Tutti, anche i magistrati, hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione (in qualunque forma, anche non verbale). Ma l’esercizio di questa libertà porta con sé obblighi e responsabilità. Questo il quadro di principio come si ricava dalla integrazione dell’art. 21 della Costituzione con l’art. 10 della Convenzione europea dei diritti umani.
Il codice etico della magistratura richiede al magistrato di ispirarsi a “criteri di equilibrio, dignità e misura” in ogni forma di espressione pubblica e, in generale, di mantenere una immagine di imparzialità e di indipendenza.
Vi sono dunque degli obblighi che si traducono in limiti per il magistrato che si esprima pubblicamente fuori dell’esercizio delle sue funzioni. Limiti il cui superamento difficilmente dà luogo a qualche forma di illecito e che tuttavia definiscono la figura del magistrato nella società: essi richiedono sensibilità, prudenza, consapevolezza della speciale natura delle funzioni che sono proprie ed esclusive del magistrato ed anche delle attese sociali in ordine ad esse. Si tratta di un complesso di principi, esigenze e attese che hanno ampi margini di evanescenza. Quella stessa evanescenza che connota la nozione di “cultura della giurisdizione” cui spesso si richiama la magistratura associata e ha ricadute che distinguono il magistrato da ogni altro cittadino.
Da ciò - dev’esser chiaro - non si trae che “il giudice si esprime solo nelle sentenze”, secondo una pretesa di silenzio che non ha base alcuna e non risponde all’interesse pubblico in una società democratica. In questo senso è l’importante orientamento della Corte europea dei diritti umani, più volte investita di ricorsi promossi da magistrati (spesso esponenti di associazioni di magistrati) colpiti da sanzioni penali o disciplinari per le loro dichiarazioni pubbliche.
La Corte, con riferimento alla libertà di espressione, ha più volte indicato che in una società democratica le questioni relative alla separazione dei poteri e l’indipendenza della giustizia costituiscono soggetti importanti che richiedono un’ampia protezione. Da un lato la missione particolare del potere giudiziario impone ai magistrati un dovere di riserbo, anche perché le parole del magistrato sono ricevute come frutto di una valutazione obiettiva. Esse impegnano non solo chi le esprime, ma tutta l’istituzione giudiziaria. Si ha quindi ragione di aspettarsi che il magistrato si avvalga della libertà di espressione con discrezione e misura ogni volta che l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario (la cui protezione è menzionata dallo stesso art. 10 Conv.) rischino di esser messe in discussione. D’altro lato, il fatto che un dibattito su tali temi abbia delle implicazioni politiche non è ragione per impedire ad un giudice di esprimersi in proposito. E quando il magistrato si esprime nella qualità di attore della società civile, come un dirigente di un’associazione di magistrati, egli ha il dovere e non solo il diritto di intervenire su questioni che riguardano il funzionamento della giustizia.
Come si vede, l’insieme di principi ed esigenze che entrano in campo trattandosi della libertà di espressione dei magistrati implicano sempre delicati bilanciamenti e contemperamenti: l’intervento del magistrato (e di un’associazione) può essere addirittura un dovere in una società democratica, ma non deve mettere in discussione la indipendenza ed imparzialità della giustizia, la sua immagine e la fiducia che deve poterne avere la società. Difficile esercizio, sempre legato alle forme del caso concreto, che richiede responsabilità da parte del magistrato e, per converso, pretende rispetto da parte di coloro cui le espressioni del magistrato sono rivolte.
Indipendenza e imparzialità sono doveri fondamentali riguardanti i singoli magistrati e la magistratura nel suo insieme. Vi è un nesso stretto tra ciò che riguarda il singolo magistrato che si esprime e le ricadute sulla magistratura tutta. Quando si dice – e si pretende che abbia portata generale – che la magistratura è “potere diffuso”, si deve poi considerare che il potere giudiziario tutto è coinvolto nel comportamento dei singoli magistrati. D’altra parte, le espressioni pubbliche di un magistrato sono accompagnate da particolare attenzione, proprio perché chi parla è magistrato. Ciò vuol dire che il magistrato spende la sua qualità e quindi, che lo voglia o no, coinvolge la magistratura. Ecco allora un aspetto della “responsabilità” menzionata dall’art. 10 della Convenzione europea dei diritti umani.
L’imparzialità è un aspetto particolarmente delicato ed importante che emerge quando vi sia polemica nei confronti del magistrato (il giudice in particolare) per sue espressioni, nel caso in cui successivamente, nell’esercizio delle sue funzioni, si pronunci su questioni toccate dalle sue precedenti prese di posizione. Si è detto e ridetto recentemente che l’imparzialità si traduce nell’obbligo di motivazione dei provvedimenti, la quale consente di valutarla, anche con le conseguenze possibili in sede di impugnazione. Ma non è così. L’imparzialità è esigenza autonoma ed è un carattere (e dovere) che precede la presa in carico di un affare da parte del giudice. Lo dimostra l’obbligo di astensione e la possibilità di ricusazione. La possibilità che la propria imparzialità sia messa in discussione nel processo impone al giudice una particolare prudenza prima del processo stesso. Il codice etico della magistratura richiede al giudice di valutare con particolare rigore l’esistenza di motivi di astensione per gravi motivi. E non è dubbio che vi sia un dovere del giudice di non mettersi in condizione di doversi astenere. L’imparzialità è qualcosa che riguarda l’idea che se ne fa lo stesso giudice – che si sente imparziale – , ma soprattutto l’idea – non pretestuosa – che se ne fanno le parti processuali, con le ricadute possibili sull’opinione pubblica e sulla fiducia generale nella amministrazione della giustizia. A proposito dell’opinione pubblica o di suoi settori, si può certo volta per volta ritenere ch’essa sbagli nel giudicare l’imparzialità del magistrato. Ma pur nella difficoltà della questione, non si può semplicemente ignorarla, poiché la fiducia nella magistratura è essenziale condizione in una società democratica.
Le prese di posizione pubblicamente espresse dai giudici danno luogo a problemi incidenti sulla loro imparzialità su due livelli: quello della generale fiducia sulla imparzialità della magistratura indipendentemente dall’incidenza su singoli provvedimenti e quello relativo alla partecipazione del giudice alla decisione di uno specifico caso. Con riferimento a questa seconda ipotesi e al tema della astensione rileva la sufficiente specificità del rapporto tra l’opinione espressa e l’oggetto della causa. Così, ad esempio, si ritiene che prese di posizione che esprimono un generale orientamento politico non implichino successivamente un dovere di astensione. Ma quando invece un nesso sufficientemente stretto esista viene in discorso quel che la Corte costituzionale, in tema di incompatibilità, ha chiamato “forza di prevenzione”: la difficoltà di cambiare idea e la naturale tendenza a mantenerla, tanto più quando quell’idea non sia rimasta nel foro interno, ma sia stata esplicitata.
Imparzialità vuol dire anche disponibilità a cambiare idea all’esito dell’ascolto delle ragioni delle parti nel processo. In proposito esiste un campo importante di manifestazioni del pensiero, che il magistrato esprime in campi spesso strettamente legati a ciò che professionalmente deve trattare. Vi è, da sempre, una massiccia e ricca partecipazione di magistrati al dibattito dottrinale, con note a sentenza, articoli, relazioni a convegni, monografie su questioni di diritto, che spesso ricadono nel campo della loro attività giudiziaria. Non risulta che questa tipologia di partecipazione dei magistrati al dibattito sia stata messa in questione sotto il profilo della loro successiva imparzialità (esistono casi di ricusazione?). Forse perché si tratta normalmente di dibattito tecnico-giuridico? O perché zittire i magistrati significherebbe una troppo grave perdita sul piano dello svolgersi della elaborazione del diritto? La “forza di prevenzione” in tali casi non opera? O si ha fiducia nella capacità dei magistrati di allontanarsi dalle posizioni in precedenza espresse e ricollocarsi nel ruolo giudiziario (con le deliberazioni collegiali, quando è il caso, il richiamo ai precedenti, la considerazione degli argomenti sviluppati dalle parti, ecc.)?
La questione però esiste e non è irrilevante nel dibattito generale sull’incidenza delle manifestazioni del pensiero dei magistrati sulla loro imparzialità: vuoi per una improbabile restrizione della partecipazione dei magistrati al dibattito dottrinale, vuoi per una meno schematica e polemica considerazione del tema generale.
(Immagine: Grandville, Descente Dans Les Ateliers De La Liberté De La Presse, Bibliothèque nationale de France, https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b53006319v)