uomo –. Una forza capace di condizionare le scelte interpretative del giudice di ultima istanza nazionale, soprattutto quando si afferma che il giudice di merito nazionale è legittimato a non adeguarsi ai principi espressi dalla Corte di cassazione se contraria al diritto UE, potendo egli stesso disapplicarli per dare prevalenza al diritto UE come interpretato dalla Corte di giustizia dell’UE.
7.1 B) La riforma del rinvio pregiudiziale “esterno” e la ricerca ultima di un sistema effettivo e celere nelle relazioni fra giudici.
Considerazioni parallele sembrano d’altra parte doversi fare se si guarda alle modifiche della competenza in tema di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE. Strumento, quest’ultimo, che d’altra parte si intreccia quasi naturalmente con il rinvio pregiudiziale interno, come ci era capitato di evidenziare in altra occasione[13].
Non si intende, come già accennato all’inizio, qui approfondire gli aspetti problematici che vedono il Tribunale UE dotato di una competenza in sede di rinvio pregiudiziale, amputata delle questioni che riguardano i principi fondamentali, l’ordine pubblico internazionale e per di più soggetta ad un vaglio preliminare in ordine alla competenza di quello stesso giudice, in entrata e di controllo di legittimità in caso di impugnazione del rinvio pregiudiziale. Né è qui il caso di ragionare sulle modalità scelte per realizzare questa transizione fra il vecchio ed il nuovo rinvio pregiudiziale sulla quale in passato già si avuto modo di riflettere[14].Serve, piuttosto, sottolineare la prospettiva che sembra animare la riforma del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia con la individuazione di specifiche materie che vengono attribuite al Tribunale per rendere più leggero il lavoro della Corte di giustizia così consentendole, a sua volta, risposte più efficaci ed effettive in termini temporali, ma anche individuando nella Corte di giustizia il giudice dei diritti fondamentali dell'Unione europea, il giudice che veglia e verifica la compatibilità dei sistemi nazionali con il quadro dei principi fondamentali.
Considerazioni, queste ultime, scolpite nel considerando n.4 del Reg. EURATOM n.2024/2019, ove si afferma che “la Corte di giustizia, nell’ambito di cause pregiudiziali, è sempre più chiamata a pronunciarsi su questioni di natura costituzionale o relative ai diritti umani e alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea («Carta»)”.
Un meccanismo, nelle intenzioni del legislatore – e della stessa Corte di giustizia che ha proposto la modifica normativa – orientato a spingere l’acceleratore sull’efficienza e che investirebbe pur sempre nel dialogo fra giudice e giudice che ha consentito di edificare i basamenti giuridici dell’Unione europea. Di ciò, del resto, si coglie testuale conferma se si getta un occhio sul primo considerando del Reg. EURATOM n.2024/2019 ove si legge che “Un siffatto trasferimento corrisponde, del resto, alla volontà degli autori del trattato di Nizza, che hanno inteso rafforzare l’efficacia del sistema giurisdizionale dell’Unione prevedendo la possibilità di un coinvolgimento del Tribunale nel trattamento di tali domande.”
In definitiva, la riforma qui ricordata è stata mossa da un'idea di valorizzare al massimo il ruolo della Corte di giustizia nella sua missione di garante dei diritti fondamentali in modo da offrire livelli di tutela omogenei all’interno dell’UE. Dunque, un’idea di centralità dei diritti fondamentali i quali meritano, secondo il legislatore europeo che ha modificato il regolamento dello statuto della Corte, una risposta più celere. Infatti, la Corte di giustizia, sgravata da alcune competenze, a dire del legislatore (e della stessa Corte che ha patrocinato le modifiche normative) dovrebbe operare in tempi più ridotti.
Anche questa trasformazione, dunque, si presta a una riflessione rispetto al tema del quale discutiamo, poiché si tratta di modifica processuale radicale che viene proposta, in prospettiva, come funzionale alla migliore tutela dei diritti.
Ed in questo appare evidente il filo comune fra scelte legislative sul piano interno e politiche legislative europee, indirizzate entrambe a prendere per mano l’emergenza nella quale i diritti fondamentali delle persone erano stati messi a dura prova ed a confezionare riforme – astrattamente possibili da tempi non recenti ma accelerate dalle emergenze di cui si è detto – destinate, ancora una volta, ad una modifica dell'assetto della giurisdizioni in modo non transeunte, non eccezionale ma appunto sistemico ed organico.
7.2. C) Il valore fondamentale dei diritti umani nell’epoca delle emergenze.
Non resta che far cenno alle pronunzie delle Sezioni Unite di cui si è detto dedicando due riflessioni.
In entrambe le decisioni si è visto che la riflessione operata sul diritto alla salute è stata fortemente condizionata dalla situazione emergenziale della pandemia da COVID-19, ove è emerso ancora di più nella sua dimensione più profonda e complessa, rivelando non solo la necessità di una tutela concreta ed effettiva per ogni individuo, indipendentemente dal contesto sociale o territoriale in cui si trova, ma anche l’emersione di un concetto che, accanto al concetto di salute individuale, comprende quello di salute collettiva.
In tale contesto, la centralità del diritto alla salute emerge con forza, specialmente quando è oggetto di tutela in situazioni di emergenza sanitaria come quella che abbiamo vissuto. Il distanziamento sociale introdotto con la normativa emergenziale non è stato, dunque, semplicemente una misura contenitiva imposta, rappresentando piuttosto la concretizzazione di quel nucleo intangibile del diritto alla salute che il legislatore ha voluto preservare in modo assoluto. Le disposizioni normative emanate durante la pandemia – come i decreti-legge e i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri – hanno chiaramente definito le modalità di applicazione di questa tutela, attribuendo alla salute una priorità indiscutibile. Il diritto al distanziamento sociale ha così assunto una dimensione cogente e priva di discrezionalità, al punto che l’amministrazione (o potere pubblico) non gode di alcuna possibilità di deroga o di adattamento se non di quelle previste dalla legge. Ciò perché l'obbligo di garantire una distanza interpersonale di almeno un metro era una misura fissa, predeterminata, volta a prevenire il contagio e a proteggere tanto gli individui quanto la collettività che resiste all'intervento del potere pubblico. Questo concetto è stato ritenuto particolarmente rilevante in contesti come quello dell'accoglienza dei richiedenti asilo – considerandone la posizione di vulnerabilità – dove l'amministrazione non può esercitare alcuna discrezionalità nella tutela di diritti fondamentali. Nel caso del distanziamento sociale nei centri di accoglienza, la pubblica amministrazione e i gestori dei centri sono stati quindi ritenuti vincolati a garantire queste misure senza possibilità di adattamenti proprio per garantire la protezione dei più vulnerabili. Per questo, il caso specifico del distanziamento sociale durante la pandemia ha mostrato che anche in momenti di crisi ed eccezionali, il diritto alla salute sia cruciale non solo per il singolo ma per l'intera collettività, ed è proprio questa interconnessione tra individuo e comunità che conferisce al diritto alla salute un carattere assoluto e inviolabile.
Si può dunque concludere che anche la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, chiamata a fissare dei principi stabili in tema di giurisdizione, ha valorizzato la centralità dei diritti dell’uomo e, in particolare, del diritto alla salute, nella sua dimensione individuale e plurale, confermando che ogni sistema democratico, anche in periodi di emergenze, è tenuto a garantire i diritti della persona soprattutto quando emerge il suo lato più vulnerabile, loro offrendo quella protezione impedendo che il periodo eccezionale potesse trasformarsi in un accorciamento delle tutele apprestate dal diritto alla salute: dimensione, dunque, incomprimibile dal pubblico potere o comunque modulabile solo se e quando la legge ne consenta in termini vincolati la regolazione, in linea con la tutela della persona, della Costituzione e delle Carte internazionali.
7.3. D) Il ruolo del diritto vivente nella gestione delle emergenze e delle transizioni.
Ma vi è un’ultima riflessione che si intende qui offrire.
Ed è appunto che, ancora una volta, anche nei fenomeni che si è inteso qui sommariamente affrontare, la dimensione statica delle riforme e la finalità dalle stesse patrocinata di porsi come architrave di un sistema in vari punti modificato dalle fondamenta non potrà che passare attraverso l’applicazione concreta che di quelle nuove regole farà il giudice – recte, i giudici –.
Sono talmente tante e spinose le questioni interpretative, qui solo accennate, che le modifiche legislative introdotte sul piano sia del processo civile interno che su quelle del rinvio pregiudiziale alla giurisdizione dell’Unione europea – oggi pleno iure individuata in plessi diversi anche per quel che riguarda il rinvio pregiudiziale – a demandare al law in action la parola concreta sul senso delle riforme, sulla loro effettiva portata, sulla loro capacità di perseguire realmente gli obiettivi di sistema decantati. Basta qui rammentare i dubbi che si porranno per l’individuazione in concreto dei casi che saranno riservati all’esame della Corte di giustizia rispetto a quelli demandati al Tribunale. E ciò per evidenti ragioni connesse, per un verso, allo sviluppo del procedimento pregiudiziale nel contraddittorio fra le parti e, per altro verso, alla persistente possibilità che il Tribunale ritenga di ravvisare ragioni ulteriori per rimettere l’esame del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia. Questioni che, come si diceva, involgono l’interpretazione e valutazione del rinvio pregiudiziale e, verosimilmente degli elementi offerti ai fini della decisione.
In questa direzione, del resto, attenta dottrina ha evidenziato che solo una verifica a posteriori di come la Corte di giustizia intenderà svolgere il ruolo in sede di “sportello unico” ai fini dello smistamento dei rinvii pregiudiziali tra Corte di giustizia e Tribunale e, ancora, sulle modalità che il Tribunale sceglierà per esercitare la facoltà, pure allo stesso riservata, di restituire il ricorso per rinvio pregiudiziale inviato dalla Corte di giustizia, ritenendo che appunto siano in discussione e i principi che attengono all'unità del diritto Ue[15].
Il che dimostra, per un verso, quanto solo l'applicazione pratica delle riforme in tema di rinvio pregiudiziale ed il diritto vivente – anche europeo[16] – che si creerà per realizzare la transizione fra vecchio rinvio pregiudiziale e nuovo, arricchito da elementi di rilevazione delle attività compiute dalla Corte di giustizia e dal Tribunale potranno dimostrare non solo la reale portata della riforma in tema di rinvio giudiziale, ma anche la reale la utilità dello stesso rispetto ai fini che stavano alla base della riforma stessa.
Per altro verso, sembra marginalizzata l’immagine che ancora viene a volte patrocinata circa un netto confine tra legislazione e giurisdizione, questa risultando davvero destinata ad essere soppiantata dal principio di leale cooperazione, arricchito da una dose non marginale di buona fede e fiducia reciproca[17].
Un principio dunque, che lasciando da parte le contrapposizioni ideologiche, deve alimentare le relazione, inevitabili, fra giudici e giudici e fra giudici e legislatori, riconoscendo gli uni agli altri le rispettive competenze pur nella consapevolezza che il diritto vivente delle Corti è quello che dà anima e concretezza al diritto scritto, lo fa respirare in un contesto dentro il quale vivono le norme, denso di contenuti costituzionali senza i quali la disposizione non può essere intesa nella sua portata.
[1] Testo rielaborato e corredato di minimi riferimenti bibliografici di un Intervento al panel su Transizioni ed emergenze, squilibri istituzionali, riflessi al piano delle dinamiche della normazione, nell’ambito della V Conferenza annuale di ICON-S Italian Chapter su Lo stato delle transizioni, Trento 18-19 ottobre 2024.
[2] Un’intervista impossibile a Guido Calabresi, a cura di R. Conti, Giustizia insieme, 13 settembre 2021.
[3] Una ulteriore riforma particolarmente incisiva - ancorché controversa - è stata quella delle proposte di definizione accelerata introdotta dall’art.380 bis c.p.c.- c.d. pda-. Si tratta di un sistema che in realtà tende a definire i giudizi che il consigliere relatore ritiene inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati e che, previa comunicazione ai difensori della proposta di definizione accelerata, può determinare la definizione del processo se e le parti non chiedono fissarsi comunque l'udienza in camera di consiglio ritenendosi appunto in caso di assenza di questa richiesta il ricorso rinunciato. Questo istituto, oggetto di notevole dibattito tanto a livello giurisprudenziale che ancora prima a livello accademico, ha trovato già alcune risposte da parte del diritto vivente. La giurisprudenza si è soprattutto interrogata sulla possibilità che in caso di richiesta di udienza camerale il collegio debba o meno prevedere obbligatoriamente l'assenza del consigliere che aveva redatto la proposta di definizione accelerata. In questa prospettiva le sezioni unite hanno ritenuto che la partecipazione al collegio del consigliere estensore della proposta di definizione anticipata non determinasse alcun vulnus ai diritti delle parti-v.Cass.S.U. n.9611/2024-. Non può chiudersi questa veloce rassegna sulle riforme processuale senza accennare alla gestione delle udienze in Corte di Cassazione durante il periodo dell’emergenza pandemica-art. 83, comma 7 lett. f) D.L. n.18/2020- che hanno consentito l’adozione di modalità a distanza per consentire lo svolgimento delle attività che erano state paralizzate dal Covid. Misure che, gestite nell’emergenza mediante Protocolli stilati con il CNF, hanno poi visto il quasi totale abbandono delle misure eccezionali, ormai divenute “eccezionali” nel periodo di transizione proprio perché collegate all’esigenza di situazioni eccezionali.
[4] Da un lato, sono state eliminate le sezioni filtro originariamente istituite per la definizione de contenzioso cosiddetto seriale; dall'altro lato è stata unificata la disciplina dei ricorsi definiti con il rito camerale, in modo da prevedere, in linea con quello che già era stata una caratterizzazione delle precedenti riforme del rito della Cassazione e cioè la udienza pubblica soltanto per i ricorsi che presentavano realmente valenza nomofilattica e che quindi richiedevano una particolare vaglio da parte della Corte di Cassazione nonché l'intervento obbligatorio del Procuratore generale all'udienza pubblica. Questo ha di fatto ridotto il sistema di definizione dei ricorsi con il sistema dell’udienza pubblica ed ha omogeneizzato il rito per i procedimenti camerali.
[5] Sul punto, non è infatti superfluo ricordare che tra le garanzie strumentali alla tutela processuale dei diritti fondamentali nel sistema della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo si colloca anche il diritto alla pubblicità dell’udienza previsto dall’articolo 6, § 1 CEDU. Sul piano interno, tuttavia, la giurisprudenza ha ritenuto che il principio di pubblicità dell'udienza di rilevanza costituzionale e convenzionale non rivesta carattere assoluto e possa essere derogato in presenza di «particolari ragioni giustificative», ove «obiettive e razionali» (Corte cost., sent. n. 80 del 2011) -cfr. di recente Cass., S.U., n. 165/2023-. Il principio della pubblicità del giudizio che si svolge dinanzi ad organi giurisdizionali, pur costituendo un cardine dell'ordinamento democratico, fondato sulla sovranità popolare sulla quale si basa l'amministrazione della giustizia in Italia (art. 101, comma I Cost.), non trova, peraltro, un'applicazione assoluta (Corte cost. nn.50/1989, 69/1991, 373/1992, 235/1993), potendo essere legittimamente limitato, oltre che nell'interesse della morale, dell'ordine pubblico, della sicurezza nazionale, dei minori o della vita privata delle stesse parti del processo, anche nell'interesse stesso della giustizia (Cass., S.U., n. 7585/2004). Il fattore tempo è intervenuto anche con riferimento a tale diritto nel periodo di emergenza pandemica per effetto dell'art. 23, comma 8 bis, del d.l. n. 137 del 2020, conv. con modif. dalla l. n. 176 del 2020. Sul punto Cass., S.U., n. 2610/2021, Cass., S.U., n. 11546/2022 hanno ritenuto che l'individuazione del rito per la decisione dipende dalla diretta volontà della legge, che stabilisce che si debba procedere automaticamente in camera di consiglio senza l'intervento del procuratore generale e dei difensori delle parti, salvo che una delle parti o il procuratore generale facciano richiesta di discussione orale entro il termine di venticinque giorni liberi prima dell'udienza e che, in mancanza di tale richiesta, alle parti non è consentito di partecipare alla discussione nell'udienza ex art. 379 c.p.c., senza che ciò rechi ostacolo all'esercizio del diritto di difesa. Analogamente, le sezioni quinta e terza penale della Corte di Cassazione (Cass., n. 17781/2022; Cass., n. 19431/2022) hanno ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 83, comma 7, d.l. 17 marzo 2020, n.18, 23 d.l. 23 ottobre 2020, n. 137 e 23 d.l. 9 novembre 2020, n. 149, per contrasto con gli artt. 24, 111 e 117 Cost. in relazione all'art. 6 CEDU, nella parte in cui, nel vigore della disciplina emergenziale per il contrasto della pandemia da Covid-19, hanno previsto la trattazione della causa secondo l'ordinaria disciplina processuale solo in caso di tempestiva richiesta della parte, “in quanto la limitazione dei diritti di rango costituzionale e convenzionale posti a presidio delle garanzie procedurali dell'imputato è frutto di una scelta discrezionale del legislatore, non manifestamente irragionevole o arbitraria, ma giustificata dal bilanciamento con altri principi di pari rango, quali il diritto alla vita e alla salute.”
[6] Entrambi mirano a garantire una interpretazione corretta e uniforme delle norme, sia a livello nazionale (Corte di Cassazione) sia a livello sovranazionale (Corte di Giustizia UE. Entrambi i rinvii pregiudiziali puntano a risolvere questioni giuridiche complesse attraverso il dialogo tra giurisdizioni, migliorando l'uniformità e la coerenza interpretativa del diritto. In entrambi i casi, i giudici di merito si pongono in un rapporto di cooperazione con la Corte superiore, ricevendo chiarimenti che consentono loro di risolvere correttamente le controversie in corso. Sia il rinvio pregiudiziale interno che quello alla CGUE si basano su un dialogo continuo tra i giudici, finalizzato a garantire una giustizia più efficace e coerente. Tratti in parte diversi. Il ruolo del giudice nazionale rispetto alla Corte di giustizia UE-offre la sua interpretazione su come interpretare la norma Ue secondo le raccomandazioni della Corte di giustizia. Infatti, nel rinvio pregiudiziale “interno” il giudice di merito deve dare conto delle diverse possibili interpretazioni della norma ai fini della ammissibilità del rinvio pregiudiziale. Dunque, il giudice di merito si fa “costruttore del significato della norma al punto che, se non offre indicazioni sulle diverse possibili interpretazioni, il rinvio pregiudiziale sarà dichiarato inammissibile. Un qualcosa di diverso- forse di molto diverso - dalla mera opinione sul rinvio pregiudiziale “esterno” che, secondo le Raccomandazioni predisposte dalla Corte di Giustizia UE – il giudice nazionale può inserire nella richiesta di rinvio pregiudiziale. Il che dimostra, in entrambe le ipotesi, la differenza notevole fra il ruolo del giudice di merito in questo contesto e quello del “decidere”, del “giudicare”.
[7] V., volendo, R.G. Conti, L’esecuzione delle sentenze della corte edu in ambito civile e la nuova ipotesi di revocazione “europea”, art. 391-quater c.p.c., in G. Lattanzi, M. Maugeri, G. Grasso, L. Calcagno, A. Ciriello (a cura di), Il diritto europeo e il giudice nazionale, Giuffré, Milano, 2023, Vol. II.II, 285 ss.
[8] V., volendo, R. Conti, L’effettività del diritto comunitario ed il ruolo del giudice, in Eur. Dir.priv., 2007, 2,479 ss.
[9] Si può soltanto ricordare un'esperienza concreta vissuta da giudice tributario che, parte della Corte di giustizia tributaria di merito di Agrigento – in https://www.cortedicassazione.it/page/it/ordinanza_di_rinvio_pregiudiziale_del_31032023_con_rg_4282023__ufficio_di_merito_corte_di_giustizia_tributaria_di_i_grado_di_agrigento_con_rg_392021?contentId=RPC7362 – ha proposto un rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione sul tema collegato al riparto delle giurisdizioni che in Italia sono suddivise tra giudice ordinario, giudice amministrativo, giudice contabile il giudice tributario che appunto proprio in una questione che riguardava un contributo introdotto dalla legislazione emergenziale in favore delle imprese per effetto della vicenda pandemica aveva posto e poneva un dubbio in ordine alla giurisdizione del giudice tributario o del giudice ordinario sulla contestazione da parte del contribuente in ordine alle ragioni del rigetto della richiesta di contributo avanzata all’amministrazione pubblica. In questa occasione, non rinvenendo precedenti specifici che riguardavano la disciplina normativa di recente introduzione sul contributo di cui ho detto e rilevando la ricaduta della decisione in punto di giurisdizione del giudice tributario o del giudice ordinario su un numero consistente di controversie simili, la Corte di giustizia tributaria di primo grado ritenne di chiedere alla Corte di Cassazione di risolvere i dubbi in ordine alla portata della disciplina sui contributi in materia di covid al fine di chiarire se fosse di competenza del giudice ordinario o del giudice tributario. La complessità della vicenda nasceva dal dubbio che il giudice tributario di merito potesse rivolgersi alla Corte di Cassazione ed avvalersi dello strumento di cui all’art.363 bis c.p.c. per risolvere un dubbio che atteneva alla controversia pendente innanzi a sé. Dubbio che la Corte di Cassazione ha dipanato per un verso ritenendo che il giudice tributario di merito è legittimato a chiedere alla Corte di Cassazione il rinvio pregiudiziale di cui all'articolo 363 bis cpc. Dall'altro lato le S.U.-Cass.S.U.n.34851/2023 (in https://www.cortedicassazione.it/resources/cms/documents/34851_12_2023_civ_oscuramento_noindex.pdf- e poi, risolvendo il dubbio interpretativo sulla portata della disposizione in tema di giurisdizione nel senso che le controversie relative al contributo covid erano di competenza del giudice della giurisdizione ordinaria. Ora, questa decisione intervenuta a poco più di tre anni di distanza dall'entrata in vigore della legge che riguardava il contributo previsto per imprenditori colpiti dalla crisi post Covid, ha indubbiamente definito in tempi celeri, peraltro con l'autorevolezza della pronunzia delle Sezioni unite della Cassazione una questione che, altrimenti, avrebbe dato luogo a decisioni contrastanti capaci di produrre incertezza negli anni a venire in ordine alla competenza giurisdizionale del giudice ordinario o del giudice tributario e, dunque, ha contribuito a garantire l'effettività e l'efficienza del sistema giudiziario nel suo complesso. La stessa decisione ha poi chiarito che il rinvio pregiudiziale ha finalità “nomofilattico-deflattive” e si pone in funzione complementare rispetto al sistema previsto per la risoluzione delle questioni di giurisdizione, essendo funzionale alla enunciazione di un principio di diritto suscettibile di applicazione in un numero indefinito di giudizi aventi ad oggetto la medesima questione.
[10] Raccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale, 4 ottobre 2024, C/2024/6008, in https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=OJ:C_202406008.
[11] P. Biavati, Note sul processo civile dopo l’emergenza sanitaria, Giustiziainsieme, 15 luglio 2020.
[12] Per uno sviluppo di quanto esposto nel testo sia consentito il rinvio a R. Conti, Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I "volti" delle Corte di Cassazione a confronto, in questa Rivista, 4 marzo 2021.
[13] V., volendo, R. Conti, I rapporti tra rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione e rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, in Il diritto tributario nella stagione delle riforme. Dalla legge 130/2022 alla legge 111/2023, a cura di E. Manzon e G. Melis, Ebook Giustizia Insieme, 2024, 97 ss. Più di recente, S. Pini, Un (possibile) dialogo tra l’ordinamento dell’Unione e quello nazionale. Le «cause pilota» e il rinvio pregiudiziale avanti la Corte di cassazione, in Rivista del Contenzioso europeo, Fasc. n. 2/2023, pp. 45 ss.
[14] V., volendo, R. Conti, La proposta di modifica dello Statuto della Corte di giustizia UE in tema di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE, in Giustiziainsieme, 8 luglio 2024; id., C’era una volta il rinvio pregiudiziale. Alla ricerca della fiducia – un po’ perduta – fra giudici nazionali ed europei, in corso di pubblicazione su eurojus.
[15] cfr. C. Amalfitano, The Transplant of Procedural Rules from the Court of Justice to the General Court, in EU Law, 24 luglio 2024, Live.
[16]Cfr., per il riferimento al “diritto vivente europeo”, rivolto alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, Corte cost.nn.43/2018, 145/2020, 121/2023.
[17] A. Ruggeri, Il principio personalista e le sue proiezioni, in Federalismi, 28 agosto 2013; G. Pitruzzella, Il rinvio pregiudiziale nel sistema costituzionale dell’Unione europea, in Il diritto europeo e il giudice nazionale, a cura di G. Lattanzi, M. Maugeri, G. Grasso, L. Calcagno, A. Ciriello, Milano, 2023 vol.1, Il diritto dell’Unione europea e il ruolo del giudice nazionale, cit.,556. Sia consentito il rinvio a R.G. Conti, Dall’uso alternativo all’uso cooperativo del diritto nell’esperienza di un giudice comune, in Sistemapenale, 25 giugno 2024.
Immagine: Winslow Homer, Northeaster, olio su tela, 1895, Metropolitan Museum of Art, Gift of George A. Hearn, 1910.
La nomina dei dirigenti degli uffici giudiziari: il nuovo testo unico
di Claudio Castelli
Sommario: 1.Un nuovo testo unico era necessario sia perché imposto dalla legge, sia per superare la eccessiva discrezionalità prima esistente - 2. Il D.Leg. 28.3.2024 n. 44 ha cambiato il quadro normativo ed ha dettato nuove regole su procedura, criteri, fonti di conoscenza e parametri di valutazione - 3. Il fine della scelta dei dirigenti deve essere non soddisfare le esigenze di carriera dei magistrati, ma garantire agli uffici la persona più capace con trasparenza - 4. Le due diverse proposte elaborate dalla Commissione Direttivi recuperavano le migliori esperienze passate sulle nomine: l’adozione di punteggi per merito e attitudini e l’introduzione di fasce di esperienze giudiziarie (non più di anzianità come nel passato). Proposte entrambe differenziate a seconda della tipologia di incarico (direttivo o semidirettivo, giudicante o requirente, di primo, secondo grado o di legittimità) e delle dimensioni dell’ufficio - 5. Elementi comuni alle due proposte era la pubblicità, la trasparenza, la standardizzazione delle domande. Anche se il Consiglio non si è posto il problema della “fuga” dagli incarichi direttivi e semidirettivi che vi è almeno per alcuni incarichi ed alcune zone del Paese - 6. La proposta per fasce di esperienze procede con due differenti modalità di selezione: - una per i posti semidirettivi, i direttivi di piccole e medie dimensioni e gli uffici specializzati che individua una fascia di 6 anni a partire dall’aspirante con maggiore esperienza o comunque avere un’esperienza in uffici omologhi a seconda degli uffici di 12 - 15 - 18 anni (civile, penale o specializzato) con una progressiva selezione sulla base di ulteriori requisiti molto specifici, - l’altra per i Tribunali di medie e grandi dimensioni, per le Corti e le relative Procure sulla base di una valenza decrescente di parametri derivanti dalle esperienze organizzative svolte - 7. La proposta per punteggi individua undici parametri che si rifanno agli elementi citati dal nuovo art. 46 octies (a partire da merito e capacità organizzativa) per poi articolare per ciascuno di essi un punteggio differenziato a seconda del tipo di incarico e di ufficio richiesto - 8. Entrambe le proposte recuperano le esperienze giudiziarie svolte, cosa diversa dalla tradizionale anzianità nel ruolo. Ed entrambi preservano la discrezionalità del Consiglio - 9. I limiti: il sistema per fasce rischia di essere eccessivamente automatico per gli incarichi per posti semidirettivi, direttivi di piccole e medie dimensioni e uffici specializzati e troppo discrezionale per gli altri posti - 10. Il sistema per punteggi è stato mal congegnato e in realtà privilegia eccessivamente l’anzianità e l’avere già svolto incarichi direttivi e semidirettivi oltre che tutte le “medagliette” conseguibili con nomine e incarichi di coordinamento - 11. Ora si tratta di superare critiche spesso preconcette e di far funzionare il sistema, superando gli opposti rischi di eccessivi automatismi o di eccessiva discrezionalità, con la disponibilità e capacità di verificarne e monitorarne la bontà, eventualmente apportando correttivi.
1. Un nuovo Testo Unico era necessario e inevitabile.
Nuove regole per la nomina dei magistrati direttivi e semidirettivi erano necessarie e dovute. Da un lato erano richieste dalla nuova legge[1] che aveva imposto norme più stringenti per le nomine e dall’altro erano imposte dallo scandalo Palamara che aveva evidenziato come di regole troppo lasche e di parametri virtuali si potesse fare agevolmente strame. Del resto il vecchio Testo Unico sulla dirigenza giudiziaria, approvato nel 2016, era nato con scopi nobili, ovvero di limitare ed indirizzare l’inevitabile discrezionalità del Consiglio, ed aveva introdotto e fissato una serie di indicatori generali e specifici oltre che una differenziazione per tipo di incarico e per dimensionamento dell’ufficio in modo da operare una selezione sulla base di parametri oggettivi. La realtà è che l’ampio numero degli indicatori introdotti e l’assenza di una gerarchia tra gli stessi aveva portato a poter giustificare qualsiasi scelta, facendo di volta in volta prevalere il candidato che si voleva. Una modifica era quindi inevitabile, oltre che imposta dalla legge Cartabia che dettava regole stringenti su tutti i profili: la procedura, le fonti da utilizzare e valorizzare, i parametri da adottare.
2. Le modifiche apportate dal Decreto Legislativo 28 marzo 2024 n.44.
La legge delega ed il successivo decreto legislativo n.44/2024 intervenivano su questo tema su diversi fronti. Imponeva una procedura regolata e trasparente, con il criterio cronologico nelle nomine e l’obbligo delle audizioni. Allargava il profilo delle fonti introducendo pareri da parte del Consiglio dell’Ordine degli avvocati, del dirigente amministrativo, dei magistrati dell’ufficio in caso di conferma) sempre assicurando il contraddittorio. Differenziava la valutazione dei candidati sulla base della natura dell’incarico (semidirettivo o direttivo, di primo, secondo grado o di legittimità o DNA specializzati) e delle dimensioni dell’ufficio da ricoprire (di piccole o medie dimensioni o di grandi dimensioni). Indicava i parametri sulla base dei quali doveva essere svolta la valutazione: merito, attitudini generali e specifiche. Aggiungeva alcune specifiche attività (i risultati avuti, l’analisi statistica, i provvedimenti adottati, la specializzazione, la varietà di esperienze, la conoscenza delle norme ordinamentali, l’aggiornamento professionale e la formazione, le capacità relazionali esterne). Elementi estremamente articolati e completi, forse fin eccessivi dato l’elevato numero di fattori da valutare, ma il cui rilievo veniva correttamente affidato al CSM.
3. Il fine cui tendere: dare dirigenti capaci con trasparenza.
Prima di passare all’esame delle proposte avanzate in Consiglio e delle scelte adottate è opportuno sottolineare che il risultato cui bisogna tendere non è soddisfare le esigenze di carriera dei magistrati aspiranti, ma garantire agli uffici la persona più capace e che dimostra ex ante le migliori attitudini. La trasparenza delle nomine è poi un obiettivo per l’intera società e per le comunità locali e non solo per i magistrati interessati. Proprio per garantire questi obiettivi occorrerebbe assicurare che le valutazioni sulle esperienze pregresse e sulle attività svolte dai singoli aspiranti si basino su di una reale disamina del concreto svolgimento delle stesse e non sul semplice “titolo” formale. Disamina che il Consiglio ha estrema difficoltà a fare, pur in presenza di un’estensione delle fonti di conoscenza, avendo ben pochi strumenti in tal senso ed avendo problemi a procurarseli. Il rischio è che la valutazione si arresti di fronte al dato formale di avere svolto un incarico e non a come è stato svolto e ai risultati effettivamente conseguiti. Sotto questo profilo, almeno per chi ha già svolto incarichi di dirigenza, sarebbe prezioso un esame, con inevitabile contraddittorio, delle performance avute e delle statistiche quali quantitative dell’ufficio.
4. Le vecchie esperienze rivisitate: i parametri per punteggi e le fasce di anzianità.
La Commissione del CSM si trovava ad elaborare la nuova Circolare in tempi estremamente ristretti e, opportunamente, pur non arrivando ad una proposta unitaria, si rifaceva nelle due diverse prospettazioni avanzate alle esperienze concrete più feconde avute nel passato. Da un lato i vecchi parametri per punteggi che fino agli anni 2000 avevano caratterizzato la nomina degli incarichi semidirettivi. Era un’epoca in cui l’anzianità era ancora il carattere dominante e merito e attitudini avevano un rilievo secondario: veniva dato un punto per ogni anno di anzianità nella qualifica richiesta per la nomina, sino a 4 punti per il merito, sino a 2 punti per lo svolgimento di funzioni omologhe e sino a 4 punti per le attitudini. Il pregio di questo sistema, oltre che di consentire una valorizzazione di merito e attitudini in situazioni di scarsa differenza di anzianità, costringeva a solidificare la valutazione in punteggi, con una forte responsabilizzazione. L’altro sistema puntava su fasce di anzianità che portavano a scegliere tra i candidati entro 8 anni di anzianità a partire da quello più anziano. Sistema che portava a valorizzare le esperienze lavorative e a contenere in modo oggettivo il numero dei candidati da valutare. Con il limite di consentire domande strumentali da parte di candidati particolarmente anziani, formulate solo al fine di determinare la fascia.
Sul resto le due proposte si differenziano su punti marginali. Onde evitare discussioni strumentali va chiarito che entrambe le proposte preservano ampiamente la discrezionalità nella scelta da parte del Consiglio. Spacciare o temere che i punteggi portino ad un automatismo nella scelta era del tutto sbagliato perché l’attribuzione dei punteggi era comunque determinante per il risultato. Così l’introdurre fasce di esperienze professionali limita, anche grandemente per larga parte degli uffici, l’ambito della scelta (anche perché non contiene, a differenza del passato, eccezioni per lo “spiccato rilievo”), ma lascia una discrezionalità sia nella valutazione delle esperienze, sia tra gli aspiranti che rientrano nella fascia. Poi per quanto riguarda Tribunali distrettuali, Corti e relative Procure viene lasciata una discrezionalità molto ampia. Il tutto ovviamente deve o dovrebbe avvenire sulla base dei parametri che lo stesso Testo Unico delinea.
5. Gli elementi comuni: pubblicità, trasparenza, standardizzazione, limite al numero delle domande. Il calo delle domande per gli incarichi.
Va valorizzata la tensione verso la pubblicità e la trasparenza che si ha in entrambe le proposte e l’adozione di una standardizzazione sia dell’autorelazione che delle domande proposte. Così pure si cerca di evitare un carrierismo che punta al conseguimento di successivi incarichi sempre di maggiore prestigio con il limite al numero di domande che ogni aspirante può presentare (due per incarichi direttivi e due per incarichi semidirettivi). Anche se in realtà il Consiglio non prende atto della nuova realtà che si sta creando con un calo delle domande almeno per taluni incarichi direttivi e della scarsa appetibilità di almeno alcuni tra di essi (in particolare per posti giudicanti di alcune zone di Italia). Sono andati deserti, almeno in prima battuta, i posti di Presidente della Corte di Appello di Potenza, di Presidente di sezione lavoro a Brescia, di Presidente di sezione del Tribunale di Milano. Disaffezione che deriva in parte dall’impatto fortemente negativo sulla magistratura che ha avuto l’affaire Palamara con una sbagliata identificazione tra presentare domande per incarichi e carrierismo deteriore ed in parte dalla crescente consapevolezza delle difficoltà, complessità ed impegno, diverso dalla normale attività giurisdizionale, che un incarico direttivo e, parzialmente, anche semidirettivo comporta. Purtroppo i tempi sono stati compressi, ma sarebbe stata l’occasione per acquisire una serie di dati di grande interesse che potrebbero aiutare il Consiglio nelle sue politiche: il numero di domande per tipologia di posti, l’età ed il genere dei nominati sia per i posti direttivi che per i semidirettivi, la provenienza geografica rispetto al posto da ricoprire, il tasso di impugnazioni e di conferma. Anni fa il Consiglio aveva condotto una ricerca in questa direzione con risultati per certi aspetti sorprendenti (come l’età dei nominati a posti direttivi ben oltre i 60 anni e il limitato tasso di accoglimento delle impugnazioni). Sarebbe il caso di ripeterla ogni anno, anche per verificare la bontà delle proprie scelte.
6. La proposta per fasce di esperienze giudiziarie.
La proposta 1, poi approvata, riprende la valorizzazione delle fasce, non più di anzianità, (che sarebbe comunque vietata dalla legge), ma per esperienze professionali. Si crea una sorta di scrematura per passaggi successivi ad imbuto, ove sono preferiti per una seconda fase di valutazione unicamente i magistrati che abbiano un’esperienza significativa con funzioni omologhe o in uffici specializzati. Le modalità sono diverse per gli uffici semidirettivi, specializzati e direttivi di piccole e medie dimensioni da un lato e per quelli direttivi degli uffici di grandi dimensioni, distrettuali e di secondo grado e legittimità dall’altro. Per i primi viene effettuata una prima selezione all’interno della fascia di esperienze di sei anni a partire dall’aspirante che può vantare un’esperienza di maggiore durata, o comunque tra candidati che abbiano un’esperienza in uffici omologhi a seconda degli uffici di 12 - 15 - 18 anni, valorizzando il settore di appartenenza (civile, penale o specializzato). Poi in caso di posizioni equivalenti intervengono successive selezioni, sempre più stringenti, una sorta di cerchi concentrici man mano più piccoli, sino ad arrivare al candidato prescelto con una sorta di semi automatismo.
Per i secondi dopo la prima scrematura operata solo sulla base della permanenza nelle funzioni, e quindi scarsamente selettiva, subentrano ulteriori parametri di rilievo decrescente, ma da considerare in un giudizio complessivo ed unitario, lasciando una più ampia discrezionalità.
Onde evitare i “giochetti” che si erano avuti nella passata esperienza relativa alle nomine utilizzando le fasce si è proceduto a cristallizzare la situazione al momento della disamina della Commissione, consentendo eventuali revoche solo sino alla settimana prima la trattazione del posto interessato annunciato con la pubblicazione dell’ordine del giorno della Commissione consiliare.
Il sistema, al di là della difficoltà di esposizione e di lettura, è semplice, in particolare per gli incarichi semidirettivi, direttivi per uffici di piccole e medie dimensioni e specializzati con successive selezioni (ad imbuto come descritto dagli stessi autori della proposta) sulla base di criteri dichiarati ed oggettivizzabili. Per gli altri incarichi, quelli più rilevanti, dopo una prima scrematura che risulterà molto più limitata, resta una ampia discrezionalità, sia pure regolata, stabilendo una valenza decrescente delle ulteriori esperienze organizzative prese in considerazione. Tale valutazione avviene sulla base dei parametri del merito e delle attitudini articolate in criteri principali e criteri secondari.
7. La proposta per punteggi.
La proposta 2, poi soccombente, era molto più articolata, in quanto individuava una serie di parametri, in relazione ai quali vengono attribuiti punteggi. I parametri erano ben undici e si rifacevano agli elementi citati dal nuovo art. 46 octies nelle lettere da a) a n) (salvo la lettera f) ovvero: il merito (lett. a), la capacità organizzativa (lett. b), le pregresse esperienze di direzione, organizzazione e coordinamento (lett. c), la capacità di dare attuazione ai progetti organizzativi e di adeguarli ai mutamenti (lett. d), la capacità di analisi ed elaborazione statistica (lett. e), le specifiche competenze per incarichi specializzati (lett. g), la varietà di esperienze (lett. h), la conoscenza delle norme ordinamentali (lett. i), l’aggiornamento professionale (lett. l), le capacità relazionali (lett. m), la documentazione trasmessa dalla Scuola Superiore della Magistratura (lett. n).
I punteggi sono, con differenze a seconda del tipo di ufficio (di primo, secondo grado o di legittimità, di piccole, medie dimensioni o di grandi dimensioni, oltre alla DNAA) e del tipo di incarico (semidirettivo o direttivo, giudicante o requirente), schematicamente i seguenti:
Qualora infine dall’attribuzione dei punteggi relativi a merito e attitudini risultasse una differenza inferiore o pari al 5 %, verrebbe ad assumere rilievo in via residuale il parametro dell’anzianità dando un ulteriore punteggio di 0,5 punti ogni anno di servizio successivo alla valutazione di professionalità richiesta dalla legge per il conferimento delle funzioni corrispondenti al posto da ricoprire.
La descrizione sommaria dei parametri e dei punteggi adottati può lasciare disorientati per la sua complessità, ma per ognuna delle tipologie dei posti da assegnare (e stiamo parlando di ben nove tipi di incarico, oltre a quelli specializzati come gip, lavoro, minori, sorveglianza) opera una sorta di canalizzazione con uno specifico punteggio da assegnare. Si tratta quindi di partire dal tipo di posto e quindi attribuire gli undici punteggi di cui ai diversi parametri.
8. Prime considerazioni generali.
Una prima considerazione generale che in realtà accomuna entrambe le proposte è il recupero delle esperienze giudiziarie svolte. Non si è voluto, né potuto ridare spazio all’anzianità, ma valorizzare il percorso professionale e la sua durata. Ciò riguarda l’avere svolto per un congruo periodo di tempo funzioni in uffici omologhi e nello stesso settore per una proposta e l’avere superato le varie valutazioni di professionalità per l’altra. Non si tratta di un ricorso all’anzianità sotto mentite spoglie perché in entrambi i casi non si parla di anzianità nel ruolo e non vi è automatismo. Inoltre presuppongono una valutazione positiva dell’attività svolta, riguardando le esperienze professionali positive la prima (come si ricava dai criteri generali di valutazione contenuti nei primi articoli) e le valutazioni di professionalità conseguite la seconda. Il tentativo in entrambi i casi è di valorizzare elementi in larga parte oggettivizzabili.
I sistemi che poi derivano sono in parte diversi da come vengono presentati e che la dialettica consiliare ha dipinto: in realtà non si tratta di un sistema che esalta la discrezionalità (quello per fasce), contro uno semi automatico (quello per punteggi), ma di sistemi complessi in cui il rischio di automatismi semmai vi può essere (in caso manchi qualsiasi valutazione su contenuto e merito delle esperienze) per il sistema per fasce disegnato per gli incarichi semidirettivi e direttivi per uffici piccoli e medi e specializzati (la stragrande maggioranza degli incarichi). Difatti il sistema per punteggi lasciava inevitabilmente un amplissimo spazio di discrezionalità nello stesso range dei punteggi esistenti, dato che vi erano punteggi automatici, punteggi semiautomatici e punteggi totalmente discrezionali.
9. Limiti e criticità del sistema per fasce o a imbuto.
Occorre in primis vedere se si terrà conto dei dati formali, ovvero solo l’avere ricoperto un certo incarico ovvero le effettive modalità con cui è stato svolto e di che strumenti si doterà il consiglio per valutare la positività delle esperienze pregresse oltre che il raggiungimento degli obiettivi.
Quanto al sistema per fasce vanno formulate diverse osservazioni. In primo luogo il sistema delineato pare avere effettuato la scelta di differenziare profondamente tra le modalità di scelta dei dirigenti degli incarichi semidirettivi e direttivi dei piccoli e medi uffici e di quelli specializzati (quasi il 90 % degli incarichi), con modalità molto stringenti e con una forte quota di automatismi e quelle molto più discrezionali degli altri posti apicali (poco più di 100). Una scelta che potrebbe essere condivisibile, in quanto a fronte dell’enorme numero di nomine da effettuare in tempi contenuti con l’obbligo di effettuare audizioni (il che appesantisce ulteriormente la procedura), il Consiglio potrebbe concentrarsi su quelle più significative, ma una tale scelta non è stata esplicitamente dichiarata. I pericoli sono due e curiosamente opposti. Da un lato che per i posti semidirettivi, direttivi di uffici di piccole e medie dimensioni e specializzati il sistema a cerchi concentrici delineato porti ad un automatismo senza valutare quanto meno la positività e complessità delle esperienze pregresse e l’esito delle audizioni, modalità che sarebbe in contrasto con la legge e con lo stesso Testo Unico laddove vengono delineati i parametri ed i criteri di valutazione. Dall’altro che per i posti direttivi dei Tribunali distrettuali, delle Corti e delle relative Procure l’ampia discrezionalità delineata diventi scarsamente verificabile. E’ vero che dovrà prima essere valutata la permanenza in funzioni omologhe e che poi entrano in gioco parametri secondo una chiara gerarchia, ma nel momento in cui si parla della necessità di un giudizio complessivo ed unitario, il rischio è che la discrezionalità diventi eccessiva e priva della necessaria trasparenza.
10. Limiti e criticità del sistema per punteggi.
Quanto al sistema basato sui punteggi emergono moltissimi limiti e criticità, più che per l’idea e per lo strumento, per le concrete modalità con cui è stato congegnato.
Innanzitutto un fortissimo recupero dell’anzianità, articolata come valutazione di professionalità conseguita, che in molti casi verrebbe ad essere determinante sia perché integra realisticamente circa la metà del punteggio complessivo che un candidato può raggiungere, sia per la clausola finale che la fa divenire prevalente in caso di differenza pari o inferiore al 5 %. In secondo luogo per la preferenza che viene data a coloro che hanno già ricoperto incarichi direttivi o semidirettivi che possono accedere a punteggi di cui invece gli altri magistrati non possono godere. Basti pensare che chi ha già svolto incarichi semidirettivi o direttivi omologhi parte con un vantaggio di almeno 4 punti (un punto per anno) e che in caso di incarico completato arriva ad 8 punti.
In terzo luogo la possibile utilizzazione degli stessi elementi (come la positiva esperienza pregressa in un incarico) per beneficiare di più punteggi (ad esempio per l’efficiente organizzazione del lavoro, le pregresse esperienze semidirettive e direttive, la capacità di dare attuazione ai progetti organizzativi, le capacità relazionali).
Infine la forte valorizzazione autonoma di incarichi istituzionali (di innovazione, formazione, ordinamento) rischia di attribuire loro un eccessivo peso. Se si unisce ciò alla forte valorizzazione degli incarichi di direzione anche di fatto e di coordinamento, attribuiti, sia pure dietro interpello, dal dirigente dell’ufficio, si coglie il rischio di un’ulteriore valorizzazione di tutte quelle posizioni che potrebbero essere ambite a fini carrieristici.
Tutto con una chiara eterogenesi dei fini rispetto a chi, giustamente, rivendica l’idea di una magistratura orizzontale e della sdrammatizzazione delle nomine.
Personalmente ho sempre apprezzato il sistema dei punteggi, come momento di solidificazione di una valutazione e di responsabilità, ma il modo con cui era stato pensato nella proposta 2 portava purtroppo ad un approccio burocratico e a probabili esiti opinabili e negativi. Difatti dalla legge non discendeva alcun obbligo di attribuire un punteggio per ciascuna delle voci richiamate nell’art.46 octies comma 7, ma solo l’obbligo di tenere conto di tutti tali fattori. In realtà, secondo il mio giudizio, è stato un errore sia frammentare i punteggi in ben undici voci, sia di dare loro una ponderazione poco meditata. Personalmente mi sarei limitato a quattro voci: merito, capacità organizzativa, esperienze organizzative pregresse e loro risultati, altre capacità e attitudini (in cui avrei ricompreso tutti gli elementi richiamati dall’art. 46 octies co. 7 dalla lettera g alla lettera n), dando un peso preminente alla capacità organizzativa e limitato e residuale all’ultima voce. Tra l’altro mettere pochi canali avrebbe consentito trasparenza e leggibilità delle decisioni che sarebbe stato invece ben difficile a fronte di un così cospicuo numero di fattori di cui una parte presso che automatica (le valutazioni di professionalità, la documentazione trasmessa dalla SSM) ed una parte ampiamente discrezionale, discrezionalità che viene esaltata dalla pluralità di parametri. Francamente un sistema che poteva essere interessante, ma che è stato mal calibrato. Tra l’altro la discussione consiliare si è soffermata fondamentalmente sulle scelte generali di sistema, con un approccio troppo spesso per slogan, senza andare ad esaminare i dettagli delle proposte, dimenticando che spesso nei dettagli sta il veleno.
11. Lo scenario che si apre.
Va riconosciuto che la Commissione consiliare ha svolto un lavoro estremamente proficuo arrivando a due proposte, con i limiti sopra evidenziali, ma che hanno cercato di superare le deviazioni che il precedente sistema aveva evidenziato. La discussione consiliare, ma anche extra consiliare, non ha aiutato a migliorare le proposte ed a giungere ad una soluzione unitaria, che personalmente avrei cercato di raggiungere combinando i due sistemi partendo dalla prima proposta articolata in fasce di esperienza giudiziaria per gli uffici specializzati e di minori dimensioni, per poi disciplinare con punteggi, relativi a poche voci e ben ponderate, l’inevitabile più ampia discrezionalità da esercitare per i Tribunali distrettuali, le Corti e le relative Procure.
Devo dire che alcune accuse ad entrambe le proposte, ed in particolare alla proposta approvata, sembrano davvero ingenerose e paiono derivare più da ragioni di contrapposizione e propaganda che da una loro seria disamina. Non credo sia corretto delineare il ricorso al sistema dei punteggi come una riduzione del C.S.M. ad una sorta di ufficio del personale con una deriva burocratica. Forse questa è la ragione che ha portato alcuni laici del C.S.M. indicati dall’attuale maggioranza governativa a votarla vedendola in sintonia con la pessima riforma costituzionale in discussione, ma mi sembra un problema mal posto. In discussione non può essere posto il sistema dei punteggi, già adottato in altre amministrazioni di alto livello, ma semmai di come è stato congegnato ed articolato.
Per quanto concerne la proposta approvata contro di essa alcuni hanno avanzato critiche molto severe avanzando la contestazione secondo cui si sarebbe rinunciato ad un cambiamento radicale di metodo al fine di mantenersi le mani libere sulle nomine. Questa osservazione non coglie come per il 90 % delle stesse venga adottato un sistema rigorosamente configurato ben più cogente di quello proposto con i punteggi. Non solo, ma temere che in questo modo si prefiguri una separazione delle carriere irrigidendo ulteriormente i passaggi non tiene conto non solo che inevitabilmente nella valutazione dei candidati occorre valorizzare percorso professionale e funzioni svolte, ma che è presso che inevitabile che i cambiamenti di funzione non avvengano per il passaggio a posti dirigenziali, ma in altre fasi della vita professionale, come del resto già avviene oggi.
Il problema ora pare invero un altro, ovvero come applicare nel modo migliore possibile il nuovo Testo Unico. Il Consiglio si trova di fronte ad una sfida davvero difficilissima: riuscire ad effettuare nomine in tempi ragionevoli (oggi arriviamo ad oltre un anno) e con procedure molto più vincolate e costose come tempi. Il nuovo Testo Unico può essere un buono strumento se riuscirà ad evitare di cadere in anomali automatismi per quanto concerne gli incarichi semidirettivi e direttivi per uffici medio piccoli e specializzati e ad una discrezionalità non regolata per gli altri uffici. Su questo sappiamo che oltre alle norme, contano le prassi ed i precedenti, che vanno costruiti e resi trasparenti.
Saggezza richiede di sperimentare il sistema approvato, verificando il suo funzionamento, ma continuando a monitorare gli esiti e mantenendo la capacità se necessario di adottare correttivi in corsa.
[1] L’art. 5 co. 7 del Decreto Legislativo 28 marzo 2024 n.44 introduce i nuovi artt. 46 bis, 46 ter, 46 quater, 46 quiquies, 46 sexies, 46 septies, 46 octie, 46 nonies, 46 decies, 46 undecies, 46 duodecies, 46 terdecies del Decreto Legislativo 5 aprile 2006 n.160.
Immagine via Wikimedia Commons.
Una giudice a Catania. Il caso Apostolico e le conseguenze degli attacchi politici alla magistratura
di Cataldo Intrieri
La giudice Iolanda Apostolico che giusto un anno fa precorrendo i tempi e le polemiche, aveva disapplicato uno dei tanti decreti flussi allora denominato Cutro, con motivazioni che avevano precorso quelle adottate oggi dai colleghi di Roma e Bologna con le ben note conseguenze si è improvvisamente dimessa dalla magistratura.
Lo ha fatto senza fornire alcuna spiegazione ufficiale e senza neanche ricorrere alla comoda via d’uscita di una qualche forma di scivolo o prepensionamento.
Il suo collega Stefano Musolino segretario della Corrente di MD cui la magistratura fa parte ha scritto apertamente di «dimissioni che turbano l’intera magistratura» di «senso di isolamento che da individuale tende pericolosamente a diventare collettivo», di «logica intimidatoria» scagliata su» vulnerabilità di cui tutti siamo impastati» che rendono i magistrati meno indipendenti…preoccupati delle loro vite private indifese. Un linguaggio chiaro che getta uno squarcio anche sulla grave situazione politico-istituzionale italiana (e non solo) che in molti fingono di non vedere come se ancora oggi il nocciolo del problema sia la abituale polemica sul garantismo (che ha certo il suo rilievo ed importanza) e non qualcosa di più oscuro e diverso, un grumo nero che corrode la giustizia lentamente ma progressivamente e che dovrebbe scuotere soprattutto i difensori più convinti delle garanzie difensive, tra cui per ciò che può importare milita chi scrive.
Perché se si ritiene normale “isolare un magistrato” o inviare una busta con tre pallottole all’avvocato di un omicida come è avvenuto per il prof. Caruso difensore di Stefano Turetta, ciò significa significa che il problema è generale e connesso in un mondo dove ogni giorno un qualsiasi imbecille politico rovescia insulti su magistrati, imputati, condannati e diritti assortiti delle minoranze.
Apostolico per singolare coincidenza o voluto tempismo, chissà, ha deciso nella stessa giornata in cui il governo ha votato la fiducia all’ultima versione del decreto flussi e la procura generale della Cassazione, supremo organo requirente della giurisdizione italiana, ha chiesto di rinviare alla Corte di giustizia europea la decisione sui ricorsi del governo contro i provvedimenti dei giudici di Roma e Bologna che hanno “sabotato” secondo i cantori Meloniani la "giusta e moderna” politica sull’immigrazione.
Invece i vertici della magistratura requirente hanno ritenuto corretta la decisione già adottata dal giudice Gattuso di Bologna, a sua volta oggetto di violenti attacchi personali sulla sua vita privata: chiedere lumi alla Corte di Lussemburgo al fine di sapere con certezza se la sequela di leggi ossessivamente varate negli ultimi anni dall’attuale esecutivo sull’immigrazione e protezione Internazionale, rispettino i diritti fondamentali di soggetti deboli e soprattutto l’autonomia della giurisdizione, vero nocciolo duro della questione ancorché lo si trascuri come vedremo.
Da circa un anno pende al CSM una richiesta di presa di posizione “a tutela” di Apostolico che non ha avuto seguito.
Il punto non sono le “fragilità personali” e la reazione soggettiva alle polemiche inevitabili.
Ciò che ha contraddistinto le critiche ai magistrati delle varie sezioni sull’immigrazione dei tribunali è stata la deriva verso l’attacco personale come atto costante.
Di Apostolico sono state diffuse in tv riprese durante una manifestazione politica contro provvedimenti del governo sui respingimenti ed addirittura sotto casa in motorino con un familiare.
La prima documentazione proviene da fonti della questura di Catania e nessuno ad oggi ha spiegato chi le abbia fornite alla propaganda filogovernativa.
Del giudice di Bologna sono state riprese dichiarazioni attinenti la sua situazione familiare di padre adottivo.
Accanto a ciò prosegue un’attività di depistaggio informativo che lungi dall’affrontare il merito giuridico dei provvedimenti contestati la butta in caciara sulle idee politiche dei magistrati.
È appena il caso di ricordare che nell’ufficio di sottosegretario alla presidenza del Consiglio siede un eccellente magistrato in aspettativa, Alfredo Mantovano, uno dei registi dell’attuale politica governativa, da lungo tempo parlamentare e militante dei movimenti pro-vita della cui imparzialità mai nessuno ha dubitato anche in ragione va detto della riservatezza da sempre custodita e cui qualche collega potrebbe ispirarsi.
Ebbene, non ci si stancherà dal ripeterlo, anche l’ultimo decreto flussi ripete le medesime criticità che hanno portato alla disapplicazione dei precedenti provvedimenti.
L’elenco dei “paesi sicuri” continua a comprendere paesi “sicuri” che l’UE tali non considera
Contiene parti “riservate” in ordine alle modalità dei trattenimenti e degli appalti che già in precedenza le corti europee anche ai tempi dei governi Renzi, Gentiloni, Minniti hanno ritenuto inaccettabili per violazione del principio di legalità (Cedu Sentenza Italia-Al Khalifa, 2016).
Accanto a ciò il vero tema su cui si sorvola concerne la vera e propria legittimità di una procedura di rimpatri accelerati il cui perno sarebbero i trattenimenti nei costosi resort albanesi dove ad oggi sono entrati e subito usciti in ben 19 (nessuno che sottolinei questo: i centri non hanno mai contenuto moltitudini)
Le precedenti sentenze delle corti europee, tra cui quella della CGUE del 4 ottobre che ha dato fuoco alla miccia, impongono che a decidere sia un giudice e rendono pressoché certa mente irrealizzabile la possibilità di automatismi come i respingimenti basati su elenchi preordinati.
Sullo sfondo come ha fatto Intuire lo stesso Mantovano vi è però di più e cioè la ridiscussione dello stesso ruolo di primazia della giurisdizione europea su quella interna.
Un tema su cui l’Italia in epoca di sovranismo dilaganti potrebbe trovare sponda ma che manderebbe per aria uno dei fondamenti dell’UE. L’Ungheria, dove ciò è stato tentato, per ora senza successo, è vicina.
Questo contributo è già apparso su Linkiesta il 6 dicembre 2024.
Sky ecc, ordine europeo di indagine tra giurisprudenza nostrana e comunitaria
di Francesco Agnino
Sommario: 1. Premessa: il quadro investigativo complesso dinnanzi alle Sezioni Unite - 2. Le diverse soluzioni offerte dalla Corte di cassazione - 3. Interrogativo pregiudiziale: raccolta massiva di dati o “captazione c.d. mirata” - 4. L’estensione della disciplina interna sulla circolazione delle prove fra procedimenti diversi - 5. Nessun controllo giurisdizionale anticipato nello Stato di emissione - 6. Il controllo giurisdizionale non è escluso (anche se postumo) - 7. Il controllo sulle ragioni di merito dell’emissione dell’OEI - 8. Modalità di raccolta delle prove da parte dell’autorità straniera e controllo giurisdizionale - 9. Nessuna critica?
1. Premessa: il quadro investigativo complesso dinnanzi alle Sezioni Unite.
Le sezioni unite con le due sentenze gemelle nn. 23755 e 27356, depositate il 14 giugno 20124, hanno sciolto alcuni dubbi connessi al caso dei c.d. criptofonini Sky ECC.
Gli arresti nomofilattici devono essere letti congiuntamente alla decisione del 30 aprile 2024 con cui la Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione Europea si è pronunciata in merito all’analoga vicenda dei messaggi criptati scambiati attraverso la piattaforma Encrochat (Corte giust., 30 aprile 2024, M.N., C-670/22). E, comunque, un ulteriore tassello al mosaico verrà aggiunto dalla Corte europa dei diritti dell’uomo, anch’essa chiamata ad esprimersi al riguardo (procedimenti n. 44715/20 e 47930/21).
La diatriba, come è ormai ben noto, concerne la natura e le conseguenti garanzie procedimentali applicabili all’acquisizione delle conversazioni via chat intercorse fra alcuni esponenti di associazioni criminali dedite al traffico di stupefacenti attraverso piattaforme online di tipo criptato, che avevano loro consentito di comunicare in modo riservato mediante smartphone appositamente modificati.
Nell'esperire le attività istruttorie sui criptofonini, le forze di polizia francesi si sono avvalse di tecniche investigative particolarmente intrusive e articolate, tutt'ora parzialmente coperte da segreto di Stato, che hanno consentito di intercettare, acquisire e decodificare l'intera mole di comunicazioni convogliate su note piattaforme criptate come sky-ecc ed Encrochat (ma anche Ennetcom, PGP Safe, IronChat e ANOM).
Le operazioni hanno coinvolto chat individuali o di gruppo recanti milioni di messaggi riferibili a decine di migliaia di utenti dislocati in tutto il mondo. Per procedere alla captazione, i server e i criptofonini — nel caso sky-ecc basati su quattro diverse chiavi di cifratura — sono stati hackerati dalle autorità di contrasto francesi, operanti in una squadra investigativa congiunta (JIT – Joint Investigation Team) con le forze di polizia olandese e belga.
Gli esiti di tali attività istruttorie sono stati poi trasmessi, ricorrendo all'ordine europeo di indagine, agli organi investigativi degli Stati membri interessati.
La raccolta di dati in così grandi dimensioni ha sollevato complessi interrogativi concernenti la tutela della privacy, la validità delle prove digitali, la compatibilità con le regole del giusto processo sotto il versante della parità delle armi e la necessità di garantire l'inviolabilità del diritto di difesa. Per comprendere la rilevanza della questione, è sufficiente notare come le vicende sui criptofonini abbiano cagionato incidenti di costituzionalità, pronunce dei giudici interni di merito e di legittimità, oltre che l'intervento della Corte di giustizia dell'Unione europea: dalle corti francesi a quelle italiane, passando per le giurisdizioni belga, olandese, norvegese e tedesca, i tribunali del vecchio continente, di ogni ordine e grado, si sono trovati a dover fronteggiare i dilemmi che le operazioni istruttorie basate sui criptodati hanno originato (ne dà conto la memoria per l'udienza delle sezioni unite penali del 29 febbraio 2024 della procura generale presso la Corte di cassazione, consultabile in , 1° marzo 2024, 83 s.: «il Conseil constitutionnel francese, con la decisione n. 2022-987 QPC dell'8 aprile 2022, ha statuito che la disciplina francese, sulla cui base eÌ stata disposta l'acquisizione delle chat e l'intercettazione delle comunicazioni operate nel presente procedimento, eÌ conforme alla Costituzione francese; il Bundesgerictshof, con la sentenza 5 StR 457/21 del 2 marzo 2022, ha ritenuto che l'intercettazione della piattaforma Encrochat, “violata” dall'autorità giudiziaria francese, fosse legittima ai sensi del diritto processuale penale tedesco; [...] la Corte suprema dei Paesi Bassi (Floge Raad), con la sentenza n. 913 del 13 giugno 2023, ha ritenuto conforme al diritto interno l'acquisizione dei dati informatici presenti sulle piattaforme criptate Encrochat e sky-ecc, acquisite dall'autorità giudiziaria francese”).
Le Sezioni Unite, di conseguenza, si sono dovute confrontare con il tema dell’impiego dell’OEI ai fini della raccolta di prove già in possesso dell’autorità di esecuzione: un’eventualità espressamente prevista sia dalla direttiva sia dal d.lgs. n. 108 del 2017.
Innanzi al giudice della nomofilachia si è posto un problema di tenuta delle garanzie fondamentali e dai non trascurabili risvolti pratici, che, nel caso dell'Italia, si arricchisce anche dei più recenti moniti contenuti nell'ennesima pronuncia dell'affaire Contrada (Corte eur. diritti dell'uomo 23 maggio 2024, Contrada c. Italia (n. 4); sentenza, quest'ultima, che lascia trapelare un problema sistemico nell'ordinamento giuridico italiano: la legge processuale non offre sufficienti garanzie contro gli abusi nelle intercettazioni a carico di soggetti non direttamente coinvolti in un procedimento penale. E, infatti, uno dei rischi che si cela dietro l'acquisizione di un così ragguardevole volume di “corrispondenza” — stando agli ultimi insegnamenti della Corte costituzionale (Corte cost. 27 luglio 2023, n. 170, con cui il giudice delle leggi ha statuito che «il concetto di “corrispondenza” ricomprende ogni comunicazione di pensiero umano (idee, propositi, sentimenti, dati, notizie) tra due o più persone determinate, attuata in modo diverso dalla conversazione in presenza”. La tutela accordata dall'art. 15 Cost. “si estende, quindi, ad ogni strumento che l'evoluzione tecnologica mette a disposizione a fini comunicativi, compresi quelli elettronici e informatici, ignoti al momento del varo della Carta costituzionale» (par. 4.2 del considerato in diritto). Secondo la Memoria per l'udienza delle sezioni unite penali del 29 febbraio 2024 della procura generale presso la Corte di cassazione, cit., 39: “[d]alle statuizioni della Corte costituzionale deriva che le chat acquisite dall'autorità giudiziaria francese debbano essere qualificate come corrispondenza”) — è quello che l'operazione si traduca in una “battuta di pesca” (c.d. fishing expedition) con valenza meramente esplorativa. Esigenze, quelle che si stagliano all'orizzonte, che si mostrano allora tanto più impellenti quando si considerino le notizie che giungono ancora dalla Francia e che riguardano note e ben più in voga app di messaggistica crittografata (è il caso della nota app Telegram; per una ricostruzione v. La svolta di Telegram dopo l'arresto di Durov: consegnerà alle autorità indirizzi e numeri dei presunti criminali, v. La Repubblica, 24 settembre 2024).
2. Le diverse soluzioni offerte dalla Corte di cassazione.
È emerso in giurisprudenza un rilevante contrasto interpretativo, sia in ordine alla individuazione dello strumento processuale “interno” da porre a parametro per l'importazione delle “chat” decrittate e richieste con gli OEI che al tipo e all'ambito del controllo giurisdizionale da svolgere nel nostro ordinamento in merito alla utilizzabilità dei dati probatori i raccolti all'estero. Secondo un orientamento giurisprudenziale, in tali casi non potrebbe farsi riferimento alla disciplina delle intercettazioni, poiché la stessa presuppone l'esistenza di flussi di comunicazioni in atto (in tal senso, Cass., sez. 6, 27 settembre 2023, n. 46482 che ha precisato “trattarsi di registrazioni di conversazioni già avvenute e, quindi, di dati "statici” assimilabili a corrispondenza, e non invece di intercettazioni). La fattispecie processuale potrebbe rientrare nella acquisizione di “corrispondenza informatica” (le “chat”, già disponibili, appunto, nello Stato di esecuzione attraverso il precedente ricorso a mezzi di intercettazione). D'altronde, si aggiunge, l'art. 1, par. 1, della direttiva 2014/41 UE consente il ricorso all'OEI anche per l'acquisizione di prove che già sono in possesso delle competenti Autorità dello Stato di esecuzione e il successivo art. 13 della direttiva disciplina il “trasferimento delle prove” (comprese quelle “già in possesso dello Stato di esecuzione”).
Secondo questa tesi, si tratterebbe, dunque, di atti probatori già nella disponibilità dell'Autorità giudiziaria francese, che li ha acquisiti con procedura conforme al proprio ordinamento. In questa ottica, si è affermato che, a tal fine, “il pubblico ministero può emettere l'ordine europeo di indagine con cui si richiede il trasferimento di dati documentali, in particolare di corrispondenza già acquisita in un procedimento penale nel paese membro di esecuzione, per il cui sequestro è ‹sufficiente, ai sensi dell'art. 15 Cost. e secondo le disposizioni interne, il provvedimento motivato del pubblico ministero, senza necessità di intervento del giudice per le indagini preliminari” (Cass., sez. 6, 27 settembre 2023, n. 46482, cit.).
Ove si ritenesse fondata tale opzione ermeneutica, la norma di riferimento dovrebbe dunque essere individuata in quella prevista dall'art. 254-bis c.p.p., che consente appunto il sequestro di corrispondenza informatica. Pertanto, ove dovesse ritenersi accoglibile tale ricostruzione normativa, si renderebbe comunque necessaria una valutazione del Giudice cautelare in merito alla sussistenza, nel caso concreto, dei requisiti di necessaria proporzionalità e adeguatezza nel nostro sistema processuale.
V'è tuttavia da osservare che la richiesta di trascrizione, decodificazione o decrittazione delle comunicazioni intercettate, cui fa riferimento la richiamata disposizione dell'art. 43, comma 4, dovrebbe essere più correttamente interpretata come formulazione di un'istanza collegata ed accessoria a quella, principale, contenuta nell'ordine di indagine richiesto ad altre› Stato membro, al fine di intercettare una delle diverse forme di telecomunicazioni descritte nel primo comma dell'art. 43, come tali non già precedentemente acquisite nell'ordinamento richiesto, ma ancora da espletare e trasmettere, in via immediata (art. 43, comma 3, lett. a) o successiva (art. 43, comma 3, lett. b), in conseguenza della richiesta emessa in fase attiva dalle autorità italiane. Sotto altro, ma connesso profilo, una diversa prospettiva esegetica potrebbe essere più fondatamente seguita valorizzando il contenuto di ulteriori disposizioni del complesso micro-sistema normativo dell'ordine di indagine europeo. Dovrebbe però sempre valutarsi la legittimità della “trasposizione” dei risultati delle intercettazioni “aliene” alla luce della nostra disciplina processuale (ex art. 270 c.p.p. appunto) e, conseguentemente, l'utilizzabilità delle relative comunicazioni (G. Faillaci, Le Sezioni Unite sull’acquisizione e l’utilizzabilità dei dati dei criptofonini importati a seguito di un ordine di indagine europeo. Nota a Corte di cassazione penale, sez. un., 14 giugno 2024, ud. 29 febbraio 2024, n. 23756, in NJus).
In tale ottica, ferma restando la legittimità dell'attività di intercettazione delle comunicazioni svolta all'estero, ci si dovrebbe interrogare circa la possibilità, nel nostro ordinamento, di utilizzare il trojan, non solo per disporre un'intercettazione, ma anche per acquisire — attraverso il sistema sopra descritto - le chiavi di decrittaggio. 'aspetto relativo all'utilizzo del trojan per acquisire le chiavi di decrittaggio non risulta essere stato affrontato dalla giurisprudenza (i precedenti relativi ad intercettazioni effettuate su cellulari “blackberry”, di cui si darà conto infra, differiscono dalla situazione in esame perché per essi la socieietà gestrice forniva, su richiesta della Autorità giudiziaria, le comunicazioni decrittate). La Suprema Corte ha affermato il principio secondo cui le prove “atipiche” acquisite in violazione di un divieto derivante da principi costituzionali sono illecite e quindi inutilizzabili. Peraltro, ove si ritenesse che l'utilizzo del captatore informatico sia consentito, nel nostro ordinamento processuale, per effettuare “l'intercettazione del flusso di comunicazioni relativo a sistemi informatici o telematici ovvero intercorrente tra più sistemi” (art. 266 bis c.p.p.), si potrebbe sostenere che l'attività di inoculazione del virus informatico, anche funzionale ad acquisire le chiavi di decrittaggio (trasmesse dai “criptofonini” a ciò indotti dal “malware”), si collochi comunque all'interno di una attività “intercettativa” di un flusso di comunicazioni informatiche. Va peraltro rilevato, al contempo, che tale conclusione non è affatto certa, atteso che l'utilizzo del captatore informatico è, nelle diverse disposizioni processuali previste dal codice di rito (artt. 266, commi 2 e 2-bis, 267, commi 1 e 2-bis, 89 disp. att. c.p.p.), autorizzato soltanto per l'inserimento su un “dispositivo elettronico portatile”. V'è altresì da considerare che, ai fini dell'impiego del captatore informatico, il nostro ordinamento, a seguito della recente interpolazione del testo dell'art. 267, comma 1, c.p.p. (intervenuta per effetto dell'art. 1, comma 2-bis, D.L. 10 agosto 2023, n. 105, convertito nella legge 9 ottobre 2023, n. 137), impone all'autorità giudiziaria l'assolvimento di un rigoroso onere motivazionale non solo nella indicazione delle specifiche ragioni che ne giustificano l'attivazione, ma anche nella esposizione di una autonoma valutazione della necessità, “in concreto”, del ricorso a tale peculiare modalità tecnica di espletamento del relativo mezzo di ricerca della prova. Una motivazione, dunque, “rafforzata”, attraverso la quale il Giudice è chiamato, nel rispetto del canone di proporzionalità, a spiegare le ragioni poste a fondamento dell'utilizzo di uno strumento di indagine particolarmente invasivo della riservatezza delle persone, dando conto, in concreto, del bilanciamento da lui operato tra i diversi beni di rilievo costituzionale confliggenti nel caso di specie. Ove la tesi sopra indicata — secondo la quale è legittimo l'utilizzo del captatore informatico nel caso di specie - sia ritenuta condivisibile, deve poi rilevarsi come, nella medesima prospettiva, sia stata ritenuta “legittima, ove ricorrono i presupposti di legge per l'autorizzazione, la disposizione di un successivo decreto di intercettazione sul medesimo bersaglio o dispositivo elettronico già colpito da attività investigativa, giustificata dalla necessità di far ricorso, per ragioni d'indagine, allo strumento più pervasivo del "captatore informatico", configurandosi in tal caso un nuovo ed autonomo mezzo di ricerca della prova che non presenta interferenze con le intercettazioni telefoniche e/o ambientali già disposte con i mezzi ordinari di captazione” (Cass., sez. 5, 24 settembre 2020, n. 32426).
I suindicati profili problematici si correlano, infine, anche al tema dell’utilizzabilità a fini probatori degli atti compiuti dall'Autorità estera e importati nel nostro ordinamento a mezzo di OEI. Infatti, l'art. 36 D.L.vo cit. stabilisce al comma 1 che “Sono raccolti nel fascicolo per il dibattimento di cui all'articolo 431 del codice di procedura penale: a) i documenti acquisiti all'estero mediante ordine di indagine e i verbali degli atti non ripetibili assunti con le stesse modalità; b) i verbali degli atti, diversi da quelli previsti dalla lettera a), ‹assunti all'estero a seguito di ordine di indagine ai quali i difensori sono stati posti in grado di assistere e di esercitare le facoltà loro consentite dalla legge italiana”. Un secondo nucleo di profili problematici — avente anch'esso un significativo rilievo e correlato al tema della utilizzabilità delle prove “aliene” acquisite nel nostro ordinamento — concerne in particolare la necessità che la difesa possa disporre, ove Io richieda, dell'algoritmo per la decrittazione delle “chat” (algoritmo che, a quanto consta, nel caso in esame non è stato comunicato all'Autorità giudiziaria italiana che ha ricevuto solo le conversazioni già tradotte "in chiaro”). Sul punto, in riferimento alle intercettazioni effettuate su un dispositivo cellulare "Blackberry" è ravvisabile un contrasto nella giurisprudenza di legittimità, che è anche "rifluito" in alcune delle pronunce relative alle chat intercorse su "sky ecc". Secondo un orientamento, ove l'attività di messa in chiaro di messaggi criptati scambiati mediante sistema "Blackberry" sia svolta dal fornitore del servizio fuori dal contraddittorio, la difesa ha diritto di ottenere, oltre alla versione originale e criptata dei messaggi, anche le chiavi di sicurezza necessarie alla decriptazione, a pena di nullità ex art. 178, lett. c), c.p.p., sanabile dall'istanza di giudizio di abbreviato; in particolare, sul punto si è rilevato che laddove alla difesa - non solo in sede cautelare, ma anche nel corso del giudizio di merito - fosse precluso di prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche, nella loro versione originale ed integrale, e fosse ‹conseguentemente impedito l'esercizio di ogni potere di controllo, sussisterebbe una nullità di ordine generale a regime intermedio, derivante dalla 'violazione della disciplina diretta ad assicurare l'assistenza e la rappresentanza dell'imputato in una ipotesi in cui, tuttavia, non è obbligatoria la presenza del suo difensore. In senso contrario, un diverso orientamento ha invece ritenuto che, «in tema di intercettazione di comunicazioni telematiche, l'uso dell'algoritmo per la decriptazione della messaggistica con sistema "Blackberry" esclude la possibilità di alterazioni o manipolazioni dei testi captati, in quanto, secondo la scienza informatica, ne consente la fedele riproduzione, salvo l'allegazione di specifici e concreti elementi di segno contrario» (Cass., sez. 3, 21 aprile 2022, n. 30395) e che «il difensore delle parti ha diritto di accesso al dato trasmesso in via digitale costituito dalle sequenze alfanumeriche o simboliche rappresentative della comunicazione oggetto di captazione (c.d. stringhe) e dal risultato della decodificazione intellegibile di tali sequenze, in quanto elementi integranti "informazione" o "registrazione" delle conversazioni o comunicazioni ai sensi dell'art. 268, comma 7, cod. proc. pen.» (Cass., sez. 3, 10 aprile 2019, n. 38009). D'altra parte, poi, per quanto riguarda l'attendibilità della decodificazione, non solo, significativamente, l'operazione di decriptazione per l'autorità giudiziaria è effettuata dalla stessa azienda che garantisce l'ordinario e regolare svolgimento delle comunicazioni, e, quindi, la criptazione e decriptazione delle stesse, tra gli utenti dei dispositivi oggetto di intercettazione.
Va infatti rilevato che, come puntualmente osservato in una recente decisione, “in assenza dell'algoritmo necessario alla decriptazione, risulta - secondo la scienza informatica - impossibile avere a disposizione un testo intellegibile in lingua italiana difforme dal reale, potendosi, al più avere, se del caso, una sequenza alfanumerica o simbolica ("stringa") priva di alcun senso», sicché, salvo l'allegazione di specifici e concreti elementi di segno contrario, deve escludersi l'avvenuta manipolazione delle captazioni” (Cass., sez. 6, 27 novembre 2019, n. 14395).
3. Interrogativo pregiudiziale: raccolta massiva di dati o “captazione c.d. mirata”.
Un problema preliminare che l’interprete è chiamato a risolvere è stabilire se le attività istruttorie avviate in Francia si traducano in operazioni di “bulk interception of data”, cioè di raccolta massiva di dati o se, diversamente opinando, si tratti di una “captazione c.d. mirata”.
La giurisprudenza della Corte Edu, da tempo impegnata a tracciare i confini di tutela del diritto alla vita privata e familiare, al domicilio e alla corrispondenza, ha affrontato in più occasioni la delicata questione della captazione massiva di dati, originariamente circoscritta all'intercettazione collettiva — c.d. “sorveglianza segreta” — di telefoni fissi (Corte eur. diritti dell'uomo 6 settembre 1978, Klass e al. c. Germania, in <hudoc.echr.coe.int>), poi progressivamente estesa ai telefoni cellulari Corte eur. diritti dell'uomo 29 giugno 2006, Weber e Saravia c. Germany, in <hudoc.echr.coe.int>; 1° luglio 2008, Liberty e al. c. Regno unito, ibid.; 4 dicembre 2015, Roman Zakharov c. Russia, ibid.) e più di recente alle intercettazioni indiscriminate effettuate dai servizi di intelligence.
I giudici di Strasburgo sono giunti ad ammetterne la liceità “per indagare su alcuni reati gravi” (Corte eur. diritti dell'uomo, grande camera, 25 maggio 2021, Big Brother Watch e al. c. Regno unito, in <hudoc.echr.coe.int>, § 345; 25 maggio 2021, Centrum för Rättvisa c. Svezia, ibid., § 259.) a condizione, però, che vengano previste efficaci garanzie contro il rischio di abusi e di arbitrii nelle fasi di adozione della misura, della sua esecuzione e del controllo successivo.
Per saggiare se le operazioni sky-ecc ed Encrochat, condotte nell'ambito di diversi procedimenti penali, siano qualificabili come “bulk interception of data” e valutarne l'ammissibilità anzitutto rispetto all'art. 8 Cedu, è possibile prendere a parametro di riferimento le indicazioni che i giudici convenzionali hanno fornito nelle citate Big Brother Watch c. Regno unito e Centrum för Rättvisa c. Svezia; pronunce, queste ultime, nelle quali è stata vagliata la conformità di pratiche di sorveglianza di massa — implicanti la raccolta di dati, metadati e comunicazioni elettroniche — con le garanzie previste dalla convenzione europea dei diritti dell'uomo.
In tanto un'intercettazione può dirsi “di massa” in quanto presenti le seguenti caratteristiche: i) le comunicazioni riguardino un gran numero di persone, molte delle quali non sono affatto di interesse per le autorità di intelligence; ii) la captazione massiva è generalmente diretta alle comunicazioni internazionali; iii) in molti casi, lo scopo dichiarato dell'intercettazione massiva è quello di monitorare le comunicazioni di persone al di fuori della giurisdizione territoriale dello Stato e, infine; iv) l'intercettazione sembra essere utilizzata ai fini della raccolta di informazioni di intelligence estere.
È opportuno sottolineare che l'intercettazione di massa compiuta dai servizi segreti è operazione diversa rispetto a quella esperita nel contesto di un procedimento penale (come nei casi più recenti di sky-ecc ed Encrochat) con scopi di repressione. Anzitutto, diverge lo scopo della raccolta dei dati: l'intelligence solitamente esegue la captazione indiscriminata con l'intento di raccogliere informazioni di servizi segreti stranieri o di individuare e indagare tempestivamente su attacchi informatici, controspionaggio e atti di terrorismo. Le attività in seno alla piattaforma sky-ecc hanno invece perseguito l'obiettivo di contrastare reati di criminalità organizzata dedita al traffico internazionale di stupefacenti.
In secondo luogo, l'intercettazione collettiva in un contesto di intelligence è generalmente diretta alle comunicazioni di persone o organizzazioni al di fuori della giurisdizione territoriale dello Stato. Nell'operazione sky-ecc, il traffico di rete è stato intercettato attraverso l'utilizzo di uno o più trojan horses inoculati su server specifici utilizzati da sky-ecc Globalpresso un unico fornitore di servizi Internet in Francia. Questa intercettazione è dunque “più mirata”.
E infatti, secondo gli organi giurisdizionali di molti Stati europei, le indagini condotte sui criptofonini nei casi sky-ecc ed Encrochat non costituirebbero un'ipotesi di ”bulk interception of data”. Ad esempio, il Tribunale distrettuale di Amsterdam (Corte distrettuale di Amsterdam 17 marzo 2022), chiamato a pronunciarsi sulla vicenda Encrochat,pur ritenendo che possa sussistere «a (potential) large infringement on privacy» — una (potenziale) grande violazione della privacy — ha statuito che non si tratti affatto di “bulk data”, nel senso di raccolta indifferenziata di dati, essendo le captazioni indirizzate a un target definito di persone — gli utenti Encrochat — additate di un sospetto specifico — che la piattaforma venisse impiegata interamente o prevalentemente da partecipanti alla criminalità organizzata per compiere reati.
Tuttavia, stando anche agli ultimi approdi giurisprudenziali, occorre prestare estrema attenzione all'automatismo in forza del quale, considerate le caratteristiche tecniche degli strumenti di messaggistica, la piattaforma criptata possa essere utilizzata «esclusivamente» da membri dell'organizzazione criminale, senza alcuna considerazione in ordine al ruolo eventualmente rivestito dall'imputato, dato che siffatta presunzione si riverserebbe direttamente sulla fairness processuale, pregiudicando l'art. 6 Cedu sotto il profilo del diritto di difesa (V. Veronica, Criptofonini e indagini digitali transfrontaliere su larga scala: un difficile equilibrio tra privacy, fairness processuale ed esigenze di repressione dei reati, in Foro it., 2024, II, 566).
Ciononostante, la motivazione de qua ricorre anche nelle pronunce di altri tribunali olandesi (Corte distrettuale del North Holland 4 maggio 2022; Corte distrettuale del Zeeland-West-Brabant 10 giugno 2022), tra le motivazioni dei giudici di merito italiani (Trib. Reggio Calabria, ord. 29 agosto 2023: si tratta di apparecchi non intercettabili, progettati per le attività criminali e normalmente utilizzati — tenuto conto anche degli esorbitanti costi e della necessità di conoscere i nickname delle persone con cui si vuole conversare — da strutturate organizzazioni criminali), in alcune sentenze della Corte suprema norvegese (Corte suprema norvegese 30 giugno 2022, HR-2022-1314-A, case no. 22-027874STR-HRET, case no. 22-027879STR-HRET e case no. 22-027883STR-HRET) e della Corte suprema federale tedesca (Bundesgerichtshof tedesco, sent. 5 StR 457/21 del 2 marzo 2022); decisioni, queste, in cui è stata stabilita in modo definitivo la legittimità dell'uso dei dati di Encrochat e sky-ecc nei procedimenti penali (per la Francia, Conseil constitutionnel, decisione n. 2022-987 QPC, dell'8 luglio 2022; per la Germania, Bundesgerichtshof, sent. 5 StR 457/21 del 2 marzo 2022, cit.; per i Paesi Bassi, Hoge Raad, sent. 913 del 13 giugno 2023).
Le operazioni di captazione di grandi quantità di dati, in blocco o meno, si articolano in un iter procedurale ben preciso: a) l'intercettazione e la conservazione iniziale delle comunicazioni e dei dati relativi alle comunicazioni (cioè i dati di traffico appartenenti alle comunicazioni intercettate); b) l'applicazione di “selettori specifici” al materiale raccolto; c) l'analisi per estrarne informazioni rilevanti e, infine, d) la successiva conservazione dei dati e il loro impiego, che include eventualmente anche la condivisione con terzi. I giudici convenzionali ritengono che l'art. 8 Cedu proietti la sua tutela lungo ciascun segmento, sebbene l'interferenza sia progressivamente tanto più marcata quanto più avanzata è la fase in cui stazioni l'operazione.
Tra le garanzie che la Corte Edu ritiene necessarie in operazioni che involgono una grande quantità di dati spicca, senza dubbio, il controllo che un'autorità indipendente è chiamata a esercitare su ciascuna fase, in modo tale che l'ingerenza sui diritti umani possa essere limitata a ciò che è “necessario in una società democratica”.
In particolare, l'organo di controllo dovrebbe valutare la necessità e la proporzionalità dell'azione intrapresa, tenendo debitamente conto del corrispondente livello di intrusione nei diritti tutelati dalla convenzione.
Al riguardo dirimente è la presenza di «garanzie end-to-end»: al fine di ridurre al minimo il rischio di abuso, la corte considera che, a livello nazionale, deve essere effettuata una valutazione in ogni fase del processo circa la necessità e la proporzionalità delle misure adottate; che l'intercettazione di massa debba essere soggetta a autorizzazione indipendente all'inizio, quando vengono definiti l'oggetto e l'ambito dell'operazione; e che l'operazione debba essere soggetta a supervisione e revisione indipendente ex post facto.
Secondo la corte, queste sono salvaguardie fondamentali di qualsiasi regime di intercettazione di massa conforme all'art. 8 Cedu. È altamente probabile che, a prescindere dalla circostanza che si tratti di “bulk data” o meno, analoghe garanzie verranno richieste anche nei casi sky-ecc ed Encrochat.
Nella prima fase — quella che potremmo definire di “raccolta” — le autorità francesi hanno ottenuto un'autorizzazione per intercettare i dati per un periodo di tempo limitato e per trasferirli ad altri Stati al fine di trovare una soluzione per decifrare il traffico di rete. Una tecnica di decriptazione, sviluppata dalle autorità olandesi (c.d. “sistema Hansken”), è stata poi condivisa con la polizia francese. Un giudice d'oltralpe ha quindi successivamente autorizzato l'intercettazione per un periodo di tempo più lungo. In sintesi, un test sulla necessità e la proporzionalità si è svolto nella fase di raccolta dell'operazione sky-ecc.
Le attività compiute in Francia debbono essere considerate legittime sulla base del principio di fiducia reciproca: tra gli Stati membri dell'Unione non sussistono regole uguali per l'assunzione della prova; si suppone, invece, un analogo livello di protezione dei diritti individuali. Quando emette un o.e.i. diretto al trasferimento di prove esistenti, l'autorità di emissione è vincolata al principio del mutuo riconoscimento, che costituisce la “pietra angolare” su cui si fonda la cooperazione in materia penale nell'Unione europea. Poiché i dati di Encrochat e sky-ecc sono stati intercettati dalle autorità francesi nell'ambito di un'indagine condotta sulla base del loro codice di procedura penale, il ricorso al principio della mutual trust implica che gli organi giurisdizionali chiamati a valutare gli esiti delle attività istruttorie condotte in Francia, debbono ritenere affidabili e legittime le intercettazioni dei dati.
La circostanza che la prima delle quattro fasi, quella di raccolta, sia stata assistita dalle garanzie procedurali necessarie assicura la legittimità delle attività istruttorie francesi sul versante dell'art. 8 Cedu. Resta, quindi, da determinare se le operazioni compiute — tanto in Francia, quanto in Italia dopo la trasmigrazione dei dati e ancora coperte da segreto di Stato — siano state condotte in maniera tale da rispettare i diritti sanciti, nell'alveo del giusto processo, dall'art. 6 Cedu. Fatta salva la necessità del relativo bilanciamento con interessi quali la sicurezza nazionale o la segretezza dei metodi di indagine della polizia, infatti, occorre verificare se gli atti istruttori richiesti siano stati acquisiti nel rispetto delle garanzie procedimentali che, anche alla luce del diritto interno (art. 268, commi 6, 7 e 8, c.p.p.), obbligano a mettere la difesa nelle condizioni di conoscere le modalità di acquisizione delle comunicazioni scambiate mediante il sistema sky-ecc, per verificare la corrispondenza dei testi acquisiti in originale e dei testi decodificati, nonché la coincidenza delle utenze dei soggetti identificati come mittenti e destinatari (V. Veronuca, Criptofonini e indagini digitali transfrontaliere su larga scala: un difficile equilibrio tra privacy, fairness processuale ed esigenze di repressione dei reati, cit.).
4. L’estensione della disciplina interna sulla circolazione delle prove fra procedimenti diversi.
Le Sezioni Unite si sono occupate preliminarmente di individuare la natura delle operazioni istruttorie in questione, le quali non consistono in un’acquisizione di documenti e dati informatici conservati all’estero” ai sensi dell’art. 234 bis c.p.p. (M. Daniele, Ordine europeo di indagine penale e comunicazioni criptate: il caso Sky ECC/Encrochat in attesa delle Sezioni Unite, in sistemapenale.it, 11 dicembre 2023; E. Lorenzetto, L’acquisizione all’estero di comunicazioni digitali criptate nella fucina dell’ordine europeo di indagine penale, in Cass. pen., 2024, p. 182 s.).
Quest’ultima, osserva la Corte di cassazione, è una disciplina “alternativa e incompatibile” rispetto a quella dettata in tema di OEI; essa “prescinde” “da forme di collaborazione con l’autorità giudiziaria di altro Stato”, laddove il Considerando 35 della direttiva qualifica l’OEI come prevalente su tutti gli altri pertinenti strumenti internazionali che dovessero concorrere in materia.
Nel caso dell’OEI operano le garanzie che devono assistere la raccolta delle prove tramite questo strumento. In particolare, il principio di equivalenza, ai sensi di cui l’atto di indagine richiesto nell’OEI dovrebbe poter essere emesso “alle stesse condizioni in un caso interno analogo”; e il principio di proporzionalità, il quale esige che le eventuali compressioni dei diritti fondamentali originate dalle attività istruttorie siano contenute nello stretto necessario, e comunque non intacchino i nuclei essenziali dei medesimi.
Il problema, qui, è comprendere come tali principi operino rispetto a prove che, in quanto autonomamente raccolte dalle autorità straniere, sono già state preformate sulla base della lex loci, a prescindere dalle regole previste dalla lex fori.
Siccome la direttiva e il d.lgs. n. 108 del 2017 si disinteressano della questione, non resta che prendere le mosse dall’art. 78 disp. att. c.p.p., relativo all’acquisizione della “documentazione di atti di un procedimento penale compiuti da autorità giudiziaria straniera”: una prescrizione concepita in un momento storico in cui l’unico strumento di raccolta transnazionale delle prove era rappresentato dalle rogatorie, ma che può senz’altro essere ritenuta applicabile anche all’OEI. (M. Daniele, Le sentenze gemelle delle Sezioni Unite sui criptofonini, in www.sistemapenale.it).
Vi si prevede, al comma 1, che la documentazione in questione “può essere acquisita” nei procedimenti penali nazionali “a norma dell’articolo 238 del codice”: vale a dire, delle prescrizioni che, in ambito nazionale, regolano la circolazione delle prove da un procedimento penale ad un altro.
Per le Sezioni Unite, venendo in gioco prove già autonomamente raccolte dalle autorità straniere prima dell’emissione dell’OEI, l’equivalenza con in casi interni analoghi va parametrata in rapporto non alla disciplina nazionale della “formazione”, ma a quella della “circolazione” delle prove fra procedimenti diversi.
Da tale premessa, ne discende quale corollario che in questi casi le sole regole probatorie rilevanti ai fini dell’acquisizione in Italia delle prove già raccolte all’estero sono quelle rinvenibili nell’art. 238 c.p.p., a cui l’art. 78 disp. att. rinvia; nonchè, qualora le prove fossero state acquisite con le forme delle intercettazioni di comunicazioni, quelle rinvenibili nell’art. 270 c.p.p., il quale, sebbene non espressamente richiamato, può ritenersi applicabile in virtù della logica sottesa all’art. 78 disp. att.
5. Nessun controllo giurisdizionale anticipato nello Stato di emissione.
Inoltre, per il giudice di legittimità deve escludersi che per l’emissione di un OEI finalizzato all’acquisizione di comunicazioni criptate già autonomamente raccolte all’estero, sia necessaria l’autorizzazione preventiva di un giudice dello Stato di emissione.
Se la circolazione di prove del genere da un procedimento ad un altro avvenisse a livello nazionale, tale autorizzazione preventiva non servirebbe, in quanto non richiesta nè dall’art. 238, nè dall’art. 270 c.p.p.
In applicazione del principio di equivalenza, pertanto, la Corte di cassazione ritiene che pure il corrispondente OEI possa essere emesso direttamente da un pubblico ministero. Ciò, si badi bene, anche quando le prove richieste fossero già state raccolte all’estero attraverso intercettazioni o acquisizione di tabulati: vale a dire, operazioni istruttorie che, a differenza delle perquisizioni e dei sequestri, a livello nazionale non potrebbero essere disposte direttamente dal pubblico ministero, ma necessiterebbero di una preventiva autorizzazione giurisdizionale.
Tale conclusione trova una conferma anche nella più sopra menzionata sentenza della Corte di giustizia relativa al caso Encrochat.
Il pubblico ministero, osservano i giudici di Lussemburgo, figura tra i soggetti che, ai sensi dell’art. 2 lett. c della direttiva, possono costituire un’autorità di emissione dell’OEI. L’unica condizione è che l’organo di accusa sia competente, in un caso interno analogo, “ad ordinare un atto di indagine diretto alla trasmissione di prove già in possesso delle autorità nazionali competenti”.
6. Il controllo giurisdizionale non è escluso (anche se postumo).
Sotto il profilo della garanzia del diritto costituzionale della libertà personale, la Corte di cassazione non esclude che nello Stato emissione sia possibile prescindere da un vaglio giurisdizionale tout court.
Ciò discende dal già ricordato obbligo di rispettare i diritti fondamentali nei limiti del principio di proporzionalità, rispetto a cui il controllo giurisdizionale rappresenta un prerequisito essenziale.
Neppure va trascurata l’esigenza di assicurare che agli atti istruttori richiesti nell’OEI siano applicabili “mezzi d’impugnazione equivalenti a quelli disponibili in un caso interno analogo”, tali da permettere, nell’ambito dello Stato di emissione, di contestare le “ragioni di merito dell’emissione dell’OEI”.
Inoltre, lo Stato di emissione dovrebbe assicurare un mezzo di impugnazione nei confronti dell’OEI perfino quando questo non fosse contemplato in rapporto ad un caso interno analogo: un dovere non statuito dalla direttiva, ma introdotto dalla sentenza Gavanozov II della Corte di giustizia dell’Unione Europea in applicazione del diritto ad un ricorso effettivo previsto dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (c.d. Carta di Nizza), al fine di assicurare uno standard di tutela unitario indipendente dalle caratteristiche degli ordinamenti dei singoli Stati (Corte giust., 11 novembre 2021, Gavanozov II, C-852/19).
Il giudice della nomofilachia ritiene di attribuire tale vaglio al giudice nazionale chiamato ad utilizzare le prove autonomamente raccolte all’estero e trasmesse tramite l’OEI: in particolare, al giudice di merito o al giudice chiamato ad applicare una misura cautelare, i quali conservano “integro il potere di valutare se vi siano i presupposti” per “ammettere” ed “utilizzare” tali prove ai fini delle decisioni di loro spettanza”.
A tale soluzione si potrebbe contestare che così non si garantirebbe il diritto al controllo giurisdizionale attraverso un mezzo specifico di impugnazione, postulato dalla sentenza di Gavanozov II della Corte di giustizia a prescindere dalla sua previsione da parte dell’ordinamento dello Stato di emissione in un caso interno analogo, ma è stato efficacemente sottolineato in dottrina che tale diritto, in quella sentenza, non è identificato in modo così netto. Per quanto, infatti, la Corte di giustizia richieda che le persone coinvolte dagli atti istruttori disposti con l’OEI dispongano di “mezzi di impugnazione appropriati”, essa comunque non esclude che si possa equiparare a questi ultimi il vaglio di ammissibilità operato dal giudice dello Stato di emissione chiamato ad utilizzare le prove (M. Daniele, Le sentenze gemelle delle Sezioni Unite sui criptofonini, cit.).
Ne consegue che il controllo giurisdizionale ex post esercitato dal giudice deputato ad utilizzare le prove già autonomamente raccolte all’estero può risultare sufficiente.
Il vero problema, piuttosto, riguarda i limiti di tale controllo.
L’art. 14 § 7 della direttiva si limita a richiedere il rispetto dei “diritti della difesa” e delle “garanzie del giusto processo nel valutare le prove acquisite tramite l’OEI”.
A livello nazionale, non è molto più preciso l’art. 36 del d.lgs. n. 108 del 2017, che ripropone la medesima regola prevista dall’art. 431 comma 1 lett. d c.p.p. per l’utilizzabilità delle prove raccolte tramite le rogatorie: sono ammissibili i “verbali degli atti” “assunti all’estero a seguito di ordine di indagine ai quali i difensori sono stati posti in grado di assistere e di esercitare le facoltà loro consentite dalla legge italiana”.
La laconicità dei testi normativi comporta il rischio di sfumare i contorni del controllo esercitato dal giudice chiamato ad utilizzare le prove.
Le sentenze in commento precisa che ai fini dell’utilizzabilità nello Stato di emissione di atti acquisiti mediante OEI, “è necessario garantire il rispetto dei diritti fondamentali previsti dalla Costituzione e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, e, tra questi, del diritto di difesa e della garanzia di un giusto processo”; “ma non anche l’osservanza, da parte dello Stato di esecuzione, di tutte le disposizioni previste dall’ordinamento giuridico italiano in tema di formazione ed acquisizione di tali atti”, considerato che nessuna norma della direttiva e del d.lgs. n. 108 del 2017 “prevedono, ai fini dell’utilizzabilità degli atti formati all’estero, la necessità di una puntuale applicazione di tutte le regole che l’ordinamento giuridico italiano fissa, in via ordinaria, per la formazione degli atti corrispondenti formati sul territorio nazionale”.
Dalla lettura dell’ordito motivazionale sembra che le Sezioni Unite individuano almeno due specifici requisiti di utilizzabilità.
Anzitutto, quando vengano in gioco prove raccolte autonomamente all’estero tramite atti che, come le intercettazioni o l’acquisizione di tabulati, a livello nazionale richiederebbero l’autorizzazione preventiva di un giudice, la Corte di cassazione pare richiedere una condizione ben precisa: il fatto che l’acquisizione delle suddette prove fosse a suo tempo stata autorizzata ex ante da un giudice nello Stato di esecuzione.
Tale presupposto, perlomeno nel caso esaminato dalla sentenza Giorgi, poteva ritenersi integrato, se si considera che le comunicazioni criptate erano state acquisite a seguito di provvedimenti motivati emessi da juges d’instruction francesi.
In secondo luogo, la sentenza Giorgi aggiunge che, qualora le comunicazioni fossero state autonomamente acquisite all’estero con la forma delle intercettazioni, sarebbe necessaria la loro rilevanza per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza, così come previsto dall’art. 270, comma 1, c.p.p.
Qualora, poi, tali intercettazioni fossero state eseguite all’estero in rapporto ad indirizzi di comunicazione situati in Italia, opererebbe senz’altro l’obbligo di notifica delle operazioni alle competenti autorità italiane in forza degli artt. 31 della direttiva e 24 del d.lgs. n. 108 del 2017. In questi casi, le intercettazioni diverrebbero inutilizzabili qualora non fossero ammissibili in un caso interno analogo: vale a dire, per quanto concerne l’Italia, se fossero state disposte in rapporto a reati per i quali non sarebbero consentite secondo l’ordinamento interno.
Inoltre, “l’onere di allegare e provare i fatti da cui inferire la violazione di diritti fondamentali grava sulla difesa, quando è questa a dedurre l’inutilizzabilità o l’invalidità di atti istruttori acquisiti dall’autorità giudiziaria italiana mediante OEI”: un principio, quest’ultimo, anch’esso operante nel settore delle rogatorie (Cass., Sez. 2, 18 maggio 2010, n. 24776), e comunque in linea con quanto avviene a livello nazionale, laddove spetta a chi afferma l’esistenza di un’invalidità processuale addurre i fatti che ne sono a fondamento.
Considerazioni non molto diverse sono, del resto, rinvenibili nella sentenza Encrochat della Corte di giustizia, laddove si legge che l’autorità di emissione, quando intenda ottenere la trasmissione di prove già in possesso delle competenti autorità dello Stato di esecuzione, “non è autorizzata a controllare la regolarità del distinto procedimento con il quale lo Stato membro di esecuzione ha raccolto le prove di cui essa chiede la trasmissione”. Diversamente, si correrebbe il rischio di condurre ad un “sistema più complesso e meno efficace”, in violazione dei principi del mutuo riconoscimento e della fiducia reciproca che connotano il sistema della cooperazione giudiziaria nell’ambito dell’Unione Europea.
7. Il controllo sulle ragioni di merito dell’emissione dell’OEI.
Al contrario, il controllo operato dal giudice nazionale chiamato ad utilizzare le prove, anche se già autonomamente raccolte all’estero, non può prescindere da un vaglio del rispetto dei presupposti di merito di emissione dell’OEI stabiliti dalla lex fori.
Si tratta di un controllo che, specie laddove la lex loci non fosse contraddistinta da adeguati standard di garanzia, costituisce un passaggio indispensabile per assicurare che le attività istruttorie, nel comprimere i diritti fondamentali e, in particolare, la garanzia di riservatezza (artt. 8 CEDU e 7 Carta di Nizza) di cui godono le comunicazioni di cui di discute, rispettino il principio di proporzionalità.
In particolare, laddove le operazioni istruttorie fossero avvenute all’estero con le forme delle intercettazioni o dell’acquisizione di tabulati, tale vaglio, sia pure nel rispetto dell’onere di allegazione a carico di chi proponga eventuali contestazioni, non potrebbe trascurare i requisiti la cui inosservanza, a livello nazionale, determinerebbe l’inutilizzabilità delle prove raccolte: si pensi alla presenza di indizi dei reati elencati dal codice e, per quanto concerne le intercettazioni, all’assoluta indispensabilità.
Qualche accenno in questo senso è, peraltro, rinvenibile nella decisione Encrochat della Corte di giustizia, laddove si afferma che “il carattere necessario e proporzionato” dell’emissione dell’OEI deve essere “valutato unicamente” alla luce del diritto dello Stato di emissione, e si ribadisce la necessità di evitare che l’impiego dell’OEI ai fini della trasmissione di prove già autonomamente raccolte all’estero abbia l’effetto di eludere le condizioni previste dalla lex fori.
“Di conseguenza”, concludono i giudici di Lussemburgo, “se l’acquisizione di prove già in possesso delle autorità competenti di un altro Stato membro dovesse o apparire sproporzionata ai fini dei procedimenti penali avviati a carico dell’interessato nello Stato di emissione, ad esempio in ragione della gravità della violazione dei diritti fondamentali di quest’ultimo, oppure essere stata disposta in violazione del regime giuridico applicabile a un caso interno analogo, l’organo giurisdizionale investito del ricorso contro l’ordine europeo di indagine che dispone tale trasmissione dovrebbe trarne le conseguenze che si impongono in base al diritto nazionale”. Ossia, verrebbe da dire, dovrebbe applicare i divieti probatori che, a parità di condizioni, opererebbero in casi interni analoghi.
8. Modalità di raccolta delle prove da parte dell’autorità straniera e controllo giurisdizionale.
Il controllo operato dal giudice nazionale chiamato ad utilizzare le prove, sempre in osservanza dell’onere di allegazione a carico di chi eccepisca una violazione, deve riguardare anche le modalità con cui esse sono state raccolte all’estero, specie laddove queste fossero tali, in ambito nazionale, da originare un divieto probatorio.
Qui viene in gioco un problema connesso alla peculiare natura delle operazioni istruttorie di cui si discute, le quali consistono in sofisticate attività di acquisizione e di decriptazione da svolgere attraverso idonee tecniche informatiche e specifici algoritmi. Il pericolo, se non vengano compiute in modo corretto, è che diano origine ad esiti falsati, e non siano quindi in grado di rappresentare fedelmente il contenuto delle comunicazioni.
Al fine di scongiurare questo rischio, l’ideale sarebbe che la difesa della persona sotto procedimento potesse venire a conoscenza delle modalità di acquisizione delle comunicazioni e, in particolare, degli algoritmi utilizzati per decriptarle. In questo modo, anche attraverso la nomina di consulenti tecnici di parte, si realizzerebbe un pieno contraddittorio di tipo tecnico, prezioso per la corretta valutazione del peso probatorio delle comunicazioni acquisite (M. Daniele, Le sentenze gemelle delle Sezioni Unite sui criptofonini, in www.sistemapenale.it).
Il problema, tuttavia, è che spesso la trasmissione di tali informazioni da parte delle autorità straniere non avviene: vuoi per esigenze di segretezza dei metodi di indagine impiegati, al fine di non consentire agli esponenti della criminalità di prendere contromisure volte a nascondere le proprie comunicazioni attraverso tecniche informatiche ancora più efficaci; vuoi, addirittura, per esigenze di sicurezza nazionale, magari tali da giustificare l’apposizione del segreto di Stato.
In casi del genere, non ne deriverebbe l’inutilizzabilità delle prove: tale esito non si verificherebbe neppure a livello nazionale, non essendo rinvenibile nel nostro sistema un divieto probatorio volto a sanzionare questo tipo di situazioni. È chiaro, tuttavia, che il contraddittorio ne risulterebbe depotenziato, potendo conseguirne una distorsione dell’accertamento dei fatti.
Ed è essenziale che il giudice chiamato ad utilizzare le prove ne sia ben consapevole, in modo tale da andare alla ricerca di adeguati elementi di riscontro alle prove così ottenute.
Le Sezioni Unite affermano che l’impossibilità per la difesa di conoscere gli algoritmi utilizzati dall’autorità giudiziaria straniera per la decriptazione delle comunicazioni “non determina, almeno in linea di principio, una violazione di diritti fondamentali”. Se è vero, ammette la Corte di cassazione, che la disponibilità di tale algoritmo è “funzionale al controllo di affidabilità del contenuto delle comunicazioni”, deve però osservarsi che “il pericolo di alterazione dei dati non sussiste, salvo specifiche allegazioni di segno contrario, in quanto il contenuto di ciascun messaggio è inscindibilmente abbinato alla sua chiave di cifratura, per cui una chiave errata non ha alcuna possibilità di decriptarlo, anche solo parzialmente”.
9. Nessuna critica?
Le due sentenze delle sezioni unite lasciano aperti molteplici interrogativi in ordine alla mancata conoscenza dei contenuti digitali, alla conseguente impossibilità delle difese di contrastarne gli esiti nonché da ultimo in relazione alla sufficienza del controllo giurisdizionale ex post rispetto ai gravi vulnera arrecati alla difesa.
L'assunzione a parametro “d'importazione” dell'art. 270 c.p.p., stando a quanto stabilito dai commi 2 e 3 della disposizione, dovrebbe garantire anche nella vicenda ad quem l'accesso diretto alla fonte di prova; accesso diretto che è stato reputato dalla Corte costituzionale (Corte cost. 10 ottobre 2008, n. 336) presupposto indefettibile per valutare la genuinità della prova e per verificare l'effettiva valenza dimostrativa degli elementi probatori. Ove il dato grezzo — che dovrebbe essere depositato unitamente a tutti i metadati — sia criptato, sarebbe necessario mettere a disposizione delle parti e del giudice la chiave per decifrarlo. Nella medesima direzione si muove peraltro l'art. 14, par. 7, della direttiva sull'ordine europeo di indagine, che nell'interpretazione offerta dalla Corte di giustizia (Corte giust. 30 aprile 2024, causa C-670/22, M.N., cit.) impone di espungere dal procedimento informazioni ed elementi di prova idonei ad influire in modo preponderante sulla valutazione dei fatti se l'imputato non sia in grado di svolgere efficacemente le proprie osservazioni.
L'approdo dei giudici di Lussemburgo parrebbe andare ben oltre le conseguenze della nullità a regime intermedio argomentabile dalla disciplina dell'intercettazione in caso di violazione delle disposizioni procedurali, per giungere sino ad affermare una vera e propria regola generale di inutilizzabilità patologica.
Secondo il costrutto delle sezioni unite, invece, l'asserita infallibilità dell'algoritmo — cui segue una fideistica presunzione di integrità dei dati trasmessi dall'autorità straniera — renderebbe del tutto superflua ogni garanzia difensiva di accesso, minando in radice il diritto di difesa (V. Veronica, Criptofonini e indagini digitali transfrontaliere su larga scala: un difficile equilibrio tra privacy, fairness processuale ed esigenze di repressione dei reati, cit. che evidenzia che l'impiego crossborder della prova allogena digitale acquisita su larga scala con mezzi tecnologici invasivi e decriptata fuori dal contraddittorio è elemento conoscitivo a tal punto seduttivo da divenire centro di gravità fagocitante le garanzie processuali: presunzioni di legittimità, di integrità, di genuinità e di affidabilità — disinvoltamente affermate dalle sezioni unite — evocano il sospetto, più che giustificato, che difficilmente le soluzioni delle sentenze in rassegna, sotto il versante del diritto di difesa e della parità delle armi, resisterebbero al giudizio incisivo della Corte europea dei diritti dell'uomo).
Pubblichiamo questo contributo in occasione del centenario della morte del Maestro Giacomo Puccini, nato a Lucca il 22 dicembre 1858 e scomparso a Bruxelles il 29 novembre 1924. La prima parte del contributo, apparsa su Questa Rivista il 30 novembre 2024, si può leggere qui.
All’alba vincerò!
La vittoria di Giacomo Puccini sul tempo. PARTE SECONDA.
di Gerardo Casiello
Sommario: PARTE PRIMA 1. Sei generazioni di musicisti – 2. Trenta chilometri a piedi per Aida – 3. Anni difficili a Milano – 4. Tonio Puccini e la fine di una stirpe di musicisti – 5. Un miracolo a Milano – 6. Le Villi, l’esordio operistico di Puccini – 7. L’influenza di Wagner – 8. Edgar: “la cosa più orribile che sia mai stata scritta” – 9. Anni difficili alla vigilia della gloria – 10. In anticipo sulla musica per il cinema – 11. Puccini e i suoi contemporanei – 12. Bohème: una sfida tra amici – 13. Il gioco e la caccia – 14. Caruso e Puccini: due amici ambasciatori dell’Italia nel mondo – 15. E lucean le stelle – 16. Il grammofono di casa Puccini – 17. Puccini e le “sue donne” – 18. Madama Butterfly – 19. Un fortunatissimo fiasco. PARTE SECONDA 20. Una tragedia in casa Puccini – 21. Il figlio illegittimo – 22. La fanciulla del west – 23. La grande guerra e La rondine – 24. Tre opere in una – 25. Un capolavoro incompiuto – 26. “Qui termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto” – 27. Puccini ascolta Puccini.
20. Una tragedia in casa Puccini.
Giacomo Puccini ha sempre viaggiato molto nonostante preferisse restarsene in disparte nella sua adorata villa di Torre del Lago. Durante i suoi viaggi che il più delle volte coincidevano con allestimenti delle sue opere, il Maestro aveva la possibilità di confrontarsi con altre realtà sociali, di conoscere nuove persone e suggestionarsi per trovare nuove storie sulle quali lavorare.
Fu nel gennaio del 1907, durante un allestimento a New York della terza revisione di Madama Butterfly, che Puccini ebbe l’occasione di assistere al nuovo dramma teatrale di David Belasco intitolato The girl of the golden west rimanendone fortemente impressionato, tanto da chiedere subito all’autore di poterne trarre un’opera lirica. Nell’autunno del 1907 era già al lavoro; essendo Giuseppe Giacosa morto nel 1906, e con Luigi Illica il rapporto non era proprio dei migliori, per il libretto della nuova opera La fanciulla del West, si affidò al poeta Carlo Zangarini e allo scrittore Guelfo Civinini.
[Giacomo Puccini durante l’allestimento di un’opera]
Gli anni tra il 1907 e il 1910 furono molto tumultuosi nella vita privata di Puccini. La Fanciulla del West ha un modello femminile riconducibile alla vita reale del Maestro: Giulia Manfredi, giovane donna che gestiva, insieme al padre, una trattoria sulla terrazza del molo di fronte casa di Puccini a Torre del Lago.
Giacomo era un assiduo frequentatore del posto, soprattutto dopo le sue battute di caccia. La ragazza, dal carattere forte e deciso, affascinò il compositore a tal punto che divennero amanti. La cugina di Giulia, Doria Manfredi, lavorava da alcuni anni come domestica a casa Puccini ed era il tramite tra il musicista e la sua amante, era colei che recapitava le lettere e i messaggi. La giovane Doria ebbe la sventura di cogliere in flagrante adulterio la figliastra di Puccini, Fosca, con il librettista Guelfo Civinini. Fosca, avendo notato la vicinanza di Doria al Maestro, si vendicò instillando in sua madre Elvira il dubbio di una relazione di Giacomo con la ragazza. La moglie del compositore divenne intrattabile e, dopo aver licenziato la ragazza, la ingiuriò per tutto il paese a tal punto che la giovane, non sopportando più il peso delle calunnie, si suicidò avvelenandosi.
Dall’autopsia risultò che Doria era vergine e la famiglia Manfredi denunciò Elvira che fu condannata a cinque mesi di carcere; non scontò mai la pena perché Puccini pagò 12.000 lire ai parenti della ragazza per chiudere il caso.
La figura di Doria la si ritroverà poi con il personaggio di Liù in Turandot.
Dopo questo scandalo Puccini si separò dalla moglie e vissero divisi per un periodo.
[Giacomo Puccini in uniforme da marinaio]
21. Il figlio illegittimo.
Giulia Manfredi, che fu amante del Maestro per circa 16 anni, nel 1923 si allontanò da Torre del Lago e, nella città di Pisa, diede alla luce un figlio nato dalla relazione con il musicista; il bambino fu chiamato Antonio, come il fratellastro, e portò il cognome della madre. Per più di un anno Puccini mandò regolarmente soldi alla famiglia che cresceva il bambino a Pisa ma poi, dalla morte del compositore avvenuta nel 1924, Giulia dovette provvedere da sola al mantenimento del figlio “segreto”. Ad Antonio fu sempre proibito di andare dalla madre a Torre del Lago.
Nel 1976, alla morte di Giulia, il figlio si recò al paese per prendere tutte le cose ereditate dalla madre, tra cui una valigia rimasta sepolta nella cantina di Manfredi per molti anni. Antonio scomparve nel 1988.
Nel 2008, il regista Paolo Benvenuti, dopo aver fatto interviste a persone molto anziane di Torre del Lago, venne a conoscenza dell’esistenza degli eredi di Giulia Manfredi residenti a Pisa. Benvenuti riuscì a rintracciare Nadia Manfredi nipote di Giulia e, dopo varie interviste che ricostruirono la storia fu recuperata, nella cantina che fu di Antonio, una valigia che conteneva numerosi documenti che riguardavano Giacomo e Giulia, numerosissime lettere e persino un filmino amatoriale risalente al 1915 che ritraeva il Maestro in scene di vita quotidiana nella sua casa.
Grazie a questa scoperta il regista Paolo Benvenuti e la moglie Paola Baroni hanno tratto un soggetto dalla storia e realizzato il film intitolato Puccini e la fanciulla.
22. La fanciulla del west.
Oltre al dramma di Belasco, Puccini fu ispirato anche dalla sua tragedia personale per la composizione de La fanciulla del west.
L’opera è ambientata in California nel contesto della corsa all’oro, un’epoca di grande tumulto e opportunità dove emergono temi di avventura e conflitto. La storia è situata in un saloon e tra i cercatori d’oro, conferendo un’atmosfera western che fu molto innovativa per l’epoca.
La protagonista Minnie è proprio come Giulia Manfredi, una figura forte e autonoma che sa difendersi e prendere decisioni coraggiose.
La donna è disposta a mettere a rischio la sua vita e il suo benessere per difendere il suo amato Dick, facendo emergere sentimenti di amore, sacrificio e giustizia. Puccini incorpora nell’opera scale esatonali, forti dissonanze e passaggi cromatici, mostrando ancora l’influenza di compositori a lui contemporanei come Debussy e Strauss. Questa evoluzione armonica segna una distanza rispetto alle convenzioni melodiche più tradizionali delle sue opere precedenti.
L’uso di accordi di nona e l’impiego di scale per toni interi contribuiscono a creare atmosfere nuove e suggestive.
Puccini utilizza inoltre melodie folkloristiche americane come Dooda dooda day, Ninna-nanna Pellerossa ispirata ai canti indiani, e ritmi di danza americani tipici dell’epoca come il Cakewalk per dare autenticità all’ambientazione western.
Questo approccio non solo arricchisce la partitura ma rende anche omaggio alla cultura statunitense.
A differenza delle opere precedenti di Puccini, i personaggi in La Fanciulla del West non cantano melodie o temi ricorrenti nel modo consueto; piuttosto, il loro stile è più parlato e azione-orientato, riflettendo una nuova direzione nella scrittura operistica.
Altre grandi innovazioni che Puccini inserisce nell’orchestra sono gli effetti sonori che saranno poi ampiamente utilizzati nel cinema: utilizza l’eliofono ossia una macchina che riproduce il suono del vento; si fa costruire apposta uno strumento chiamato Fonica che produce un particolare effetto di vibrato. Specifica inoltre in partitura l’inserimento di fogli di carta tra le corde dell’arpa per imitare il suono del banjo. In quest’opera Puccini porta la sua drammaturgia a un punto molto alto e cerca di fondere insieme tradizione europea e americana.
La fanciulla del west esordì il 10 dicembre del 1910 a New York presso il Metropolitan diretta da Arturo Toscanini con un cast di primordine tra cui Enrico Caruso, Emmy Destinn e Antonio Pini-Corsi.
Fu un clamoroso successo di pubblico ma la stampa specializzata come al solito fu spietata. Alcuni critici, come Sylvester Rawling, contestarono l’autenticità dell’opera, affermando che le melodie all’italiana suonavano fuori luogo nel contesto dei minatori americani. Gustav Kobbé invece sottolineò che l’opera non riusciva a catturare l’atmosfera locale e che i personaggi sembravano solo italiani travestiti da americani.
La storia si svolge nel saloon Polka gestito da Minnie, una giovane donna forte e indipendente. Il locale è frequentato da cercatori d’oro e fuorilegge. Tra i vari personaggi c’è Dick Johnson, un fuorilegge che si innamora di Minnie. Anche se Minnie è affascinata da lui, è insicura riguardo la sua vera identità. I minatori parlano della vita difficile nella miniera e della loro speranza di trovare oro; si fa anche riferimento al fatto che il bandito Jack Rance, il capo dei fuorilegge e sceriffo della zona, ha un interesse per Minnie.
Dick e Minnie approfondiscono il loro legame, lei però scopre che lui è un fuorilegge. Nonostante ciò, i loro sentimenti si intensificano. Nel frattempo, Jack Rance cerca di sedurre Minnie e, scoprendo la presenza di Dick, minaccia di rigorosamente farlo arrestare. La situazione si fa drammatica quando Minnie deve fare una scelta: il suo amore per Dick o la sua lealtà verso la legge.
Dick viene poi braccato dagli uomini di Rance e Minnie, nel tentativo di proteggerlo, affronta le forze dell’ordine e costruisce poi un piano per salvarlo. Con astuzia e coraggio, la donna riesce a salvare Dick dimostrando che il vero amore può superare le avversità. Alla fine Minnie e Dick riusciranno finalmente stare insieme.
23. La grande guerra e La rondine.
Dopo un periodo di separazione, a seguito della tragedia di Doria Manfredi del 1909, Puccini ritornò a vivere con la moglie Elvira; il rapporto però fu sempre conflittuale e il compositore si distraeva immergendosi nella lettura, nella scrittura della sua musica, ricercando sempre materiale per nuovi progetti.
Nel 1913 il Carltheater di Vienna gli commissionò un nuovo lavoro: un’operetta in un solo atto, ma il Maestro fu fortemente insoddisfatto del lavoro dei librettisti Alfred Willner e Heinz Reichert. Il contratto con Vienna fu poi sciolto a causa dello scoppio della prima guerra mondiale e Puccini, liquidati i librettisti affidategli dal teatro di Vienna, ripensò completamente l’assetto drammaturgico e trasformò il progetto iniziale in un’opera in tre atti. Per il libretto contattò il commediografo Giuseppe Adami con il quale intrecciò un rapporto di profonda amicizia e grande intesa professionale.
La Rondine occupa un posto unico nella produzione pucciniana, rappresentando una transizione verso un’opera più moderna e disincantata. È l’unica opera di Puccini priva di dialoghi parlati e può configurarsi come una commedia lirica.
La sua struttura atipica e i numerosi ripensamenti del Maestro mettono in discussione il concetto di capolavoro; l’uso di ritmi di danza riflette le influenze musicali contemporanee, dal valzer al tango, creando un’atmosfera meno drammatica e più giocosa. Mentre molte opere pucciniane esplorano il sacrificio e la tragedia, La Rondine affronta l’amore in modo più leggero e autoironico, con un finale che promuove la consapevolezza e la libertà essendo dunque un esperimento audace nella sua carriera drammaturgica.
Il valzer e il tango non sono utilizzati come elementi di sfondo ma come strumenti narrativi che riflettono le emozioni dei personaggi e la loro evoluzione. Questa scelta contribuisce a rendere l’opera una commedia lirica ibrida, caratterizzata da una varietà musicale che riflette l’influenza viennese, rendendo i momenti coreografici essenziali per la narrazione.
Adami fornì un libretto che permise a Puccini di esplorare temi di amore e libertà in un’atmosfera leggera ma emotivamente complessa. Tuttavia, la scarsa convinzione di Puccini nel progetto e la sua stanchezza creativa comportarono continui ripensamenti durante la gestazione dell’opera, influenzandone il risultato finale.
La storia si svolge a Parigi dove la giovane e bella Magda Civry si intrattiene nel lussuoso salotto della sua casa insieme a un gruppo di amiche, il suo ricco amante Rambaldo, il poeta Prunier e la cameriera Lisette. Magda rievoca con nostalgia il suo amore giovanile per uno studente. Ad un tratto entra nel salotto Ruggero, giovane amico di Rambaldo venuto dalla campagna, Magda resta subito colpita dalla sua serietà e timidezza. Quando Ruggero saluta i presenti per recarsi in un locale a passare la serata, Magda riesce a scoprire la destinazione del ragazzo e, travestendosi, si reca anch’ella al caffè Bullier.
Al locale Ruggero siede da solo a un tavolo non curandosi delle ragazze che gli ronzano intorno; giunta Magda si unisce a lui e iniziano a conversare e poi a danzare.
Intanto arrivano al locale Prunier, Lisette e infine anche Rambaldo che cerca di convincere Magda a tornare a casa con lui ma lei rifiuta dicendogli che si è innamorata di Ruggero.
I due amanti andranno poi a vivere sulla Costa Azzurra e il ragazzo chiede a Magda di sposarlo; Magda gli rivela il suo passato di donna mantenuta dagli uomini e che non avrebbe potuto sposare un uomo così sincero e di sani princìpi. Come una rondine, fa quindi ritorno alla lussuosa vita finta e monotona insieme al suo protettore Rambaldo.
Magda è quindi la bella mantenuta che cerca l’amore autentico. È romantica e nostalgica, ma anche consapevole della sua comoda situazione sociale e delle sue limitazioni; Ruggero è invece un giovanotto provinciale che rappresenta l’innocenza, la ricerca di un amore puro e di una vita semplice e felice.
Rambaldo, ricco banchiere e protettore di Magda, è il simbolo del denaro e dell’amore possessivo. Prunier, poeta cinico e arguto, incarna le nuove e frivole mode amorose parigine; infine Lisette, cameriera di Magda, ragazza concreta e pragmatica, rappresenta il contrasto alle aspirazioni romantiche di Magda.
La prima rappresentazione de La rondine si tenne Grand Théâtre de Monte Carlo il 27 marzo del 1917 e fu accolta da un pubblico caloroso, ma subì una stroncatura dalla critica.
Durante la Prima Guerra Mondiale (1915-1918), Puccini visse un periodo di grande angoscia e preoccupazione; era profondamente turbato dagli orrori del conflitto che definì in una lettera «[…] un’orribile sospensione della vita […]». Grande ansia gli procurò inoltre l’impiego al fronte del figlio Antonio. Il tutto influì pesantemente sulla sua produttività creativa, infatti in una lettera lamentava «[…] ho lavorato poco, questa guerra mi distorna […], che vale? Se non finisce questa guerra, che cosa se ne fa il mondo della musica? […]».
Puccini non si schierò mai politicamente, nel 1915 dichiarò: «[…] Un artista dovrebbe tenersi completamente fuori dalla politica. Almeno, questo è ciò che penso […]». Nonostante tutte le difficoltà continuò a comporre, e riuscì a ultimare un trittico composto dalle opere Il tabarro, Suor Angelica e Gianni Schicchi.
24. Tre opere in una.
Già nei primi anni del Novecento, il compositore aveva avuto l’idea di lavorare a un’opera composta da tre episodi tratti dalla Divina Commedia; per lungo tempo pensò a questo progetto che non si realizzò mai ma di cui se ne ha traccia con l’episodio di Gianni Schicchi per il trittico.
Nel 1812 aveva assistito a Parigi alla rappresentazione del dramma La houppelande di Didier Gold restandone molto colpito e dalla quale pensò di trarre un’opera. Affidò il soggetto al librettista Giuseppe Adami; tra l’estate e l’autunno del 1913 e poi dall’ottobre 1915 al novembre 1916, Puccini lavorò alla composizione de Il tabarro.
Dopo aver messo in scena Le rondini, il compositore pensò di riprendere l’opera in un atto e associarla ad altre due di argomento completamente diverso per avere un’opportunità rappresentativa caleidoscopica sotto il punto di vista musicale, drammaturgico e narrativo. Tra il 1917 e il 1918 compose Suor Angelica e Gianni Schicchi su libretto di Giovacchino Forzano.
Nonostante le sue qualità musicali, Il tabarro è una delle opere meno rappresentate del repertorio pucciniano. La sua narrazione cruda, che affronta il tema del proletariato parigino, l’hanno resa meno popolare rispetto ad altri titoli del compositore. Tuttavia, è considerata un’opera di grande originalità che mostra la capacità di Puccini di inserirsi nelle tendenze musicali europee del suo tempo.
Il Tabarro è caratterizzata da una forte drammaticità e una cupa atmosfera che riflette il tema del tempo che passa simboleggiato dal tramonto e dal lento scorrere della Senna. Puccini utilizza leitmotiv brevi e una struttura musicale basata su grandi blocchi tonali anticipando stilemi tipici dell’espressionismo.
L’opera è ambientata su un barcone da carico ancorato sulla Senna a Parigi, al tramonto. Michele, il proprietario del barcone e marito di Giorgetta, sospetta che la moglie lo tradisca. Giorgetta è innamorata di Luigi, un giovane scaricatore che lavora per Michele. Ogni sera, Luigi raggiunge Giorgetta attratto dal segnale di un fiammifero acceso. Michele, tormentato dalla gelosia e dalla perdita del loro figlio, medita vendetta. Una sera, Michele sorprende Luigi sul barcone, lo costringe a confessare il suo amore per Giorgetta e lo strangola. Nasconde poi il corpo nel suo tabarro. Quando Giorgetta si avvicina a Michele egli le mostra il cadavere di Luigi.
L’opera fu concepita per essere rappresentata insieme a Suor Angelica e Gianni Schicchi, offrendo così un’esperienza teatrale completa e variegata.
Ogni episodio del Trittico esplora temi diversi ma interconnessi.
Il Tabarro si concentra sulla gelosia e la tragedia, rappresentando un mondo cupo e senza speranza che può essere visto come infernale; Suor Angelica tratta l’espiazione e la redenzione, evocando il purgatorio. Infine, Gianni Schicchi offre una visione comica dell’avidità, con un tono più leggero e un finale paradisiaco.
Il Trittico è stato concepito come un percorso dall’oscurità alla luce. Questo viaggio emotivo è reso possibile attraverso la rappresentazione delle diverse sfumature dell’animo umano: passione, redenzione e avidità. L’ordine delle opere è cruciale per mantenere questo equilibrio drammatico.
Le tre opere si distinguono per i loro contrasti stilistici e tematici. Il Tabarro è un dramma realistico ambientato nella Parigi contemporanea a Puccini, mentre Suor Angelica in un convento del XVII secolo seguendo una narrazione lirica e religiosa. Gianni Schicchi è invece una commedia che si svolge nella Firenze medievale.
Suor Angelica è ambientata in un monastero nei pressi di Siena, verso la fine del XVII secolo. La protagonista è una giovane donna di famiglia aristocratica che da sette anni vive nel convento per espiare un peccato d’amore.
Durante questo lungo periodo, Angelica non ha avuto notizie del suo bambino nato da una relazione clandestina e che le era stato strappato subito dopo la nascita. Un giorno riceve la visita inaspettata della zia. Tuttavia, la donna non è venuta per concederle il perdono ma per chiederle di firmare un atto di rinuncia alla sua parte di eredità familiare, necessaria per costituire la dote della sorella minore prossima al matrimonio.
Angelica chiede insistentemente informazioni sul suo bambino e, con fredda crudeltà, la zia le rivela che il bambino è morto da oltre due anni a causa di una grave malattia.
Disperata per la notizia, la ragazza decide di togliersi la vita per ricongiungersi al figlio. Di notte si reca nell’orto del monastero e raccoglie delle erbe velenose con cui prepara una pozione mortale.
Dopo aver bevuto il veleno, Angelica implora il perdono della Vergine Maria e in quel momento avviene il miracolo: la Madonna appare sulla soglia della chiesetta e spinge il bambino tra le braccia della madre morente. Angelica muore riconciliata mentre un coro di angeli la accoglie in cielo.
Gianni Schicchi invece è ambientata a Firenze nel 1299. La storia si svolge attorno alla morte del ricco Buoso Donati e alle macchinazioni dei suoi avidi parenti per assicurarsi l’eredità.
L’opera si apre con i parenti di Donati riuniti intorno al suo letto di morte preoccupati per una voce che circola per cui il ricco avrebbe lasciato tutto il suo patrimonio ai frati. I parenti, ansiosi di conoscere il contenuto del testamento, lo cercano freneticamente e, una volta trovato, le loro paure sono confermate: Buoso ha effettivamente lasciato tutti i suoi beni ai frati.
In preda alla disperazione, il giovane Rinuccio suggerisce di chiamare Gianni Schicchi, uomo noto per la sua astuzia. Schicchi arriva insieme alla figlia Lauretta che è innamorata di Rinuccio.
Dopo aver valutato la situazione, Schicchi escogita un piano audace: si sostituirà al defunto Buoso, fingendosi ancora vivo, per dettare un nuovo testamento al notaio.
Schicchi si mette nel letto di Buoso e, imitandone la voce, detta un nuovo testamento al notaio. Con grande sorpresa e disappunto dei parenti, Schicchi lascia la maggior parte dei beni a se stesso, assicurando così un futuro per sua figlia Lauretta innamorata di Rinuccio.
L’opera si conclude con Schicchi che si rivolge direttamente al pubblico chiedendo l’assoluzione per il suo inganno che ha però permesso ai due giovani innamorati di sposarsi.
Puccini tratta questa vicenda, ispirata a un episodio dell’Inferno di Dante, con grande ironia e leggerezza musicale, trasformando il personaggio di Schicchi da tremendo falsario a simpatico furbetto, in una commedia sull’astuzia e la corruzione nella società italiana.
Il compositore utilizza diversi registri musicali per riflettere le diverse atmosfere delle tre opere. La musica de Il Tabarro è intensa e drammatica, con un’orchestrazione densa e dissonante che crea tensione, senza melodie semplici o facilmente riconoscibili. Suor Angelica presenta toni più lirici e spirituali, l’uso della vocalità femminile è predominante con cori celesti che aggiungono elementi eterei. La musica è raffinata e le sonorità sono vicine al canto gregoriano.
Gianni Schicchi, opera buffa dai toni grotteschi e giocosi che offrono un contrasto netto rispetto alle altre due opere, è caratterizzata da una scrittura brillante e ritmica; le melodie sono accattivanti e sottolineano il tono comico e la satira sociale della trama.
La prima rappresentazione italiana del Trittico, sotto la direzione di Gino Marinuzzi, fu l’undici gennaio 1919 presso il Teatro Costanzi di Roma con successo di pubblico e critica anche se, come già successo a New York, Gianni Schicchi fu l’opera più apprezzata; Suor Angelica fu “riabilitata” rispetto alle critiche ricevute in America mentre Il Tabarro fu aspramente criticata perché troppo cruda e violenta.
Arturo Toscanini espresse il giudizio definendola solo “Grand Guignol” (riferendosi al carattere violento e sensazionalistico).
È interessante notare che ci furono giudizi discordi non solo tra il pubblico ma anche tra gli addetti ai lavori. Mentre Toscanini criticava Il Tabarro, il compositore Ferruccio Busoni lo definì un vero capolavoro.
Il musicologo Fedele D’Amico spiegò queste differenze di giudizio sostenendo che Toscanini valutava l’opera secondo “categorie ottocentesche”, guardando principalmente al nucleo del dramma, mentre Busoni la giudicava secondo “categorie novecentesche”, prestando più attenzione all’elaborazione musicale e al paesaggio sonoro. Puccini, presente alla prima rappresentazione, che si dichiarò soddisfatto. Le reazioni contrastanti portarono presto allo “smembramento” del Trittico, con le tre opere spesso rappresentate separatamente negli anni successivi, contrariamente alle intenzioni originali del compositore.
25. Un capolavoro incompiuto.
Nei primi mesi del 1920 Puccini ricevette, dal critico teatrale e commediografo Renato Simoni, il testo della fiaba teatrale Turandot. Originariamente il dramma fu scritto dal veneto Carlo Gozzi e messo in scena nel 1762; il tedesco Friedrich Schiller ne realizzò poi una versione in tedesco che fu successivamente tradotta in italiano dal poeta Andrea Maffei.
Il compositore quindi non lesse la versione originale di Gozzi ma l’adattamento di Schiller/Maffei e ne fu subito profondamente affascinato.
Nella seconda metà del 1920 Puccini era già a lavoro su Turandot insieme ai librettisti Giuseppe Andami e Renato Simoni.
Turandot è un’opera al contempo semplice e complessa, è caratterizzata da forti contrasti enfatizzati da un costrutto simbolico importante, dove il binomio luce/oscurità è scenografato da un tramonto rosso sangue che si contrappone alla fredda luce lunare; la combinazione caldo/freddo è resa dal calore passionale del protagonista Calaf in contrapposizione alla gelida principessa Turandot. Calaf rappresenta la vita e l’amore mentre la morte è impersonata da Turandot.
Abbiamo quindi nei personaggi degli archetipi contrastanti: Liù, schiava devota, è l’emblema dell’amore sacrificale; Calaf è l’eroe redentore portatore di amore; Turandot è la principessa algida e crudele, simbolo di un femminile distruttivo.
Il nodo centrale dell’opera è la trasformazione psicologica di Turandot da principessa gelida e vendicativa a donna innamorata; fondamentali sono anche l’amore sacrificale di Liù e la passione vitale di Calaf. L’opera è intrisa di tragedia, rappresentata dal suicidio di Liù, di lirismo appassionato dato dalle arie di Calaf; troviamo inoltre momenti ironici e grotteschi con il trio dei ministri Ping, Pang e Pong.
Turandot rappresenta l’apice della sperimentazione musicale di Puccini, combinando elementi tradizionali dell’opera italiana con innovazioni armoniche e timbriche.
L’esotismo è un tratto distintivo della drammaturgia musicale dell’intero lavoro; Puccini incorpora autentiche melodie cinesi come l’inno imperiale e la canzone popolare Mo-li-hua, ascoltata su un carillon durante un soggiorno termale a Bagni di Lucca; utilizza scale pentatoniche per evocare l’atmosfera orientale. La partitura include una vasta sezione di percussioni accordate, gong e altri strumenti della tradizione cinese per ricreare sonorità asiatiche.
Essendo fortemente influenzato dalla musica del primo novecento, Puccini introduce dissonanze, bitonalità e cluster tonali. L’opera si apre infatti con un accordo dissonante che simboleggia il conflitto centrale della storia; l’orchestrazione ricca e variegata si avvale del più grande organico orchestrale mai utilizzato dal compositore.
Il coro ha un ruolo molto più prominente rispetto alle opere precedenti, quasi fosse un personaggio aggiuntivo. Puccini riesce con Turandot a coniugare l’innovazione tecnica e stilistica con la tradizione melodica italiana che trova il suo punto massimo nell’aria Nessun dorma, il cui motivo aleggia in molte parti dell’opera.
La storia si svolge a Pechino in un tempo non specificato; tutto ruota attorno alla principessa Turandot, donna bellissima ma dal cuore di ghiaccio, che ha giurato di non sposarsi mai. Per scoraggiare i pretendenti ha stabilito che chiunque voglia sposarla deve risolvere tre enigmi e coloro che falliscono verranno condannati a morte. La narrazione inizia con l’esecuzione dell’ultimo pretendente fallito, il Principe di Persia.
Tra la folla che assiste all’esecuzione c’è il principe Calaf che, folgorato dalla bellezza di Turandot, decide di tentare la prova degli enigmi nonostante le suppliche del padre Timur e della fedele schiava Liù.
Calaf riesce a risolvere i tre enigmi di Turandot, ma vedendo la principessa disperata, le offre una via d’uscita: se lei riuscirà a scoprire il suo nome prima dell’alba potrà farlo giustiziare. Turandot ordina quindi che nessuno dorma a Pechino finché non verrà scoperto il nome del principe. I ministri della principessa, Ping, Pang e Pong, cercano di corrompere Calaf ma senza successo. Liù e Timur vengono catturati e torturati per rivelare il nome del principe. Liù, per proteggere il segreto di Calaf di cui è segretamente innamorata, si uccide. Calaf, rimasto solo con Turandot, la bacia appassionatamente. Questo gesto scioglie finalmente il cuore della principessa che si innamora di lui.
Puccini purtroppo venne a mancare prima di completare l’opera, la sua scrittura si fermò con la morte di Liù.
La figura di Liù, ragazza devota che si toglie la vita per non tradire la fiducia di Calaf, è un riferimento abbastanza esplicito alla vicenda di Doria Manfredi che Puccini volle riabilitare immortalandola nell’opera.
Incredibile coincidenza che il compositore termini la sua carriera e la sua esistenza proprio in questo punto della composizione.
26. «Qui termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto».
Sin dall’adolescenza, Puccini fu fumatore incallito. Per tutta la vita amò il profumo e il sapore del tabacco, fu grande consumatore di sigarette ma anche di sigari Toscano. Verso l’estate del 1923 iniziò ad avvertire dei fastidi alla gola che, col passare dei mesi, divennero sempre più insistenti fino a quando non si trasformarono in dolori lancinanti. Il Maestro, assistito dal figlio Tonio, fu visitato dai migliori medici specialisti dell’epoca tra i quali Addeo Toti, Camillo Arturo Torrigiani e in fine, suggerito dalla sempre presente fedele amica Sybil Seligman, Giuseppe Gradenigo al tempo il più esperto chirurgo al mondo e pioniere dell’otorinolaringoiatria.
Gli fu diagnosticato un cancro all’epiglottide in stadio avanzato dovuto dal fumo. Puccini non fu mai messo al corrente della gravità del suo male.
Così scriveva all’amico Carlo Clausetti: «[…] Caro Carlo, il mio male è un papilloma, non grave, ma bisogna levarselo e presto; è situato sotto l’epiglottide. Ho telegrafato al professor Gradenigo, dovrò operarmi... col radio, a Firenze o a Parigi: Bella noia! Ma almeno ora so cos’è il mio male che da mesi m’impensierisce e mi tormenta. Ti prego, appena a Milano, di mandarmi una Tosca e una Bohème e inoltre i tre spartiti del Trittico che non ho, divisi. Vorrei sapere se nel Tabarro fu cambiato il monologo finale, e anche vorrei sapere perché queste tre opere rimangono inerti! Speriamo che possa guarire, che Turandot riprenda. Per ora tutta la musica di casa mia un silenzio doloroso! […]».
Al librettista e fedele amico Giuseppe Adami scrisse «[…] Caro Adamino, che volete che vi dica? Sono in un periodo tremendo. Questo mal di gola mi tormenta ma più moralmente che per pena fisica. Andrò a Bruxelles da un celebre specialista. Partirò presto. Aspetto risposta di là e Tonio che ritorni da Milano. Mi opererò? Mi si curerà? Mi si condannerà? Così non posso più andare avanti. E Turandot è lì. […] Vedremo, quando mi rimetterò al lavoro, al ritorno da Bruxelles. Speriamo che io ne esca bene di questa gola! Vi abbraccio[…]».
Il quattro novembre 1924, accompagnato dal figlio Tonio e dall’amico amministratore di Casa Ricordi Clausetti, Puccini partì alla volta di Bruxelles per curarsi presso la clinica del Dottor Ledoux. Giacomo fu raggiunto anche da Sybil Seligman che, avendo compreso la gravità dello stato di salute di Giacomo, sollecitò più volte sia Elvira sia Fosca a raggiungerli, dopo vari contatti solo Fosca si recò a Bruxelles. Le terapie al radio procedettero bene e gli specialisti avevano scongiurato il peggio e, dopo l’intervento chirurgico, diedero a Puccini certezze di guarigione; purtroppo la sera del 28 novembre sopraggiunse un infarto del miocardio che fece collassare la situazione.
Il Maestro si spense alle undici e trenta della mattina del 29 novembre a Bruxelles lontano dal suo amato paese.
Il primo funerale di Puccini a Bruxelles fu un evento solenne che si tenne il primo dicembre 1924.
La cerimonia funebre si svolse nella chiesa di Sainte-Marie e fu celebrata dal Nunzio Apostolico Micara, conferendo all’evento un carattere di grande importanza e rispetto.
Oltre alla cerimonia religiosa, il Teatro reale De La Monnaie rese omaggio al grande compositore con una rappresentazione speciale di Bohème. Durante questa commemorazione fu posta una grande corona di fiori al centro del palcoscenico, simboleggiando il lutto per la perdita del maestro. Prima dell’inizio dell’opera, il direttore del teatro pronunciò un commosso discorso per ricordare la figura artistica del compositore scomparso.
Il due dicembre 1924, alle ore 17, un treno speciale da Bruxelles giunse a Milano trasportando la bara di Puccini avvolta nel tricolore italiano. La salma fu accompagnata dai figli Antonio e Fosca.
La bara fu inizialmente trasferita nella chiesa di San Fedele dove venne allestita una camera ardente. La chiesa era stata addobbata a lutto e la bara fu disposta su un imponente catafalco circondato da 200 ceri accesi. Per tutta la notte, la salma fu vegliata nella chiesa.
Il giorno seguente, tre dicembre, alle 6:30 del mattino, la bara fu trasferita nel Duomo di Milano per la solenne cerimonia funebre. Qui fu collocata su un maestoso catafalco di velluto nero con frange d’oro, gli stessi paramenti utilizzati per il funerale di re Vittorio Emanuele II.
La cerimonia in Duomo fu particolarmente solenne e significativa:
fu celebrata alla presenza eccezionale del cardinale, un onore concesso in precedenza solo per i funerali di Alessandro Manzoni; l’orchestra del Teatro alla Scala, diretta da Arturo Toscanini, eseguì brani musicali, interpretando in chiave mistica la marcia funebre da Edgar; il coro del Duomo accompagnò la cerimonia; la chiesa e la piazza antistante erano gremite di autorità, figure istituzionali e comuni cittadini.
Dopo la cerimonia al Duomo, si formò un lungo corteo funebre che attraversò le strade di Milano; il percorso incluse una sosta significativa davanti al Teatro alla Scala.
Il corteo si concluse al Cimitero Monumentale di Milano. La bara fu portata a spalla nel Famedio dove si tenne un breve rito funebre. Infine, alla presenza dei parenti e degli amici più stretti, la salma di Puccini fu temporaneamente deposta nella cappella della famiglia Toscanini.
La scelta della sepoltura nella tomba di famiglia dell’amico Arturo Toscanini fu una soluzione provvisoria, due anni dopo, nel 1926, i resti del compositore furono trasferiti nel mausoleo appositamente costruito a Torre del Lago, come desiderato dal Maestro.
Turandot era rimasta incompiuta. La prima rappresentazione era già in cartellone per il febbraio del 1925 ma fu ovviamente cancellata. Puccini, dopo alti e bassi nel rapporto di amicizia con Arturo Toscanini, nei mesi precedenti alla sua morte, aveva riallacciato i rapporti e lo aveva convinto a occuparsi della nuova opera e dirigerne le prime esecuzioni.
Nei suoi ultimi giorni di vita Giacomo disse al figlio: «… se non finisco Turandot voglio che tu la faccia finire a Zandonai».
Scomparso il Maestro, l’editore Ricordi e Toscanini presero in mano l’opera ma affidarono il completamento a Franco Alfano.
La scelta ricadde su Alfano perché era l’autore de La leggenda di Sakùntala che aveva affinità tematiche e stilistiche con Turandot, entrambe le opere avevano un’ambientazione esotica e caratteristiche musicali simili.
Alfano era considerato uno degli ultimi rappresentanti della scuola verista italiana ed era quindi in linea con lo stile pucciniano; in più anche lui stava evolvendo verso sonorità più moderne. L’opera Risurrezione gli aveva dato fama internazionale dimostrando la sua capacità di comporre opere di successo.
Nonostante queste motivazioni, il compito di completare l’opera si rivelò molto complesso. Alfano dovette lavorare basandosi sui 36 fogli di appunti lasciati da Puccini. Produsse inizialmente una versione del finale molto estesa e troppo personale che poi dovette rivedere e tagliare su richiesta di Ricordi e Toscanini, creando così una versione più breve che è quella che viene generalmente eseguita.
La prima rappresentazione di Turandot ebbe luogo il 25 aprile 1926 presso il Teatro alla Scala di Milano sotto la direzione Arturo Toscanini.
Durante la prima, Toscanini interruppe l’esecuzione a metà del terzo atto subito dopo la morte di Liù, nel punto in cui terminava la partitura completata da Puccini, si rivolse al pubblico e disse: «Qui termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto».
L’impatto emotivo sul pubblico fu enorme. La sera successiva l’opera fu rappresentata nella sua interezza, includendo il finale composto da Alfano.
Turandot ebbe un grande successo di pubblico e critica e fu consacrata come uno dei capolavori di Puccini nonostante fosse rimasta incompiuta.
A cento anni dalla sua scomparsa Giacomo Puccini ha lasciato dunque un’indelebile eredità musicale che ha influenzato, e influenzerà, generazioni di compositori e amanti dell’opera.
27. Puccini ascolta Puccini.
Concludo questo scritto proponendo uno studio che renda omaggio, in modo originale, alla musica del grande Maestro e che ne valorizzi ulteriormente l’importanza: “Puccini ascolta Puccini - 1902/1924: uno studio filologico e comparato delle incisioni discografiche a 78 giri”.
Puccini ascolta Puccini è un ambizioso lavoro di digitalizzazione e restauro dei dischi a 78 giri incisi in Italia dalle società Gramophone-Società Nazionale del “Grammofono” e Fonotipia, dal 1902 al 1924. Questo progetto mira a preservare e diffondere l’opera di Puccini creando una risorsa digitale di inestimabile valore per gli ascoltatori, gli studiosi della musica e gli appassionati del repertorio pucciniano in tutto il mondo.
La parte fondamentale di Puccini ascolta Puccini verte sulla digitalizzazione accurata dei documenti fonografici incisi in Italia dal 1902 al 1924 e sull’individuazione della corretta velocità di rotazione dei dischi con la correzione operata in digitale. Questo processo richiede un attento studio di ciascun documento al fine di garantire che le registrazioni possano essere riprodotte alla veritiera intonazione, cosa che permetterà il fruire dell’interpretazione originale dell’esecuzione.
Poiché la bibliografia esistente relativa alle incisioni italiane del repertorio di Giacomo Puccini si presenta in modo discontinuo e frammentario, l’obiettivo è quello di ricostruire in modo accurato e unitario la discografia italiana del grande compositore, dagli albori della fonoriproduzione sino al 1924, anno della scomparsa dell’illustre Maestro.
Il rilevante ruolo giocato all’interno dell’allora giovane mercato discografico dalle compagnie fonografiche oggetto di studio, la Gramophone-Società Nazionale del “Grammofono” e la Fonotipia, le ha favorite nel porle al centro di questo progetto: è noto infatti il loro fondamentale contributo allo sviluppo e alla diffusione del “nuovo mezzo di comunicazione” in Italia nonché alla veicolazione della musica, sia come intrattenimento che come trasmissione di cultura. Il progetto Puccini ascolta Puccini adotta un approccio filologico rigoroso, enfatizzando l’accuratezza storica e l’integrità delle registrazioni. L’obiettivo è che i documenti sonori digitali siano il più fedeli possibile alle incisioni originali che Puccini e i suoi contemporanei usavano ascoltare con i fonoriproduttori dell’epoca. Questo approccio filologico mira a preservare non solo il suono, ma anche il contesto in cui queste registrazioni furono create. Lo studio dei documenti sonori propone anche la ricostruzione cronologica delle incisioni e la comparazione tecnico-stilistica delle esecuzioni dei vari interpreti; un obiettivo importante di questo lavoro comparativo è la valorizzazione degli esecutori la cui memoria è stata offuscata dallo scorrere del tempo. Grazie a contemporanee tecnologie mirate è dunque possibile fruire delle registrazioni del periodo acustico con un’esperienza di ascolto filologico, fedele il più possibile alle sonorità dell’epoca e che consenta di ipotizzare come Puccini stesso potesse ascoltare le proprie composizioni. Il restauro dei documenti autentici, attingendo a fondi fonografici pubblici e privati, sarà effettuato nel massimo rispetto dell’integrità e della tutela del documento originale, andando a intervenire unicamente sui difetti prodotti dall’usura del tempo, puntando a esaltare il suono originario. Puccini ascolta Puccini mira a ottenere risultati significativi che soddisfino sia il mondo del professionismo musicale e musicologico come quello dei melomani e dei comuni fruitori ed appassionati di musica. La creazione di una collezione digitale di registrazioni “autentiche” delle opere di Puccini consentirà ai fruitori di studiare in dettaglio le interpretazioni del repertorio dell’artista toscano incise da suoi contemporanei. Questo progetto favorirà la conservazione di queste preziose registrazioni preservandone la loro autenticità per le future generazioni. Inoltre permetterà al pubblico di tutto il mondo di accedere a questa eredità musicale unica e di immergersi nelle esecuzioni delle opere di Puccini quando egli era ancora in vita. Puccini ascolta Puccini rappresenta dunque un omaggio straordinario al genio di Giacomo Puccini nel centenario della sua morte. Questa iniziativa, che fonde la ricerca storica e musicologica con l’utilizzo di avanzati sistemi digitali, costituisce un prezioso contributo alla preservazione del patrimonio musicale italiano e alla diffusione della sua bellezza in tutto il mondo. La realizzazione di questo progetto richiede un impegno collettivo, unito dalla passione per la musica e dalla volontà di onorare e celebrare l’eredità di Giacomo Puccini per le generazioni future. La musica di Puccini è destinata a risuonare per sempre nei cuori e nelle orecchie di coloro che si immergono in questo viaggio sonoro.
Immagini tratte dell’Archivio del DMI – Dizionario della Musica in Italia – per gentile concessione del Maestro Claudio Paradiso.
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