Ciao Enrico,
siamo un gruppo di tuoi colleghi della Procura di Milano.
Siamo quelli che, da quando abbiamo saputo che ci avevi lasciato, hanno iniziato ad incontrarsi, telefonarsi e scriversi.
Alcuni di noi li conosci bene e hanno lavorato con te negli anni. Altri li conosci ma non si è mai lavorato assieme. Molti non lavorano più in Procura ed altri ancora non ti hanno mai conosciuto ma hanno saputo di te lavorando in quelle stanze, facendo quelle scale, percorrendo quei corridoi e aprendo quelle porte del quarto piano del Palazzo di Giustizia di Milano dove hai svolto tutta la tua vita professionale come Pubblico Ministero. O meglio, quando hai iniziato tu c’era solo il quarto piano e adesso ci siamo allargati fino al quinto ed al sesto, ma la consapevolezza della funzione che ognuno di noi svolge o ha svolto è presente in ogni centimetro quadrato dell’Ufficio.
Potremmo dire che è agli atti della storia della nostra Repubblica quello che è stato il tuo lavoro, e in questi giorni - anche sulla stampa – molti lo stanno ricordando in un paese dove occorre coltivare il vizio della memoria. O la virtù della memoria.
Quello che vogliamo aggiungere è che per noi è stato ed è esempio il tuo essere magistrato, la tua consapevolezza del ruolo di Pubblico Ministero appartenente ad un’unica giurisdizione, consapevolezza che si è aggiunta alle capacità professionali ed umane che tutti possono testimoniare.
Hai avuto il dovere e la possibilità di sopportare sulle tue spalle enormi responsabilità, a tratti anche drammatiche, potendo decidere autonomamente in base alla tua scienza e coscienza, ed in modo indipendente da altri poteri, rispondendo solo alla Costituzione e alle leggi.
Scusa se ce lo diciamo, ma oggi ci serve ancora ricordare il tuo insegnamento.
E allora è esemplare l’essenza di come tu sei stato Pubblico Ministero utilizzando parole lucide, ferme e serene, alzandoti nell’aula di udienza dove celebravate un procedimento nel quale era stato opposto un segreto di Stato che pregiudicava l’accertamento dei fatti e delle relative responsabilità. Spiegasti: «Se fossi del tutto indifferente alla vita della comunità italiana, mi verrebbe da ridere. Poiché sono tenacemente attaccato a questo paese sono a disagio». E poi aggiungesti: «Se non avessi a cuore i diritti e gli interessi della collettività potrei comodamente adeguarmi alle scelte del presidente del Consiglio. Ma a quei diritti e interessi io ci penso».
In un’altra occasione, quando a Brescia ti toccò difenderti da accuse nefande strumentalmente mosse da chi aveva ricoperto altissime cariche istituzionali, avanti al giudice che ti giudicava chiudesti le tue dichiarazioni impugnando e alzando un codice: «Questo testo, signor giudice, è l’unica nostra guida. E non è un caso che esso inizi con la Costituzione della nostra Repubblica”.
Ti penseremo spesso.