Vulnerabilità delle donne vittima di tratta: la Cassazione riconosce lo status di rifugiato in virtù dell’appartenenza ad un gruppo sociale discriminato
di Domenico Gaspare Carbonari
Con la sentenza n. 676/2022, la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sulla rilevanza e sulle conseguenze del fenomeno della tratta di esseri umani, evidenziandone, in particolare, la complessità e il carattere sistematico fondato sull’approfittamento delle condizioni di vulnerabilità. Ai fini del riconoscimento della protezione internazionale, nella specie dello status di rifugiato, è opportuno accertare, da un lato, la riconducibilità del caso concreto ad un contesto di tratta di esseri umani e, dall’altro, la ricorrenza di un rischio attuale di ulteriori atti lesivi o persecutori, sotto diverse modalità e contenuti, anche prescindendo dall’accertamento penale.
Sommario: 1. La vicenda decisa dalla Corte. – 2. L’evoluzione normativa e giuridica sul tema della tratta di esseri umani. – 3. Riconoscimento della protezione internazionale e accertamento penale: due percorsi alternativi. – 3.1. Status di rifugiato, protezione sussidiaria e protezione umanitaria: diverse intensità di tutela. – 4. I cc.dd. indicatori di tratta e atti persecutori: l’appartenenza ad un gruppo sociale quale condizione di vulnerabilità – 4.1. La vittima di tratta assurge alla qualifica di rifugiato: dichiarazioni del richiedente, onere probatorio e iura novit curia. – 5. Conclusioni
1. La vicenda decisa dalla Corte
Con la sentenza n. 676/2022[1] la Cassazione Civile sezione I si è pronunciata sulla ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale, con riguardo alla richiesta presentata da una donna vittima di tratta a scopo di meretricio.
Nella specie la ricorrente, di origine nigeriana, deduceva dinanzi alla Commissione territoriale competente e al Tribunale una serie di circostanze, tra cui l’essere stata obbligata a prostituirsi in Libia, indicative dell’inserimento della stessa in una rete criminale dedita allo sfruttamento sessuale. La domanda veniva, tuttavia, rigettata e la ricorrente proponeva appello, anch’esso respinto sulla scorta delle seguenti argomentazioni: la non credibilità del racconto, l’insussistenza del rischio di violenza indiscriminata ex art. 14, lett. c), D.lgs. 251/2007, e la non ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale.
Con ricorso per Cassazione, la donna rilevava la violazione o falsa applicazione degli artt. 3 D.lgs. 251/2007 e 8 D.lgs. 25/2008, i quali impongono al giudice, rispettivamente, di provvedere all’esame individuale dei fatti o delle circostanze poste a fondamento della richiesta di protezione internazionale e, in particolare, per il riconoscimento dello status di rifugiato (art. 8), dovendo valorizzare “le informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine” o nei Paesi di transito. Lamentava, inoltre, la violazione di ulteriori norme del D.lgs. 251/2007 e 4 e 5 CEDU per il mancato riconoscimento dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, laddove il giudice di secondo grado aveva ritenuto i fatti allegati dalla donna non annoverabili nel concetto di azione persecutoria per assenza delle condizioni normativamente richieste.
2. L’evoluzione normativa e giuridica sul tema della tratta di esseri umani
Prima di esaminare le questioni giuridiche connesse al riconoscimento della protezione internazionale, è opportuno soffermarsi sul fenomeno della tratta di esseri umani e, in particolare, sulle implicazioni di ordine giuridico e sociale derivanti da tale “moderna forma di schiavitù” fondata sullo sfruttamento sessuale o lavorativo o sul prelievo e traffico di organi.
A fronte della complessità del sistema criminale, l’ordinamento giuridico italiano ha apprestato un’articolata disciplina penalistica[2] e civilistica, deputata alla prevenzione, alla repressione e alla tutela delle situazioni giuridiche soggettive delle vittime, anche in termini di protezione internazionale o umanitaria[3].
La suddetta complessità deriva da due fattori, rispettivamente, uno spaziale-temporale e uno sociologico.
Il primo è rappresentato dall’articolata gestione operativa ed economico-finanziaria della tratta, espressione di un sistema criminale transnazionale frutto delle interazioni tra diversi gruppi criminali internazionali con ramificazioni in altri Paesi, tali da costituire in genere un vero e proprio network criminale[4]. Il fattore di tipo sociologico, invece, attiene alla relazione trilaterale tra le figure del trafficante, dello sfruttatore e della vittima, anche perché, proprio con specifico riferimento a quest’ultima figura, l’esperienza giudiziaria ha dimostrato che talvolta una originaria vittima può diventare a sua volta trafficante o sfruttatore e, viceversa, un soggetto sfruttatore (anche inconsapevolmente) può divenire a sua volta vittima.
Questi dati sono il risultato di una stratificazione delle conoscenze acquisite nel tempo, tenuto conto anche della stretta connessione intercorrente tra il fenomeno in oggetto e le dinamiche migratorie: non a caso, infatti, la diffusione dei casi di tratta di esseri umani è direttamente proporzionale all’incremento del numero degli individui che, per vari fattori e condizioni, decidono di migrare verso l’Europa. Conseguenza di questa rapida evoluzione è stata la difficoltà di delineare una nozione unitaria e completa di tratta e di vittima di tratta, assistendo, di volta in volta, al susseguirsi di interventi legislativi nazionali e sovranazionali, quest’ultimi di tipo c.d. soft law, più completi e puntuali[5].
Il sistema della prevenzione, repressione e tutela si è articolato in diverse fasi sin dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo del 1948 e dalla successiva Convezione EDU, quest’ultima sottoposta a successivi aggiornamenti ed ampliamenti per il tramite dei Protocolli addizionali[6]. Nel tempo, a fronte del dilagare del fenomeno, anche gli ordinamenti nazionali si sono dotati di ulteriori strumenti normativi, anche attraverso la implementazione della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata del 2000 e della Convezione di Varsavia del Consiglio d’Europa del 2005, nelle quali la tratta viene definita, sotto il profilo assiologico, quale “violazione dei diritti umani e un’offesa alla dignità e all’integrità dell’essere umano”.
Sotto il profilo oggettivo, e in particolare ai fini della repressione penale, viene adottata una nozione di tratta di esseri umani ampia e sistematica, che tiene conto delle forme e delle modalità per mezzo delle quali, in concreto, si perviene alla violazione dei diritti umani, tra cui l’impiego della violenza, della minaccia o dell’inganno per ottenere la prestazione di servizi o altre attività a scopo di sfruttamento[7].
Dal percorso normativo sopra succintamente descritto emerge l’attenzione del legislatore, sia nazionale che europeo, agli elementi del consenso della vittima, dell’abuso di potere e dell’approfittamento della posizione di vulnerabilità. A quest’ultimo l’art. 600 c.p. e la Direttiva europea 2011/36/CE attribuiscono un significato pregnante, perché, secondo le comuni regole di esperienza, i trafficanti si servono proprio della condizione di chi «non ha altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all’abuso di cui è vittima». Non è un caso, infatti, che l’elemento del consenso alla violazione è ritenuto irrilevante, dovendo le autorità e il giudice necessariamente tenere conto della etero-induzione della decisione causata sia da fattori interni, quali l’età e la maturità psicofisica, sia esterni come le circostanze nelle quali si è materialmente realizzato il fatto lesivo (ad esempio, l’appartenenza ad un determinato gruppo etnico dedito, per tradizione, a questo tipo di attività[8]).
3. Riconoscimento della protezione internazionale e accertamento penale: due percorsi alternativi
I suddetti momenti evolutivi hanno consentito di delineare un sistema multi-livello di tutela che, per quanto attiene all’ordinamento italiano, si articola lungo due direttrici autonome ma parallele: da un lato, quella civilistica fondata sulla prevenzione di ulteriori violazioni e sulla riparazione dei danni arrecati alle vittime di tratta; dall’altro, quella penalistica relativa alla repressione delle relative condotte criminose.
L’autonomia tra i due piani assume rilievo ai fini dell’analisi dell’istituto della protezione internazionale, ex art. 2, lettera a), d.lgs. n. 251/2007, consistente nel riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria.
La protezione internazionale è un istituto che ha matrice internazionale e costituzionale (ex art. 10 Cost.), assurgendo a categoria generale cui ricondurre tutte le fattispecie astratte fondate sul riconoscimento di una tutela allo straniero vittima di atti di persecuzione o violenza.
La legislazione nazionale, oltre a disciplinare le fattispecie applicative dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, individua anche i presupposti e le regole di valutazione e di esame delle richieste di protezione e degli elementi dedotti dal richiedente (rispettivamente artt. 3 D.lgs. n. 251/2007 e 8 D.lgs. n. 25/2008).
Invero, ai sensi dell’art. 6, comma 2, D.lgs. n. 251/2007 il contenuto giuridico della protezione “è effettiva e non temporanea e consiste nell'adozione di adeguate misure per impedire che possano essere inflitti atti persecutori o danni gravi, avvalendosi tra l'altro di un sistema giuridico effettivo che permetta di individuare, di perseguire penalmente e di punire gli atti che costituiscono persecuzione o danno grave, e nell'accesso da parte del richiedente a tali misure”. Le misure adottate, quindi, sono ispirate ai principi dell’equivalenza e dell’effettività delle tutele, anche se la legge impone alle autorità amministrative e al giudice civile di operare una valutazione dei fatti e delle circostanze su base individuale. Non può trascurarsi, inoltre, il riferimento alle violazioni subite dalla vittima, di cui all’art. 3, comma 4, il quale pone in sede giudiziale la dimostrazione che “il richiedente abbia già subito persecuzioni o danni gravi o minacce dirette di persecuzioni o danni [che] costituisce un serio indizio della fondatezza del timore del richiedente di subire persecuzioni o del rischio effettivo di subire danni gravi”.
La lettura combinata di queste due disposizioni induce a riflettere sul possibile nesso tra l’oggetto del giudizio ai fini della protezione internazionale e l’eventuale accertamento in sede penale del reato di tratta di essere umani. Se, sovente, la vittima collabora con le Autorità dopo essere stata individuata quale persona offesa in sede penale, tuttavia, accade anche il contrario, ossia che la vittima medesima richieda tutela in presenza della sola violazione reiterata dei diritti umani. Ciò accade, principalmente, nelle ipotesi in cui dalle indagini di polizia non sono emersi elementi sintomatici di tratta o quando le vittime non hanno denunciato i propri trafficanti o, ancora, quando dall’ingresso nel territorio italiano al momento della presentazione della domanda di protezione è trascorso un certo lasso temporale, nel quale la vittima è magari riuscita ad affrancarsi dal controllo degli schiavisti.
Va osservato, in premessa, che sarebbe erroneo subordinare il riconoscimento della protezione internazionale all’identificazione del richiedente quale vittima di tratta in sede penale: in violazione dei principi dell’equivalenza e dell’effettività della tutela, verrebbe negata tutela ad un soggetto che per altra via, quella della protezione internazionale, riuscisse a dimostrare di aver subito delle violazioni dei propri diritti.
Milita in tal senso un triplice ordine di argomentazioni: la prima, di ordine ontologico si sostanzia nella natura della situazione giuridica soggettiva, di rilievo costituzionale, di cui è portatore lo straniero che ha subito la suddetta violazione. Ed infatti, posto che il richiedente la protezione internazionale lamenta la lesione di diritti costituzionalmente rilevanti, quali la vita, l’integrità psico-fisica, la libertà personale, l’ordinamento italiano è chiamato ad apprestare, anche a prescindere da un procedimento o processo penale, la tutela necessaria per inibire o ristorare i pregiudizi subiti[9]. Ciò in considerazione anche della ritrosia che, sovente, manifestano le vittime di tratta nel denunziare i fatti di reato subiti o nell’agevolare la individuazione dei trafficanti per il timore di subire ritorsioni alla propria persona o ai familiari nei Paesi di origine.
Il secondo argomento è di ordine letterale, consistente nella mancata previsione legislativa di un nesso di collegamento logico-giuridico tra la disciplina civilistica e quella penalistica[10]: infatti, pur se le risultanze di un procedimento o processo penale non figurano necessariamente tra gli elementi che l’autorità amministrativa e il giudice devono possedere ai fini dell’esame (art. 3 D.lgs. n. 251/2007), tuttavia, ove ricorrenti, potranno essere poste a fondamento dell’accoglimento della richiesta.
Connesso è il terzo argomento di ordine sistematico per il quale, ove il legislatore avesse voluto creare un legame necessario tra i due tipi di accertamento, lo avrebbe espressamente previsto come è avvenuto all’art. 18 del T.U. Immigrazione.
La Corte di Cassazione è pervenuta alla medesima conclusione, ribadendo che ai fini della protezione internazionale non è indispensabile la verifica della sussistenza di un reato perseguibile ai sensi dell’art. 600 ss. c.p., quanto la verifica in concreto degli elementi sintomatici della tratta e dei rischi ad essa connessi[11]. Invero, il riconoscimento della protezione internazionale si fonda, oggi, anche sull’impiego dei c.d. indici di tratta, i quali non necessariamente coincidono con le risultanze di un procedimento o processo penale[12].
3.1. Status di rifugiato, protezione sussidiaria e protezione umanitaria: diverse intensità di tutela
Come anticipato, la tratta viene annoverata tra le fattispecie lesive dei diritti umani fondamentali, in particolare della libertà personale, dell’integrità psicofisica e della dignità umana, quale conseguenza della natura asimmetrica delle relazioni tra le vittime e gli schiavisti. Ed infatti, premessa «la complessità […] con cui si articolano le relazioni asimmetriche di sfruttamento di esseri umani», non solo non può vincolarsi il riconoscimento della protezione internazionale all’accertamento penale, ma si impone di non frapporre ulteriori limiti normativi ed interpretativi alla tutela richiesta.
La giurisprudenza di legittimità traccia la linea di confine tra i rimedi dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, da un lato, e della protezione umanitaria dall’altro (artt. 5, comma 6, e 18, D.lgs. n. 286/1998)[13]. Premesso che l’art. 2 D.lgs. n. 251/2007 indica il beneficiario della protezione internazionale nel cittadino straniero cui è stato riconosciuto lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria; in particolare, si definisce “rifugiato” lo straniero che chiede tutela al ricorrere del timore fondato di essere perseguitato, ex art. 7 D.lgs. n. 251/2007, per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese, oppure apolide che si trova fuori dal territorio nel quale aveva precedentemente la dimora abituale per le stesse ragioni succitate e non può o, a causa di siffatto timore non vuole farvi ritorno.
La protezione sussidiaria, invece, ha natura residuale e concerne il caso dello straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato, ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, correrebbe il rischio effettivo di subire un grave danno, da individuarsi, ex art. 14: nella condanna a morte o nell'esecuzione della pena di morte; nella tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante, nella minaccia grave e individuale alla vita o alla persona derivante da violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.
Diverso regime è previsto per la protezione umanitaria, la quale non attribuisce uno status ed è una misura residuale[14] mirata ad apprestare tutela ai soggetti che versano in una condizione di vulnerabilità, assurgendo a presupposto del rimedio i gravi motivi umanitari[15]. Il rimedio è disciplinato dall’art. 5, comma 6, T.U. Immigrazione, in materia di permesso di soggiorno, la cui lettura va combinata con l’art. 19 e con il principio per il quale il richiedente allontanato o respinto quando ricorre il rischio di persecuzioni o torture (c.d. principio del non-refoulement).
4. I c.d. indicatori di tratta e atti persecutori: l’appartenenza ad un gruppo sociale quale condizione di vulnerabilità
Preso atto delle differenze ontologiche e strutturali tra i diversi strumenti previsti, i giudici di legittimità optano, in via principale, per il riconoscimento dello status di rifugiato alla vittima di tratta, ammettendo in via residuale la possibilità di ricorrere alla protezione umanitaria.
In tal senso, la Corte si attesta lungo due direttrici: da un lato, invoca il c.d. processo di specificazione dei diritti umani nell’età moderna, valorizzando la progressiva evoluzione dei diritti fondamentali dell’uomo e l’affermazione di un sistema multilivello di tutela[16]. L’attenzione dell’interprete si rivolge, infatti, alla collettivizzazione dei diritti, nel senso di una titolarità posta in capo a gruppi sociali in condizione di particolare fragilità e vulnerabilità, tra questi si colloca anche il gruppo “donne” e il relativo sistema di tutela incentrato sulla ampia nozione di “violenza di genere”[17]. Quest’ultima viene intesa «violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere, comprese le violenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica»; nozione che non può non essere integrata dalle aggressioni che le donne subiscono nell’ambito del fenomeno della tratta di essere umani, specie se a scopo di meretricio.
Dall’altro lato, invece, sussume le modalità operative della tratta e le relative violazioni nell’ambito dei requisiti di cui agli artt. 7, 8 e 14 D.lgs. n. 251/2007. Invero, accerta la ricorrenza di un fatto lesivo e di un rischio concreto ed attuale ai fini dell’adozione delle misure necessarie per impedire atti persecutori o danni gravi. Viceversa, difettando un rischio concreto ed attuale – rileva la Corte - si prospetta solo una generica esigenza di riparazione dei danni già subiti, funzione questa che esula dall’ambito della protezione internazionale. Ed infatti, non è sufficiente un rischio generico, posto che le persecuzioni richieste dalla legge devono assurgere, ex art. 3, comma 4, a “serio indizio della fondatezza del timore del richiedente di subire persecuzioni o del rischio di subire danni gravi”.
Orbene, la riconduzione ad un gruppo sociale o etnico vulnerabile, da un lato, e l’accertamento di un rischio concreto ed attuale di persecuzione o di danno, dall’altro, impongono al giudice di merito una valutazione congiunta dei fatti e degli elementi dedotti dalla richiedente, in quanto gravata dall’onere di allegazione c.d. semplificato.
In alcuni casi, tuttavia, la vittima non è in grado di fornire elementi circostanziati oppure, a causa di un processo di vittimizzazione secondaria in atto, non riesce a collaborare con le autorità amministrative e giudiziarie.
Si pone, allora, la questione della corretta e celere identificazione della vittima di tratta[18], gli interpreti interrogandosi sulla tipologia di meccanismi cui far ricorso. Oltre alle fonti e ai documenti normativi e internazionali, specie di soft law, si fa ricorso ai c.d. indicatori di tratta, definiti dalla giurisprudenza di legittimità quali «elementi e circostanze sintomatiche di una determinata situazione e condizione della persona» e che assurgono, specie sotto il profilo probatorio, ad informazioni di carattere generale fornite da organismi nazionali ed internazionali (c.d. procedura di referral).
Tali indicatori, il cui impiego è congiunto all’accertamento circa il rischio di ulteriori atti persecutori, sono strumenti funzionali alla qualificazione giuridica di determinati fatti in termini di tratta di esseri umani: il giudice viene messo nelle condizioni di ricostruire la vicenda personale della vittima, senza tuttavia sostituirsi ad essa. Ed infatti, come sostenuto anche dalla dottrina, gli indici di tratta assurgono ad elementi sintomatici dedotti dall’evoluzione del fenomeno, con particolare riguardo «alle modalità di sfruttamento, [a]l tipo di sfruttamento, [al]le nazionalità dei/delle richiedenti asilo potenzialmente coinvolti/e nella tratta di esseri umani»[19].
La duttilità di tale strumento ha fatto di sì che di esso si facesse frequente impiego in materia di protezione internazionale, consentendo il riconoscimento dello status di rifugiato anche a soggetti vittime di violenza di genere, tanto nell’ambito di contesti familiari quanto criminali.
Va rilevato, inoltre, che la funzione ulteriore degli indicatori di tratta, sotto il profilo probatorio, è quella di superare la eventuale contraddittorietà e scarsa credibilità delle dichiarazioni della vittima, in quanto le stesse possono essere sintomatiche di uno stato di soggezione o timore. Questa modalità di accertamento viene osservato anche nel caso in cui la richiedente neghi la propria condizione o ometta di fornire elementi utili all’accertamento, dovendo il giudice ugualmente seguire la procedura di referral ed adottare tutte le misure che si rendono necessarie.
Ciò premesso, gli artt. 3, 7 e 8 D.lgs. n. 251/2007 e 8 D.lgs. n. 25/2008 impongono al giudice una valutazione su base individuale delle circostanze fattuali dedotte dalla richiedente, in particolare degli atti di persecuzione, i quali devono essere sufficientemente gravi, per loro natura o frequenza, da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali.
Tali violazioni assumono diverse forme, tra le quali spiccano anche gli “atti specificamente diretti contro un genere sessuale” che, per la relativa natura sistematica, sono riconducibili ai motivi di appartenenza ad un particolare gruppo sociale.
Orbene, se la tratta a scopo di meretricio è finalizzata allo sfruttamento della donna, posta in essere per il tramite di condotte che vanno dal reclutamento forzato alla riduzione in schiavitù, passando dalla negazione della libertà personale, allora non può negarsi che tali condotte assurgono a violazioni dei diritti umani fondamentali di un gruppo sociale particolarmente vulnerabile, ossia il genere femminile. La vulnerabilità deriva, infatti, non solo dalla sistematicità e dalla asimmetria delle relazioni tra vittime e schiavisti, ma anche dall’approfittamento di una «particolare condizione di debolezza in cui si trovano le donne, specie ove siano giovani, prive di validi legami familiari e provenienti da zone povere» (art. 8, lettera d), D.lgs. 251/2007); situazione di debolezza alimentata anche dagli effetti della discriminazione cui possono essere soggette le donne che hanno esercitato l’attività di meretricio.
È evidente come il mancato riconoscimento della protezione internazionale esporrebbe la richiedente ad una palese violazione dei diritti umani fondamentali per il rischio concreto e attuale di esposizione ad atti persecutori, nonché per il pericolo di re-trafficking.
La Corte, infatti, opina per il riconoscimento dello status di rifugiato che meglio si attaglia alla condizione di vulnerabilità[20] e all’esigenza di evitare ulteriori pregiudizi alla vita, alla libertà e alla dignità della richiedente.
4.1. La vittima di tratta assurge alla qualifica di rifugiato: dichiarazioni del richiedente, onere probatorio e iura novit curia
Qualificata la vittima di tratta come rifugiato, ed integrata la condizione di vulnerabilità con l’appartenenza al genere femminile, è necessario soffermarsi sugli aspetti processuali, in particolare sulla valutazione delle dichiarazioni della richiedente e sul dovere di collaborazione del giudice.
Con riguardo alla valutazione delle domande di protezione internazionale, trova applicazione l’art. 3 D.lgs. 251/2007 nella parte in cui pone sulla richiedente l’onere di allegare “tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la medesima domanda” in modo tempestivo e diligente, senza, tuttavia, richiedere la qualificazione dei fatti. Delle dichiarazioni della vittima è opportuno valutare sia la coerenza interna, in base alle informazioni fornite (art. 3, comma 1, D.lgs. n. 251/2007), sia la credibilità estrinseca in virtù di tutti i fatti pertinenti che riguardano il Paese d'origine al momento della decisione giudiziaria, della dichiarazione e della documentazione presentate, della situazione individuale e delle circostanze personali della richiedente, con particolare attenzione alla condizione sociale, al sesso e all'età.
A tale attività di qualificazione è tenuto il giudice in adempimento del dovere di cooperazione istruttoria, dovendo egli «analizzare i fatti allegati e compararli con tutte le in formazioni disponibili al fine di inquadrarli giuridicamente in modo corretto».
I limiti intrinseci ed estrinseci di questo dovere collaborativo vengono esplicitati in relazione alla natura transnazionale della tratta di esseri umani, al punto da indurre la Corte a sostenere che il giudicante non deve limitarsi alle sole informazioni provenienti dal Paese di origine, ma deve rivolgersi anche a quelle fornite dai Paesi di transito e alle «informazioni sulla struttura del fenomeno, pertinenti ed adeguate ad una corretta ricostruzione dei fatti».
Il fondamento giuridico di tale dovere di collaborazione ufficiosa deve rinvenirsi nel principio iura novit curia, il quale impone al giudice, anche in presenza di dichiarazioni contraddittorie o poco chiare e/o credibili, di operare l’accertamento dei requisiti e di avvalersi delle fonti normative nazionali ed internazionali e degli studi elaborati dalle Agenzie per i diritti umani (come, ad esempio, le Linee guida dell’UNHCR).
Con riguardo ai limiti estrinseci del suddetto dovere, invece, è opportuno osservare che l’intervento del giudice è condizionato dal grado di collaborazione della richiedente: se il narrato è viziato da numerose deficienze probatorie, il giudicante non può supplirvi attraverso l’esercizio dei poteri ufficiosi, essendo rimesso alla richiedente l’onere di indicare i fatti costitutivi per l’individualizzazione del rischio.
Tuttavia, il giudice interviene per contestualizzare i fatti di tratta nel giudizio, nel quale spesso non sono sufficienti le dichiarazioni della richiedente ma è necessario anche il rinvio a fonti esterne, idonee a fornire una spiegazione logica al narrato che appare, prima facie, contraddittorio o poco credibile. Non a caso, infatti, vengono valutate sia le implicazioni di ordine giuridico, sociale ed economico della tratta, sia le condizioni personali della richiedente, anche in applicazione del canone dell’id quod plerumque accidit e delle massime di esperienza[21].
5. Conclusioni
Alla luce del bene giuridico tutelato e della natura preventiva del rimedio, può concludersi che la protezione internazionale è un istituto duttile ed adattabile alle diverse situazioni che si pongono all’interprete. Tali connotati fanno sì che, nell’applicazione della suddetta disciplina, si possa tenere conto di nuove esigenze ed istanze di tutela, riconducibili ai requisiti previsti dalla legge in virtù di una corretta attività ermeneutica.
L’interprete non tralascia l’analisi delle condizioni personali della richiedente, perché costituisce indice di tratta anche l’assenza di capacità di autodeterminazione a causa della condizione di vulnerabilità che la riguarda. I fatti lesivi della vittima assurgono, infatti, a presupposti oggettivi del rimedio quando integrano gli estremi della «grave deprivazione dei diritti della persona afferenti la sfera della dignità personale e dell’autodeterminazione nelle scelte che incidono in modo primario nello sviluppo della personalità individuale».
La capacità di adattamento dell’istituto si riscontra, in particolare, con riferimento alle ipotesi di aggressioni originariamente non considerate dal legislatore, quali quelle ai danni di soggetti omosessuali perseguitati per il proprio orientamento sessuale, i quali accedono alla tutela per soddisfare il proprio diritto a socializzare conformemente alle proprie preferenze e a frequentare un gruppo sociale omosessuale[22]. Rileva, altresì, nell’impiego di una nozione di vulnerabilità flessibile e non rigida e predeterminata, che tiene conto delle condizioni specifiche della vittima[23].
Va osservato, tuttavia, che l’esigenza di calibrare la tutela in questione ha posto ulteriori interrogativi, tra questi se l’allegazione dei fatti costitutivi della domanda debba essere effettuata dalla sola vittima o se sia sufficiente la deduzione del solo difensore, anche se in discordanza con le dichiarazioni della vittima; se, sotto il profilo temporale, il giudice debba tenere in considerazione l’evenienza che la vittima di tratta rappresenti per la prima volta la sua situazione in sede di audizione giudiziale. Ancora, con riferimento al giudizio di credibilità della richiedente, ci si chiede se il giudice, in caso di dichiarazioni inverosimili, incoerenti o contraddittorie, debba dare prevalenza agli indici di tratta e non all’atteggiamento non collaborativo della richiedente; oppure, se la valutazione di credibilità possa essere effettuata solo in modo intrinseco o anche estrinseco, in considerazione del contesto sociale e culturale in cui i fatti si sarebbero verificati[24].
[1] Cass. Civile, Sezione I, del 04.11.2021, n. 676.
[2] Per un approfondimento della disciplina penalistica del delitto di tratta di esseri umani, con particolare riferimento alla differenza tra smuggling e trafficking, V. Militello, La tratta di esseri umani: la politica criminale multilivello e la problematica della distinzione con il traffico di migranti, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, 1/2018, pp. 86 ss.; F. Urban, La legislazione penale italiana quale modello di attuazione della normativa sovranazionale e internazionale anti-smuggling e anti-trafficking, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 1/2018, pp. 121 ss.
[3] Per un approfondimento degli strumenti di tutela cfrr. https://temi.camera.it/leg17/post/la_tratta_di_esseri_umani__quadro_normativo_e_statistiche.html?tema=temi/tutela_delle_vittime_dei_reati.
[4] In tal senso, A. Annoni, Gli obblighi internazionali in materia di tratta degli esseri umani, contributo in S. Forlati (a cura di), La lotta alla tratta di esseri umani: fra dimensione internazionale e ordinamento interno, Napoli, Jovene, 2013, pp.1 e ss.
[5] Cosciente di questo percorso, la stessa Corte di Cassazione sostiene che le prime fonti di diritto internazionale hanno dettato una nozione di tratta fondata «sull’osservazione di un fenomeno proprio di alcune epoche storiche, - alcune non troppo remote -, in cui l’acquisto o la cessione di esseri umani era una pratica legale, o comunque tollerata dall’ordinamento».
[6] La Convenzione, in particolare, pone agli Stati parte l’obbligo di adottare misure atte a garantire il rispetto del divieto di riduzione in schiavitù, servitù e lavori forzati, ex art. 4 CEDU, condotte queste riconducibili all’«obbligo, imposto con mezzi coercitivi, di fornire a taluno un determinano servizio, cui si accompagnano una notevole restrizione della libertà personale e la sottoposizione a forme penetranti di controllo». In tal senso, Corte EDU, 7 gennaio 2010, Rantsev c. Cipro, ricorso n. 25965/04. Per Corte EDU, 7 marzo 2000, Seguin c. Fracia, ricorso n. 42400/98.
[7] Esaustiva è la definizione di cui all’art. 3, lettera a), Protocollo Addizionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale.
[8] Per una valutazione delle tradizioni culturali di un certo gruppo etnico nell’ambito del giudizio, si richiama D. G. Carbonari, Riduzione in schiavitù e costrizione o induzione al matrimonio: la Cassazione esclude la successione di leggi penali nel tempo, 14 gennaio 2022, in questa rivista.
[9] Corte Cost., 19 giugno 1969, n. 104, e da Corte Cost., 8 giugno 2000, n. 198.
[10] Non rileva neppure il neo introdotto comma 3 bis dell’art. 32 D.lgs. n. 25/2008, il quale prevede un meccanismo di valutazione rimesso all’intervento del Questore nel caso in cui emergano fondati motivi di ritenere che il richiedente sia stato vittima dei delitti di cui agli artt. 600 e 601 c.p.
[11] Conferma la posizione anche Corte EDU, 25 giugno 2020, ric. n. 60561/14.
[12] Diversamente, anche in virtù dell’evoluzione giurisprudenziale e della prassi del settore, si ritiene che i suddetti indicatori possano essere impiegati anche in ambito penale, nella specie quando il giudice è chiamato ad interpretare i fatti a lui sottoposti e a sussumerli in una delle fattispecie penali previste. In tal senso, M. G. Giammarinaro e F. Nicodemi, Aggiornate le linee guida per l‘identificazione delle vittime di tratta, in Rubrica “Diritti senza confini”, 19.05.2021.
[13] Le differenze attengono anche alla durata della misura: lo status di rifugiato ha natura permanente, mentre la protezione sussidiaria ha durata quinquennale ed è rinnovabile. Le suddette misure possono essere revocate al ricorrere di seri motivi. Quanto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, la misura ha durata annuale ed è anch’essa rinnovabile. Diversa è, inoltre, l’autorità che riconosce la tutela.
[14] Ex multis, Cass., Sez. Un., 13 novembre 2019, n. 29459; Cass. Sez. III, 27 luglio 2021, n. 21522. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito, infatti, che «la protezione umanitaria è una misura atipica e residuale nel senso che essa copre situazioni, da individuare caso per caso, in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica ("status" di rifugiato o protezione sussidiaria), tuttavia non possa disporsi l'espulsione e debba provvedersi all'accoglienza del richiedente che si trovi in situazione di vulnerabilità».
[15] Nella prassi, si evincono le ipotesi dei minori stranieri non accompagnati o soggetti in fuga da conflitti armati.
[16] Descrivono questa fase della tutela dei diritti umani N. Bobbio, Dalla priorità dei doveri alla priorità dei diritti, in Teoria generale della politica, a cura di M. Bovero, Torino, Einaudi, 1999, p. 437. L. Baccelli, Una rivoluzione copernicana: Norberto Bobbio e i diritti, in Jura Gentium - Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale, 2009.
[17] Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ratificata in Italia con legge 27 giungo 2013, n. 77.
[18] Lo Stato deve assolvere all’obbligo di adottare tutte le misure idonee all’identificazione delle vittima, in conformità alla Direttiva europea 2011/36/CE, art. 11, paragrafo 4.
[19] M. G. Giammarinaro e F. Nicodemi, Aggiornate le linee guida per l‘identificazione delle vittime di tratta, cit. Per un approfondimento del tema, v. la nuova edizione delle Linee Guida del 2020.
[20] Per un approfondimento sulla declinazione della nozione di condizione di vulnerabilità, in dottrina E. Rigo, La vulnerabilità nella pratica del diritto d’asilo: una categoria di genere?, in Etica & Politica / Ethics & Politics, XXI, 2019, 3, pp. 343-360.
[21] Da ultimo, Cass., Sez. I , 10.03.2021, n. 6738 discute di “procedimentalizzazione legale della decisione”, nel senso di richiamare una «valutazione che non affidata alla mera opinione del giudice», esulando, quindi, dalle convinzioni personali fondate solo su canoni di plausibilità/implausibilità o inverosimiglianza. Il ricorso alle fonti esterne al giudizio, proprio perché procedimentalizzato, impone al giudice di dare atto nella motivazione del provvedimento del tipo di autorità o ente da cui promanano le informazioni, della data di pubblicazione e della pertinenza, quest’ultima intesa come idoneità delle fonti a rappresentare l’attualità di un rischio di atti persecutori già subiti o diversi da questi (nello stesso senso anche Cass., Sez. III, 03.02.2021, n. 2466).
[22] Cass., Sez. I, 02.12.2021, n. 38101.
[23] Corte edu, sentenza del 25 giugno 2020, ricorso n. 60561/14. In dottrina, F. Nicodemi, l’identificazione delle vittime di tratta e i confini per il riconoscimento delle diverse forme di persecuzione, in Diritti senza confini, 24.12.2021. In giurisprudenza, Cass., Sez. I, 28 ottobre 2021, n. 30402.
[24] Interrogativi, questi, sollevati da Cass., ord. Sez. I, 30.04.2021, n. 11495.