La Relazione Lattanzi: il nuovo sistema sanzionatorio e “la questione cautelare”
di Giorgio Spangher
1. Interessato dalla significativa riforma attuata con la l. n. 47 del 2015, il tema delle misure cautelari è rimasto sinora fuori dal perimetro della riforma del processo penale, delineato dal d.d.l. A.C. n. 2435 e conseguentemente dall’iniziativa emendativa della Relazione Lattanzi, in attesa dell’iniziativa del Ministro.
Pur tuttavia, qualche riflessione dovrebbe essere svolta, in relazione alle possibili ricadute sul tema per effetto delle intersezioni con i rinnovati profili della disciplina sanzionatoria proposta dalla Commissione.
Com’è noto, la finalità della riforma, tesa ad assecondare i diktat europei, è costituita dalla necessità di accorciare i tempi del processo, nella misura del 25%.
L’obiettivo è perseguito, oltre ai tradizionali strumenti, costituiti dalla risorse umane e da quelle strutturali, dal ricorso alla strumentazione tecnologica e informatica, dalla riduzione dei tempi morti e delle stasi processuali, in larga parte attraverso una maggiore integrazione dei gradi e delle fasi, anche per effetto dell’alleggerimento del carico giudiziario.
Quest’ultimo obiettivo è perseguito, nella progressione processuale, attraverso meccanismi che ne consentono la “scrematura”, così da alleggerire di volta in volta il carico che si riverbera sulla fase successiva.
Così, in rapida sintesi, prima dell’esercizio dell’azione penale, sono previste il pagamento di una somma di danaro fissata dall’ente accertatore in caso di violazione delle previsioni contravvenzionali, con archiviazione in caso di assolvimento di quanto richiesto; l’archiviazione meritata; l’accentuata ipotesi di procedibilità a querela.
Vanno successivamente considerate le possibili decisioni di non punibilità per la particolare tenuità del fatto, le condotte riparatorie, la sospensione del processo e messa alla prova. Si tratta di strumenti deflattivi, in parte anche “sanzionatori” chiamati a precludere, in parte, i successivi sviluppi del processo. Ne sono ridefiniti contenuti e presupposti tesi ad un loro più solido contributo alla “missione” riformatrice. Piccoli chinese walls sono costituiti anche dalle nuove regole di giudizio chiamate ad arginare l’esercizio dell’azione (archiviazione) e l’emissione del decreto di citazione (passaggio a dibattimento).
In caso di soggetto irreperibile si emette una sentenza di improcedibilità, inoppugnabile, in attesa di reperire l’imputato.
Alla riferita finalità, nella visione già da essi prevista, ma incentivata nelle prospettazioni premiali, vanno naturalmente iscritti il procedimento per decreto, l’applicazione della pena a richiesta e il giudizio abbreviato.
Il panorama processuale si completa con la possibilità di definire il processo con il concordato in appello sui motivi e sulla pena.
L’eventuale accelerazione processuale (direttissimo e immediato), tuttavia, non esclude ipotesi regressive e deflattive nei termini già visti (patteggiamento, abbreviato, messa alla prova).
Sia in alcuni di questi percorsi che sono definiti con decisioni di “condanna”, dapprima provvisorie, perché impugnabili, poi definitive, sia nel rito ordinario, nelle diverse pronunce di merito, di primo grado, d’appello, definite irrevocabilmente ai sensi dell’art. 648 c.p.p., trova operatività il nuovo regime sanzionatorio delineato dalla proposta Lattanzi.
2. Dopo questo breve inquadramento è possibile ritornare all’interrogativo iniziale.
In quale misura il rinnovato quadro sanzionatorio, al di là di quanto già emerge , può incidere sull’applicazione (e poi sull’esecuzione, ovviamente) delle misure cautelari, soprattutto di quella inframuraria che come si è visto la riforma tende a ridimensionare.
È espressamente previsto – ai sensi del comma 2 dell’art. 275 c.p.p. – che ogni misura deve essere proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata.
Come anticipato, la proposta della Commissione ipotizza che nel caso in cui il soggetto sia condannato ad una pena detentiva non superiore a quattro anni il giudice possa sostituirla con la detenzione domiciliare, con l’affidamento in prova al servizio sociale e con la semilibertà e che nel caso in cui l’imputato sia condannato ad una pena detentiva entro il limite di tre anni, il giudice (anche d’ufficio) possa sostituirla con il lavoro di pubblica utilità.
Quest’ultima previsione, invero, sembrerebbe essere in linea con quanto previsto dal comma 2 bis dell’art. 275 c.p.p. ove si stabilisce che, salvo quanto previsto dal comma 3 (dello stesso art.) e ferma restando l’applicazione dell’art. 276, comma 1 ter e 280, comma 3, non può applicarsi la custodia cautelare in carcere se (fatte salve ipotesi espressamente eccettuate) il giudice ritiene che all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni.
In altri termini, nella prognosi di una pena di tre anni, suscettibile di essere convertita come detto la misura degli arresti domiciliari (sussistendo esigenze cautelari) potrebbe ritenersi adeguata.
Resterebbe da colmare normativamente la questione relativa alla prognosi di una pena di quattro anni che, come indicato, potrebbe essere convertita potendosi configurare la misura degli arresti domiciliari con braccialetto ovvero con prescrizioni rigide.
In ogni caso, un raccordo andrebbe prospettato al riguardo, ad esempio, ritenendo necessarie esigenze cautelari di eccezionale rilevanza.
Qualche interrogativo sembra prospettarsi con riferimento al possibile accesso di riti speciali.
È noto come costituisca orientamento consolidato che la possibilità ovvero anche l’intendimento manifestato di richiedere i riti premiali non sia ritenuto elemento adeguato - né sotto il profilo della pena, né sotto il profilo dell’accertata responsabilità - ad incidere sull’applicazione delle misure cautelari. Tuttavia, considerato quanto contenuto nella proposta, la definizione del patteggiamento nei limiti dei cinque anni o la condanna nel rito abbreviato negli stessi limiti di pena potrebbe incidere sulla protrazione della misura (ove non fosse già venuta meno).
Invero, se con riferimento al rito abbreviato l’abbattimento è fissato nella misura di un terzo, ovvero fino ad un terzo, nel rito condizionato (fatta salva la ulteriore riduzione di un sesto in sede esecutiva in caso di decisione non appellata), la decisione patteggiata è definita dopo l’abbattimento della metà e si prevede che nel caso di pena detentiva irrogata non superiore a quattro anni, il giudice possa applicare, a titolo di sanzione sostitutiva, la detenzione domiciliare, l’affidamento in prova ai servizi sociali e la semilibertà (fatta salva l’ipotesi in cui sia preclusa la sospensione dell’esecuzione della pena ex art. 656 c.p.p.).
In altri termini, si tratta di reati significativi, anche più di quanto potrebbe conseguire al rito contratto.
Un discorso a parte sembrerebbe prospettabile con riferimento alla operatività della sospensione e messa alla prova, in considerazione che pur nella elevata soglia di ammissione (fino a dieci anni), seppur specificamente individuata per puntuali fattispecie incriminatrici, alcune ipotesi criminose potrebbero essere suscettibili di superare la soglia per l’applicazione della custodia in carcere secondo le indicazioni dell’art. 280 c.p.p.